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V. Pratolini, 1917 (Il tappeto verde, Vallecchi 1941)


Se l'immagine accadde nella vita che noi viviamo, e la mamma portava ancora fra gli uomini la sua
bellezza e il suo destino, io ero un bambino pallido e biondo, un buffo paggetto dalla chioma d'oro e i
calzoncini di velluto.
Non ricordo i miei sazi risvegli di fanciullo nel letto della nonna; la mamma era tanto lontana al di là
dell'alcova, nella sua camera di sposa. Tutta l'infanzia è chiusa in quella mattina.
Dovevamo far piano piano nelle altre stanze, e pregare per il babbo soldato. Forse spiegavo al mio
bavaglino d'incerato le storie secentesche ricamate sul divano celeste ov'ero seduto quando apparve
la nonna col vassoio nero e argento colmo di chicchere per la colazione: il vapore del latte appena
bollito saliva al viso della nonna allegramente. E come la nonna mi disse di fare avvisata la mamma
io corsi alla sua camera e v'irruppi gridando: "Pronti! Fuma!".
La mamma era seduta dinanzi alla toeletta, i lunghi capelli neri disciolti che carezzava col pettine
lentamente sulla nuca, la veste bianca. Io la vedevo alle spalle e il suo volto m'incontrò crudele come
il volto di un arcangelo. I suoi occhi mi fissarono dallo specchio, calmi e cattivi, attoniti, verdi e neri;
si arrestò la mano sotto la nuca; quello sguardo mi aveva ghiacciato sulla soglia, e per istanti in cui il
tempo non esisté, si fissò nello specchio verso di me, con il peso di un odio invincibile, con la
disperazione di chi ha tentato invano di amare ancor più intensamente che sia concesso.
Io ero ghiacciato sulla soglia da quello sguardo e vi volgevo i miei occhi chissà quanto immobili e
rattristati. Ma come dovetti riconoscerla la mia mamma allora, come dovetti sentirmi il suo bambino!
Essa gettò con sconforto il pettine sulla toeletta, e ancor più s'incupirono d'odio e di pietà le sue
pupille: «Non piange, Dio mio, anche lui non sa piangere», disse.
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Prima età (Il tappeto verde, Vallecchi 1941)


Quando io ero bambino di quattro anni avvenne che la mamma fu gravida una seconda volta. Il
babbo era convalescente dalle ferite di guerra, e lontano da anni dalla sua donna si sentiva; seppi poi
che le scriveva lettere disperate di volerla vicino.
La mamma prese il treno che ancora era guerra e andò a trovare il babbo in una clinica lontana.
Tornò a casa una notte, dopo tre giorni. La vidi sorridere, dal sonno che mi prendeva. «Avrai un
fratellino», mi disse.
Fu una penosa gravidanza, col ventre enorme fino dai cinque mesi. Finché venne deciso che io
recavo fastidio nella casa, ora che la mamma più non usciva a lavorare. Venni ospitato da una
famiglia amica nella periferia.
Era, quella famiglia, composta dal padre portalettere e da tre figlie ragazze. Così io riscattai la mia
infanzia. Quello che il pensiero fisso della guerra, lo scarso cibo e l'ansia per il babbo facevano
vivere di trepidazione le mie donne e rendevano triste la mia giornata nella casa umida, nella cucina
buia, con la nonna che tre storie soltanto sapeva e la nenia del
Cavallino arrò arrò
venne a mutarsi nella fiducia dei campi dietro la casa nuova, nelle fette enormi di pane cosparse di
olio e di sale, nel tepore del letto fra le due ragazze maggiori, la Ebe e la Ibe, ío che venivo dagli
ossuti contatti di nonna; la mamma dormiva sola, con un solo guanciale in mezzo al largo letto di
sposa.
La guerra in questa mia casa nuova sui campi non recava terrore: uomini della casa in guerra non ce
n'erano, né prossimi parenti, e le ragazze non tenevano trepidazioni segrete: non erano giunte in
tempo a fidanzarsi o non s'erano abbastanza affezionate da serbare memoria. Rita era la più piccola
delle tre, passita, il corpiciattolo smilzo oberato da un cespo incolto dí capelli setolosi, dagli spenti
diciott'anni. (Le ricordo bene queste tre ragazze, e sono i momenti primi della mia vita intima ch'esse
evocano.)
Andavamo Ebe, Ibe ed io oltre i campi, nelle ore eterne dei meriggi. A fondo discesa appariva un
grosso ruscello che lambiva da un lato le rare case della periferia e fuggiva verso nord: sull'argine
alto, che si rendeva a me pari ad abisso, si posavano le due ragazze coi lavori di maglia e ricamo, ed
io fra esse in non so quali giochi. Ma questo mi ricordo: che Ebe mi prendeva a volte a mezza vita e
mi riversava addosso a sé, baciandomi da farmi strillare. Poi mi lasciava: "Gestroso", dicendo,
"bambinuccia", cavando la lingua verso di me. Ebe aveva il volto sanguigno che seppelliva sotto
strati spessi di cipria, una slanciata figura e un sodo seno che, s'è raccontato poi, io sfacevo al
mattino appena desto, accavallandomi sopra il di lei torace, schiaffeggiando le mammelle com'è
raffigurato nell'oleografia popolare. Ibe era bionda, con filature castane che le aggraziavano il profilo
delicato e composto, ed era la sola persona che rendeva meno scontroso il mio affetto; la notte
dormivo rivolto dalla sua parte, mangiavo in un seggiolone accanto alla sua sedia e mi volgevo a lei
pei bisogni più personali.
Bella doveva essere la vita nella casa della periferia, finché un giorno ricomparve il vestito di velluto
che indossavo appena giunto, stirata ad amido la goletta bianca, e preso per mano dal padre
portalettere venni ricondotto in città.
Da quel momento io sono nato alla conoscenza. L'unica nozione estranea che mi serve è sapere che
avevo cinque anni, ed ero un bambino dai lunghissimi capelli biondi raccolti sulle spalle.
Il portalettere a nome Basilio aveva una spalla ricurva ed una stridula voce. Mi chiamava sempre
"bambino". Mi teneva lungo tempo ritto in piedi davanti a sé domandandomi come io mi chiamavo, e
come si chiamava la mia mamma e dove fosse il babbo mio; e se al babbino ed alla mammina ed a
luí portalettere volessi bene, e quanti sacchi e quante sporte.
Che la mamma era molto malata Basilio me lo disse, con grande mistero, arrivati che fummo
nell'atrio della mia casa di città. Al primo ammezzato sbucò un ragazzo mio amico, della cui
esistenza io m'ero dimenticato: «Oh, Enrico» disse «sai che la tua mamma muore?». E si sarebbe
capito, io credo, che ciò gli seccava perché impediva di giocare. «Non bisogna far rumore.» Ma
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presto la mamma sua comparve sulla porta e lo schiaffeggiò: «Silenzio» dicendogli; ed a me: «Come
va, Enrico?» ed alzando gli occhi verso il mio uomo: «Povera creatura» disse.
Io dovevo essere molto confuso perché nulla risposi, sembra facessi forza con la mano al mio uomo,
che s'era fermato, perché continuassimo a salire. Vedo il mio vecchio agitare la testa congestionata
da una parte e dall'altra sospirando, mentre la donna, che ostruiva la soglia al suo ragazzo, gli diceva
ancora: «Male, oh, male» e scuoteva anch'essa la testa. Ma noi già salivamo verso il piano secondo
ov'era la mia casa.
Sorpreso, io andavo scoprendo facce di parenti che la mia assenza aveva lasciato lontane. «C'è
Enrico» sentivo dire «c'è il bambino.» Dalla camera della mamma, nonna mi venne incontro
piangendo ed anch'io mi posi a piangere, trovato il pretesto per il mio sgomento. Mi fecero sedere sul
divano del salotto, sotto il grande lume esagonale, e mi dettero del marsala, dicendomi: «Su da
bravo, Enrico, fai il bravo».
La nonna mi pare ci avesse lasciati e d'appresso a me stava una zia di cui andavo decifrando la
conoscenza: una zia alta e bionda, dalla faccia bronzata. Si era inginocchiata presso di me seduto sul
divano e m'andava ricordando i cugini suoi figli. Anche i volti di quei cugini riapparvero alla
memoria e domandavo come stessero e cosa facessero. «Andremo dopo da loro» disse la zia bionda,
«adesso vai da mamma, ma non piangere. Paolo ha un bel cavallo a dondolo, te lo farà montare.»
Io mi recavo dunque da mamma malata come a sdebitarmi per la promessa felicità del giocattolo che
il cugino m'avrebbe prestato. Non c'era stato amore tra la mamma e il suo bambino. Essa mi affidava
alla nonna recandosi al lavoro, in un laboratorio ov'era "maestra" come si diceva in casa. Il babbo, a
mio ricordo, era alla guerra da sempre, io lo conoscevo dalle fotografie e credevo così di ricordarlo.
A sera la mamma tornava tardi dal lavoro, dicendomi: «Come stai piccino?». E poi: «Ora vai a letto»
consegnandomi alla nonna che mi coricava. Soltanto certe domeniche andavamo a passeggio, la
mamma la nonna ed io; ma come se io, per la mamma, fossi un qualcosa che essa dovesse
sopportare. Di lei, prima della vigilia di sua morte, ritrovo quel bacio e quel sorriso di quando
m'annunziò il bambino mio fratello, come se la gestazione, che essa pretendeva prima ancora di
averne certezza, fosse una vendetta su di me. «Pure ti voleva bene» disse la nonna quando credette
potessi capire. Ma nessuno saprà mai dirmi qual era l'affetto della mamma per me. O forse me lo
potrà spiegare il rancore che io stesso porto alle persone che più amo, nella rabbia di vedermi
condannato a piccoli gesti dimostrativi che non riesco a sopportare dentro al cuore. «Ma ti voleva
bene. Ricorda la vigilia della sua morte. Ti avvicinavi a lei...»
Io mi avvicinavo al letto della mamma. D'attorno c'erano due donne infermiere silenziose ed ignote,
e c'era la nonna curva sulla mamma a dire: «Ecco Enrico, il bambino». E la zia bionda che mi
spingeva alle spalle: «Saluta la mamma, Enrico» diceva.
La mamma era supina, sollevata appena la testa dai guanciali. Scarna s'era fatta, pallidissima; pallide
anche le labbra. Vivi gli occhi che mi fissarono da farmi paura. Volsi la faccia verso la zia bionda e
piansi di nuovo. Si dettero a calmarmi le donne che non conoscevo, la nonna, la zia bionda, e poi la
voce stanca della mamma: «Vieni Enrico» disse. «Non aver paura della mamma.»
La zia bionda mi sollevò sul letto, accosto con la faccia alla faccia della mamma. (È la nonna che mi
ha prestato il ricordo, io ero troppo impaurito, o forse troppo bambino, per tenere i particolari.)
Sembra che la mamma prima mi carezzasse sollevando le mani scarne, azzurre per le vene emerse
dopo il sangue perduto nel parto disgraziato. Poi disse che m'avvicinassero ancora di più a lei,
chiedendomi di baciarla.
Io più non piangevo, questo credo di ricordarlo, fissavo a mia volta la mamma, sempre con meno
terrore - forse pensavo al cavallo di Paolo, forse mi tornava gradito al palato il sapore del marsala.
«Com'è sciupato» disse la mamma carezzandomi. E dopo una lunga pausa in cui tutto era immoto:
«Stai volentieri là?» mi domandò.
«Rispondi Enrico alla mamma» suggeriva la zia bionda «dille, sì mamma, sì.» E la nonna: «Ora
basta» disse, e s'avvicinava per togliermi alla mamma.
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«No, no» disse la mamma; e mi abbandonò desolata: «Com'è sciupato, com'è sciupato» ripeteva. Poi
alzò ancora le braccia, pur rimanendo supina, e mi strinse con le mani alla gola, dicendo sempre
calma e precisa: «Lo ammazzo. Non voglio lasciarlo a un'altra donna».
Le infermiere si fecero affannate verso il letto, con la nonna; la zia bionda staccò di violenza le mani
che si stringevano alla mia gola fredde e nervose, e mi facevano piangere, ma non mi davano dolore,
tanta poca forza avevano.

La casa dei miei otto anni s'apriva su un corridoio che girando intorno le stanze conduceva alla
cucina. La cucina aveva la finestra su un giardino, chiuso dagli alti muri delle case.
Il mio babbo era cameriere. La matrigna lavorava da sarta.
Nel giardino apparivano servi in camiciotto rigato e serve col grembiulino bianco, d'attorno ad una
vecchia signora e a tre cani. Alle finestre delle case apparivano ragazzi a rubarsi il giardino con gli
occhi. Io ero di cotesti bambini. Ma gli altri non erano miei amici. Nel casamento dove abitavo io
ragazzi non ce n'erano, erano tutti ragazzi delle case vicine.
Sul giardino dava anche la camera grande del babbo e della matrigna. Io dormivo all'angolo che il
corridoio formava girando dall'ingresso verso la cucina. Tornavo alla casa a tarda sera,
accompagnato dalla nonna che mi lasciava nell'atrio, com'era convenuto fra parenti dopo la morte
della mamma. La matrigna mi riceveva dicendo: «Buonasera signorino». E mi domandava: «Hai
mangiato dalla nonna? Hai fame ancora?». A volte mi baciava umidiccia sulla bocca. «Perché non
mi vuoi bene?» diceva. E m'aiutava a svestirmi, divertita del mio pudore. Poi se ne andava
portandosi la luce della candela, e il coraggio di restar solo che m'abbandonava.
Ricordo che in quelle prime ore riuscivo veramente a dormire rivolto verso il muro, ov'era stata
accostata la branda, per non badare ai fantasmi; facevo brutti sogni che mi destavano intimorito con
desiderio di orinare. «Alzati, è così vicino il gabinetto» mi si diceva.
Ma il gabinetto s'apriva sulla cucina, un viaggio nel buio, tra i fantasmi. Covavo lo stimolo di
orinare, ancora turbato dai sogni. Allora si destavano gli "spiriti" con me, e mi facevano singhiozzare
terrorizzato sotto le coperte, coi loro sordi rumori. Il muro della mia angoscia confinava con le scale
e vi cercavo rara compagnia negli inquilini che rincasavano coi più strani argomenti nei loro
dialoghi, traverso il muro.
Il babbo tornava a notte. Veniva alla mia branda ad assestare le coperte: «Dorme male questo
ragazzo» diceva. «È irrequieto.» Posava il candeliere sulla sedia ov'erano i miei indumenti. E la
matrigna dal suo letto dietro la parete degli spiriti, dentro la camera grande: «Sempre con la nonna»
rispondeva, «intristisce sempre con quella vecchia». Il babbo se ne andava nella cucina, ove gli
spiriti s'erano zittiti, e si metteva a uccidere piattole che scorazzavano sul pavimento; le spiaccicava a
colpi di scopa. Finché tornava buio nella cucina, nel corridoio e i fantasmi tornavano alla mia mente
disperata. Dal muro degli spiriti dentro la camera grande cominciava un dialogo forzoso tra babbo e
matrigna. Prima essa, con voce impastata di sonno, arrochita, teneva rapporto della sua giornata. Il
babbo riempiva il di lei stanco narrare lamentandosi di dolori alle ferite di guerra, sputava per terra
raschiando la gola. Quand'egli sputava, e raschiava cercando catarro dentro ai bronchi, la matrigna
diceva: «Che hai? Rospi hai per la gola?». E quando la voce di lei si faceva più rada ai miei orecchi
era il babbo che riportava gli avvenimenti della sua giornata di lavoro, e nell'assenza d'interesse della
donna, dubitando di essere seguito: «Dormi?» domandava. «No» diceva la matrigna. «E allora?»
Quel loro interessarsi l'uno all'altro tendeva la mia curiosità, serviva da schermo al timore degli
spiriti. Alle loro voci e allo stimolo d'orinare affidavo la mia speranza contro i fantasmi che
vorticavano dalla cucina sul muro della camera grande.
Il babbo e la moglie s'intrattenevano fino sull'alba. «È giorno, dormiamo» diceva la donna. Ma era
ancora la sua voce impastata di sonno che giungeva dal muro dei fantasmi. «Dormi?» domandava.
«Sono stanco» diceva il babbo. «Sì, dormi» rispondeva la donna «anch'io ho sonno.»
Aspettavo di sentirli affannare insieme, come mi avevano abituato. Ancora la matrigna a parlare:
«Maledetto letto».
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Nella cucina si faceva albore, e investiva di lontano il corridoio verso la mia branda, fugando i
fantasmi. Le voci, la cadenza della camera grande si perdevano con la luce, il suono delle campane,
il distendersi della mia paura. Io non sentivo mai babbo e matrigna augurarsi buon sonno: lentamente
si spengeva il loro affanno e la loro presenza.
Mi alzavo a piedi nudi, traversando il corridoio, traversando la cucina, dove le ultime piattole
impazzivano disorientate dalla luce: andavo al gabinetto. Il più delle volte, tornando, se era di
primavera, meglio se era d'estate, mi affacciavo alla finestra di cucina, ed ero tutto solfi con le
campane, il giardino e l'alba sulle case.
Allora capitava che la matrigna apparisse discinta, a piedi nudi, una corta camicia scavata alle
clavicole, molto su dalle cosce, stretta all'adipe, ammassati i grossi seni, turbata la faccia dalla luce.
Al mio incontro: «Via» diceva. «Tocca a privarsi della nostra libertà» raggiungeva il gabinetto. «Non
si può stare in libertà nemmeno nella propria casa» continuava, sovrastando i suoi sconci rumori
«sempre col ragazzo fra i piedi.» Giungeva alla mia branda ormai più che un lontano sciacquio.
Ancora la matrigna mi scuoteva, ordinandomi di uscire per la colazione. Dal mio pronto risveglio gli
occhi cozzavano la sua grossa faccia prosperosa, i lineamenti gentili, i piccoli orecchi scoperti sotto i
capelli piegati e contorti dalle forcine. Di solito la matrigna indossava una vestaglia arancione, molto
aperta sul petto, che scopriva il solco profondo delle mammelle.
Pel mio affannato vestire e correre `alla latteria sovente dimenticavo di lavarmi. Ma fuggivo contento
per il servizio. Poi la scuola, il pomeriggio dai nonni, mi liberavano dall'incubo della casa paterna
fino alla sera quando vi tornavo accompagnato dalla nonna che mi lasciava nell'atrio, com'era
convenuto fra parenti dopo la morte della mamma e il nuovo matrimonio del babbo con la matrigna
grassa dai lineamenti gentili, che ogni volta mi riceveva dicendo: "Buonasera signorino".
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V. Pratolini, Il tappeto verde (Il tappeto verde, Vallecchi 1941)


La mamma dovette dire un giorno: «È tempo che il bambino vada a scuola». Ma il Tempo sa che la
mamma era morta.
Il bambino rammenta di quella scuola il nero delle vesti. Non i compagni, non le prime letture, non
me stesso vivo, ricordo; ma il nero delle vesti, il freddo di quegli anni senza la mamma, senza fuoco
nella casa e nella scuola: il freddo di cui erano fatte le cose allora; e la mia figura rivedo sul
frontespizio dell'Incompreso.
Poi il calamaio contro una veste nera, l'epilessia del bambino, la bocciatura. Ma anche il suono grato
di una voce rammento, assiso che fui sulle ginocchia di un'altra veste nera, la grande faccia festosa di
quella voce. E un dono, non so più quale, ma un dono ci fu: lo desumo dalla felicità che mi prese, dal
diaframma che si frattura nella memoria riportandomi la scuola pubblica di Santa Croce, i visi dei
compagni, il grembiule azzurro col nome sul petto, la prima libertà.
Del tempo ignoto rimane la cronaca: l'Istituto degli Scolopi, la voce di Padre Pistelli; ma gli anni non
hanno sciolto il mistero di come il bambino ai primi giorni della scuola pubblica potesse meritarsi
"otto" in lettura – lo testimonia la pagella superstite – dopo il nessun profitto ottenuto da convittore.
Io dico che la mamma non era morta; fu essa che m'insegnò a sillabare nella casa buia, sotto il lume
esagonale, sul tappeto verde trapunto che la nonna, nella sua povertà senza fondo, conservava come
una reliquia.

Via de’ Magazzini, Vallecchi, 1942


Parte prima
Ho imparato a distinguere gli uomini l'uno dall'altro guardando dagli interstizi di una balaustra
dentro una camerata di soldati. La scuola dirimpetto alla mia casa era trasformata in caserma, e
siccome la strada era stretta — una delle strade medievali di Firenze che al centro della città formano
come un'isola di silenzio — e i palazzi dirimpettai sembravano piegarsi l'un l'altro via via che
ascendevano a tentare il cielo, i terzi piani della mia casa e della scuola diventavano come un unico
appartamento: si sarebbe potuto, volendo, accedere da una stanza all'altra senza fatica. La mamma e
la nonna indaffarate di primo mattino nelle faccende domestiche mi conducevano alla finestra, la cui
balaustra era alta e invalicabile, dicendo: "Guarda i soldati e stai buono". Dal mio osservatorio
vedevo una lista di camerata e in essa andavano e venivano soldati, si sedevano sulle brande,
giocavano a carte, mangiavano in lucide gavette, parlavano ad alta voce in dialetti sconosciuti. Li
credevo soldati diversi da quelli che vedevo per le strade, soldati in penitenza, e speravo di coglierli
in misteriosi atteggiamenti di ribellione, invano. Qualcuno si affacciava alla finestra per osservare
sulla strada, e subito si ritirava tra le grida dei compagni. Immancabilmente venivo scoperto dietro la
balaustra; era un accorrere di soldati da più parti della camerata nel vano della finestra, come per una
fotografia. Mettendosi le mani addosso, parlando a più voci si chiamavano: "C'è il bambino" diceva
uno dapprima; e un altro: "Di già?", anche lui si presentava nel vano della finestra. Mi rivolgevano
tutti i giorni le stesse domande se ora ricordo, ma
o ero contento di loro come di un divertimento fuori dell'ordinario. Mi invitavano a cantare una
canzone, e siccome era una canzone poco pulita io prima mi accertavo se la mamma e la nonna
fossero veramente in cucina, e li accontentavo. Applausi sguaiati coronavano la mia prodezza; a
compenso i soldati lanciavano dalla camerata nella mia stanza sacchetti di caramelle che im-
maginavo si procurassero apposta per me. Accadeva anche che la mamma mi sorprendesse a cantare
e mi ritirasse per mano dentro casa, rimproverandomi. Ma dalla finestra grida di: "Viva la signora!"
la richiamavano al balcone. Io debbo a quei miei amici soldati se posso ricordare la mamma che
sorride. "Me lo abituate male" diceva. Il suo volto pallido, i lunghi capelli neri raccolti sulle spalle,
gli occhi neri e verdi come perpetuamente attoniti — tutto il suo corpo di solito come chiuso in
un'attesa, il suo naturale atteggiamento di donna giovane e stanca, si scioglieva dall'immobilità
consueti in cui credo fosse impossibile sorprendere un qualsiasi proposito o muovere una cordialità.
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Era come se la mamma per un momento si liberasse da un'abitudine diventata natura per illuminarsi
di una luce nuova: sembrava che quelle voci feste e volti di uomini soldati, giovani quanto lei o poco
più, vent'anni, rimovessero la mamma dal fondo di una vasca in cui era adagiata supina, le si
scomponevano le vesti in un alone emergendo: come nell'increspatura dell'acqua, le si disegnavano
sul volto un sorriso, nel corpo un movimento a lei ignoti o dimenticati. I soldati parlavano a lungo
con la mamma, io venivo trascurato, la costringevano a sollevarmi sulle sue braccia e dal suo sorriso
mi nasceva una grande gioia. In un secondo momento, alcuni, forse consegnati, chiedevano alla
mamma di comperare loro sigarette cartoline giornali, che so: prima e dopo gli acquisti, che la
mamma faceva recandosi al mercato per la spesa, volavano da una finestra all'altra i denari, le
sigarette, i giornali rinvoltati e legati con uno spago perché col peso sopportassero la distanza che ci
separava traverso la strada. Intanto io imparavo a distinguerli l'uno dall'altro. Se qualche mattina
tardavano ad accorgersi di me dietro la balaustra li chiamavo per nome, forse storpiandoli quei nomi,
o salivo su una sedia e venivo fuori di tutta la testa gridando: Mensuali, o Palanti, o Celentano, o
Nigri; ma colui che riconoscevo meglio degli altri era Cadorin, grasso e biondo, che sapeva fare il
verso degli uccelli. Finché qualcuno partiva: io mi mettevo la mano sulle labbra imprimendovi un
bacio e soffiando poi sulla palma perché il bacio gli giungesse: anche questo me lo aveva insegnato
qualcuno di loro. Alla mamma promettevano di scrivere ed esigevano da lei la promessa di una
risposta: a tutti la mamma faceva trascrivere il numero del reparto in cui il babbo, fante pure lui, era
arruolato, e già al fronte, qualora lo avessero incontrato: "Ditegli che noi si sta bene, il bambino cre-
sce. Che gli scriviamo". Nuovi amici apparivano la mattina dopo nella camerata.
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Via de’ Magazzini: la ricerca di un titolo

Matilde
Un ragazzo, i suoi (lettera a Parronchi, 19 dicembre 1941)
Biografia dell’adolescenza (telegramma 26 gennaio 1942 a Vallecchi)

Ancora sul titolo di Via de’ Magazzini


voglio che sia biografia, voglio lasciare intendere che lo sia, non si potrebbe poi scendere dalla
‘storia dell’adolescenza’ alle ‘Cronache di poveri amanti’. Storia sarà il libro che scriverò fra dieci
anni e di cui vado formandomi lentamente in testa il disegno. […] Se [il pubblico] deciderà che
‘biografia’ non è, ma pura invenzione, tentativo d’arte, eccetera, meglio per me” (a Parronchi, 2
febbraio 1942).

Un sunto della storia familiare narrata e rinarrata da VP (da Mio padre, in Le amiche,
Vallecchi, 1943)
C’era, dietro a tutto ciò, una storia che non importa ripetere, ma accennarla appena. La storia è breve,
dice di una madre morta giovane (la mamma che morta, nel gran letto di sposa, coi lunghi capelli
disciolti sui guanciali, ebbe colorita la fronte d’azzurro, volse alla stupefazione e allo sgomento i
visitatori); dice, la storia, dell’insofferenza del ragazzo in una casa che non gli apparteneva più: una
casa muta, dove si alzava di tanto in tanto il pianto di un nuovo nato. (Mio padre non si oppose a che
io disertasi la casa. Mi disse: “Pensaci bene” distraendo lo sguardo. Volle fingere d’ignorare quando
e perché me ne fossi andato).
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[Passi critici in cerca di titolo, e in attesa di sottolineature], da Renato Bertacchini,


Memorialismo familiare di Vasco Pratolini, in Figure e problemi di narrativa contemporanea,
Bologna, Cappelli, 1960, pp. 247-300

A] E’ vero invece che contrassegna la scrittura prima di Partolini, nei suoi tratti originali e meno
riflessi, un uso insolito e attivante della memoria. Nel senso che presso questa memoria non
regressiva, ma progressiva, intesa a ricercare nell'infanzia o nell'adolescenza la garanzia della propria
virtù attuale, passa in second'ordine la pretesa individualistica di scoprire zone intatte di segreti
interiori, s'attenua il privilegio di scavare addentro proustianamente nelle sensazioni di un passato
sottratto alla fuga dei ricordi. E riemerge piuttosto, si delinea la primaria tendenza creativa a
raccontare un ambiente, a figurare dei personaggi e dei fatti in rapporto agli indifesi strumenti di
conoscenza di un fanciullo (e già alle radici si ritrova il fiore e il seme), sotto l'impressione tuttora
vivace di una indimenticabile esperienza infantile, che assurge al livello di tema pressoché unico e
risolutivo: fanciullezza come «tempo precario», adolescenza come «età nucleale... nella quale
commettemmo senza colpa tutti i peccati», «tempo sublime in cui la libertà fu un fatto sublime
consumato senza reticenze».* Ed è a questo punto che la bussola di Pratolini può volgere verso
Sbarbaro, fermarsi al frammentismo del poeta ,ligure che non è più solo quello stilistico e analogico
ellaclausura ermetica, della desolata constatazione di sé in modi essenziali e stremati (…)
* V. Pratolini, Due momenti, in «Corrente di vita giovanile», 15 aprile 1940

B] Qui nelle forme di un nuovo intimismo, alla ricerca di contatti umani più largi e comprensivi,
viene individuandosi il significato dell’esperienza e della memoria familiare di Pratolini; col suo
compenso di verità sentimentali più genuine, quasi nella promessa invitante di antiche e risorgenti
familiarità, di carnali amicizie durate e custodite dal sangue. Si determina fin d'ora la prospettiva
ansiosa di una larvale vita di relazione, da retrodatare negli anni e scoprire ancora una volta con
occhi narranti e consapevoli di fanciullo.
Questo costituisce appunto l'interesse del Tappeto verde. Vedere certi nuclei analogici della prosa
d'arte che cominciano a sciogliersi, criticamente e narrativamente, in un impegno di investimento e
recupero della realtà, di adesione ai fatti retrospettivi del tempo, alla stagione «sublime» ma anche
reale di un'infanzia propria da ritrovare come attesa di rapporti umani in fieri.

C] Ma memoria che non edifica a vuoto, non pretende ogni volta lo scavo indifferenziato nei
sentimenti segreti, per sonde analogiche ed essenziali. E che si esercita piuttosto su uno strato di
immagini e ricordi, già sentimentalmente aperti, troppo vivi e disposti, troppo figurabili, per poter
essere scambiati coi giochi dispersi, con quei tipici e fittizi processi all'infinito delle immagini-
emblemi, dei ricordi-combinazione e commemorazione, con tutti quegli innumeri plessi evocatori
insomma che frequentavano normalmente la rarefatta solitudine della prosa lirica, compresi certi
elementi surrealisti che fermentavano presso i favolosi poèmes en prose dell'ermetismo di «Campo di
Marte». Con questo non si vuol dire che non esistano impacci e ritardi. Si potrebbe anzi ritagliare e
schematizzare tutta una terza parte del Tappeto verde, quella che va sotto il nome di Itinerario della
memoria, folta di resistenze ermetizzanti, con La mano e Alibi, ridotti quasi ad altrettanti paragrafi,
nel corso dei quali gli esiti ellittici ed alti della memoria ancora insistono a ritessere le trame tenui e
svagate di un autonomo e precario crepuscolarismo morale. Basterebbe rileggere certi brani di Alibi,
dove gli accorgimenti tecnici, troncamenti, inversioni, trasposizioni delle parti del discorso
vorrebbero imprimere al giro delle frasi una scarna, quanto gratuita, essenzialità: « ... Tu hai cercato
di salvare nel cuore la pietà e hai promesso al tuo cuore di amare e di amare — ti sei fatto minimo e
oscuro, hai castigato il tuo orgoglio a vivere di desideri nuovi: un fiore, l'ombra della notte, una
chioma d'oro; e disperatamente cercato di non vivere di te: avevi una fanciullezza estatica alle spalle,
giorni e giorni di vita ti avevano costretto povero e solo col tuo nome nei tramonti dell’albereta: un
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libro e le fronde, e le erbe del prato, una veste leggera, gli operai nel cantiere, la macchina di
drenaggio, il fiume (e come il cielo era lontano, come non fu mai cielo!) dovevano sfamare anche la
tua fame…»
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ANCORA DA VIA DE’ MAGAZZINI

Sulla madre, di nuovo

[5]
La balia inaffidabile e il sogno premonitore della madre
Pochi giorni dopo il babbo fu chiamato alle armi, io avevo il ghiaccio sulla testa e sul ventre, la
mamma era addossata a una soglia come impietrita, la nonna piangeva su una sedia vicino al mio
letto. Fu questa una scena dolorosa, vissuta e sofferta da quelle creature a cui debbo la vita, e rimasta
come il momento esatto – lo schianto di una diga, il primo sasso che ruzzola dalla cima del monte e
fa valanga – dello schianto e della dispersione della nostra famiglia. 5,90

La necessità del lavoro


Da allora, quando io avrei incominciato a riconoscere la mia mamma, a dirle: "Mamma" e a
sorriderle, data la sua avversione, il suo affetto disperato e inespresso per me: dalla partenza del
babbo e dalla mia guarigione. Negli anni dipoi, fino alla sua morte, alla vigilia della quale essa sognò
di uccidermi perché un'altra donna non avesse su di me i suoi diritti di madre, i miei rapporti con la
mamma furono rapporti di convenienza e d'ossequio. Dormivo nel letto dietro l'alcova, e per lungo
tempo, prima di addormentarmi, la udivo al di là delle cortine verdi agitarsi e sospirare, pronunciare
da sola parole che non giungevano fino a me; sedendomi sul letto vedevo un filo di luce trapelare di
sotto alle cortine; spesse volte la udivo muoversi per la stanza, aprire cassetti, sedersi su una sedia,
affacciarsi al balcone nella notte. Al mattino era già uscita quando la nonna veniva a destarmi. Poi fu
il tempo della guerra, gli anni duri della guerra, l'epoca della caserma, la visita della mamma al
babbo nelle retrovie, la gravidanza, la malattia, la morte. 5,91

[7]
(In cotesti giorni io perdetti la mamma senza averne un segno davanti ai miei occhi, senza che
l'erba che calpestavo mi dolesse sotto i piedi e l'acqua del torrente che guadavamo allegramente mi
bruciasse la carne. La portarono via per sempre la mia mamma senza di me, come se veramente
qualcuno me l'avesse rubata; e io non provai dolore dipoi, fattami la convinzione della sua morte:
"Non più rivederla" dicevo, ed era come se mai l'avessi vista la mia mamma. Immagini mi
rimanevano di lei, che la casa della periferia e i giochi con gli amici, il torrente le cugine lo stridio
lungo dei tram all'anello del capolinea, allontanavano dalla mia memoria nel loro gradito pesare sulle
mie ore. Forse io ero un fatuo bambino, o forse uscivo per la prima volta veramente dal terrore della
nostra casa di città, gli anni deserti di gioia della guerra, il buio della casa, me ne liberavo nell'aria
aperta della periferia, nel vento vezzoso sulla mia fronte, nel fresco del canneto che brillava al sole
dell'autunno come un organo d'oro velato dall'incenso della nebbia rada.) Il nonno non mi disse mai
che la mamma era morta, mi prendeva lo stesso per mano, forse mi voleva più bene. Ora che il luna-
park era partito andavamo a passeggiare lungo la ferrovia, aspettavamo al passaggio a livello di
vedere i treni che erano ogni giorno di più carichi di soldati giovani giovani che agitavano elmetti e
bandierine, cantando 7,94-95
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CRONACA FAMILIARE

Il fior de’ tuoi gentili anni caduto

Al lettore
Questo libro non è un'opera di fantasia. È un colloquio dell'autore con suo fratello
morto. L'autore, scrivendo, cercava consolazione, non altro. Egli ha il rimorso di avere
appena intuita la spiritualità del fratello, e troppo tardi. Queste pagine si offrono quindi
come una sterile espiazione.

Epitesto: alcuni autocommenti

‘ispirate’?, direte. Sì. se intendete, ‘dettate’ dalla voce del rimorso, dell’angoscia, dell’amore che
aveva bisogno di liberarsi – nel corso di sei notti, dicembre 1945. Pubblicandole, non chiedo un
giudizio ‘letterario’, ma piuttosto una solidarietà o un rifiuto soltanto umani” (Scrittori allo specchio.
V.P., in “Corriere del Libro”, 15 feb-15 marzo 1947)

libro nato “unicamente […] da una prepotente esigenza interiore”, nel mio percorso “una cosa a sé,
un’opera in qualche modo extraletteraria” (Pratolini a Roma sogna Parigi, interv. a Gianantonio
Cibotto, in “La Fiera Letteraria”, 13 aprile 1952)

Giungono dei momenti in cui solo i morti ci assistono, ci siedono accanto, vivi per quanto viva e vera
era stata la loro umanità, e solo ad essi, alla loro fisica sembianza, possiamo parlare. (Scrittori allo
specchio. V.P., in “Corriere del Libro”, 15 feb-15 marzo 1947)

Io scrivo questo libro – e questo libro veramente è per me, per lui cioè, e per gli amici che gli vollero
bene. Tu sei uno fra questi pochi lettori a cui mi rivolgo. Ti direi di più, che a momenti mi pento
amaramente di doverlo stampare, sarebbe bastato farlo circolare dattiloscritto, ma non sono ricco e
soltanto dandolo alle stampe ho la possibilità di scriverlo” (a Parronchi, 29 dic 1945)

l’opera che meno mi rappresenta, perché è un libro troppo privato […]; a dir la verità oggi non
riesco più a rileggerlo” (V.P. ha scritto un unico rom ogni volta approfondito, intervista a Pier
Francesco Listri, in “Il Nuovo Corriere”, 5 luglio 1956)

Allora non si tratta di uscirne con un libro, la ‘tranche de vie’ che si rappresenta in quelle pagine è il
nostro cuore ‘messo a nudo’; offrire il testo al lettore è il modo più duro di espiare: ad un lettore tutto
occhi per scoprire vanità dove l’umiltà è più profonda. (Scrittori allo specchio. V.P., in “Corriere del
Libro”, 15 feb-15 marzo 1947)
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IL RAPPORTO CON FERRUCCIO

Nel luglio 1945 morì mio fratello, di ventisette anni. I nostri rapporti, fino a poco tempo prima, erano
stati dolci e drammatici insieme.
Raccontai a mio fratello la sua vita così come io, sordo e cieco, l’avevo vista e udita. (Scrittori allo
specchio. V.P., in “Corriere del Libro”, 15 feb-15 marzo 1947)

è un mio colloquio con Ferruccio. Non un’apologia di lui né una palinodia, sarà un libro
dichiaratamente autobiografico in cui io racconto a Ferruccio, come in una lunga lettera, la sua storia
attraverso la storia dei nostri incontri. (a Parronchi, 29 dicembre 1945)

E’ una promessa che io gli feci negli ultimi giorni che stemmo insieme, ma non devi credere che con
questo io esaudisca una sua vanità umana. […] Qualcosa invece di più doloroso e universale.
Ferruccio mi chiese di chiarire a me e a lui il ricordo che entrambi avevamo della mamma, della
quale – specie negli ultimi tempi – egli aveva uno struggente desiderio (a Parronchi, 29 dic 1945)
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UN LIBRO ARCHITETTATO?

L’ho riletta: ho provato vergogna nel constatare che parlo di me più del necessario. Ti giuro che
scrivendo io non pensavo al ‘lettore’, non avevo architettato il libro né dato un ordine preliminare
alla storia di me e di Ferruccio: ora, tutto questo nel libro c’è invece. Il mio dubbio è questo: se
davvero, anche in questa circostanza, più o meno inconsciamente, io ho creduto di ‘poterne uscire
con un libro’ (a Parronchi, 4 febbraio 1947)

Com’è scritto? Velocemente, senza eccessive preoccupazioni di stile, ma – sono sincero, di quanto
sono lucido scrivendolo – qua e là ci sono delle indulgenze letterarie. […] ho narrato dei fatti,
dolorosamente veri, ma per dare loro una continuità io ho dovuto sforzare la mia memoria, rivivere
cioè quei fatti, e per riviverli – e in certo senso ricostruirli – ho dovuto ricreare un ambiente,
collocarli, mi spiego? C’è un largo uso del dialogo, è quindi logico che se io sostenessi che il dialogo
è ‘autentico’ direi una bugia: di autentico c’è il senso delle parole che ci dicemmo e, nella mia
memoria, le parole che ci dicemmo furono pronunciate sotto un dato colore del cielo, una data
stagione ecc. Tu dirai che proprio questo è il normale tentativo di un’oggetivazione letteraria. Ma
non è esattamente così, per questo motivo: che non ho inventato assolutamente nulla, non ho piegato
nessun fatto a un’esigenza artistica, cioè non ho ‘romanzato’, ho lavorato (e conto di continuare a
lavorare fino all’ultima pagina) nella certezza che Ferruccio riconoscerebbe per autentica e
pronunciata ogni parola. Può darsi che gli estranei lo trovino un libro ‘fuori quadro’ e i più cattivi,
ipocrita addirittura. Io ho la coscienza tranquilla. Aggiungo che non ci sono ‘cadute’ sentimentali, i
fatti di per sé, dolorosamente vissuti, anche al di là della mia sprovvista rappresentazione, sono
sufficientemente espliciti. (a Parronchi, 29 dicembre 1945)
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- sintagmi con la prep. di, con valore sospeso fra causalità e strumentalità: VM «Un’umanità nuova
mi appariva, donne avvolte nelle pellicce meravigliosamente, odorose e violente di colori»
- sintagmi con la prep. a, in sostituzione di nessi diversi e più analitici come presso a, vicino a (la
prep. dà impulso e movimento all’aggettivo da cui dipende e instaura un rapporto spaziale
indeterminato (fra valore statico e dinamico) : VM «Ritto ai vetri dell’alta finestra»
- sintagmi con la prep. nel con valore ambiguo fra spaziale e temporale: VM «anche il mio più antico
terrore era scomparso in quella corsa nella notte e nella luna»

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