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Il diritto della famiglia

1. La famiglia in senso ampio. Cenni introduttivi

Il discorso può iniziare con qualche dato terminologico.


In senso ampio, la famiglia è composta da parenti ed affini. “La
parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso
stipite” (art. 74 c.c.), ovvero da uno stesso progenitore o
progenitrice. Sono parenti in linea retta le persone di cui l’una
discende dall’altra (ad es. il nipote e la nonna); in linea collaterale
quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una
dall’altra (il fratello e la sorella, la zia e il nipote). La parentela ha
un grado. Nella linea retta si computano altrettanti gradi quante
sono le generazioni, escluso lo stipite (ad es. il figlio e il padre
sono parenti in primo grado, il nonno e il nipote in secondo grado).
Nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni,
salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo
discendendo all’altro parente, sempre restando escluso lo stipite (ad
esempio i fratelli sono parenti in secondo grado, la zia e il nipote in
terzo grado). In termini generali, se ciò non è previsto a qualche
fine determinato, “la legge non riconosce il vincolo di parentela
oltre il sesto grado” (art. 77 cc.). L’affinità invece è il vincolo tra
un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. Nel grado in cui taluno è
parente d’uno dei due coniugi, egli è affine dell’altro coniuge. Il
legame di affinità non cessa per la morte del coniuge da cui deriva.
Va sottolineato che nel nostro ordinamento i rapporti di
parentela o di affinità in senso ampio hanno in generale una
rilevanza molto limitata. In realtà, gran parte delle norme
giuridiche attribuiscono rilevanza solo alla famiglia intesa in senso
stretto, cioè al legame fondato sul matrimonio (a cui è stata
recentemente equiparata l’unione civile tra persone dello stesso
sesso) o su rapporti di filiazione. Una certa rilevanza assumono, in
alcuni contesti, i rapporti tra ascendenti (diversi dai genitori) e
discendenti (ad es. il rapporto tra nonna e nipote), nonché i rapporti
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tra fratelli e sorelle; tutti gli altri legami di parentela e di affinità


hanno un ruolo del tutto residuale nell’applicazione delle norme
giuridiche. Per questo la nostra trattazione può concentrarsi sul
matrimonio (e sull’istituto, molto simile, dell’unione civile tra
persone dello stesso sesso) e sulla filiazione.
Del resto, la nostra Costituzione parla espressamente solo dei
rapporti di matrimonio e di filiazione. “La Repubblica riconosce i
diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio” (art. 29 Cost.). Da questa disposizione la Corte
costituzionale ha sempre fatto discendere che, sebbene il
legislatore sia libero di riconoscere rilevanza, a vari fini, alle
coppie di fatto, la Costituzione non lo obbliga tuttavia ad
equipararle, sul piano dei diritti e dei doveri, alle coppie sposate:
è la stessa Costituzione a riconoscere il matrimonio come
fondamento di un’unione familiare particolarmente qualificata.
D’altra parte, la Costituzione riconosce che “è dovere e diritto dei
genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori
dal matrimonio” (art. 30 Cost.). Dunque, il rapporto tra genitori e
figli è costituzionalmente tutelato, a prescindere dal fatto che i
genitori siano sposati o meno.
Per quanto riguarda gli altri rapporti di parentela o di affinità,
come si è detto, essi rilevano in modo piuttosto limitato. Rilevano,
certamente, rispetto alla successione per causa di morte. Si noti,
però, che a livello di successione necessaria (su cui si rinvia al
secondo capitolo, par. 2) sono tutelati solo il coniuge (e oggi il
partner dell’unione civile), i figli, gli ascendenti (art. 536 c.c.).
Solo questi soggetti sono tutelati (in misura variabile, a seconda di
quali di loro sopravvivono) anche contro la volontà testamentaria
del defunto. A livello di successione legittima (anche qui, si rinvia
al secondo capitolo, par. 2) invece possono assumere rilevanza
anche rapporti di parentela di grado più elevato; però in presenza di
matrimonio (o di unione civile) e di figli qualunque altro parente
non ha diritti successori; solo in assenza di figli, con il coniuge o il
partner dell’unione civile concorrono gli ascendenti e i fratelli e le
sorelle del defunto (avendo diritto ad un terzo dell’eredità, mentre
due terzi spettano al coniuge o al partner dell’unione civile: art. 582
c.c.). I parenti di grado ulteriore possono entrare in gioco, a livello di
successione legittima, solo in assenza di matrimonio, di unione
civile, di ascendenti e di fratelli o di sorelle; in tal caso, la
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successione si apre in favore dei parenti prossimi (art. 572 c.c.);


dunque degli zii o nipoti, se ve ne sono, oppure dei cugini, e così via.
Un altro profilo rispetto al quale possono assumere rilevanza
rapporti diversi rispetto al coniugio e alla filiazione è quello degli
alimenti.
Il diritto ritiene che determinati soggetti siano tenuti a versare
gli alimenti, i quali possono essere chiesti solo da chi versa in stato
di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li
domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli,
ma non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita
dell’alimentando (art. 438 c.c.).
In poche parole, alcuni soggetti sono tenuti ad aiutare, ammesso
che le loro condizioni economiche lo permettano, chi non è in
grado di mantenersi (a prescindere da qualsiasi profilo di
responsabilità: ad esempio, a prescindere dal fatto che abbia perso
il lavoro per propria colpa), o mediante un assegno alimentare
oppure accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha
diritto (art. 443 c.c.). In ogni caso tale aiuto è limitato a quanto è
necessario perché l’alimentando possa sopravvivere.
Secondo l’art. 433 c.c., all’obbligo di prestare gli alimenti sono
tenuti, nell’ordine (il che vuol dire che si passa ai gradi successivi
solo se mancano o non hanno la possibilità economica di versare
gli alimenti i soggetti indicati nei gradi precedenti):
1) il coniuge (ma, come vedremo, di norma tale obbligo è
riassorbito in un più ampio obbligo di mantenimento verso l’altro
coniuge);
2) i figli verso i genitori;
3) i genitori verso i figli (anche qui, come vedremo, fino al
raggiungimento dell’autosufficienza economica questo obbligo è di
norma riassorbito in un più ampio obbligo di mantenimento);
4) i generi e le nuore verso i suoceri;
5) i suoceri verso i generi e le nuore;
6) i fratelli e le sorelle.
Dobbiamo, ora, dedicare un cenno ai rapporti di convivenza di
fatto. Per lungo tempo, la convivenza di fatto non ha avuto, nel
nostro diritto, alcun riconoscimento generale; essa acquistava
rilievo solo per singoli, specifici profili, su cui sono intervenuti il
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legislatore, o, più spesso, la giurisprudenza. Così ad esempio da


tempo è riconosciuto che il convivente di fatto possa chiedere i
danni, patrimoniali e non patrimoniali, a seguito della morte del-
l’altro, purché possa dare la prova di una stabile convivenza;
oppure che possa succedere nel contratto di locazione della casa di
comune residenza, in caso di morte dell’altro.
Più di recente, il legislatore è intervenuto a disciplinare le
convivenze di fatto (legge 20 maggio 2016, n. 76). Secondo la
legge, si intendono per “conviventi di fatto” due persone
maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di
reciproca assistenza morale e materiale.
In realtà, il legislatore ha riconosciuto alla convivenza di fatto
una rilevanza molto limitata.
Gli effetti principali della convivenza di fatto possono
riassumersi così:
1) in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice può
stabilire il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente
gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di
provvedere al proprio mantenimento, per un periodo proporzionale
alla durata della convivenza; ai fini della determinazione dell’or-
dine degli obbligati agli alimenti, l’ex convivente di fatto si colloca
prima dei fratelli e delle sorelle;
2) in caso di morte del proprietario della casa di comune
residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad
abitare nella stessa per un periodo pari alla convivenza e comunque
non oltre i cinque anni.
Come si vede, la legge prevede a favore dei conviventi di fatto
alcune limitate misure, fondate sulla sopravvivenza di un minimo
di doveri di solidarietà anche oltre lo scioglimento della coppia di
fatto (per morte o per separazione). La legge riconosce peraltro che
i conviventi di fatto possano disciplinare i loro rapporti patrimo-
niali attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza, in
cui ad esempio potranno disciplinare i loro obblighi di
mantenimento o stabilire un regime di comunione dei beni, in
analogia a quanto accade con il matrimonio (come si vedrà nel
prossimo paragrafo).
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2. Il matrimonio e l’unione civile

Quando si parla di matrimonio, si può aver riguardo al


matrimonio come atto (cioè ad un certo negozio giuridico, a cui
partecipano le due persone che intendono sposarsi) oppure ai suoi
effetti, cioè al rapporto coniugale che consegue al matrimonio
come atto. Attengono al primo profilo le regole che disciplinano
come si celebra il matrimonio e a quali condizioni esso è valido; al
secondo profilo le regole che disciplinano i rapporti, sia
patrimoniali che non patrimoniali, tra i coniugi.
Il matrimonio può essere rilevante per il diritto dello Stato, ma è
ancora prima rilevante per le varie religioni e da esse regolato.
Possiamo così avere regole diverse, fissate dal diritto dello Stato e
dalle religioni, in ordine alle condizioni e alle modalità per
contrarre matrimonio e ai diritti e obblighi che ne derivano.
Le reciproche interferenze possono essere regolate in vari modi.
È possibile un regime separatista, che era quello vigente in
Italia fino al 1929 e che vige in molti paesi. Il matrimonio
regolato dallo Stato (c.d. matrimonio civile) e i matrimoni
religiosi restano completamente separati; il matrimonio civile
produce effetti nell’ordinamento dello Stato, il matrimonio
religioso produce esclusivamente effetti religiosi, e chi vuole
essere sposato sia agli occhi dello Stato che della propria
religione deve concludere, separatamente, entrambi i matrimoni,
secondo le loro rispettive regole.
È possibile però che lo Stato riconosca, in questa materia, effetti
anche al matrimonio religioso. Così accade, in Italia, per quanto
riguarda il matrimonio cattolico, grazie ai Patti Lateranensi
sottoscritti tra l’Italia e la Santa Sede nel 1929 (e poi oggetto di una
revisione nel 1984). In sostanza, in virtù di questi Patti, ed in
particolare di uno dei documenti che li compongono, il c.d.
Concordato, che definisce le relazioni in Italia tra la Chiesa e lo
Stato, il matrimonio religioso cattolico produce effetti anche
secondo il diritto dello Stato italiano (si parla infatti di matrimonio
concordatario).
La legge (legge 25 marzo 1985, n. 121) stabilisce, infatti, che
“sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le
norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia
trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella
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casa comunale” (art. 8).


Di conseguenza, per quanto riguarda il matrimonio come atto, in
Italia esistono due forme di matrimonio: il matrimonio civile,
sottoposto, per quanto riguarda la sua celebrazione e i requisiti per
la sua validità, al diritto dello Stato italiano; ed il matrimonio
concordatario, che invece per la forma e i requisiti di validità è
regolato dal diritto canonico cattolico (e infatti rispetto al quale si
può chiedere una pronuncia di nullità anche di fronte alle autorità
della Chiesa cattolica, e in particolare ai tribunali ecclesiastici). In
sostanza, il matrimonio concordatario produce effetti per lo Stato
italiano in quanto sia valido innanzitutto secondo le regole della
Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda gli effetti, invece, essi coincidono, e sono
quelli stabiliti dal diritto dello Stato italiano (fermo restando che il
matrimonio cattolico produce anche effetti entro l’ordinamento
della Chiesa, che però non interessano il diritto dello Stato italiano).
Per quanto riguarda le altre religioni, non esiste un matrimonio
concordatario. È previsto però che i ministri di altri culti possano
celebrare il matrimonio civile, ma solo, appunto, in quanto delegati
dell’ufficiale di stato civile; si tratta dunque, sotto ogni profilo, di un
matrimonio civile, sottoposto alle regole del diritto dello Stato
italiano; semplicemente, mentre il matrimonio civile è celebrato, di
norma, dal Sindaco o da un suo delegato, in questi casi a celebrare
materialmente il matrimonio è un ministro di culto.
Il matrimonio civile è interamente regolato, per quanto riguarda
la sua celebrazione e la sua validità, dal diritto dello Stato italiano.
Esso disciplina, ad esempio, le formalità preliminari al matrimonio
(pubblicazioni: artt. 93 ss. c.c.). Stabilisce, in particolare, le
condizioni necessarie per contrarre matrimonio: la maggiore età
(ma il tribunale, per gravi motivi e accertata la maturità psico-fisica
dell’interessato, può ammettere al matrimonio anche il sedicenne:
art. 84 c.c.); la non interdizione per infermità di mente (art. 85 c.c.);
la libertà di stato (non può contrarre matrimonio chi è vincolato da
un altro matrimonio: art. 86 c.c.); l’assenza di stretti vincoli di
parentela o affinità tra i coniugi (art. 87 c.c.); il non essere re-
sponsabile per omicidio consumato o tentato del coniuge dell’altro
(art. 88 c.c.). La mancanza di una di queste condizioni, insieme ad
alcune altre circostanze (ad es., l’incapacità di intendere e di volere
al momento della celebrazione del matrimonio: art. 120 c.c.; la
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estorsione del consenso con minacce: art. 122 c.c.), sono causa di
invalidità del matrimonio.
Il diritto dello Stato italiano regola poi (ricordiamolo: sia per il
matrimonio civile che per quello concordatario) gli effetti del
matrimonio.
Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi
diritti e assumono i medesimi doveri. Le decisioni fondamentali
relative alla vita familiare devono essere prese di comune accordo:
nelle parole del codice, “i coniugi concordano tra di loro l’indirizzo
della vita familiare e fissano la residenza della famiglia” (art. 144
c.c.).
Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assi-
stenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della
famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascu-
no in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di
lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della
famiglia (art. 143 c.c.).
Dunque ogni coniuge è tenuto a contribuire anche
economicamente ai bisogni della famiglia, oltre che a prendersi
cura dell’altro. L’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia
è posto in relazione alle proprie sostanze e capacità: il ménage
della famiglia è unitario, e ognuno vi contribuisce per quel che può,
eventualmente anche attraverso il lavoro casalingo.
Il dovere di fedeltà non deve intendersi come esclusivamente li-
mitato al campo sessuale; insieme a quello di assistenza morale, in-
fatti, esso confluisce in un più generale obbligo di lealtà e
trasparenza; dunque anche un legame platonico, ad esempio
coltivato attraverso contatti telefonici o via internet, può essere
sufficiente a far ritenere violato l’obbligo di fedeltà.
Infine, l’obbligo di coabitazione non implica che i coniugi
debbano necessariamente coabitare, ma che qualsiasi situazione di-
versa dalla coabitazione richiede il consenso di entrambi. Ognuno
dei due coniugi ha diritto a che l’altro coabiti con lui, il che implica
l’illiceità di un allontanamento senza giusta causa dalla residenza
familiare, se deciso unilateralmente.
Ovviamente, le violazioni dei doveri coniugali vengono in gioco
in caso di separazione della coppia, ed è in quella sede che parler-
emo delle loro conseguenze.
Il matrimonio dà luogo anche ad effetti sul piano patrimoniale.
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Si parla di regime patrimoniale della famiglia. Nel nostro


ordinamento, salvo che le parti non prevedano diversamente, il
regime patrimoniale della famiglia è quello della comunione dei
beni. La comunione dei beni è essenzialmente una comunione
degli acquisti: cadono in comunione tutti gli acquisti compiuti dai
coniugi (non importa se insieme o separatamente) durante il
matrimonio. Dunque restano esclusi dalla comunione i beni di cui,
prima del matrimonio, i coniugi erano già proprietari; inoltre,
restano escluse dalla comunione alcune particolari categorie di beni
(i c.d. beni personali). Ad esempio, sono beni personali i beni di
uso strettamente personale di ciascun coniuge; i beni che servono
all’esercizio della professione di uno dei due coniugi; i beni
acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o
successione, a meno che nella donazione o nel testamento non sia
specificato che essi sono attribuiti alla comunione.
I coniugi possono però convenire la c.d. separazione dei beni:
cioè che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni
acquistati durante il matrimonio. La scelta del regime di
separazione può essere semplicemente dichiarata nell’atto di
celebrazione del matrimonio (come avviene normalmente), o con
un atto separato. In regime di separazione dei beni, i beni cadono in
comunione solo se sono effettivamente acquistati insieme dai due
coniugi.
Fin qui si è parlato del matrimonio e dei suoi effetti. Secondo la
nostra Corte costituzionale, il matrimonio protetto dall’art. 29 Cost.
è solo quello che era conosciuto al momento dell’approvazione
della Costituzione: cioè il matrimonio eterosessuale. Tuttavia, con
una legge recente (legge 20 maggio 2016, n. 76) il legislatore ha
istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso. Si tratta,
dunque, di un istituto apposito; tuttavia, o attraverso rimandi alla
disciplina del matrimonio, o riproducendone sostanzialmente la
disciplina, il legislatore ha dato vita ad un istituto che, per quanto
riguarda i rapporti tra i due partner dell’unione civile, è
sostanzialmente identico al matrimonio (per cui tutto quello che si
è detto sin qui vale anche per l’unione civile), salvo alcune limitate
differenze (sulla principale delle quali, in tema di scioglimento
dell’unione civile, ci soffermeremo nel prossimo paragrafo). Le
differenze principali sono invece sul piano della possibilità di
adottare; ne parleremo nel paragrafo a ciò dedicato.
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3. La separazione e il divorzio

A partire dal 1970 (legge 1° dicembre 1970, n. 898) il matrimo-


nio in Italia può sciogliersi con il divorzio. Più propriamente, si
parla di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli
effetti civili del matrimonio concordatario (giacché il matrimonio
cattolico è indissolubile).
Normalmente, il divorzio è possibile solo dopo un periodo di
separazione. Il divorzio immediato è consentito solo in alcuni casi
particolari (ad esempio, in caso di commissione di reati molto gravi
da parte di uno dei coniugi; oppure quando uno dei coniugi, cit-
tadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo sciogli-
mento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo
matrimonio).
Di norma, invece, il divorzio può essere pronunciato solo quando
i due coniugi sono già separati, da 6 oppure da 12 mesi, come
vedremo.
La separazione dei coniugi, per consentire il divorzio, deve
essere consensuale o giudiziale (non conduce al divorzio, invece, la
semplice separazione di fatto: cioè il semplice venir meno della
convivenza, senza alcuna formalizzazione).
La separazione consensuale si ha quando i coniugi sono d’ac-
cordo non solo sulla decisione di separarsi, ma su tutte le
condizioni della separazione (affidamento dei figli, eventuali
obblighi di mantenimento, assegnazione della casa familiare, ecc.).
La separazione consensuale può realizzarsi in modi diversi. L’i-
dea di fondo è che occorre un qualche controllo sui termini del-
l’accordo, soprattutto rivolto alla loro compatibilità con gli
interessi dei figli minori.
Per questo, i coniugi possono concludere direttamente davanti
all’ufficiale dello stato civile un accordo di separazione personale,
senza bisogno dell’assistenza di un avvocato, solo quando non han-
no figli minori e quando l’accordo non contiene patti di
trasferimento patrimoniale (art. 12, d.l. 12 settembre 2014, n. 132);
in pratica, ciò vale soprattutto per quei casi in cui i due si separano
senza aver avuto figli e senza rivendicare particolari diritti e doveri
reciproci.
In alternativa, i due coniugi possono concludere una
convenzione di negoziazione assistita, in cui ognuno dei due deve
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essere appunto assistito da un avvocato. Se ci sono figli, l’accordo


raggiunto deve essere trasmesso al procuratore della Repubblica
presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’ac-
cordo risponde all’interesse dei figli, lo autorizza; quando ritiene
che non risponde all’interesse dei figli, lo trasmette al presidente
del tribunale, che convoca le parti per discuterne (art. 6, d.l. 12
settembre 2014, n. 132).
Infine, le parti possono sottoporre direttamente al giudice il loro
accordo, anche senza l’assistenza di avvocati. Il giudice (anche in
questo caso, il presidente del tribunale) deve decidere se omologare
l’accordo. Quando l’accordo relativamente all’affidamento e al
mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi il
giudice può indicare alle parti le modificazioni da adottare e, in
caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione
(art. 158 c.c.).
Se le parti non sono d’accordo sulle condizioni della separazio-
ne, si fa luogo alla separazione giudiziale. In questo caso, è il
giudice a regolare i rapporti tra le parti. Una delle questioni più
importanti riguarda ovviamente l’affidamento dei figli; poiché
tuttavia le regole sono le stesse anche in caso di separazione delle
coppie di fatto, se ne tratterà nel paragrafo dedicato alla filiazione.
Per quanto riguarda invece i rapporti tra i coniugi, il giudice può
stabilire a vantaggio di un coniuge il diritto di ricevere dall’altro
coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, “qualora egli
non abbia adeguati redditi propri”; l’entità di tale somministrazione
è determinata “in relazione alle circostanze e ai redditi del-
l’obbligato” (art. 156 c.c.). In pratica, la giurisprudenza ritiene che,
durante la separazione, l’assegno di mantenimento a favore del
coniuge che non ha adeguati redditi propri dovrebbe,
tendenzialmente, essere sufficiente a garantire il mantenimento dello
stesso tenore di vita goduto durante la convivenza (naturalmente,
purché ciò sia possibile: ad esempio, le maggiori spese connesse al
vivere in case diverse potrebbero costringere entrambi i coniugi ad
abbassare il loro tenore di vita).
La separazione non implica che vi sia una colpa da parte di uno
dei due coniugi: basta semplicemente che, anche per ragioni
indipendenti dalle colpe dell’uno o dell’altro, la prosecuzione della
convivenza si riveli di fatto intollerabile. Tuttavia, la legge prevede
che il giudice possa dichiarare, “ove ne ricorrano le circostanze e
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ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione,


in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che
derivano dal matrimonio” (art. 151 c.c.). Dunque, il giudice può
addebitare la separazione a quello dei coniugi che, violando uno
dei doveri coniugali, abbia in concreto provocato la separazione.
Non basta, dunque, la violazione dei doveri coniugali: occorre
anche che il giudice si convinca che essa è stata la causa della
separazione. Se ad esempio un episodio di infedeltà coniugale
interviene in una fase di avanzato deterioramento del rapporto, il
giudice potrebbe convincersi che, pur essendo sicuramente stati
violati i doveri coniugali, non vi è un rapporto di causalità con la
separazione.
Il coniuge a cui sia stata addebitata la separazione è escluso dal
diritto al mantenimento. Tuttavia, la legge precisa che “resta fermo
l’obbligo di prestare gli alimenti” (art. 156 c.c.). Dunque il coniuge
non ha diritto ad essere mantenuto nello stesso tenore di vita
goduto durante la convivenza, ma ha comunque diritto agli alimenti
se dovesse versare in stato di bisogno. Inoltre, mentre
normalmente, fino al divorzio, i coniugi separati conservano i loro
reciproci diritti successori, il coniuge a cui è stata addebitata la
separazione perde i diritti successori (art. 548 c.c.).
Si noti che l’addebito incide in modo asimmetrico sulla
situazione dei coniugi, quando fra loro esista un dislivello
economico. Il coniuge che ha un patrimonio e un reddito superiori
in ogni caso non avrebbe il diritto al mantenimento (e d’altra parte
probabilmente non è troppo interessato ai diritti successori nei
confronti dell’altro). Il che significa in pratica che l’addebito
produce conseguenze importanti solo se riguarda il coniuge meno
benestante (il quale, senza l’addebito, avrebbe diritto al
mantenimento). Peraltro, nei casi più gravi di violazione dei doveri
coniugali, la giurisprudenza attualmente ammette che la vittima
possa chiedere il risarcimento dei danni non patrimoniali. Tuttavia
si ritiene che ciò sia possibile solo a fronte di comportamenti che,
oltre che violare i doveri coniugali, finiscono col tradursi in una
vera e propria lesione dei diritti della persona: si pensi ad esempio
a manifestazioni di infedeltà plateali e degradanti per la dignità del
coniuge, oppure alla protratta e completa omissione di qualsiasi
forma di assistenza morale nei confronti del coniuge che si trovi in
condizioni di grave debolezza psicologica.
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Dopo un certo periodo di tempo (sei mesi in caso di separazione


consensuale; dodici mesi in caso di separazione giudiziale) è
possibile ottenere lo scioglimento del matrimonio (o la cessazione
degli effetti civili del matrimonio concordatario).
Secondo la legge “con la sentenza che pronuncia lo scioglimen-
to o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale,
tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della
decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno
alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di
ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati
tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del
matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare
periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo
non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per
ragioni oggettive” (art. 5, legge 1° dicembre 1970, n. 898).
Se durante la separazione è sostanzialmente pacifico che l’asse-
gno debba essere quantificato in modo da consentire al coniuge, al-
meno tendenzialmente, di mantenere il tenore di vita goduto durante
la convivenza, i criteri per determinare l’assegno divorzile sono
meno chiari. In sostanza, si può dire che la giurisprudenza oscilla tra
una tesi più generosa, che almeno tendenzialmente fa riferimento al
tenore di vita goduto durante il matrimonio, salvo ammettere una
riduzione dell’assegno in circostanze particolari (come nel caso di
gravi colpe rispetto alla separazione, oppure di matrimonio di durata
particolarmente breve), e una tesi che invece fa riferimento a un
concetto più restrittivo di mera autosufficienza economica del
coniuge, salvo eventualmente ammettere una liquidazione più
generosa in circostanze particolari (quando ad esempio si dimostri
che uno dei coniugi ha rinunciato alle proprie prospettive lavorative
per poter meglio contribuire alla conduzione familiare, così
facilitando anche la crescita lavorativa dell’altro).
L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al
quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
Per quanto riguarda l’unione civile, la legge 20 maggio 2016, n.
76 stabilisce che essa si scioglie “quando le parti hanno manifestato
anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi al-
l’ufficiale dello stato civile”; in tale caso “la domanda di
scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla
data della manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione”.
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Dunque lo scioglimento dell’unione civile, per il quale la legge


rinvia alle regole sul divorzio, fa seguito ad una procedura più
snella della separazione e richiede un tempo minore.

4. La filiazione

Distaccandosi da una tradizione che ha sempre visto con


disfavore i figli nati fuori dal matrimonio, oggi la legge proclama
solennemente che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” (art.
315 c.c.).
Dunque gli effetti della filiazione sono identici; tuttavia, con ri-
guardo alla fattispecie che dà luogo ad un rapporto di filiazione
giuridicamente rilevante il diritto detta regole diverse a seconda
che la madre sia coniugata o meno. Tutte queste regole si
caratterizzano comunque per il fatto che, seppure la filiazione
biologica sia di norma il presupposto di quella riconosciuta dal
diritto, tale coincidenza non è perfetta, ma è limitata da una serie di
regole che limitano l’accertamento della prima e fanno prevalere,
in determinati casi, altri indici per stabilire la seconda.
Iniziamo a notare che di solito la madre è nota. Tuttavia, la
legge stabilisce che la dichiarazione di nascita deve rispettare “l’e-
ventuale volontà della madre di non essere nominata” (art. 30,
d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396). Se la madre non vuole essere
nominata si stende un velo quasi impenetrabile intorno al suo
rapporto biologico con il figlio, che non potrà più essere sollevato,
se non con il consenso della madre stessa, come vedremo nel
prossimo paragrafo parlando dell’adozione.
Parliamo, invece, del caso (normale) in cui la dichiarazione di
nascita nomina la madre. A questo punto le regole sono diverse a
seconda che la madre sia sposata o no.
Se è sposata, il marito si considera padre del figlio nato o
concepito durante il matrimonio (art. 231 c.c.). Se il figlio nasce
dopo lo scioglimento del matrimonio, “si presume concepito
durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora
trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello
scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”
(art. 232 c.c.).
Dunque, se il bambino nasce durante il matrimonio o entro tre-
Il diritto della famiglia 100

cento giorni dal suo scioglimento si presume che il marito della


madre sia il padre. Questa presunzione può essere superata solo a
seguito di un’apposta azione (azione di disconoscimento della
paternità). Questa azione può essere promossa solo dalla madre,
dal presunto padre o dal figlio stesso. Dunque, solo questi soggetti
possono far valere un’eventuale divergenza tra il reale dato
biologico e quanto risulta secondo le presunzioni stabilite dalla
legge. In particolare, poi, si deve notare che l’azione non può mai
essere proposta dalla madre o dal presunto padre oltre cinque anni
dal giorno della nascita; l’azione di disconoscimento della paternità
è invece imprescrittibile riguardo al figlio (art. 244 c.c.). In pratica,
la realtà sociale che si forma se non viene proposta tempestivamente
l’azione di disconoscimento della paternità può essere superata solo
attraverso un’azione del figlio. Nessun altro soggetto (il vero padre
biologico, o un parente che intende tutelare i suoi diritti successori)
può rimettere in discussione la situazione che si viene a creare nel
momento in cui i risultati che conseguono dalle presunzioni
stabilite dalla legge siano accettati sia dalla madre che da suo
marito.
Invece, “il figlio nato fuori del matrimonio può essere
riconosciuto (…) dalla madre e dal padre, anche se già uniti in
matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento” (art. 250
c.c.). “Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è
fatto nell’atto di nascita, oppure con una apposita dichiarazione,
posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale
dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento” (art. 254
c.c.).
Dunque il rapporto di filiazione si stabilisce con il
riconoscimento. Il riconoscimento viene qualificato come un atto di
scienza (cioè, di conoscenza), e non di volontà. Infatti, “il ricono-
scimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore
del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque
vi abbia interesse” (art. 263 c.c.). Cioè, in altre parole, se il
riconoscimento non è conforme alla verità biologica, si può
impugnarlo e porne gli effetti nel nulla.
Tuttavia, anche rispetto al riconoscimento non è sempre decisiva
la verità biologica. Innanzitutto, la legge stabilisce che “il
riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non
produce effetto senza il suo assenso” (art. 250 c.c.). Dunque si
Il diritto della famiglia 101

ritiene che il minore che abbia almeno quattordici anni possa


valutare se sia o meno nel suo interesse accettare il tardivo
riconoscimento da parte del genitore biologico. Il riconoscimento del
figlio che non ha compiuto i quattordici anni “non può avvenire
senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il
riconoscimento”; anche in questo caso però a orientare il genitore
che ha già riconosciuto deve essere l’interesse del minore (e non già
la propria personale ostilità verso l’altro genitore); infatti, secondo la
legge, “il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse
del figlio” e “il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il
consenso dell’altro genitore sia rifiutato”, può ricorrere al giudice
(art. 250 c.c.).
In secondo luogo, la legge stabilisce che “in nessun caso è am-
messo un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la
persona si trova” (art. 253 c.c.). Dunque, in pratica, se il figlio na-
sce all’interno di una coppia sposata, e nessuna delle persone a ciò
abilitate (il presunto padre, la madre e il figlio) provvedono a
promuovere l’azione di disconoscimento della paternità, al padre
biologico è precluso il riconoscimento del figlio.
Se manca uno spontaneo riconoscimento, la paternità può essere
giudizialmente dichiarata (c.d. dichiarazione giudiziale di
paternità). La prova può essere data con ogni mezzo (art. 270
c.c.). L’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la
paternità può essere promossa dal figlio oppure, nell’interesse del
figlio ancora minore, dal genitore che esercita la responsabilità
genitoriale o dal tutore (art. 270 c.c.).
Fin qui si è parlato delle fattispecie in presenza delle quali esiste
un rapporto di filiazione giuridicamente rilevante (nascita da una
coppia sposata, riconoscimento, dichiarazione giudiziale di
paternità). Dobbiamo ora esaminare gli effetti che conseguono da
questo rapporto, e dunque i reciproci diritti e doveri dei genitori e
del figlio.
“Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e
assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità,
delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (art. 315-bis
c.c.). Rispetto al passato, la legge oggi insiste sulla necessità di
tenere conto delle opinioni e aspirazioni del minore: si prevede
infatti che “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e
anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di
Il diritto della famiglia 102

essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo


riguardano” (art. 315-bis c.c.). Dunque, il giudice, quando deve
intervenire, ma innanzitutto gli stessi genitori, dovrebbero acquisire
l’opinione del minore su tutte le decisioni che lo interessano e
tenerne conto (purché sia “capace di discernimento”: dunque non
necessariamente in grado di decidere da solo, ma comunque capace
almeno di comprendere i termini delle questioni che lo riguardano).
D’altra parte, “il figlio deve rispettare i genitori e deve
contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze
e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive
con essa” (art. 315-bis c.c.).
Per quanto riguarda il diritto al mantenimento del figlio, esso
non cessa con la maggiore età, ma solo con il raggiungimento di
una condizione di indipendenza economica, che, secondo la
giurisprudenza, si verifica con la percezione di un reddito
corrispondente alla professionalità acquisita attraverso i suoi studi;
il diritto al mantenimento viene meno, però, se il figlio, divenuto
maggiorenne, è stato posto nelle concrete condizioni per potere
essere economicamente autosufficiente, senza averne approfittato
per sua colpa o per sua scelta. Dunque il figlio ha diritto ad essere
mantenuto durante gli studi ed anche oltre finché non trova
occasioni di lavoro coerenti con il suo percorso formativo; il diritto
al mantenimento viene meno però se il figlio rinuncia ad
occasioni di lavoro adeguate, per pigrizia o per coltivare
ambizioni velleitarie.
La situazione giuridica dei genitori nei confronti del figlio prende
il nome di responsabilità genitoriale. “Entrambi i genitori hanno la
responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo
tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle
aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la
residenza abituale del minore” (art. 316 c.c.). “Nel caso di
lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda
impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità
genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro” (art. 317
c.c.).
I genitori, o quello di essi che eserciti la responsabilità
genitoriale, “rappresentano i figli (…) in tutti gli atti civili e ne
amministrano i beni” (art. 320 c.c.). Dunque i genitori hanno una
generale rappresentanza per tutti gli atti che riguardano il figlio e se
Il diritto della famiglia 103

questo si trova ad avere un patrimonio autonomo (ad es. per averlo


ereditato da un altro parente) ne amministrano i beni in suo nome.
In alcuni casi i genitori hanno bisogno, per atti che rischiano di
pregiudicare l’interesse del minore, di acquisire l’autorizzazione
del giudice: ad esempio per “alienare, ipotecare o dare in pegno i
beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo” (art. 320 c.c.).
In caso di separazione della coppia (non importa se sposata o di
fatto) il giudice deve decidere in ordine all’affidamento dei figli. In
ordine a tale scelta, la legge stabilisce innanzitutto che “il giudice
adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all’interesse morale e materiale di essa” (art. 337-ter c.c.). In
pratica, questo significa soprattutto che il giudice non deve, quando
adotta i provvedimenti relativi alla prole, tener conto di aspetti
legati ai rapporti interni alla coppia: ad esempio, l’eventuale
addebito della separazione non potrà mai essere circostanza
rilevante rispetto all’affidamento dei figli, in quanto le violazioni
dei doveri coniugali non dimostrano, di per sé, l’inidoneità di chi le
ha poste in essere come genitore.
Inoltre, la legge stabilisce che il giudice deve disporre “l’ascolto
del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età
inferiore ove capace di discernimento” (art. 337-octies).
Ovviamente questo non significa che l’opinione del minore sarà
necessariamente decisiva in ordine all’affidamento; ma il giudice
deve comunque acquisirla, e il mancato ascolto del minore, se non
adeguatamente motivato, è motivo di impugnazione della decisione
del giudice. Si ritiene che il giudice possa comunque motivare il
mancato ascolto del minore nei termini del suo stesso interesse (si
pensi ad esempio a situazioni di particolare fragilità del minore,
oppure a separazioni molto conflittuali). Va da sé che quanto più
l’età del minore è avanzata, tanto più il giudice dovrà in pratica
tenere conto delle sue preferenze.
Il giudice valuta “prioritariamente la possibilità che i figli
minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a
quale di essi i figli sono affidati” (art. 337-ter c.c.). Il c.d.
affidamento condiviso è dunque la soluzione privilegiata dalla
legge. “Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo
dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che
l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore” (art.
337-quater c.c.). Dunque l’affidamento esclusivo potrà essere
Il diritto della famiglia 104

disposto solo ove si possa argomentare nella decisione che


l’affidamento esclusivo è contrario all’interesse dei figli; il che
coinciderà, perlopiù, con i casi di grave inidoneità genitoriale,
mentre è più controverso, in giurisprudenza, se si possa far ricorso
all’affidamento esclusivo anche in casi diversi, come quello di
conflittualità grave e insanabile tra i genitori.
In caso di affidamento condiviso, “la responsabilità genitoriale è
esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse
per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla
scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune
accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e
delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è
rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di
ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori
esercitino la responsabilità genitoriale separatamente” (art. 337-
ter). Il giudice “determina i tempi e le modalità della loro presenza
presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui
ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura,
all’istruzione e all’educazione dei figli”: infatti l’affidamento
condiviso non comporta che i figli debbano trascorrere una quantità
di tempo equivalente con entrambi.
In caso di affidamento esclusivo, il genitore cui sono affidati i
figli “ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di
essi”; tuttavia, “salvo che non sia diversamente stabilito, le
decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi
i genitori”. Il genitore non affidatario non perde la responsabilità
genitoriale, anche se non la esercita: il genitore “cui i figli non sono
affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed
educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state
assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse” (art. 337-
quater).
Indipendentemente dalla soluzione adottata in ordine all’affida-
mento, ciascuno dei genitori deve provvedere “al mantenimento dei
figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice
stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodi-
co al fine di realizzare il principio di proporzionalità”, consideran-
do ad esempio i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le
risorse economiche di entrambi, la valenza economica dei compiti
domestici e di cura assunti da ciascun genitore (art. 337-ter c.c.).
Il diritto della famiglia 105

Dunque, di norma il genitore presso cui i figli trascorreranno la


maggior parte del tempo riceverà un assegno periodico volto al
mantenimento dei figli stessi (e che resta ovviamente
completamente distinto dall’eventuale assegno che lo stesso
coniuge potrà ricevere per il proprio mantenimento, nei casi di
separazione e di divorzio).
Resta da parlare dell’attribuzione del diritto a continuare ad
abitare nella casa familiare. Per casa familiare si intende quella in
cui la famiglia ha abitato durante la convivenza. Ovviamente, essa
può appartenere ad uno dei due genitori o essere comune. Secondo
la legge, “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo
prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (art. 337-septies
c.c.). In pratica, la giurisprudenza legge la disposizione in questo
modo: solo se vi sono figli, e se essi abiteranno prevalentemente
con uno dei due genitori, è possibile attribuire a quel genitore il
godimento della casa familiare, anche se appartiene all’altro o è di
proprietà comune (altrimenti, la casa resterà al suo proprietario o
sarà oggetto di divisione tra i coniugi). Si intende in questo modo
proteggere il diritto dei figli a conservare il c.d. “habitat familiare”,
e con esso le abitudini e frequentazioni sviluppate fino al momento
della separazione. “Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella
regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato
l’eventuale titolo di proprietà”. In altre parole: se uno dei due
coniugi è proprietario o comproprietario della casa assegnata
all’altro, si deve tenere conto di questo nella determinazione di un
eventuale assegno di mantenimento: infatti il godimento della casa
comune o di sua proprietà costituisce di per sé un significativo
contributo al mantenimento dell’altro coniuge e dei figli.
L’assegnazione della casa familiare prosegue fino al con-
seguimento dell’indipendenza economica da parte dei figli.
Fin qui si sono menzionati casi in cui uno dei genitori non e-
sercita la responsabilità genitoriale (per incapacità o lontananza, o
perché si ha un affidamento esclusivo), ma non la perde. La
responsabilità genitoriale, però, si può anche perdere. Infatti, il
codice civile prevede la decadenza dalla responsabilità
genitoriale. Secondo l’art. 330 c.c., “il giudice può pronunziare la
decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola
o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con
grave pregiudizio del figlio”. Dunque la decadenza si può avere sia
Il diritto della famiglia 106

in seguito ad un comportamento attivo (ad es., gravi maltrattamenti


del minore), sia in seguito a una grave e prolungata trascuratezza.
Il codice prevede, inoltre, che “quando la condotta di uno o di
entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di
decadenza prevista dall’art. 330, ma appare comunque
pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può
adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre
l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero
l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa
del minore” (art. 333 c.c.). Si tratta di quei casi in cui vi è un
rischio di pregiudizio per il minore ma non c’è ragione di
pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale: Si può
pensare, ad esempio, a genitori che per ragioni religiose rifiutino
determinati trattamenti sanitari necessari per la sopravvivenza del
figlio (il rifiuto di cure per ragioni religiose è certamente legittimo,
come vedremo nel settimo capitolo, ma solo per sé stessi). Il
giudice in questo caso potrà autorizzare i trattamenti sanitari,
eventualmente disponendo un temporaneo allontanamento dalla
residenza familiare del minore se questo è necessario.
Quando i genitori non ci sono o per qualsiasi ragione non
possono esercitare la responsabilità genitoriale è prevista la nomina
di un tutore. “Se entrambi i genitori sono morti o per altre cause
non possono esercitare la responsabilità genitoriale, si apre la
tutela” (art. 343 c.c.). Il tutore dovrebbe essere preferibilmente
scelto nella persona “designata dal genitore che ha esercitato per
ultimo la responsabilità genitoriale” (si pensi al caso in cui il
genitore è consapevole del proprio futuro stato di incapacità)
oppure tra gli ascendenti o tra gli altri prossimi parenti o affini del
minore; in ogni caso, la scelta deve cadere su persona idonea
all’ufficio e di ineccepibile condotta (art. 348 c.c.). Prima di
procedere alla nomina del tutore, il giudice deve ascoltare il minore
che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove
capace di discernimento. “Il tutore ha la cura della persona del
minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni”
(art. 357 c.c.). Svolge, in sostanza, un ruolo corrispondente a quello
dei genitori, anche se è sottoposto a maggiori controlli da parte del
giudice.

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