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PROVENZA OSCURA

Le correnti del tempo.

Mario Scotto

Sulla copertina: Tango rosso, olio su tela di M. Scotto.


2004

Sulla casa che lo aveva ospitato a Torino, la Domus


Morozzo, c’era una lapide che diceva:
1556
Nostre Damus a loge ici
On il ha le paradis lenfer
Le purgatoire. Ie ma pelle
La victoire qvi mhonore
Avra la gloire qvi me
Meprise ovra la
Rvine intiere

“ Nostradamus ha alloggiato qui, dove c’è il Paradiso, L’Inferno


e il Purgatorio. Io mi chiamo la Vittoria. Chi mi onora avrà la
gloria; chi mi disprezza avrà la rovina intera”.

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Salon de Provence, primo luglio 1566
Il vecchio seduto allo scrittoio sollevò per un attimo la
penna d’oca dal foglio: la fitta straziante che lo aveva colpito
era stata talmente forte, da rendergli quasi impossibile
proseguire. Si toccò la gamba posata su un piccolo sgabello e
guardò con pena il piede enfiato e deformato dall’attacco di
gotta. Nemmeno la pozione a base di belladonna e laudano
aveva più effetto sui dolori, e questo gli fece comprendere che la
malattia era giunta nella fase terminale.
In una pausa del dolore socchiuse gli occhi, e rivide la città
straniera che più d’ogni altra aveva amato nella sua vita: Torino.
Quella che gli aveva donato la Grande Opera e nello stesso
tempo, lo aveva caricato di un fardello quasi insostenibile, la
Precognizione. In quei giorni luminosi, che lui avrebbe voluto
non avessero mai termine, aveva conosciuto Margherita di
Savoia. Ancora oggi, dopo tanti anni, ricordava quel viso la cui
bellezza lo aveva talmente colpito, da farlo uscire dall’abituale
riservatezza. Risentì le sue esclamazioni di gioia, all'annuncio
che dalle sue divinazioni risultava che avrebbe avuto un figlio, e
che sarebbe stato un grande condottiero. Come in seguito era
avvenuto.
Si ritrovò, come in sogno, all’interno dei cunicoli che
percorrevano Torino in lungo e in largo e - come illuminate da
un lampo – rivide le Grotte Alchemiche. Ormai sapeva che a
tutto ciò che aveva appreso al loro interno, mancava solo una
rivelazione, l’ultima. Quella che avrebbe avuto tra poche ore
dinnanzi al Sommo Artefice, che nei suoi imperscrutabili
disegni, gli aveva donato la profezia, ma per qualche misteriosa
ragione, aveva lasciato che i suoi nemici lo avvelenassero.
Del resto, l’idea di vivere per sempre, di avere davanti
infiniti giorni che gli avrebbero fatto sperimentare l’Eterno

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Ritorno da lui preconizzato, lo aveva sempre spaventato. Gli
uomini compiono sempre gli stessi errori e può essere
estremamente noioso alla fine, occuparsi di loro. Rivolse lo
sguardo al foglio che aveva appena vergato con le parole “hic
prope mors est”: ecco, la mia morte si avvicina. A fianco di
questa scritta, aveva pure tracciato le effemeridi che
rappresentavano la posizione dei vari pianeti nel giorno della
sua nascita. Anche se loro non gli avessero mostrato così
chiaramente che il primo di luglio non avrebbe più rivisto il
sole, il male che da giorni si faceva strada in lui attraverso il
veleno con cui l’avevano colpito, sarebbe stato altrettanto
preciso.
Allungò la mano sinistra sino a toccare il monile posato
accanto al candelabro. Le tre spirali che rappresentavano il
passato, il presente ed il futuro, gli diedero la forza di terminare
il suo diario, che ormai era arrivato alla fine. Si guardò intorno
alla piccola stanza in cui aveva operato per gran parte delle notti
passate a Salon. Su un ripiano stava il suo astrolabio e, un poco
più a lato, il tripode di bronzo in cui era contenuto lo zolfo che
usava per creare le piccole fiammelle, che il suo grande amico
Paracelso chiamava salamandre, necessarie a procurargli le
visioni. Il suo sguardo si spostò verso la fiamma della candela e
come sempre si perse in essa; segno che stava per avere una
premonizione. Arrivava lentamente, dapprima sfuocata, poi via
via più nitida fino a divenire un quadro colorato e dettagliato di
avvenimenti collocati nel passato o nel futuro. In questo modo
aveva visto civiltà scomparse da millenni, continenti inghiottiti
dalle acque degli oceani e creature aliene non di questo mondo.
L’immensa piramide di Cholula, i giardini pensili di Babilonia,
la piramide di Cheope, le aveva viste ergersi a sfidare il cielo
per poi divenire lentamente, uno spoglio e deserto, ammasso di
pietre.
Questa volta vide i due punti di una retta, congiungersi

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sino a formare un cerchio che racchiudeva un enorme ammasso
di stelle. Intuì che quella che stava vedendo, era la galassia che
comprendeva la Terra. Collegò mentalmente questo punto, come
avevano fatto i Maya molti secoli prima di lui, con il centro del
globo terrestre e vide gli 8 raggi, simbolo del tempo che sta per
finire. Percepì con chiarezza che nei primi anni del secondo
millennio, i due punti, quello del centro della galassia e quello
della Terra, avrebbero corrisposto: quel giorno, sarebbe iniziata
una nuova era, quella dell’Aquario. Inaspettatamente, sullo
sfondo della volta stellare prese ad ingrandirsi il tredicesimo
segno zodiacale, quello che lui aveva scoperto. Teneva in mano
un serpente, simbolo del male, ed il suo nome era Ofiuco.
All’alba del due luglio, Michel de Nostredame era morto.

Avignon de Provence, agosto 2014

Per la sua architettura e per i molti punti in comune con


Torino, la sua città, Tolosa aveva colpito Marco sin dal primo
momento. Non per la facile rima, ma per il colore dei suoi
edifici, è detta “la rosa” e Torino, dopo la rinascita apportata dal
nuovo millennio, è detta nuovamente “la gialla”. Come Torino è
attraversata da un fiume, la Garonna, e come Torino è una città
di contrasti, che sembrano coesistere senza alcun problema. È la
sede di una delle più antiche Accademie di Francia, l’Académie
des Jeux Floraux (che dal 1300 istituisce premi prestigiosi per
la poesia) e, nello stesso tempo, è sede dell’Accademia dell’Aria
e dello Spazio. Poesia ed alta tecnologia.
Del resto, molti poeti sono stati aviatori o amanti del volo,
da Dannunzio a Marinetti. Sicuramente, pensava Marco

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guardando verso il cielo, lo era Antoine de Saint-Exupéry, il
poeta aviatore che solo una stupida diceria può far credere sia
scomparso. Secondo lui in realtà è ancora - e per sempre - al
comando del suo Lightning P-38 detto il “fulmine”. Impegnato
nell’ultimo volo di ricognizione tra la Corsica e Marsiglia, un
volo senza fine, senza scali, finalmente sollevato dalla necessità
di fare rifornimento. La cloche bloccata da nastro adesivo, per
avere le mani libere e per poter terminare la stesura del suo
Piccolo Principe. Oppure per scrivere, in una lettera alla sua
adorata moglie argentina Consuelo: “Je voudrais vous abriter, je
voudrais simplement vous dire que je vous aime”: Vorrei
proteggerti, vorrei semplicemente dirti che ti amo. Forse in quel
cielo immaginario solcato da tutti gli aerei fantasma del mito del
volo, tra le pause della scrittura, intravede passare lassù in alto
una scia, come un lampo rosso. Ripresi i comandi può inseguire
e sfidare, ormai per l’eternità, l’inafferrabile Barone Rosso,
Manfred Von Richtofen.
Molto più reale e immensamente più veloce è la scia del
Concorde, progettato e costruito a Tolosa in hangar da
fantascienza e con tecnologie spaziali. Come Torino, che viene
detta la città magica, convive con le costruzioni aereospaziali
dell’Alenia, Tolosa fa convivere la tecnica, con antichi miti
celtici e occulti rituali esoterici, per iniziati all’arcano.
Giunto ormai al termine delle sue ricerche sulla crociata
contro i Catari, Marco si era convinto che sotto l’apparenza di
modernità, Tolosa celasse un’altra città nascosta, cupa e oscura,
di cui nessuno amava parlare. Perché grondava ancora sangue
innocente, versato o fatto versare, dai preti cattolici. Le stesse
mura, lo stesso cielo azzurro, dove in quel momento si
rincorrevano piccole nuvole spinte dalla leggera brezza che
giungeva dal Mediterraneo, avevano visto nascere la magnifica
utopia dei Catari o Albigesi. Quella che aveva creato, prima di
essere annientata, uno stato occitano-catalano che si estendeva

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dal Piemonte all’Atlantico. Accomunato e unificato da una sola
lingua - la linguadoca - e da una fede che si rifaceva
direttamente al cristianesimo delle origini, senza intermediari.
Approfondendo la loro conoscenza, Marco aveva scoperto una
comunità di persone che non credeva nella proprietà di beni
materiali e pensava che l’Uomo e la Donna costituissero una
cosa sola, l'Essere Umano. Un concetto di una modernità
sconvolgente.
Un altro personaggio eccezionale, che aveva colpito Marco
particolarmente, era l’uomo che aveva scoperto in un libro di
storia locale; nella fotografia che lo ritraeva pareva alto e
asciutto, apparentemente molto vigoroso, mentre sosteneva una
lampada rivolta verso la parete di una grotta, ricoperta di
graffiti. Il volto di uno studioso, con i capelli tirati all’indietro
dalla moda del tempo, rischiarato però da un sorriso un poco
canzonatorio che lo rendeva affascinante; gli occhi sembravano
guardare oltre l’osservatore e la tentazione di voltarsi indietro
per cercare quello che lui vedeva, era molto forte. La didascalia
spiegava che si trattava di una sua esplorazione nelle grotte che
si trovano numerose intorno a Montségur; qui si pensava che i
Catari officiassero i loro riti, nascondendosi dalle persecuzioni
della Chiesa.
Archeologo, storico, esploratore, sognatore, Otto Rahn
aveva fatto della ricerca del Graal - che riteneva fosse la vera
Pietra Filosofale – il sogno di tutta la sua vita. Non per nulla
Spilberg si era ispirato a lui, per la figura di Indiana Jones. Per
di più, era convinto che i Catari avessero conservato il Graal
proprio a Montségur e che la crociata contro di essi fosse in
realtà la “Crociata contro il Graal” come scrisse nel suo primo
libro. Inoltre, era sicuro che la sede originaria del Graal fosse
Hyperborea, la mitica terra nordica da cui erano venuti gli
Ariani e che la cristianizzazione del mito l’avesse trasformato in
un calice sacro. Di tutto questo scrisse in un altro libro, che ebbe

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un grande successo editoriale e che, purtroppo per lui, attirò
l’interesse di Himmler, il capo delle SS. A questo punto la sua
magnifica avventura, che era iniziata appena conseguita la
laurea, si trasformò lentamente in tragedia.
Come spesso avviene, quella che a Otto Rahn pareva la
magnifica opportunità di continuare le sue ricerche con
finanziamenti e riconoscimenti forniti dal nuovo Istituto per la
cultura germanica, l’Ahnenerbe, diventò un incubo. Venne
aggregato al dipartimento “Razza e insediamenti” e nel 1936 fu
persuaso ad entrare nelle SS, di cui probabilmente sapeva
pochissimo, viste le sue reazioni successive. Appena il tempo di
illudersi di essere un moderno Cavaliere Templare e subito
venne catapultato in una serie di viaggi in Islanda e attraverso
l’Europa, alla ricerca di ipotetiche ascendenze ariane di
Himmler, di un santuario dedicato a Odino ed altre pazzie di
questo genere. Intanto la sua illusione che far parte delle SS
fosse solo occuparsi di ricerche archeologiche, si stava
brutalmente scontrando con la direttiva segreta di Hitler sulla
“soluzione finale del problema ebraico”. Quanto accadeva
intorno a lui, era ben lontano da quanto aveva sognato potesse
divenire il terzo Reich. Un “Nuovo Ordine” nel quale gli stati
europei prima e le altre nazioni poi, si sarebbero convertite al
credo Cataro, portando la pace nel mondo. Il suo raffreddarsi
verso l’ideologia nazista e le sue critiche, lo fecero cadere in
disgrazia e nel 1937 venne inviato in addestramento a Dachau e
a Buchenwald.
Quello che vide lo portò a scrivere a Himmler, per dare le
dimissioni dalle SS e inviargli un ultimo scritto sul Graal, di cui
non si conosce il contenuto. Pochi giorni dopo, il 16 Marzo
1939, fu ritrovato cadavere nelle nevi del Tirolo austriaco. Pochi
giorni prima aveva confidato ad un amico che si sentiva tradito
e che temeva per la sua vita: in una lettera aveva scritto quanto
pensava del nazismo: “C’è molta sofferenza nel mio paese.

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Quattordici giorni fa ero a Monaco. Due giorni dopo preferii
andarmene sulle montagne. Impossibile per un tollerante
liberale come me, vivere in una nazione come la mia
Germania”. Restava l’enigma di un uomo che aveva inseguito
per tutta la vita un sogno, che malauguratamente si incrociava
con la grande tragedia del nazismo e che, in definitiva, lo uccise
a soli 35 anni.
 Di certo c'è un fatto che ha sicuramente del misterioso: nel
giugno del 1944, la Pamzerdivision SS “Das Reich”, la più
famigerata delle divisioni corazzate di Hitler, abbandona la
difesa della Normandia invasa dallo sbarco alleato, cessa le sue
rappresaglie contro la resistenza francese e sale a Montségur.
Gli uomini che avevano avuto il coraggio di radunare tutti gli
abitanti della città di Oradour-sur-Glane, quasi 600 persone di
cui 250 bambini, in un parco dei divertimenti pubblico per
massacrarli tutti, avevano ora un solo ordine: scavare.
Marco passò tutta la giornata su quelle rocce, sentendo
l’eco lontana delle urla degli assedianti cristiani, il pianto dei
bambini Catari che morivano di fame per quella incrollabile e
indistruttibile fede, che aveva creato una grande illusione: che
almeno una volta e almeno in un luogo, gli uomini potessero
vivere in pace. Poi, con un salto in avanti di centinaia d’anni,
poteva vedere le divise nere dei Panzer Grenadier SS, aggirarsi
tra le macerie del castello per cercare la magica roccia che Otto
Rahn immaginava fosse il Graal. Mentre Himmler a Berlino
attendeva ansioso l’arma segreta che avrebbe donato loro
l’invincibilità. Prima di ridiscendere verso il parcheggio rivolse
un ultimo pensiero ai Catari e allo studioso sognatore e
avventuriero, che come tanti, aveva cercato un miraggio, l’isola
che non c’è.
Sulla strada del ritorno in albergo, incanalato nella coda di
rientro a Tolosa dell’ora di punta, fece il punto sulla situazione e
si accorse che le sue ricerche, perdendo di vista la storia

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ufficiale, erano divenute sempre più confuse. Del resto, era già
accaduto a Mark Twain molti anni prima di lui e negli stessi
archivi francesi, mentre si documentava per il suo romanzo
storico su Giovanna d’Arco. Nei meandri della storia di quella
terra e nella sua ricchezza culturale, era facile perdersi. Forse
era meglio fare una pausa. Il suo buon senso, aggredito da tutti
quelle storie esoteriche, gli stava inviando forti segnali di
allarme. Prima di tornare a Torino, quindi, decise di concedersi
un fine settimana di riposo. Da molto tempo voleva rivedere i
luoghi in cui anni prima aveva scritto una biografia di Van
Gogh, e tornare ad Avignone.
Quindi il giorno dopo, mentre il sole già basso
sull’orizzonte, arrossava le mura degli antichi palazzi della città
papale, si trovò a ripercorrere a piedi l’ampia Rue de la
Republique. Felice di poter fare, come diceva Baudelaire, il
Flâneur; cioè l’esplorazione pigra e priva di urgenza delle vie
cittadine. Quasi come se “si portassero al guinzaglio delle
tartarughe, lungo le vie di Parigi”.
Passeggiando lentamente ed osservando le persone che gli
passavano accanto, notò una donna alta, che camminava col
passo sicuro tipico di una francese ammirata e amata, da una
lunga serie di uomini. Non si poteva negare che fosse bella, di
quella bellezza prepotente, che oggi sta diventando il tratto
comune a molte donne. I capelli lunghi schiariti dal sole delle
spiagge del sud, il naso aristocratico, le labbra colorate di
carminio, la rendevano molto desiderabile. Le sue lunghe
gambe avevano il passo slanciato di una danzatrice e la sottile
gonna estiva metteva in risalto, il movimento armonioso delle
natiche. Tutto il suo procedere, sembrava frutto di un
meraviglioso equilibrio tra gli alti tacchi e il resto della sua
struttura. Indifferente agli sguardi di uomini e donne, si avviava
forse verso un appuntamento, una coppa di champagne, una
cena al lume di candela, chissà. Tra i trentacinque e i

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quarantacinque anni, chi poteva dirlo. Era sempre più arduo
attribuire un’età a quel tipo di donna; palestra, beauty farm e
chirurgia estetica, cambiavano tutti i canoni di giudizio e
contribuivano a farne un’arma letale vagante. Peraltro, al di là di
ogni considerazione, era stupendo seguirla e ammirarne la
femminilità, il profumo, il mistero. Con quella particolare abilità
che le donne sviluppano già nell’adolescenza, che consente loro
di ampliare il campo visivo sino a poter vedere chi le segue
senza muovere il capo, lei si accorse di essere seguita e, prima
di svoltare in una via laterale, sorrise alla vetrina che la
rispecchiava. Forse a Marco o forse compiaciuta, soltanto a sé
stessa.
Distaccandosi a malincuore da quell’immagine di
prorompente femminilità Marco si arrestò e, mentre la donna si
allontanava sul rumore cadenzato dei tacchi, osservò quanto la
vetrina gli rimandava. Un uomo alto, dai radi capelli
leggermente brizzolati, gli occhi che potevano passare dal grigio
dei giorni tristi, al verde dei giorni felici ed un sorriso un poco
canzonatorio, risultato di una lunga pratica nel saper sorridere di
sé stesso. A cinquant’anni compiuti, godeva ancora di una buona
forma fisica grazie al nuoto, al tennis ed al ballo. L’abitudine ad
essere misurato a tavola e la fortuna che sempre accompagna la
buona salute, gli permettevano di dimostrare almeno dieci anni
in meno. Il suo portamento, dovuto ad una naturale fisicità, lo
faceva essere elegante anche quando indossava abiti molto
pratici, come quel giorno.
Dopo aver cercato un albergo e dopo una cena leggera nel
ristorante marocchino di fronte, che aveva mantenuto la qualità
che lui ricordava, si chiese se tornare in albergo per cercare di
riordinare le sue ricerche sui Catari, oppure passeggiare ancora
per Avignone, arrivando sino alla Piazza dei Papi. Una scelta
apparentemente banale, una delle tante che si fanno giorno dopo
giorno. Per lui invece fu come se in quell’istante, si fossero

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affiancati due universi paralleli e alternativi, separati da una
Sliding Door. Il vecchio fato dei greci, il Destino Cieco. Nel
primo la porta scorrevole difettosa, gli avrebbe impedito di
prendere il metrò virtuale e lui sarebbe tornato in albergo per
lavorare al suo libro. Nel secondo, la porta si aprì e lui prese la
strada per la Piazza dei Papi, senza fermate, dove il destino lo
attendeva.

L’uomo seduto alla lussuosa scrivania in palissandro


indossava un vestito grigio antracite ed una cravatta blu in
maglia di seta. I folti capelli di un biondo slavato, molto spessi e
lunghi, sembravano più appartenere a qualche tipo di predatore
che ad un uomo, e contrastavano con i suoi lineamenti ascetici,
quasi cadaverici. La fronte alta e segnata sovrastava due occhi
infossati, di un grigio azzurro pauroso, disarmante. Le guance
erano scavate, la mascella sporgente e la bocca un solco diritto,
quasi senza labbra, come una ferita esangue. La linea delle
spalle, e il braccio che stava posando il cordless nella sua sede,
suggerivano una struttura vigorosa e asciutta, al limite della
magrezza. Le orecchie appuntite, senza lobi, indicavano un
carattere crudele ed egocentrico, ed una forte attitudine al
comando. Posato il telefono, spinse all’indietro la poltrona
dotata di rotelle, accavallò le gambe e iniziò a massaggiarsi le
tempie cercando di scacciare il forte pulsare che avvertiva dietro
l’occhio sinistro. Sentiva montare dentro di sé la tensione
dovuta allo sforzo, che si era imposto per controllare la rabbia
devastante che lo aveva preso nell’ascoltare al telefono, le
parole del medico. Ancora nulla di nuovo, ancora un fallimento.
Ancora non era riuscito a respingere per sempre, l’incubo del
freddo cerchio di luce fredda e nera, che avanzava verso di lui.
Nonostante gli anni di lotta, le cifre astronomiche spese nelle

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ricerche e nonostante i tremendi rischi corsi giorno per giorno,
di veder scoperta e distrutta la loro confraternita. Ancora
niente.
Lui e gli altri Eletti di cui era il capo, avevano riposto
grandi speranze in quell’esperimento, l’ultimo di una lunga serie
iniziata molti anni addietro, in un tetro castello della
Schwarzwald, la Foresta Nera. Da quel tempo molte cose erano
cambiate. Oltre a non indossare più la nera divisa delle SS,
disponeva di tecnologie avanzatissime e di scienziati di chiara
fama che, come allora, per denaro o per sete di carriera,
tradivano il giuramento di Ippocrate. Solo la materia prima oggi
era molto meno disponibile: bisognava sguinzagliare persone
poco affidabili, nelle baraccopoli e negli slums delle grandi
città, con il rischio enorme di compromettere la segretezza di
tutta l’operazione. Si alzò e si avvicinò alla finestra, scostò
ancor di più i vetri cattedrale e guardò in basso, verso la piazza.
Tutto era più difficile oggi e, nel contempo, più vicino. Ogni
giorno poteva essere quello giusto, quello in cui gli avrebbero
annunciato che l’ultimo esperimento era riuscito. Quello in cui
avrebbe ricacciato per sempre l’ombra nera che stava in agguato
aspettando la sua ora: per sempre, si disse e godé ancora una
volta, come aveva fatto molte altre volte, del suono di quella
parola.
Esaurito il benefico influsso delle Acque di Luce,
restavano solo potere e denaro, ad impedire che il cerchio di
luce nera lo agguantasse; questa volta per sempre. La Morte,
che un tempo scherniva portando con ostentazione il teschio
sulle mostrine da ufficiale delle SS, oggi lo terrorizzava oltre
ogni dire. Sentì l’antico odio che tutta la sua stirpe si portava
dentro per il Traditore, e iniziò a tremare violentemente. Le
Grotte perdute, la speranza nella Pietra trasmutatoria disillusa e,
come una lontana risata che irridesse tutti loro dalle pieghe del
tempo, le notizie sulle sporadiche apparizioni del Maledetto, di

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colui che aveva vinto il tempo. Aprì a fatica il secondo bottone
della camicia ed inserì la mano a cercare il medaglione che da
sempre portava al collo: lo fece passare al disotto della cravatta,
lo avvicinò alle labbra sfiorandole, poi lo fissò con
determinazione.
Come sempre, le tre spirali che vi erano riprodotte agirono
su di lui in maniera ipnotica. Lentamente sentì che l’ira lo
abbandonava e poté concentrarsi su quanto presentiva ormai da
qualche minuto. Una leggera corrente percorreva il suo cuoio
capelluto producendo un lieve rigonfiamento dei capelli che, se
non fossero stati così lunghi, si sarebbero drizzati letteralmente
sul capo. Come per i felini, questo era sempre stato per lui un
sintomo di pericolo. Attribuì questa sensazione all’incontro che
avrebbe avuto fra qualche ora: dunque il politico che stava
arrivando da Parigi, rappresentava una minaccia per lui e per la
confraternita. Doveva tenerne conto. Probabilmente si trovava
sull’autostrada nei dintorni di Valence, quindi aveva ancora
tempo per concentrarsi e preparare un piano.
Tempo, tempo, tempo… era sempre stata una questione di
tempo, sin dall’inizio. Una lotta continua, giorno dopo giorno,
minuto per minuto. Ma anche questa volta avrebbe vinto, perché
il premio finale non era soltanto, come in questo caso, una ricca
concessione governativa, no.
Il premio finale era “Per sempre”.

Giunto quasi al termine della Place de l’Horloge, Marco


sentì una musica lontana, pareva stranamente un tango
argentino. Avignone era famosa per le sue performance musicali
di tutti i generi, ma il tango argentino… in Provenza? Eppure,
non si sbagliava, il suono cadenzato che andava aumentando,

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che diveniva più distinto man mano che si avvicinava, era
quello di un’orchestra al completo e non di musicisti da strada.
Affrettò il passo incuriosito e con una piccola speranza dentro.
Non ballava da giorni e sarebbe stato magnifico trovare lì, ad
Avignone, una serata di tango… Dopo aver percorso la stretta e
sinuosa Rue Gerard Philippe, sbucò nell’ampio spiazzo che
porta all’ingresso del Palais des Papes e alla Piazza vera e
propria. Si fermò un attimo per imprimersi meglio nella mente
quel momento, mentre il ritmo dolce di un tango, dava lo sfondo
musicale a quella magnifica notte di agosto in Provenza.
Di fronte a lui sullo sfondo, stava il biancore della pietra
del Palazzo, reso ancora più imponente dalle luci provenienti
dal basso; a destra un’antica residenza signorile d’epoca a tre
piani, con le persiane chiuse. L’unica luce proveniva dall’ultimo
piano e illuminava un sontuoso soffitto a cassettoni che si
prolungava lungo tutta la facciata. Le finestre piombate erano
tutte chiuse, salvo una. Affacciato a questa, leggermente sporto
in avanti e teso ad osservavate la folla in basso, stava un uomo.
Quello che più colpiva in lui, nonostante la distanza, era il suo
atteggiamento. Un rapace che osserva un gregge di pecore per
individuare la prossima preda, avrebbe avuto la stessa maniacale
fissità, la stessa concentrata attenzione. I suoi occhi,
percorrendo lentamente la folla di turisti, si fermarono su quelli
di Marco e lui sentì, improvvisa, una stretta allo stomaco, un
lungo brivido di paura perché, pur essendo lontano, emanava da
quell’uomo una sorta di energia negativa, una malvagia volontà
predatoria. Solo con un grande sforzo di volontà riuscì a
staccarsene e si avviò verso la musica di un tango di Fresedo,
che in quel momento si propagava nella piazza.
Sforzandosi di non voltarsi verso la finestra alle sue spalle,
si diresse a sinistra e vide la spianata, che quella sera si era
trasformata in una milonga all’aperto. Sullo sfondo e a ridosso
delle mura, stava una fontana da cui si dipartivano due scalinate

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che salivano verso l'alto. Alcuni platani, alti e diritti verso il
cielo, chiudevano il grande e suggestivo rettangolo che
delimitava il ballo. Il gruppo di ballerini, muovendosi al suo
interno, dava forma ad una lenta rotazione, illuminata dalla luce
dei lampioni disposti tutto intorno.

Un ballo all’aperto ha sempre una sua magia, ma quella


Piazza era un superbo palcoscenico; la fontana fungeva da
fondale e le due scalinate convergenti formavano le quinte. La
luce tenue dei lampioni, la notte stellata ed una luna al massimo
splendore, lo rendevano unico. Con un poco di impazienza salì
gli ultimi cinque gradini che lo separavano dal ballo, mentre il
brano si avviava alla fine. Come per abitudine, osservò il finale
che le coppie stavano delineando e pensò che quella sera si
annunciasse bene; c’erano buoni ballerini perché quasi tutti
avevano chiuso l’ultima figura sull’ultima nota del tango. Come
molte altre sere, come ogni volta che entrava in una milonga,
provava una singolare aspettativa. Forse perché ogni sera
rappresenta un mistero, ogni notte ti può regalare i tanghi che
preferisci ed una nuova ballerina con cui condividerli. Il gruppo
più folto di ballerini era intorno alla fontana, il cui bordo molto
ampio, serviva alle donne da seduta. Vide alcuni tedeschi,
distinguibili dal colore dei capelli venati di ciocche biondissime
e dal colore acceso della pelle, più propensa alla scottatura che
all’abbronzatura. Alcune donne francesi spiccavano, nel gruppo,
per la loro vitalità ed energia e tra queste, un poco discosta,
stava lei.
La riconobbe subito, era la donna che aveva seguito
appena poche ore prima, chiedendosi dove fosse diretta. Ed ecco

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che la risposta era lì, davanti a lui. Approfittando della vicinanza
la guardò meglio di quanto avesse potuto fare nel pomeriggio.
Era alta, i capelli corti e di colore castano molto chiaro
rimandavano, sotto la luce dei lampioni, caldi riflessi luminosi;
il leggero sorriso nell’attesa di un invito, indicava il piacere di
essere lì quella sera. Fu quel sorriso a colpire Marco, perché era
quello di una donna che sapeva di avere fascino, fiera della sua
bellezza. Nel contempo tratteneva pure, come segno di una
lontana sofferenza, una minuscola contrazione all’angolo delle
labbra. Si avvicinò a lei, cercò i suoi occhi e quando si avvide
che anche lei lo guardava, le rivolse un cabezeo, quel leggero
movimento del capo in direzione del ballo, che nel tango dà alla
donna la possibilità di accettare o di negarsi. Distogliendo gli
occhi, non umilia con un rifiuto l’uomo che la invita. Lei diede
segno di gradire l’invito, muovendogli incontro verso la
spianata, che quella sera si era trasformata in una pista da ballo.
In quel momento, la musica di un tango di Osvaldo Pugliese
intitolato “A Evaristo Carriego”, si diffuse nella notte, tra i
ballerini e nelle vie che confluivano nella Piazza. Marco senti
come un presagio, il fatto che uno dei suoi tanghi preferiti,
accompagnasse il suo primo ballo con quella donna sconosciuta.
La guardò negli occhi e nello stesso tempo con il braccio
destro le cinse la vita, mentre le sue dita risalendo più in alto,
sentirono la leggera tensione del dorso, forse dovuta al primo
ballo della serata. Stese lentamente verso l’esterno il braccio
sinistro a cercare la sua mano, a trovarla intenta a cercare la sua
e la strinse leggermente, formando così un semicerchio. Unito a
quello formato dalle braccia di lei, completò il circolo ideale in
cui si muovono i ballerini di tango.
La strinse nell’abbraccio e sentì subito che il corpo di lei
aderiva al suo, sentì il suo abbandono in attesa delle sue
proposte: percepì attraverso la pelle che lei era pronta. Ruotò
leggermente il suo corpo verso destra e poi verso sinistra, per

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conoscere le sue reazioni, poi le infuse di colpo tutta la sua
energia. Iniziò con un’ampia apertura della gamba a sinistra per
seguire lo stesso ampio crescendo della musica: poi via con la
salida, l’uscita della gamba destra in avanti e all’esterno della
donna. Il momento della verità nel tango, in cui si può capire
l’intesa che si creerà tra i due.
Ancora un passo, un altro e lei va al cruze; il suo piede
sinistro incrocia il destro in un piccolo contro-tempo, prima che
il destro riparta ancora all’indietro. In una camminata lenta e
marcata, un passo ad ogni battuta del brano, dall’apertura del
pianoforte che lascia poi il posto ai violini, sino all’irrompere
del bandoneon. Seguendo il suo fraseggio con passi lunghi e
drammatici, sedici passi per sedici battute ed è ancora il
pianoforte a smorzare la tensione, a riportare la pausa. Un lento
ruotare indietro e intorno a lei che fa da perno, lasciando nel
contempo che il capo e le spalle restino vicini. Allontanare il
resto del corpo lentamente, fino a formare un arco nel quale lei
sembra quasi all’estremo punto di equilibrio, sembra piegarsi in
avanti, ma è solo il caricamento di una molla il cui rilascio
cederà l’energia per la successiva partenza. Il suo piede si
insinua tra i suoi, si arresta contro il destro, attende il cambio
del peso per sospingerlo indietro in una barrida sensuale carica
di “presenza”. Il gioco si ripete, il pianoforte ed il bandoneon si
alternano nel fraseggio, il colore della musica va verso il rosso
vermiglio, l’ocra, il bruno.
La sua tensione si sta sciogliendo - pensò Marco - risponde
benissimo ai lievi segnali che le trasmette la mia mano, si è
stabilita subito un’intesa. Ed è bellissimo, quasi inebriante,
questo continuo passaggio dalla quiete al movimento, sentendo
con tutto il corpo lei, il pavimento, gli altri ballerini e la musica,
la musica tutta intorno. Provare quanto c’è di più raro nel tango:
l’intesa perfetta. Emozionato da questo pensiero, assecondò
dolcemente il finale del brano con un semplice passo indietro e,

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portandola in avanti verso di sé, ruotò un poco in una quebrada,
una torsione che le fece posare tutto il corpo contro il suo. Sentì,
nel chiudersi di quel del tango, la rara, meravigliosa sensazione
di completezza fisica, come se le due metà di una moneta, a
lungo separate, ricongiungendosi avessero finalmente ritrovato
il loro valore originale, la loro funzione. Pensò che,
incredibilmente, ogni parte di sé stesso veniva completata da
quell’abbraccio, come se la sua figura fosse stata disegnata e
realizzata sul progetto del corpo di lei.
La guardò negli occhi ma lei non rispose al suo sguardo,
teneva ancora lo sguardo sul suo petto, come è d’uso per la
donna nel tango; lui si accorse che, pur avendo già sciolto
l’abbraccio le teneva ancora la mano e la lasciò. Vorrei parlarle,
pensò, dirle molte cose ma non c’è tempo, questo è un altro
brano, ancora Pugliese è “La Yumba”.
La riprese tra le braccia e sentì che anche per quella
sconosciuta donna francese, era bello ritrovarsi nell’abbraccio.
Lo sentì dal leggero tremore della mano racchiusa nella sua e
sperò che anche lei avesse provato almeno in parte, quanto
provava lui.
Con quell'emozione che dava ai suoi movimenti una rara
pienezza, iniziò a portarla in avanti, per risentire ancora quanto
aveva vissuto in quei primi tre minuti di movimento,
conoscenza, comunicazione. Tre minuti di una storia che può
essere, se si è abbastanza fortunati da capirlo, una metafora
della vita. Un uomo ed una donna che non si conoscono, si
incontrano nell’abbraccio e cercano, attraverso la propria
sensibilità, di realizzare insieme una cosa meravigliosa: l’intesa
che consenta loro di costruire la Bellezza. Solitamente quel
tango è per i virtuosi, l’incalzare delle battute porta a svolgere
figure serrate, forti, come sacade, rastrade, volei. Marco questa
volta non sentì questo impulso, continuò a ballare come aveva
ballato nel primo brano, stringendola solo un poco di più,

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mentre le trasmetteva la sua emozione ed il suo piacere. In
risposta, sentiva correre, lungo il suo dorso e sotto la pelle, lo
stesso leggero fremito che lui stava provando, la mano di lei a
volte si chiudeva un poco più forte sulla sua ed il suo muoversi,
pur mantenendo la sintonia, si era fatto più lento, più sensuale.
Nelle lunghe pause, l’aprirsi per chiamarla in un ocho in
avanti ed il successivo richiudersi, la portavano sempre più
vicina a lui, ormai i visi quasi si sfioravano. Vorrei baciarla ora e
subito, sull’angolo delle labbra, pensò. Alla luce del lampione
che li sovrastava, sembravano piene, leggermente aperte,
invitanti. Ma nel movimento, il respiro di lei era come un soffio
leggero, un sottile ansimare che lo intenerì e fece stemperare
l’impulso di baciarla, nella dolcezza che quella donna gli
ispirava. Sotto la sua mano sentiva quel corpo asciutto,
compatto nella sua morbidezza, sempre in equilibrio in ogni
figura, che fosse allacciata o discosta da lui: pensò che
probabilmente in passato avesse fatto molta danza. Quando le
sfiorava il collo con le labbra, sentiva il suo profumo francese,
leggermente speziato, arancio e forse cardamomo che,
mischiandosi alla leggera traspirazione, lo eccitava
straordinariamente. La sua essenza di donna entrava nel
profondo della sua virilità, risvegliando in lui corde che da
tempo non sapevano più vibrare, suscitandogli al contempo
passione e tenerezza.
Si rese conto che in quella notte magica, la Piazza li aveva
voluti e attirati non solo per ballare un tango. Il loro muoversi
nella musica, pareva sempre più un rituale nel quale il dare e
ricevere emozioni fosse il preludio ad una messa in scena più
importante. Per il resto del brano si lasciò portare da
quell’incanto, seguì la musica proponendole i passi che l’istinto
ed il senso del tempo gli suggerivano, per sottolineare tutte le
variazioni del tango.
In un barlume di lucidità, pensò che probabilmente lei era

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molto conosciuta tra il gruppo di francesi e il loro modo di
ballare poteva tradirli e causarle in seguito imbarazzo. Deviò
quindi subito il suo ballo verso l’estremo opposto della Piazza,
lontano dagli indiscreti lampioni. Lei parve capire la ragione di
quella corrida, di quell’improvviso procedere senza figure e
sembrò quasi ringraziarlo quando, in una corte, un arresto
improvviso da lui provocato con la gamba destra, gli rivolse per
la prima volta, ancor prima di scavalcarlo, uno sguardo diritto,
profondo.
Marco dovette imporsi di non perdere la forma e
continuare il suo ballo nonostante l’emozione. Perché questa è
l’etica del tango, la passione deve essere guidata ad inserirsi nei
movimenti, l’imprevisto non può interferire, rischiando di
guastarne la bellezza. Dio mio quello sguardo - si disse lui - il
primo, consapevole sguardo di una donna che ti fa capire che le
interessi! Quello che ricordi ancora dopo mesi, forse dopo anni.
I suoi occhi nella penombra riescono a diventare immensi,
potrebbero essere blu oppure verdi, ma hanno una forza e un
magnetismo, di cui questa donna non penso sia consapevole.
Preso da questi pensieri, impostò il finale del tango nel
modo più semplice, aprendosi molto a sinistra in modo da
tendere la gamba estra a ricevere e bloccare la sua. Sciolse
l’abbraccio e nella pausa ancora piena della tensione creata da
un grande tango, sentì il bisogno di parlarle, di esprimere quanto
sentiva.
«Per me, questo non è solo tango, ma ben di più… » 
Un lieve sorriso si formò sulle sue belle labbra, assentì con il
capo e rispose quello che lui aveva sperato di ascoltare.
«Anche per me è così.»
L’esultanza che provò per questa risposta si mescolò a quella di
sentire che il nuovo brano in arrivo era “Zum”, un altro tra
quelli che lui adorava. Lasciandosi trasportare dall’ebbrezza del
momento, pensò che in quella notte Avignone e lo stesso dio del

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tango fossero dalla sua, che volessero dargli le migliori chance
nel gioco che non aveva cercato, che era lontano
dall’immaginare e che, forse proprio per questo, gli avevano
regalato.
Ora nella stretta della mano e nell’abbraccio, all’inizio del
nuovo tango, c’era l’esaltante certezza che tutto quello che
sarebbe venuto in seguito, era condiviso. Non c’è niente di più
bello, all’inizio della conoscenza tra un uomo e una donna, di
questo. Sul rallentare del tempo colse l’occasione per spostare
in una barrida il suo piede, ruotando in modo da far scivolare la
gamba sinistra di lei sulla sua sino a bloccarsi in un aggancio. Si
trovarono così molto vicini e lui si abbassò ancora, in modo da
accoglierla all’interno delle sue braccia. Lei rispose non
inarcandosi verso il basso in un’esibizione di forma, ma come
lui sperava, raccogliendosi e piegando il capo dentro questo
abbraccio così intimo.
Fu un istante stupendo, a Marco sembrò che sulla Piazza
non ci fossero che loro, che tutta Avignone sospendesse per un
poco il respiro: sentì che in quella notte tutto gli sarebbe stato
concesso e si spinse, alla fine del tango, a dimostrarle in modo
più completo ciò che provava in quel momento. Sciogliendo
l’abbraccio non lasciò la sua mano ma, descrivendo un piccolo
arco, la portò alle labbra e guardandola negli occhi la baciò. La
mano non si ritrasse, un piccolo fremito la scosse e lei sorrise
ancora, quel piccolo, prezioso sorriso che lui stava iniziando ad
amare.
«Perdonatemi - le disse – ma l’emozione è stata troppo forte,
voi danzate meravigliosamente!»
«E voi pure.» lei rispose.
A quel punto lui sperò che il prossimo brano, non rompesse la
magia di quella notte con la banale marcetta di un tango della
vecchia guardia, oppure con una milonga divertente, ma
estranea allo stato di grazia in cui si trovavano. Quando udì la

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voce stupenda di Adriana Varela ebbe la conferma di avere dalla
sua anche il musicalisador, chiunque egli fosse. Parlava loro di
un “ Pedacito de cielo “ uno dei vals più romantici che siano
mai stati scritti.
…la grata dorme per tanto silenzio,
in quel pezzetto di cielo
restò la tua allegria ed il mio amore
… e ricordo il tuo gesto monello
dopo quel bacio
rubato al caso…

Nell’attraversare l’oceano per arrivare a Buenos Aires, il


valzer europeo subì mutazioni e cambiò di nome. Il vals
argentino è meno sontuoso di quello viennese, è più simile alla
vals musette francese. Il tempo viene continuamente rotto da
controtempi che lo rendono più giocoso e si presta a realizzare
figure che portino ad una serie concatenata di giri. Ma per loro
era diverso, l’intesa che si era formata li isolava dal resto del
mondo, era come se comunicassero in una forma di linguaggio
priva di gesti e di parole. Il loro vals fu tenero, con pochi giri,
un procedere una nell’altro sul fluire del compas, il tempo della
musica, un due tre, un contro-tempo, un due tre un ocho
indietro, una piccola, complice pausa, l’occasione per guardarsi
negli occhi. Poi vennero altri due vals; il tempo sembrava
essersi fermato e avrebbero danzato tutta la notte se non fosse
intervenuta la cortina. Marco la accompagnò verso la fontana e
pensò che fosse meglio prendersi una pausa, per conoscersi e
per non attirare ulteriormente l’attenzione su di lei, ballando
ancora in quel modo.
«Sono molto lieto di conoscervi, io mi chiamo Marco, Marco
Fabiani» si presentò e lei, imprevedibilmente ripeté il suo nome.
«Marcò» disse con un gradevole rotacismo francese «io sono
Anne Vicellì.»

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«È bello danzare con voi.»
Ripeté ancora lui e la guardò meglio; alla luce del lampione che
li sovrastava, pareva ancora più bella ed il vestito rosso scuro
che la fasciava, pur essendo stranamente molto accollato per la
stagione, metteva in risalto la linea forte, ma aggraziata delle
spalle. Pensò che dovesse cercare disperatamente di sapere
qualche cosa di più su di lei per non perderla. Presto un altro
ballerino si sarebbe avvicinato, e lei avrebbe dovuto ballare.
Non esistono quasi rifiuti nel tango.
«Voi abitate ad Avignone? » le chiese.
Lei assentì, sorridendo lievemente e chiese a sua volta:
«E voi, per quanti giorni siete qui?»
«Purtroppo, dovrei ritornare in Italia domenica. Ci sarà un’altra
occasione di ballare prima?»
«Sfortunatamente, ad agosto non vi sono molte milonghe aperte
in Provenza e non mi pare che nei prossimi giorni, avremo feste
come questa.»
«Mi piacerebbe conoscere meglio questa città e dato che domani
sarà l’ultimo giorno per me, vorreste farmi da guida, se siete
libera?» mentendo spudoratamente perché, avendola visitata più
volte, conosceva la città abbastanza bene.
«Certo… » soltanto una brevissima esitazione poi, con un
leggero sorriso, «con piacere, vediamo… domattina potrei
essere libera dopo le dieci.» rispose con una gentilezza, che lo
incoraggiò a chiederle il numero del cellulare.
« Bene, allora se per voi va bene, potremmo trovarci domani
mattina alle dieci e, nel caso di imprevisti, ecco il mio numero.»
Lei, senza leggerlo, prese il biglietto da visita che lui le porgeva
e lo ripose nella piccola pochette che aveva posato sulla fontana.
A quel punto avrebbe potuto invitarla ancora, ma preferì non
aggiungere niente di più alle meravigliose sensazioni che la
notte gli aveva regalato; era tutto così perfetto che nulla avrebbe
potuto esserlo altrettanto.

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«Grazie, siete gentile ed io molto fortunato perché, dopo questi
tanghi meravigliosi, domani avrò la guida più bella di Avignon.»
«Oh, mi fate dei complimenti, grazie. Si la Piazza è lo sfondo
ideale per una notte di tango. Voi di che città dell’Italia siete?»
«Di Torino nel nord dell’Italia.»
Stranamente, nel sentire il nome di Torino, l’espressione di lei
divenne di colpo più guardinga, i suoi occhi persero la
luminosità del sorriso, per divenire più attenti.
«Per quale ragione siete ad Avignone?»
«Io nella vita sono uno scrittore e mi trovo nel sud della Francia,
per fare ricerche sui Catari.»
«Siete stato quindi a Tolosa. Avete scoperto qualcosa di nuovo
su di loro?»
«Sulla crociata contro di loro e sui motivi che l’hanno
provocata, ci sono ancora misteri, come del resto ce ne sono in
tutto il sud della Francia. Al punto che si sarebbe portati a
scrivere su ben altri argomenti, che non la vita dei Catari.»
«Perché, quali sarebbero questi misteri? Come può essere
misteriosa una regione così turistica? Voi piuttosto, cosa mi dite
di Torino che è conosciuta come la città della magia bianca o
nera? Lo sapete vero, questo?»
«Certo, ma non dimenticate che il famoso triangolo magico, che
la mia città formerebbe insieme a Praga, ha come terzo punto
Lione, una città a pochi chilometri da qui!»
Non sapeva perché la conversazione avesse preso quel tono di
schermaglia, il suo intento iniziale era stato solo quello di
conoscere meglio questa bellissima donna francese ed ora si
trovava a dover giocare in difesa dai suoi attacchi. Peraltro, lei
non pareva assolutamente intenzionata a ritirarsi.
«Oh, le triangle magique! Quella sciocchezza messa in giro
dalle agenzie turistiche per creare fantomatici tour notturni o
diurni ed incrementare l’interesse turistico per quelle città. Voi
conoscete qualcuno che sappia davvero qualcosa dei misteri di

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Torino? O su quelli di Lione? E quali sarebbero i misteri della
Provenza?»
Marco avrebbe potuto parlare per ore della confluenza di due
corsi d'acqua dalle caratteristiche energetiche opposte, quella
maschile del Po e quella femminile della Dora a Torino. Come
avviene a Praga con la Moldava e l’Elba oppure a Lione con il
Rodano e la Saona. dalle caratteristiche energetiche opposte,
l'una femminile, la Saona, e l'altro maschile, il Rodano, allo
stesso modo di come avviene per Torino, con la Dora e il Po, e
per Praga, con la Moldava e l'Elba. Non a caso vengono sempre
citate insieme; tradizionalmente infatti, Torino, Lione e Praga
formano il cosiddetto “Triangolo di Magia Bianca”,
contrapposto a quell'altro, detto di “Magia Nera”, che ha sempre
in Torino uno dei vertici, e gli altri due a Londra e a New York.
A quel punto pensò bene di cessare le ostilità, se così si poteva
chiamare quel battibecco e decise di deviare la conversazione
con un complimento. Non voleva discutere con quella donna,
voleva conquistarla.
«Il mistero più grande della Provenza è la ragione per la quale
vi siano tante donne così belle, in particolare ad Avignone e più
precisamente davanti a me in questo momento. Pur avendo il
fascino tipicamente francese, non hanno l’altezzosità delle
parigine. Quindi, o io sono l’uomo più fortunato del mondo per
aver ballato con la donna più bella della Provenza oppure…»
«Ah, gli italiani! Sempre galanti, e sempre una via d’uscita
quando sono messi alle strette!»
Lui soffocò la voglia di sciorinarle tutti i misteri in cui si era
imbattuto nei giorni passati ed accettò la parte che pareva lei
volesse assegnargli: il solito drageur italiano che passa il suo
tempo a fare complimenti alle straniere. In cambio della sua
arrendevolezza, ottenne da lei un sorriso che ridivenne quello
che l’aveva conquistato a prima vista, e gli diede modo di
chiederle se anche lei fosse di origine italiana, dato il cognome

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che portava.
«Certamente, mio padre era un ragazzo quando arrivò qui con i
suoi genitori dall’Emilia; sposò mia madre, una francese di
Toulouse, e per questo in casa non si è mai parlato italiano. Io
adoro la vostra lingua ed ho sempre sognato di trovare il tempo
per studiarla.»
«Anche io adoro il francese e la vostra cultura …» ma non poté
finire la sua frase. Furono interrotti dall’invito di un altro
ballerino e, mentre lui pensava che a volte nel tango la
conversazione possa essere veramente difficile, lei gli rispose:
«A domani.»
«Arrivederci Anne.» fece appena in tempo a dirle prima che lei
si allontanasse, poi sì, a domani, ripeté a sé stesso, a domani...
Quanto può essere dolce questo saluto, la promessa di un
domani in cui l’avrebbe rivista alla luce del sole e in quella
magnifica Piazza.
Si sentiva talmente bene, che per un poco rimase ad
ascoltare la musica senza ballare, osservando il gruppo dei
ballerini che si scambiavano impressioni sul ballo, le donne
come sempre loquaci e aperte alla confidenza, taciturni e
misurati gli uomini. Vide anche due coppie di italiani di Savona
che conosceva vagamente, ma non attirò la loro attenzione. Non
aveva voglia di convenevoli, sentiva di dover preservare quella
sensazione di esultanza che si portava dentro.
Guardando in alto verso la grande luna bianca, si chiese
quale intervento avesse agito quella notte, per orchestrare il loro
incontro in modo così perfetto. Quali dei dell’ipotetico Olimpo,
sulla cui esistenza a volte amava fantasticare, lo avevano
favorito? L’Olimpo che sapeva cantare Omero, il grande Aedo,
colui che, come aveva scritto Vecchioni, “si era accecato per
restare nel sogno”. La grande scacchiera dove gli dèi
muovevano gli uomini come pedine, sotto l’annoiata e
indifferente supervisione del grande figlio di Crono. La notte

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che aveva appena vissuto, pareva a Marco uno di quegli
interventi; tutto aveva concorso a portarlo su quella Piazza e alle
migliori condizioni che un uomo potesse aspettarsi. Forse la
stessa Afrodite - alla quale lui, innamorato dell’amore, aveva
dedicato gran parte della sua vita - aveva abbassato il suo
sguardo verso i suoi ultimi due anni di solitudine, per
intervenire, impietosita.
Indulgendo in questi pensieri, percorse la strada verso
l’albergo e dopo aver rivolto ancora una volta lo sguardo alla
grande e propizia luna sospesa nel cielo, entrò nella hall, salutò
il concierge e salì nella sua camera. Disteso e in attesa del
sonno, riavvolse nella mente la bobina del tempo per rivivere
ancora la serata, nel calore che il ricordo di lei gli donava.
Qualunque cosa mi riservi il futuro – pensò - ho comunque
vissuto una delle più belle notti della mia vita. Questi ricordi
non te li può togliere nessuno, né il tempo, né l’età, né la vita
che scorre via. Questi due anni di solitudine mi hanno portato a
questa serata, quasi come un percorso da superare per poter
essere, anche per una sola notte, felice. L’ultimo pensiero che lo
accompagnò nella zona in penombra che sta tra la veglia ed il
sonno, fu l’immagine di lei, del suo sorriso e – a domani - le
disse.

Il mattino del sabato lo trovò sveglio presto, dopo una


notte in cui aveva dormito bene, come non gli accadeva da
tempo. Preparare la valigia, fare colazione e regolare il conto,
furono solo tappe da superare sulla strada che lo portava alla
Piazza e a lei. Mentre si avviava verso il loro appuntamente,

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vide un piccolo negozio che nei giorni scorsi non aveva notato,
perché nascosto da un enorme camper. Era un laboratorio di
vetreria artigiana e, guardando attraverso la vetrina, vide una
donna bionda in camice bianco, china su una serie di piccoli
bijou molto colorati. Spinto dall’ispirazione e dal suo amore per
il vetro, entrò e vide sul bancone un piccolo pendaglio a forma
di cuore, di un caldo rosso brillante, a cui era applicato un
cordoncino in seta nero. Pensò di legare la notte passata ad un
oggetto, qualcosa che lei potesse portare su di sé, per ricordare i
loro tanghi.
La signora minuta, gentilissima, con magnifici occhi
azzurri, era entusiasta del suo lavoro e mentre confezionava il
pacchetto, gli illustrò il lentissimo procedimento
dell’inserimento a caldo degli smalti, un colore dopo l’altro in
successivi riscaldi. Infine, l’ultimo segreto, il più antico,
l’introduzione nel bagno di fusione di una piccola quantità di
polvere d’oro. Solo in quel modo, si poteva ottenere quella
lucentezza. Dopo aver pagato la salutò ed uscì all’aperto, felice
di quell’acquisto, stringendolo in mano come un amuleto di
buon auspicio. Percorrendo poi la Rue Tihers pensò che sarebbe
stato meglio per lui giungere sulla Piazza per primo, vederla
arrivare da lontano e prepararsi all’incontro in modo da calmare
l’agitazione che sentiva dentro. Si chiedeva dove fosse finita la
sicurezza che aveva sempre avuto con le donne, si chiedeva se il
loro incontro, avvenuto nella magia della notte, avrebbe avuto
per lei lo stesso interesse alla luce spietata del giorno e senza
l’aiuto del tango.
Giunse infine sulla Piazza, che a quell’ora del mattino
risplendeva di luce. Il sole, illuminando in alto la pietra delle
bianche mura del Palais, aumentava il contrasto con il blu
intenso del cielo, che una leggera brezza aveva spazzato dalle
nuvole notturne. Non c’era molta gente a quell’ora, anche gli
avignonesi dormono un poco di più il sabato. Pensò di

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raggiungere i gradini più in alto per vederla arrivare, ma ecco
che, al culmine della scalinata che portava alla fontana, in jeans
azzurri un po’ stinti e camicetta bianca, lo sguardo già rivolto
nella sua direzione, c’era lei, Anne. Si vennero incontro
sorridendosi e lui si accorse che il punto della Piazza verso il
quale si stava affrettando, aveva una sola zona a fuoco, la sua
figura. Come nei vecchi dagherrotipi di fine Ottocento, il
contorno era sfocato e annebbiato, i suoni intorno erano divenuti
una ovattata cacofonia, il tempo sembrava rallentato.
Alla luce del giorno Anne era di una bellezza radiosa, la
bocca ed il viso dipinti con un trucco leggero, le guance con
piccole fossette che, quando sorrideva come in quel momento, si
accentuavano ancor di più. I suoi capelli, nel sole del mattino,
avevano i riflessi dorati del miele di castagno e gli occhi, che
per la prima volta vedeva alla luce, di un verde-violetto, scuro e
profondo. Portava scarpe italiane lunghe e affusolate di gran
marca. Le strinse la mano e si scusò per essere arrivato dopo di
lei sulla Piazza:
«Ma no, sono io ad essere arrivata prima, volevo passeggiare un
poco.»
«Anche a me piace molto passeggiare, perché a volte si fanno
incontri magici e inattesi; proprio ieri pomeriggio, mentre
uscivo dalla FNAC, vi ho visto camminare davanti a me ed ho
potuto ammirare la vostra bellezza per la prima volta.» Lei
sorrise apertamente ed arrossì un poco; una donna così bella,
che sapesse ancora arrossire per un complimento, era
sicuramente una rarità.
«Ah, voi mi confondete con queste parole; dunque, eravate voi
quell’uomo che per un certo tratto della Rue de la Republique,
mi ha seguito. Vi ho notato sapete, per il vostro abbigliamento
tipicamente italiano e per la leggerezza con cui vi muovete. Ora
comprendo perché ballate così bene.»
«Grazie, ora siete voi a confondermi, ma ditemi siete rimasta

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ancora per molto, ieri notte?»
«No, non molto, ero insieme ad amiche che volevano rientrare
prima di quanto io avrei voluto; voi avete dormito in albergo qui
ad Avignon?»
«Si, ero arrivato ieri, prenotando sino a questa mattina.»
Ascoltandola, riprova il piacere di sentire una voce di donna
parlare in francese, un piacere antico, che risaliva all’epoca
delle ore passate nei cinema italiani d’essai. Ai film
fortunatamente non doppiati della nouvelle vague, alle voci di
Isabelle Huppert, Jeanne Moreau, Brigitte Bardot… Nel
frattempo lei lo aveva guidato verso la fine della piazza, ai piedi
della scalinata che portava alla Cattedrale; indicandogli il Palais
gli chiese:
È imponente vero?»
Lui assentì, perché da quel punto la Piazza era grandiosamente
bella: alzò lo sguardo e vide, sulla sommità delle scale, una
chiesa in puro stile romanico sulla quale si stagliava un’enorme,
dorata, forse sproporzionata Vergine Maria.
«Andiamo a visitare quella chiesa, deve essere Notre-Dame-des
Doms vero?»
«Siete forse religioso?»
La domanda aveva un tono quasi di sorpresa, come se lei non
avesse pensato minimamente alla possibilità che lui potesse
essere religioso o per lo meno osservante. Stava per risponderle
quando, abbassando lo sguardo, vide che il sole le illuminava in
pieno il viso, rivolto verso di lui. L’espressione di stupore era
mitigata da un leggero e ironico sorriso, che non riusciva a
nascondere la linea decisa del volto: una donna risoluta, sicura
di sé, almeno all’apparenza. Le due fossette si erano trasformate
in due piccole pieghe ai lati della bocca e potevano rivelare una
punta di amarezza. Diversamente dalla sera prima, aveva il collo
della camicia aperto e lui poté ammirare l’armonia della linea
delle spalle che convergevano nel piccolo incavo dello sterno,

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su cui era posato un monile dalla foggia molto particolare. Una
cornice dorata circolare, racchiudeva un medaglione in smalto
blu molto brillante, dal cui centro si dipartivano tre spirali in
oro. I loro vortici erano talmente ben disegnati da risultare
ipnotici. Catturavano lo sguardo, al punto che Marco dovette
fare un grande sforzo, per distogliersi dal lento ruotare della loro
illusione. Pareva che ogni punto della spirale si allontanasse e si
riavvicinasse in egual misura, in un eterno ritorno che aveva del
magico.

Dove aveva già visto un disegno molto simile in passato?


Ricordava il frontone di alcune cattedrali, Notre Dame forse e
poi certo, a Stonehenge sulla base del grande megalito centrale.
Ora che la memoria si era messa in moto, attivata dalla forza
che emanava quel gioiello così strano, altri ricordi affioravano
in lui. I menhir, le enormi pietre infisse verticalmente nel
terreno per coprire una sepoltura, i dolmen, costituiti da diversi
menhir che sostenevano una larga e piatta pietra che fungeva da
tetto… in tutti quei luoghi aveva notato una scultura oppure un
profondo bassorilievo che lo riproducevano. Anne si accorse
dell’effetto che aveva su di lui e, stranamente, lo coprì subito
avvolgendolo con una mano. Dopo, ripensandoci, lui non riuscì
mai a capire perché non le avesse chiesto di quel gioiello.

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«No, non sono particolarmente osservante: l’ho chiesto solo
perché in passato ho visitato il Palais ma non la chiesa. Ricordo
che era una fredda giornata di gennaio, al termine delle vacanze
natalizie, forse il sette o l’otto gennaio, e quando ci siamo
affacciati ai merli delle mura del Palazzo per fotografare, il
vento ci tagliava il viso.»
«Oh certo si trattava del Mistral, il vento che spazza la valle del
Rodano e d’inverno, ma anche nelle altre stagioni quando il
tempo si guasta, può essere molto freddo» rispose lei e, subito
dopo «quindi voi conoscete già Avignon?» scoprendo così la
piccola bugia della sera prima.
«Un poco. Dovete scusarmi, ma chiedervi di farmi da guida, è
stata una scusa per rivedervi ancora. Non volevo tornare in Italia
senza avervi conosciuto meglio.»
Lei sorrise con un che di malizioso negli occhi, come se
seguisse un suo remoto pensiero e rispose che quando poteva, si
teneva lontana dalle chiese e da quel che rappresentavano. Con
questa perentoria affermazione, si diresse verso i giardini che
contornano il Petit Palais e lui la seguì. Le paure che lo avevano
assillato quel mattino si attenuavano, perché si era accorto che
Anne volutamente rallentava e semplificava il suo francese, per
far sì che lui comprendesse meglio. Un segno positivo che gli
procurò una leggera euforia; quando lei gli chiese che cosa
avesse scritto prima della crociata contro gli Albigesi, le rispose:
«In passato molto di cinema e di letterature particolari, ora di
saggi e biografie.»
«Cosa intendete per letterature particolari?»
«La letteratura di genere. Saggi di fantascienza, letteratura
gotica e fantastica, scrittori come Poe, Le Fanu, Ambrose
Bierce, Lovecraft, per intenderci.»
«Ma è la letteratura dell’orrore! - esclamò lei - come fa a
piacervi?»
«Il fascino che l’orrore esercita su di noi, esorcizza l’orrore

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della vita di tutti i giorni. Non avete mai provato, in un piccolo
angolino della vostra mente, la sensazione che il mondo che
vediamo possa essere solo uno dei tanti modi di vederlo, che su
un altro piano di frequenza, possa apparire diverso? Come si
spiegherebbe altrimenti, una madre che uccide i propri figli o il
tuo vicino, pacifico e inoffensivo sino al giorno prima, che
improvvisamente compie una strage? E che le stesse persone,
solo poche ore dopo, rientrino nella normalità? Si definisce
raptus di follia, ma se quel raptus non fosse altro che la reazione
all’improvviso ed imprevisto passaggio da un piano di
frequenza all’altro? Per cui queste persone, per un attimo, si
trovano davanti ad un’altra ed insopportabile realtà, quella che
noi non vediamo? E se la pazzia stessa, non fosse altro che il
passaggio definitivo e irreversibile in uno stato in cui tutto
quanto ci circonda, è orribilmente distorto?
Per me è questo che hanno fatto gli scrittori che ho citato,
sollevare il velo dipinto che maschera lo squarcio attraverso il
quale si possono vedere altre dimensioni. Portarci per mano in
questi mondi, come il lavoro che fa l’analista all’interno della
psiche portandoci ad affrontare le nostre paure. L’emozione più
forte dell’uomo è la paura e quella dell’ignoto è la più grande;
l’imprevedibile è sempre in agguato dentro o fuori di noi. In
ogni momento della nostra vita, possiamo essere assaliti dal
pensiero che una vita misteriosa possa esistere nelle profondità
degli spazi siderali, oppure oltre la porta della casa accanto. È la
paura cosmica.»
Mentre parlava, Anne si era arrestata e lo guardava fissamente,
l’espressione era tornata ad essere guardinga come se quanto lui
diceva, meritasse un’attenzione ben al disopra del contenuto
delle sue parole, come se cercasse dietro alle parole stesse, un
altro e più nascosto significato. Questa donna indubbiamente
univa al fascino di una bellezza altera e sicura di sé, il mistero di
una presenza che in certi momenti pareva rivolgersi

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parzialmente altrove, come se una parte di lei fosse in ascolto di
voci lontane. Poi d’improvviso diveniva totalmente presente,
con un’attenzione spasmodica che esercitava su Marco un
potere mai provato prima.
Si sentiva attratto da lei ben più di quanto sarebbe stato
giustificato da una conoscenza così breve. Era preso dalla sua
fisicità, dall’eleganza del suo portamento, dallo sguardo che
aveva qualcosa di differente, raro. Tutto in lei era inconsueto,
dagli occhi che prendevano a volte riflessi violetti, alla leggera
asimmetria del viso che lo rendeva ancor più interessante, sino
al medaglione che ora, mentre ancora una volta lo osservava, gli
pareva ancor più inconsueto. Nel contempo, provava la
spiacevole sensazione che il ricordo dei luoghi in cui solo pochi
momenti prima era sicuro di aver visto lo stesso simbolo, si
stesse allontanando dalla memoria. Incurante della sua lunga
pausa, lei lo guardava fissamente, mentre la sua mano saliva a
coprire ancora una volta il monile. Cercò di riportarsi a quanto
poco prima le stava dicendo, si sentiva come se avesse assunto
qualche strana sostanza stupefacente e gli pareva che la parola
più adatta a riassumere l’effetto che quella donna gli provocava
fosse “mistero”.
« Il terrore di essere sepolti vivi ad esempio, è antico come
l’uomo e Poe, scrivendo “Il seppellimento prematuro” lo
aggredisce dal di dentro, lo fa vivere passo per passo. Attraverso
tutte le fasi della crescita dell’orrore dentro di noi, impariamo ad
affrontarlo; non è più un terrore inconscio che può prenderti
quando meno te lo aspetti. Se la conclusione del racconto ti
riporta alla banalità del reale, è per farti capire che la maggior
parte delle nostre paure nascono nella nostra mente, ma in realtà
non esistono. Un altro esempio sta ne “ Il cuore rivelatore “.
Il “Rumore sordo, soffocato e intermittente, in tutto simile
a quello che produrrebbe un orologio avvoltolato nella
bambagia” prodotto dal cuore del vecchio nascosto sotto

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l’impiantito, in realtà non esiste. Solo l’assassino lo sente
“crescere e crescere ancora, senza soste, interminabilmente”e
l’atteggiamento indifferente dei poliziotti, che paiono prendersi
gioco di lui fingendo di non sentirlo, lo farà esplodere nella
confessione. Fa tutto da solo, si crea il suo incubo e soccombe
ad esso. Un altro grande merito di Poe è l’aver inventato il
racconto poliziesco, la ricerca del colpevole di un crimine da
parte di un investigatore. Mi pare che voi lo chiamiate thriller
vero?»
«E’ così, quello è il thriller, mentre noi chiamiamo noir il
romanzo in cui dall’inizio si conosce già il colpevole e lo scopo
è spesso lo studio dell’ambiente, il sociale come si dice oggi.
Confesso che non avevo mai visto quella letteratura sotto questo
aspetto. Mi sembrava solo una forma più sofisticata di Grand
Guignol, ma altrettanto piena di sangue. Evidentemente mi
sbagliavo. Se dovessi rileggere Poe, quale altro racconto mi
consigliate?»
«I critici dicono che il suo capolavoro è “Il crollo della casa
Usher” ed io sono d’accordo. L’atmosfera che si respira è
quanto di più angoscioso abbia scritto la letteratura americana;
qualcuno ha sostenuto che ha lo stesso andamento compositivo
di una sinfonia. Per me invece, il più poetico è “Ligeia”.»
«Poetico? Come può essere poetico un racconto de l’horreur?»
«La descrizione degli occhi di Ligeia è pura poesia. Vediamo se
riesco a ricordare: “questi sono gli occhi, gli occhi pieni, neri,
selvaggi … gli occhi del mio perduto amore … di Lady Ligeia”.
Sentite l’andamento musicale delle parole, che il mio povero
francese non riesce a rendere? Inoltre, quella donna è descritta
in modo da divenire, per chiunque, una figura femminile
indimenticabile.»
«Quali biografie avete scritto? So che tra gli italiani non vi sono
molti biografi.»
È vero ma io ho sempre amato indagare nella vita del genio, non

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come storico ma come divulgatore. Ho parlato di due grandi
pittori che amo, Modigliani e Van Gogh.»
«Poveri e sfortunati artisti tutti e due! Anche io li adoro, però
trovo Modigliani più difficile da capire. Sento che il suo
linguaggio, pur avendo ridotto il disegno al minimo, è molto
poetico, ma mi sfugge qualcosa, percepisco solo molta tristezza.
Mi piacerebbe che un giorno me ne parlaste.»
«Certo Anne, ti dirò tutto quello che vuoi» le rispose
accorgendosi di essere passato al tu.
«Non c’è di che, diamoci del tu. Vieni ti porto sul bastione del
Rocher des Doms che si affaccia sul Rhone, vedrai è bello.» e si
mise a correre, come per sfidarlo.
Lui non si mosse subito, preferì ammirare la figura che i jeans
elasticizzati mettevano in evidenza. Un’altra donna,
completamente diversa da quella di pochi istanti prima, correva
avanti a lui con la solida rotondità delle natiche, le lunghe
gambe, ed il monello voltarsi per vedere se la seguiva. Si
affacciarono ridendo ai bastioni e si trovarono di fronte uno
spettacolo superbo: le sponde create dalla biforcazione del
fiume intorno all’Ile de la Barthelasse, l’isola che divide in due
parti il Rodano. Più lontano Villeneuve, la piccola gemella di
Avignone, con la torre di Filippo il Bello ed il Châteauneuf-du-
Pape.
«Per me non è la prima volta che vedo tutto questo, ma mi pare
più bello, sotto una luce diversa. Forse le cose o i luoghi, gli
endroits, come dite voi francesi - che in italiano è divertente,
suona come indirizzi, adresses - non sono sempre le stesse, ma
cambiano se cambia lo spirito di chi le guarda.»
«Dimmelo in italiano, ripeti quello che mi hai appena detto, mi
piace la musicalità della vostra lingua.»
Lui lo ripeté ed aggiunse ad alta voce, rivolto a sé stesso, sto
bene con te Anne sono felice, mi piace il tuo sorriso, mi piace il
tuo parlare, mi piace tutto di te.

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«Mi piacce, mi piacce, sarebbe come dire j’aime bien?» Ripeté
lei con un sorriso che gli fece capire che aveva compreso anche
il senso del resto. Continuarono a giocare ancora con le parole e
Marco dovette dare fondo a tutto quel che ricordava delle
bizzarrie e dei falsi amici del francese parlato: le chiese poi di
cosa si occupasse nella vita, che lavoro facesse.
«Sono geofisica, specializzata in Radioestesia» rispose Anne e
lui rimase un poco interdetto, perché da sempre associava quella
parola, all’immagine di un uomo dall’aspetto bizzarro che,
tenendo con le mani tese in avanti i due bracci di una forcella
ricavata da un ramo d’albero, percorreva avanti e indietro un
campo alla ricerca di una sorgente sotterranea. Un’immagine
che diventava decisamente comica, nel momento del presunto
ritrovamento della vena d’acqua: il rabdomante, come preso da
un attacco di Parkinson, iniziava a scuotere violentemente le
braccia mentre la punta della forcella si orientava verso terra.
Evidentemente qualcosa di tutto ciò era emerso sul suo volto
perché lei lo stava guardando in un modo che confinava molto
da vicino con la commiserazione: con una voce molto diversa
da quella con cui gli aveva chiesto di parlare italiano, si lanciò
in una raffica di precisazioni facendogli percepire che, dietro la
facciata della donna affascinante, tenera e probabilmente
appassionata, era presente un’altra donna più dura, più
determinata.
«La Radioestesia» esordì «è una scienza antica come l’uomo.
Sono stati trovati pendolini e forcelle persino nelle tombe egizie
e cinesi, duemiladuecento anni prima di Cristo. Gli Etruschi se
ne servivano ampiamente e pare che il vostro Romolo, quando
fondò Roma, avesse con sé un rabdomante etrusco per la ricerca
dell’acqua. Il radioestesista nel passato si affidava
esclusivamente alle capacità straordinarie, che scopriva ben
preso di possedere e spesso faceva parte della casta sacerdotale.
Sviluppava tecniche e attrezzi, sperimentando anche altri campi

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di applicazione, oltre alla ricerca delle sorgenti sotterranee,
dando luogo ad una scienza parallela, la Geomanzia. Questa
otteneva la divinazione attraverso lo studio della superficie
terrestre, l’analisi dei venti e il percorso delle acque. I geomanti
entravano in contatto con il “respiro della terra” per predire il
futuro.»
Gli occhi si era fatti accesi, parlava scandendo le frasi una ad
una, come temendo che a lui sfuggisse il significato di quanto
stava dicendo: la sensazione di estraniamento che Marco aveva
provato poco prima si era accentuata, pareva che sulla piazza
non ci fossero che loro due ma questa volta non era il tango che
stavano condividendo, bensì qualcosa di misterioso che lui non
capiva. Avrebbe voluto con tutta l’anima comprendere questa
donna, che un attimo prima gli sembrava una ragazza, e appena
poco dopo, la sacerdotessa di un culto arcano e perduto nel
tempo.
«Mi fa stupire che un uomo di cultura come te, non sappia
quanto la Radioestesia sia presente anche oggi nella nostra vita:
la Radioestesia clinica che, insieme alla medicina allopatica,
contribuisce alla guarigione degli individui e degli animali, la
Geobiologia ed il tanto decantato Feng Shui, così di moda nei
salotti della borghesia. La Radioestesia archeologica, quella
applicata alle energie vibrazionali, la Radionica, che ha diverse
scuole europee e statunitensi ed ampie applicazioni in tutti i
campi, compreso quello clinico.»
«Pietà, pietà, mi arrendo, confesso e ritratto tutto, anche ciò che
non ho detto; non sapevo che fosse così complesso il campo dei
tuoi studi. C’è una cosa che mi colpisce però: non trovi strano
che in francese rabdomante si dica sourcier e stregone si dica
sorcier?»
Senza neanche rilevare la sua domanda, lei proseguì.
«Ogni giorno avviene una nuova scoperta e solo da poco si sono
rivelate le energie vibrazionali, che sono presenti in ogni forma,

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minerale, vegetale o animale che sia. Essa emette energie
elettromagnetiche, senza necessità di essere alimentata
esternamente e ad una frequenza di vibrazione fissa e
immutabile. Un Radioestesista ha la facoltà di poter assorbire le
vibrazioni e di saperle classificare, grazie alla sua mente
allenata da anni di studio. La frequenza ha formato l’Universo,
con essa tutto nasce e vive, con la sua alterazione si muore. Qui
in Provenza ci sono sempre stati grandi Radioestesisti.»
Per cercare di alleggerire l’atmosfera, a questa sua affermazione
Marco ribatté che era un peccato che non si dedicassero alla
ricerca delle zone da cui si potesse ricavare un buon vino
anziché acqua: il sorriso condiscendente con cui lei accolse la
sua boutade dava quasi l’idea che lei si fosse accorta di essere
stata troppo veemente, di aver detto troppo di una materia che
ad un profano poteva sembrare per lo meno bizzarra.
Intanto avevano percorso tutta la Piazza ed alla fine della
scalinata, furono accolti dal ritmo veloce e sfuggente di una
musica manouche, suonata da due chitarristi dai capelli
nerissimi, lunghi fin sulle spalle, la carnagione bruna, un grosso
orecchino al lobo destro. Sicuramente rom originari della
Camargue, pensò Marco. Sulla scia di una celebre
interpretazione di Django Reinhardt, “I’ve got you under my
skyn”, i due musicisti si alternavano nel fraseggio e
nell’accompagnamento, con variazioni molto piacevoli.
Potrei dire la stessa cosa “ mi è entrata sotto la pelle “
questa donna, - pensò lui - io che in passato sono sempre
riuscito a condurre il corteggiamento, ora mi trovo a seguirla
passivamente, senza che mi venga in mente alcuna iniziativa o
strategia. Mi sento come se stessi scorrendo accanto a lei,
lentamente, e senza alcuna nozione del tempo.
Mentre la musica dava ancora alla piazza la sua energia
gitana, le chiese se avesse appetito.
«Sì ma oggi c’è molta gente sulla Piazza e temo che i ristoranti

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siano tutti pieni …» rispose lei.
Proprio in quel momento, Marco vide che si stava liberando un
piccolo tavolo all’ombra delle piante, nel ristorante Le
Moutardier di fronte al Palazzo dei Papi; senza dire una parola
si precipitò verso il cameriere che stava sparecchiando e,
facendogli scivolare discretamente un biglietto da dieci euro
nella mano, gli chiese se fosse libero. Un tavolo all’aperto con
la vista della piazza e la musica di sottofondo, era impagabile. Il
cameriere assentendo con il capo, gli fece cenno di aspettare,
ché avrebbe subito preparato. Sicuramente anche quel giorno la
fortuna lo aiutava, pensò lui. Nel mentre, lei lo aveva raggiunto
ed aveva compreso che avrebbero avuto il tavolo all’aperto,
all’ombra e nel ristorante che, come lui seppe più tardi, era uno
dei suoi preferiti.
«Ah voi italiani siete fenomenali, sempre attenti quando c’è da
approfittare di un’occasione ...»
«Gli uomini sono gli stessi dappertutto, penso che sia la stessa
cosa ovunque» rispose lui «oppure no?»
«Ma voi avete un allure, uno stile, quel vostro...» mimò con le
mani il gesticolare «è così espressivo, così divertente, vi fate
capire dappertutto, anche se non conoscete la lingua.»
«Anche io?»
«Oui, anche tu, ho visto come hai fatto con il cameriere, ti ha
capito subito.»
Forse, pensò lui, ha capito subito l’argent della mancia che gli
ho dato. In quel momento l’oggetto del loro discorso portò il
menu del giorno, tra cui erano in evidenza i piatti provenzali.
Lei scelse del tonno fresco ai ferri, lui fu d’accordo e lasciò a lei
la selezione del vino perché non conosceva ancora i suoi gusti.
Un giovane, freddo e profumato Chablis - il Chardonnay che
veniva dal freddo - fu il loro aperitivo. Lei si alzò per andare a
rinfrescarsi e lui volse lo guardò verso il cielo chiaro e
splendente, attraversato da grandi ghirigori di nuvole bianche

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ovattate; con l’aiuto del vento, disegnavano e scioglievano di
continuo delicate figure. Sicuramente da qualche parte una
coppia di innamorati, distesa su un prato, giocava a decifrarne le
forme. La pietra nuda del Palazzo, resa indifferente dai secoli,
risplendeva del sole di agosto senza curarsi di ciò che avveniva
sulla piazza, della musica e di quanti si fermavano ad ascoltarla.
Per lui invece quella musica era benefica, gli dava tempo di
guardare dentro di sé per comprendere meglio le disordinate
emozioni che stava provando.
Al di là della semplice e banale gratificazione nel sentire
di non esserle indifferente, che cosa realmente provava per
Anne? Durante la notte di tango aveva compreso di essere molto
preso da lei, ma ora si accorgeva di subire un’attrazione molto
più profonda, di quanto avrebbe potuto giustificare la sua
bellezza. C’era molto di più. Accanto a lei si era sentito come
isolato da quanto li circondava, in una misura che solo ora, che
non era presente, poteva valutare appieno. Si guardava attorno
per riprendere contatto con la realtà la quale, senza il corollario
di vibrazioni magnetiche, correnti sotterranee e facoltà
sensoriali, gli pareva insopportabilmente banale.
Guardò il lastricato della piazza e vide solo terra, pietre e
ciottoli, mentre lei l’aveva dotato di fluidi invisibili che si
irradiavano e trascorrevano verso l’alto per ritornare, potenziati
da chissà quale altro effetto cosmico, verso il basso. Nel
contempo provava un lontano fastidio, come se pensare a
quanto si nascondeva sottoterra e tutto intorno, gli provocasse
un senso di nausea. Segno inequivocabile per lui, di paura. Per
contro, era innegabile che con Anne si sentiva felice, che tutto
gli pareva diverso, nuovo. A cinquant’anni, aveva alle spalle una
bella serie d’incontri nei quali, dopo solo dieci minuti di
conversazione, era sin troppo facile predire che cosa avrebbe
detto nei prossimi dieci anni, la donna che aveva davanti.
Questa giornata, a confronto, era il cantico dei cantici, come se

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una parte di lui, che sino a ieri era incompleta, si fosse
completata. Come se un vuoto si fosse colmato.
In quel momento, la vide uscire dal ristorante, emergendo
dalla penombra dell'antica cornice in pietra della porta;
velocemente prese la piccola digitale che teneva sempre pronta
e scattò quella che poco dopo scoprì essere una delle più belle
foto di donna che avesse mai visto. Lo sfondo buio da cui lei
proveniva, e il suo entrare nel sole che le dorava i capelli,
mettevano in risalto la scollatura e il seno generoso, che solo ora
notava. E ancora il leggero sorriso, una spalla un poco più alta
dell’altra per sorreggere la borsa, il braccio lungo il fianco con
la mano racchiusa, l’incedere morbido e sciolto. Tutto questo la
rendeva bellissima.
Poi ci furono solo loro due e le loro parole che si
rincorrevano, incrociandosi da un argomento all’altro, tra un
sorso di vino e uno sguardo alla piazza. Mai prima d’ora Marco
aveva amato tanto la Provenza, ma in quel giorno insieme a lei,
avrebbe potuto amare tutto, anche le nebbie padane, perfino le
lunghe giornate di pioggia torinesi. Finché quasi per caso, il loro
parlare divenne più intimo e lui volle sapere di più della sua vita
e della sua famiglia.
«Sono divorziata da anni, e mio marito vive ora in Costa
d’Avorio. Ho una figlia, Amelie, che abita a Parigi ed ha un
buon lavoro come dirigente in un’azienda di marketing. Ho
vissuto per molti anni un poco più a sud, ad Elapse, ma dopo il
divorzio mi sono trasferita a Villeneuve, la zona residenziale di
Avignon dove abito, da sola. Mi occupo di geologia e geofisica
da sempre e per questo devo andare spesso a Lione, Parigi e
anche all’estero: la prossima settimana, ad esempio, partirò per
un viaggio di un mese in diverse città d’Europa. Per anni ho
diretto un gruppo di studio che mi impegnava molto, ma da
qualche tempo l’ho lasciato per gestire la mia vita anche in
funzione dei miei interessi. Fare tutto quello che gli impegni di

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lavoro mi hanno sempre impedito di fare. Studiare il tango e, se
in autunno riuscirò a trovare del tempo, l’italiano.
«Potremmo fare uno scambio, italiano contro francese cosa ne
pensi?»
«Sarebbe magnifico, le uniche mie esperienze con la tua lingua
sono un viaggio a Roma e Venezia, ma devo dire che l’italiano
che sentivo parlare in quelle città è ben strano, molto diverso da
quello della letteratura o del cinema. Perché?»
Doppio salto mortale pensò lui. Come faccio a spiegarle il
motivo della varietà dei nostri dialetti, che deformano
pesantemente, nella cadenza e nell’accento, quella che dovrebbe
essere la lingua madre? Si imbarcò coraggiosamente nel
racconto delle varie presenze straniere e delle influenze che
avevano avuto sia sulla lingua originale, sia nel dar vita a
quell’insieme di regni, ducati e marchesati che era stata l'Italia.
Dalla sua espressione capì che non aveva inteso molto, vuoi per
la povertà del suo vocabolario, vuoi perché tutta la questione
non era per niente chiara in sé stessa. Figurarsi poi ad una
francese abituata a vivere in un Paese che per secoli, aveva
avuto un regno, un impero ed una repubblica. Durante quella
conversazione così impegnativa, avevano intanto lasciato il
ristorante e si erano avviati verso la Place de L’Orologe. Diretti
verso un bar nel quale, lei diceva, si poteva bere un caffè quasi
italiano.
Percorsero metà della piazza e si trovarono di fronte ad
una grande, colorata e musicale giostra Carousel a due piani. I
bianchi cavalli, seguendo la rotazione che li teneva per sempre
incatenati a quel mondo di favola, ondeggiavano mimando una
corsa impossibile verso la libertà. I piccoli frammenti di
specchio, incastonati lungo il bordo superiore della giostra,
riflettevano l’azzurro del cielo mentre la musica dolce di un
organetto si spandeva intorno. Svoltarono a destra in una delle
tante viuzze che circondano il piazzale e lui, per aiutarla a

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superare gli ostacoli dati da marciapiedi troppo alti o troppo
stretti, le prese il braccio. Era bello sentirla accanto a sé,
passeggiare per Avignone in silenzio, godendo della sua
compagnia.

Sotto di loro, un poco più in basso, si snodava una piccola


strada molto caratteristica, su un lato della quale si
intravedevano grandi pale in legno parzialmente immerse in un
piccolo corso d’acqua. Ferme ormai per sempre, potevano
testimoniare l’antica presenza di mulini. Era una strada che lui
non conosceva e le chiese se potevano percorrerla. Lei
assentendo con il capo, sembrava ancora una volta rivolta
all’interno di sé stessa, in ascolto di chissà quali vibrazioni,
celiò lui fra sé e sé. Discesero per un buon tratto, sino a trovarsi
tra case molto antiche, anche se ben ristrutturate: tutte costruite
con la pietra bianca della Provenza e con persiane gialle e
azzurre, che ne ingentilivano la linea. Un grande cartello
turistico indicava che si trovavano nella Via dei Tintori, dove
all’epoca delle Crociate, si producevano i tessuti e le tele
provenzali che riportavano motivi provenienti dall’India. Per
questo venivano chiamate Indiennes. Inoltre, dava l’indicazione
che in una delle vecchie case, ormai crollata, aveva abitato
Nostradamus, durante i suoi studi ad Avignone. Medico,
scienziato, astrofilo, alchimista, farmacista, esperto di
geomanzia e radioestesia così veniva presentato uno degli
uomini più celebri del rinascimento. Dopo aver letto il cartello,

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Marco non poté fare a meno di voltarsi verso Anne, per scoprire
che lo guardava intensamente, come se volesse spiare le sue
reazioni.
«Hai visto che Nostradamus era un tuo antesignano? Io non
sapevo che fosse anche radioestesista.»
Lei lo guardò stupita, come se le avesse chiesto qualcosa di
assurdo:
«Perchè mi chiedi una cosa così bizzarra ? Sono cose d’altri
tempi, morte e sepolte: perché ti interessa quell’uomo, quel
pazzoide visionario?»
«Ieri mi hai chiesto se sapessi che la mia Torino viene ritenuta
da molti una città magica: è vero, potrei andare avanti per ore e
ore a descriverti l’atmosfera misteriosa che alcune zone della
città fanno trasparire. Alcune dicerie sono solo leggende ma
altre… ti faccio un esempio: Papa Voytila, visitò la città nel
1988 e fu preso da uno strano malore, lui così forte, che lo
lasciò senza forze. Più tardi disse: “La città di Torino è per me
un enigma, ma dalla Storia della Salvezza, sappiamo che là
dove ci sono i Santi c’è anche un altro che non si presenta con
il suo nome, ma come il Principe di questo mondo, il Demonio
…Quando ci sono tanti Santi è perché ce n’è bisogno (Torino è
una delle città italiane che ne possiede di più )… Torino ha
bisogno di una conversione eccezionale, superiore”. Queste
parole misero in imbarazzo la Santa Sede, tanto che l’allora
cardinale Ratzinger dovette rappezzare le cose affermando che:
“La luce risplende là dove il buio è fitto”.
Torino è percorsa da infinite vie sotterranee, cunicoli,
anfratti e caverne in lungo e in largo, dai camminamenti della
Cittadella, costruiti dai Savoia (quando voi, proprio voi francesi
volevate invaderci), alla strada carrozzabile che portava il Re
dalla sua amante, al di là del fiume Po.
Insieme a tante leggende, vi è anche quella di
Nostradamus che l’ha visitata nel 1559, quando venne a far

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visita a Margherita di Valois e al duca Emanuele Filiberto di
Savoia. Per aiutare i due sposi ad avere un figlio oppure, come
dicono gli esoteristi, per entrare nelle misteriose Grotte
Alchemiche torinesi. Portava con sé un olio profumato, che
“indubitabilmente fa sì che la donna rimanga incinta per quanto
poca virtù abbia l’uomo”. Quale che fosse il suo intento,
predisse la nascita dell’erede, disse che si sarebbe chiamato
Carlo Emanuele, e sarebbe divenuto il più grande capitano del
suo tempo. Inoltre, compilò un oroscopo in cui collocava la sua
morte esattamente nell’anno in cui avvenne, il 1566.»
Si interruppe vedendo l’espressione di lei che, oltre allo stupore,
manifestava una sorta di fastidio, come se una piccola luce di
allarme si fosse accesa nei suoi occhi. Si affrettò a rassicurarla:
«Ti chiederai perché so queste cose. È presto detto, qualche
tempo fa ho scritto un saggio sulla sua vita e ho dovuto
documentarmi molto. Come tutti i grandi umanisti di quel
tempo, è una figura molto affascinante. Perché lo hai definito un
pazzo?»
«Perché qui in Provenza, a parte quelli che lavorano nel turismo
e lo vendono come un’attrazione da circo, noi non ne possiamo
più di sentir parlare delle sue centurie strampalate e
indecifrabili, che possono voler dire tutto e niente.» Ancora una
volta, nel vederla così accesa su un argomento tanto lontano nel
tempo, Marco si stupì: in fin dei conti il cartello aveva solo
scopi turistici e poi lui sapeva che nella sua epoca Nostradamus,
profezie a parte, era considerato uno dei medici più valenti.
Decise di non replicare.
Abbandonata la via dei Tintori, dopo un poco sbucarono in
Place Crillon, una piccola e deliziosa piazzetta che assomigliava
moltissimo a quelle italiane del sud, con la cerchia delle giovani
piante tutto attorno, le aiuole ben curate ed i caffè con i tavolini
e le sedie in ferro battuto. Si sedettero in uno di questi e lui poté
assaggiare una buona imitazione di caffè italiano, profumato,

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denso e forte come a lui piaceva; niente a che fare con il quarto
di litro di liquido bruno, inodore e purtroppo non insapore
servito abitualmente. Con una delle sue abituali associazioni
d’idee, ricordò con affetto quanto gli aveva detto innumerevoli
volte la sua nonna salernitana sul caffè, e sentì il bisogno di
farne partecipe Anne:
«Sai Anne, mia nonna era una gran donna del sud, colta e dai
modi raffinati: quando mi preparava il caffè, ripeteva ciò che
aveva detto l’anarchico Bakunin. Il caffè deve essere “nero
come la notte, caldo come l’inferno e dolce come l’amore”. Per
noi italiani non è solo una bevanda ma molto di più, è una pausa
è un … momento di riflessione; per questo non mi piace berlo in
piedi, al bancone dei bar.»
«L’espressione del tuo viso, mi fa pensare che l’amassi molto,
non è vero? E tuo padre da dove proveniva?»
«Da Venezia, ed io penso di essere stato un ragazzo molto
fortunato, perché ho potuto passare per anni le vacanze estive a
Venezia oppurte a Salerno, conoscendo in questo modo la gente
del nord e del sud Italia che, in quell’epoca, era abbastanza
diversa. Andare al sud allora era quasi come andare all’estero.»
«Dev’essere stato molto bello fare le vacanze a Venezia, con
tutto il tempo a disposizione e non con una sola settimana in cui
l’elenco delle cose da non perdere, t’incalza continuamente e
diventa opprimente.»
«Certo, era bellissimo vagare per i canali e nelle strette vie, per
poi uscire d’un tratto in un campiello, che è una piccola
piazzetta veneziana …»
«Il Campielò...non è una commedia di Goldonì?»
Marco non riuscì a trattenersi dal ridere di fronte a quella buffa
accentazione finale.
«Scusami, ma è molto strana la vostra abitudine di mettere
sempre l’accento sull’ultima vocale… si ottengono a volte
effetti comici imprevisti. Scusami non ridevo di te. Si è una

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commedia di Goldoni al centro della quale c’è appunto una
piazzetta, un campiello; la piazza a Venezia si chiama campo, il
campiello è circondato da case povere e abitate da quella
umanità rumorosa e allegra che a lui piaceva tanto. È difficile
spiegarti il suo teatro, perché è legato al parlare veneziano,
molto musicale; le ciacole, le baruffe delle sue commedie e
particolarmente di quella, diventano poesia e musica cantate dal
coro dei personaggi. Ricordo ancora quando mio padre si
appartava con le sue sorelle in visita da noi a Torino, sentivo un
flusso di parole che sembrava un poco… una cantilena.»
Dato che lei pareva non capire, la imitò facendola ridere e
quando lei gli disse che le piaceva il suo modo di imitare, per
divertirla le illustrò le cadenze che nei luoghi comuni, hanno
alcune lingue.
«Eine kleine nachtmusik ad esempio» le spiegò, caricando molto
l’accento tedesco «sembra un comando per addestrare un
pastore tedesco, eppure vuol dire “una piccola musica notturna”
una serenata, insomma, scritta da Mozart per una festa.»
«Et pour les francais? E sui francesi cosa mi puoi dire?» lo
provocò lei. Marco pensò al terreno minato in cui si era
cacciato, sapeva che su certe cose i francesi sono suscettibili,
ma volle proseguire lo stesso e, portando un poco in avanti le
labbra come per baciare e mimando un eccessivo sussiego,
emise una serie interminabile di borbottii incomprensibili.
Fortunatamente lei rise e lui tirò un plateale sospiro di sollievo
facendole capire così, che si rendeva ben conto del rischio
corso. Pensò che quello fosse il momento più opportuno di darle
il regalo; lo estrasse quindi dallo zainetto, le aprì la mano e la
richiuse sull’involucro.
«Un piccolo dono per te.» le disse.
Lei ebbe come un singulto, una sospensione del respiro, simile
al gesto di sorpresa di un bimbo:
«Un regalo per me ? Ma grazie, mi piacciono i regali. Che

49
cos’è?» chiese impaziente mentre lo scartava. Nel vedere il
rosso cuore, gli sorrise apertamente, «come potevi sapere che io
adoro il vetro? E questo è di un rosso così caldo!»
«Volevo lasciarti, prima di partire, un ricordo del nostro tango di
questa notte.» disse lui e lei rispose con un abbraccio tenero e
lungo.
«Grazie Marco.» gli disse ancora.
In quel momento lui ebbe l’ispirazione che avrebbe segnato per
sempre la loro storia, come se una voce interna gli suggerisse le
parole.
«Io vorrei avere tanto tempo per parlare con te, abbiamo così
tante cose da dirci e sento che insieme stiamo bene» lei assentì
col capo «ma domani dovrò partire. Per poter rubare un poco di
tempo, ho due proposte da farti. La prima è che questa sera io
cerchi un hotel qui ad Avignon e se tu sei libera, passiamo la
serata insieme. La seconda …» con una sicurezza che stupì per
primo lui stesso, trovò parole che suggerivano quasi
l’ineluttabilità di quanto le proponeva. «La seconda è che noi ...
noi restiamo insieme anche questa notte ma ... credimi ti prego,
senza fare l’amore, insieme soltanto per parlare e per conoscerci
meglio, perché saremo poi lontani per più di un mese …»
Lei ripeté la sospensione del respiro, il suo viso ebbe una lieve e
rapida esitazione, come se stesse lottando per non essere banale,
nel sottolineare di non essere donna da accettare di far l’amore
con il primo venuto, e ancora una volta lui si sentì ispirato nel
proseguire:
«Vedi Anne io penso che il sesso falsi tutto, l’attrazione fisica
può creare legami che impediscono di conoscersi più a fondo ed
in seguito arrivano prima o poi le delusioni...»
«E’ così, anche io lo penso, il sesso maschera i veri sentimenti.
Vi sono relazioni che si sostengono solo su quello lo ammetto,
ma a me questo non interessa, io voglio partager che è la parola
francese per dire condividere e partecipare, con un uomo i miei

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interessi e le mie passioni.»
«Allora sei d’accordo? Vuoi anche tu rimanere con me questa
notte?»
«Si Marco, anche io sto bene con te, spero solo che saremo così
forti da resistere, sai tutta una notte…» e gli regalò un sorriso
monello, prima di proseguire. «Mia figlia Amelie, è da me per
qualche giorno di vacanza insieme ad un’amica e questa sera
dovrò cenare con loro; potrò raggiungerti dopo, se non ti
dispiace restare da solo a cena.»
«Non importa, sono così felice che tu abbia accettato e mentre
tu sarai via, io potrò cercare un albergo e visitare Villeneuve
che, questa volta è vero, non conosco. Quando tu sarai libera,
potremo ritrovarci e fare ancora due passi prima di ritirarci;
queste notti avignonesi sono così belle da sembrare magiche. In
fondo, dobbiamo a loro il nostro incontro.» Anne annuì e
sorridendo ancora gli rispose:
«D’accordo, ma non penso che ti sarà facile trovare un albergo
libero, non dimenticare che in agosto abbiamo molti turisti; ora
chiamerò una signora, una nobile decaduta, che affitta alcune
camere al di là del ponte sul Rodano, a Villeneuve. Vi mando
sempre i miei amici di Parigi, quando sono ad Avignone.» ed
iniziò a comporre il numero sul cellulare. La sua conversazione
con l’affittacamere, si svolse in un francese di cui lui non capì
una sola parola; pareva un misto di occitano e francese antico e
se ne chiese il motivo. Probabilmente la nobiltà decaduta a cui
aveva accennato Anne, si riferiva a qualche secolo addietro,
quando l’occitano era la lingua ufficiale. Comunque, ora
avevano la loro camera e rinfrancati da questa sicurezza,
ripresero a parlare del prossimo viaggio di lei. Pareva che il
gruppo di studio di cui sino a poco tempo prima faceva parte,
dovesse confrontare i dati emersi dallo studio del campo
geomagnetico del sud della Francia, con i dati di altre comunità
scientifiche europee. Negli ultimi due anni si erano verificate

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fortissime anomalie magnetiche che non parevano essere di
origine naturale o artificiale.
«La Provenza non ha grosse quantità di minerali ferromagnetici
che provocano anomalie naturali, come avviene per esempio in
Italia nelle isole Capraia, d’Elba, Lipari, Catania e, forse non lo
sai, pure nel tuo Piemonte.» precisò lei.
«Ma che effetto possono avere queste anomalie, sulla vita di
tutti i giorni?»
«Le anomalie artificiali derivano dall’interramento di masse o
oggetti di natura ferro-magnetica, e la ricerca geoelettrica, con il
georadar, porta a scoprire fusti metallici di rifiuti tossici nelle
discariche abusive sepolte: tu dovresti saperlo, dato che da voi
le varie mafie si sono arricchite con i rifiuti tossici. Inoltre, si
possono scoprire gasdotti e tubazioni in generale. Per lo studio
del campo magnetico terrestre e tutte le sue relazioni su quella
che tu chiami la vita di tutti i giorni, si è resa necessaria la
creazione di una cartografia precisa e aggiornata. L’International
Geomagnetic Reference Field, del quale faccio parte, elabora
ogni 5 anni tutti i dati disponibili su scala planetaria e redige
quelle carte dal punto di vista previsionale. Purtroppo, il campo
geomagnetico non è stazionario ma va soggetto a variazioni
temporali in tutte le sue componenti, sia in termini di direzione
che di intensità; per arrivare a vere e proprie inversioni di
polarità magnetica che colpiscono simultaneamente tutte le
regioni della Terra. Oggi viviamo in una fase di polarità normale
iniziata 780.000 anni fa, mentre precedentemente vi era stata
un’epoca con polarità inversa detta di Matuyama.»
«Quello che mi sconvolge di voi geologi o geofisici, è il sentirvi
parlare di migliaia d’anni come se niente fosse. Ti fa sentire
un’effimera, uno di quegli insetti che, vivendo solo poche ore,
hanno la bocca atrofizzata per non perdere nemmeno una
frazione della loro vita nutrendosi. Come fate a non sentirvi
annichiliti dalla lentezza con la quale si svolgono i fenomeni

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che studiate? Potresti iniziare ad osservare qualcosa che si
compirà soltanto fra centinaia d’anni ed il tuo apporto potrebbe
essere solo infinitesimo, non è così?» Il sorriso di lei ora aveva
un’ombra di condiscendenza.
«Tu ragioni in questo modo perché consideri la terra soltanto
una superficie sulla quale muoverti e non come un organismo
vivente che ha milioni di anni. Se tu avessi passato come me
anni ed anni a cercare le anomalie nel campo magnetico
terrestre attraverso una forcella da rabdomante, sentendo il
magico respiro della terra che percorrendo le epoche giunge
sino a noi, se tu avessi sentito le correnti sotterranee che
erompono da buie caverne…»
Si interruppe come colpita da quanto lei stessa aveva detto e
dalla foga che immetteva sempre quando parlava del suo lavoro.
A lui pareva inspiegabile il fatto che in ogni occasione nella
quale si lasciava andare manifestando la sua passione, subito
dopo subentrava un’autocensura che la portava a interrompersi,
quasi si pentisse di averlo fatto. Cosa poteva esservi di male
nell’entusiasmo per le proprie idee, quali erano i motivi per i
quali si censurava? La conferma di quanto stava pensando,
l’ebbe dalle parole che lei, subito dopo gli disse.
«Debbo confessarti che io non parlo con nessuno del mio
lavoro, che considero un argomento per soli iniziati, ma
evidentemente tu eserciti su di me un’attrazione che mi porta a
lasciarmi andare, a condividere cose che possono anche non
interessarti…»
«Non è così Anne, ti prego di credermi; quanto mi hai detto
m’interessa molto, anche se lo ammetto, non tutto mi è chiaro.
La passione, qualunque passione, mi colpisce sempre. Credo sia
la prova dell’esistenza di una piccola parte divina in noi, quella
che troppo spesso è soffocata da desideri più banali, verso il
denaro, il potere e il predominio sugli altri.»
«La conoscenza dà potere e arriva non come un’illuminazione

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improvvisa, ma come una conquista lenta e progressiva, una
spirale che si svolge nel corso di anni ed anni, nel tempo. Prima
mi chiedevi del mio piccolo apporto all’interno di studi che
richiedono secoli. Io porto in me le voci degli spiriti dei miei
predecessori, che mi parlano con un lieve sussurro da
lontananze abissali… generazioni che si alternano, una dopo
l’altra…».
Ancora un’interruzione, questa volta accompagnata
dall’allontanarsi della luce che solitamente animava i suoi
occhi: questi parevano divenuti vitrei, inanimati, rivolti verso
luoghi sotterranei e misteriosi nei quali solo lei poteva vedere.
Le parole che aveva pronunciato contenevano un’inesplicabile
oscurità, non avevano niente a che fare con ricerche scientifiche,
misurazioni geomagnetiche e cartografie più o meno attendibili.
Sembravano ispirate a conoscenze antiche e misteriose, a circoli
segreti lontani anni luce dal mondo che li circondava. Ebbe
paura di trovarsi di fronte un’altra Anne, che nulla aveva della
donna che lo aveva conquistato durante una notte di tango.
Questa sensazione lo colpì subitanea e fortissima, sentì un
brivido lungo le braccia, come se tutti peli gli si drizzassero. La
paura ancestrale verso l’ignoto, verso qualcosa di talmente
alieno che ha lasciato nel DNA degli uomini il suo segno; una
memoria istintiva di entità da cui bisogna guardarsi. Eppure, la
donna che gli stava davanti, era la stessa il cui sorriso lo aveva
incantato la notte prima e per tutto quel mattino. Aveva gli stessi
tratti del viso e, se fossero tornati a guardarlo, gli stessi occhi.
La chiamò dolcemente.
«Anne sono qui con te, ritorna…» le disse e lei, riscuotendosi,
lo guardò. Era impressionante vedere con quanta lentezza
riprendessero vita i suoi occhi, da quando erano totalmente
assenti, a quando giungevano a riconoscerlo, quasi che lei
emergesse da uno stato di apparente incoscienza. Come se nulla
fosse accaduto disse:

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«Bene è ora che vada, mia figlia mi starà aspettando. Ci
vediamo dopo cena, d’accordo?»
Lui annuì e lasciarono il caffè, avviandosi verso il parcheggio.
Bastò che lei lo toccasse, per sentire una piccola scossa elettrica,
come quando si toccano inavvertitamente i poli della batteria
dell’auto: un leggero formicolio che partendo dalla mano di lei,
lo percorreva tutto, fugando ogni dubbio, ogni paura. La sua
vicinanza aveva un che di magnetico che gli fece pensare, in un
fugace lampo di autoironia, ad un accumulo di tutti i campi
magnetici che lei studiava.
Attraverso quel contatto, sentiva il suo essere donna,
l’essenza della sua femminilità, che da sorgenti nascoste
all’interno del suo corpo, si propagava alla parte più sensibile di
lui. Un forte desiderio sessuale, quale raramente aveva provato
in vita sua, lo assalì come un’ondata anomala e si domandò
come diavolo avrebbe fatto, a rispettare l’impegno appena preso
di una notte di castità. Lei parve sentire qualcosa, come se il
fluido generato dalla sua passione le fosse arrivato attraverso
recettori antichi come la prima femmina comparsa sulla terra. Si
voltò a guardarlo, fermò i suoi passi e gli trasmise con gli occhi
il desiderio di essere baciata. Accostandosi al suo viso risentì il
profumo della notte prima, vide le labbra piene, leggermente
dischiuse e accostò le sue, assaporando il sentore di mandorla
del suo rossetto.
Pareva che lei avesse concentrato tutto il suo calore sulle
labbra, che sentiva roventi; la tenerezza che provava si
trasformò rapidamente in eccitazione e affondò la lingua in
quella morbida delizia, cercando la sua e unendosi ai suoi
movimenti. Nel baciarla, si era stretto al suo corpo ed ora lo
sentiva, gambe, inguine e monte di venere, protesi verso di lui.
In un breve momento di coscienza si chiese ancora una volta
cosa sarebbe stata la notte a cui andavano incontro, visto che
neanche l’essere per strada li aveva potuti fermare; lei si staccò

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lentamente e lui vide che i suoi occhi erano profondamente
violetti, lucidi di passione. Pareva un’altra.
Quante altre Anne si nascondevano dentro di lei, quante
matrioske avrebbe dovuto aprire per arrivare all’ultima, la vera
Anne. Giunsero infine all’auto di lei e Marco la salutò, questa
volta con un leggero bacio sulla fronte; lei rispose stringendo un
poco più forte la sua mano, poi entrò nella vettura, gli sorrise
ancora una volta e partì.
Dopo averla salutata, sentì il bisogno di sedersi su una
delle panchine che costeggiavano il parcheggio; per cercare di
fermare il tremito che sentiva nelle gambe e per nascondere, in
quella posizione, gli effetti evidenti della sua eccitazione. Non
ricordava di essersi mai sentito così scosso dalla vicinanza con
una donna. Anne sembrava racchiudere in sé il fascino di una
donna volitiva e intelligente, con quello di una femmina
profondamente passionale. A tutto questo si aggiungevano i suoi
estraniamenti e la ricorrente sensazione che una parte di lei
fosse assente, in ascolto di chissà quali voci lontane; il che le
donava una forte componente di mistero. Durante i loro tanghi,
non si era dunque sbagliato ad interpretare quanto da lei gli
arrivava.
Fortunatamente la sua auto era vicina, e dopo qualche
minuto stava percorrendo il lungo Rodano, che lo avrebbe
portato al ponte per Villeneuve les Avignon. Nell'attraversarlo,
vide davanti a sé la piccola cittadina medievale divenuta la zona
residenziale di Avignone e svoltando sulla sinistra, seguendo le
indicazioni di Anne, si trovò davanti alla palazzina
dell’affittacamere. Dall'aspetto sembrava molto antica,
addirittura del Seicento. Un piccolissimo cartello indicava che
uno stretto vicolo, che intersecava a novanta gradi la stradina
che stava percorrendo, l'avrebbe portato nel parcheggio del
cortile interno.
Dovette fare una serie di manovre per imboccarlo e mentre

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operava con lo sterzo, non poté fare a meno di notare sui due
muri laterali, i segni colorati delle fiancate delle auto di ospiti
precedenti. Il parcheggio era invece molto ampio e per il
momento deserto; dopo aver preso la valigia, scoprì che era
comunicante con il corridoio d’ingresso della palazzina. Al suo
entrare, fu accolto da una sorta di contessa che sembrava fuggita
pochi minuti prima dell’assalto dei rivoltosi al Palazzo
d’Inverno.
Non le mancava nessuno degli accessori necessari a
ricoprirne il ruolo, bocchino lungo, vestaglia damascata e voce
querula compresi. Era alta, di un biondo platinato che Marco
non vedeva più da quando Simon Signoret aveva interpretato
Casque d’Or; il trucco, forse eccessivo, non riusciva però ad
involgarire i lineamenti di quella che doveva essere stata una
donna molto bella. Al collo portava un monile che colpì subito
Marco, perché era la copia quasi identica di quello che aveva
visto su Anne. L’unica differenza stava nel fatto che le tre spirali
erano in oro bianco anziché giallo ma questo non alterava
minimamente, l’effetto che ebbero su di lui: ancora una volta
restò preso dalla loro stroboscopia. Fissò il suo sguardo
sull’apparente rotazione e nonostante si dicesse che non era
certamente bello rimanere stralunato a guardare il petto di una
signora, non riuscì a distogliersi se non con un grande sforzo.
Anche lei, come aveva fatto Anne, coprì il monile con una
mano e lui, recuperata la lucidità, si chiese perché lo portassero,
se quando qualcuno lo guardava si affrettavano a nasconderlo.
In qualche modo riuscì a presentarsi e fu sommerso dai
gorgheggi di un idioma strano, un misto di francese e italiano:
«Holalà, lalà, bien sur, vous etes messieur Fabianì, bien sur
l’italiano per cui ho riscevuto le coup de fil, la sciamata di quela
madame aussi jentile, je suis Madame, solo Madame è così che
mi sciamano, venite j’ai preparè la sciamera c’est tres belle,
venite dovete essere bien fatiguè dopo tuti quei kilometres

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venite, venite…»
Investito, travolto da quel diluvio di parole, lui la seguì o
per meglio dire, seguì la scia persistente del suo profumo, data
la penombra in cui si muovevano. Limitandosi a borbottii e
leggeri assensi con il capo, si chiedeva nel frattempo se quella
prenotazione non fosse un brutto scherzo di Anne. Mentre
trascinava la propria valigia su un tappeto d’ingresso i cui tempi
migliori dovevano risalire all’epoca della caduta dello zar,
mentre saliva la scala liberty dalle cui pareti lo osservava,
corrucciata, quella che doveva essere l’intera genealogia di
famiglia incorniciata al completo, si diceva “vuoi vedere che
questa sera non verrà, vuoi vedere che ha pensato a me come al
solito italiano draguer, che viene in Francia pensando di
conquistare le donne francesi con proposte ipocrite del tipo “ma
non faremo l’amore”! Sì, te lo do io, ti mando a dormire dalla
pazza e vediamo se riuscirai a prender sonno, dopo che mi avrai
attesa per tutta la notte invano. E se il numero di cellulare che
mi ha dato non fosse il suo?”
Allietato da questi allegri pensieri, seguì la signora in una
stanza ed ebbe la sua prima sorpresa; era ampia, molto ampia e
arredata con mobilio d’epoca, compreso un letto a baldacchino
dell’Ottocento. A lato del letto, un grande camino in pietra e
sulla parete opposta uno scrittoio intarsiato: a fianco la porta che
presumibilmente dava nel bagno. La signora, i cui gorgheggi
parevano ora a Marco meno fastidiosi, aprì anche quella e lui
ebbe la seconda sorpresa, un bagno interamente ristrutturato -
doccia e servizi compresi - persino un mobile dotato di fornello
per le petit dejeuner. Piacevolmente colpito da tutto questo, poté
prestare attenzione a quanto Madame stava dicendo.
«Ah l’Italie je l’adore, da che parte de l’Italie veniva, ah de
Turin, oh lalà la Fiat, Turin c’est la Fiat, mais que charmant il
été quel Avocat Agnelì si sciamave n’est pas? Anche lui non est
plus c’est vrai, se ne vano scempre les meilleurs, ma mi dica, è

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chez nous per travaglio, e per quanto?»
Lui riuscì ad infilare in quel torrente alcuni oui, uno o due
d’acord ed un finale splendido desolè, in risposta alla palese
delusione provocata dalla conferma che sarebbe partito il giorno
dopo. Madame usava il lungo bocchino come una bacchetta da
direttore d’orchestra, senza quasi mai aspirare dalla sigaretta;
doveva essere stata inserita con una forte pressione, dati i
sussulti a cui era sottoposta. Infine, nel salutarlo, quasi gli
impose di riposarsi, “ docciarsi “ e con un ultimo gesto
civettuolo gli disse:
«Profitez de moi tout de suite, perché questa sera sarò fuori» e
gli lasciò le chiavi della porta esterna e della camera. Marco, nel
ringraziarla, decise di non soffermarsi sul significato di quel
“profitez de moi” e preso possesso della camera, aprì la valigia
per estrarne quanto gli sarebbe servito per cambiarsi per la
serata. Scelse una camicia azzurra, un pantalone coloniale ed un
pull senza maniche blu, tutto sommato ancora senza troppe
pieghe. La doccia, un grande accappatoio bianco ed una lozione
rinfrescante furono i piaceri che si concesse prima di scostare
l'elaborato copriletto e stendersi per pensare ad Anne e alla notte
che si avvicinava. A causa dell'eccitazione che ancora sentiva
dentro, le immagini della giornata appena trascorsa si
accalcavano nella sua mente con uno sfarfallio che gli parve
quello di una pellicola da sedici millimetri, montata da un
proiezionista fortemente alterato dal fumo. Un’immagine che
proveniva da una tecnologia morta e sepolta, ma ancora viva
nelle persone della sua generazione.
Chiudendo gli occhi cercò di rivivere i momenti della
giornata che più l’avevano colpito, ma non gli fu possibile
perché accanto a lei ogni istante possedeva una vibrazione
particolare, al di sopra di quanto poteva ricreare con il semplice
ricordo.Sentì nella mano e sulle labbra la sua presenza e gli
giunse vivido come se fosse lì con lui, il suo profumo. Una

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donna francese che sino a ieri non sapeva neanche che esistesse.
Sembrava incredibile. C’era, tra loro, quella strana corrente,
quel flusso continuo di sensazioni che lo rendevano sempre più
preso da lei e dal suo fascino: gli pareva di vivere in un sogno
proveniente dalla mente di qualcun altro, in cui la sola regola
fosse il lasciarsi andare senza chiedersi nulla. Aveva sempre
letto che nel tango potevano avvenire di questi miracoli, se ne
parlava nella letteratura; ma viverlo era un’altra cosa. Si
chiedeva come avesse potuto ballare per anni con centinaia di
donne diverse e, al di là del piacere del ballo, non sentire nulla.
Non c’era trasmissione, solo le piccole scariche elettriche di una
radio che non riesce a sintonizzarsi. Poi in una notte di agosto in
Provenza, aveva stretto nell’abbraccio una donna, aveva iniziato
a muoversi con lei e d'improvviso si era scatenato un diluvio,
come se tutte le emittenti del mondo si collegassero con la sua
parabola mentale. Un’altra prova delle grandi e inesplorate
potenzialità del nostro intelletto.

Con il pensiero ancora rivolto a lei, si alzò per vestirsi e


nel raccogliere dallo scrittoio il portafoglio, vide che era in
realtà un magnifico secretaire in mogano rossastro: la parte
superiore era intarsiata con legni pregiati, mentre le gambe
riportavano decori in ottone dorato. Dalle conoscenze acquisite
nell’aver scritto un saggio sull’Università dei Minusieri Torinesi
del ‘600, Marco ritenne che fosse un mobile francese molto
antico, probabilmente proprio del ‘600. L‘arte dell’ebanisteria
aveva già raggiunto in Francia, in quell’epoca, una perfezione
che aveva ispirato i grandi ebanisti piemontesi.

60
I mobili di quel tipo avevano all’interno uno scarabattolo,
una serie di piccoli cassettini per riporre gioielli e documenti e
spesso in uno dei cassetti si celava un vano segreto. Il mobile
era conservato molto bene e passando una mano sulla
superficie, si accorse che l’intarsio non aveva subito squamature
causate dal tempo: aprì completamente un cassetto laterale e si
accorse che era di una profondità molto inferiore a quella del
secretaire, segno che il cassetto nascondeva qualcosa. Estratto
del tutto il cassetto e posatolo per terra, si chiese se non fosse
indiscreto mettere le mani nel mobile di Madame, ma il cassetto
era vuoto e la passione che aveva sempre avuto per i mobili
antichi lo spinse a continuare. Inserì il braccio all’interno del
vano che aveva contenuto il cassetto e trovò una parete che, se
non fosse stata a metà dello scrittoio sarebbe potuto sembrarne
il dorso posteriore; passò la mano lungo tutta la superficie della
parete, premendo di tanto in tanto sul legno finché sentì che
nella parte centrale una piccola sezione stava cedendo. Spinse
ancora più a fondo e si trovò sotto le dita un incavo che poteva
servire da maniglia, tirò verso di sé vincendo la resistenza di
incastri che evidentemente non venivano sollecitati da
moltissimo tempo, e si trovò davanti lo scarabattolo, una
scacchiera di cassetti di tutte le forme, completamente vuoti.
Non poté fare a meno di ammirare, nonostante la polvere
che li ricopriva, la perfezione con cui erano realizzati i vari
scomparti e si chiese se anche in questo mobile fosse nascosto
un vano segreto. Sporgendosi in avanti, passò le mani sul dorso
dello scarabattolo per cercare intagli, rientranze o fessure che
potessero rivelare un meccanismo di apertura nascosto, ma la
superficie era perfettamente liscia. Chinandosi ancora di più,
sino ad appoggiare il petto allo scrittoio, tastò con le dita anche
la parte inferiore dei cassetti e sentì le guide su cui scorrevano:
erano stranamente cilindriche. Ricordò che molti ripiani
estraibili dei mobili del tempo si appoggiavano su tiretti

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cilindrici a baionetta. L’unica stranezza era rappresentata dal
fatto che il diametro delle guide era assurdamente grande
rispetto al peso che doveva sostenere. Forse l’unica cosa da fare
era accovacciarsi sotto il secretaire per verificarne la ragione.
Passato dall’altra parte e chino sino ad infilarsi sotto il piano,
vide che l’abatjour che illuminava la stanza era troppo discreto,
per rischiarare anche la parte nascosta del mobile.
Si rialzò e prese il portachiavi dell’auto, nel quale era
inserita una piccolissima pila alogena; serviva ad illuminare la
serratura, nel caso di buio pesto o di alterazione alcolica.
Ritornato sotto il mobile e con l’aiuto della pila, vide che le
guide erano - altra stranezza – in ottone. Un’improvvisa
ispirazione lo spinse a battere con una delle chiavi contro di
esse: il suono gli diede la prova di quanto aveva immaginato.
Almeno una delle guide era cava. L’unica ragione di questo
poteva essere che la guida stessa, per quanto cilindrica, potesse
fungere da nascondiglio segreto; un documento arrotolato
poteva entrarci senza fatica. Restava solo da scoprirne l’apertura
di accesso. Passò l’indice sul fondo piatto e scoprì una piccola
scanalatura, provò ad infilare una chiave a mo di cacciavite ma
non entrava, dovette quindi rialzarsi e prendere nella giacca una
moneta da due centesimi di euro. La sua ricerca si stava
dimostrando un’attività ginnica impegnativa e quando ritornò
sotto il mobile, seppe che avrebbe dovuto rifare la doccia prima
di uscire.
Inserì la moneta nella scanalatura e forzando un poco sentì
che iniziava a ruotare, segno che la parte terminale della guida
era formata da un vero e proprio tappo, avvitato internamente.
Lo ripose nel taschino della camicia e con l’ansia che gli
derivava dall’aver intuito il segreto di quel mobile antico, infilò
il dito medio nella guida sino a che sentì al tatto la presenza di
un rotolo di carta che tirò delicatamente verso di sé. La luce
della pila, gli rivelò che aveva nelle mani qualcosa che era

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rimasto nascosto per molti anni, perché si trattava di un foglio di
pergamena, un materiale che non si usava più da secoli.
Prima di rialzarsi verificò se anche l’altra guida contenesse
un segreto, ma era vuota; quindi, ricompose entrambi i tappi e
uscì dalla scomoda posizione che aveva dovuto mantenere
durante la sua ricerca. Indeciso tra leggere il contenuto della
pergamena e rifare la doccia, risolse di togliersi la camicia,
asciugare il sudore sulla schiena e sul viso e riprendere il
manoscritto. Aprì il rotolo fortemente deformato dalla
costrizione nel cilindro, lo appoggiò allo scrittoio per
distenderlo meglio e vide che i caratteri gotici si stagliavano
ancora ben visibili sulla cartapecora, nonostante le macchie del
tempo.
In un latino ieratico dicevano:
“Tu che hai ritrovato questo scritto, diffida di coloro che
portano il segno del Triskell,

essi sono nemici della verità, perché solo ad essi vorrebbero


fosse riservata. Ma il Sommo Artefice ha disposto che la
Grande Opera, la pietra trasmutatoria, resti ancora lontana
dalle loro brame. Non è uccidendo il vivo per rianimare il
morto che si ottiene il corpo misterioso, il mercurio dei saggi,
l’amalgama filosofico ma con l’umiltà e la fede, quella che
loro hanno perso. Il nostro maestro, Michel de Nostredame,
ottenne la conoscenza prima dal magnetismo della terra e dal

63
potere delle acque e poi nelle Grotte Alchemiche, nel
sottosuolo della città italiana di Torino. In quel luogo
sotterraneo, trovò la preveggenza e intravvide il giorno in cui
il Nord diverrà il Sud e viceversa. Lui si ispirava agli antichi
insegnamenti, al respiro della Terra, alle correnti del tempo
che ritorna. Coloro che si definiscono gli Eletti del Triskell, gli
ingiunsero di rivelare il suo segreto. Il Maestro conosceva
troppo bene la loro sete di potere, la brama di ottenere il
dominio sulle cose e rifiutò. Io qui denuncio per la prima
volta, ciò che il mondo non conosce, l’assassinio del grande
uomo, perpetrato giorno per giorno a poco a poco. Gli Eletti
sanno che io so e mi sorvegliano, temo che mi uccidano come
hanno fatto più volte in passato con altri confratelli che, come
me, si opponevano al loro potere. Lascio dunque a te che mi
hai trovato, ciò che il Maestro ci ha rivelato sulle Grotte
Alchemiche: La loro esistenza ed il passaggio per accedervi è
un segreto tramandato di generazione in generazione
giungendo sino a me. Nel cuore nero della città, in posizione
infausta per il tramonto del sole, sta la Vallis Occisorum.
Attraverso lei si accede alla porta dell’inferno. Con questo
nome noi abbiamo mascherato per secoli, l’ingresso alla
conoscenza.
Ricorda, la luce dell’alba si addice allo zaffiro.
Firmato: Franciscus Valeirole, in Salon il 12 maggio
1703
Marco rilesse ancora e ancora lo scritto, con la speranza di
capire qualcosa di più su quanto gli aveva dato la prima e
affrettata lettura. Inutilmente perché era chiaramente rivolto ad
un iniziato o per lo meno ad un contemporaneo, per il quale
quella terminologia poteva essere familiare. Le sole
considerazioni che poteva trarne erano poche e paurose:

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- il documento era antico, come testimoniava la pergamena, un
supporto alla scrittura che non veniva usato ormai da secoli: le
macchie giallastre sui bordi, indicavano l’effetto degli anni.
- la proprietaria del mobile, cioè Madame, non sapeva dello
scomparto segreto
- se ricordava bene quanto aveva letto all’epoca delle sue
ricerche su Nostradamus, Salon era proprio la cittadina in cui
era vissuto per tutta la vita.
- accanto alla parola Triskell, era disegnato un simbolo, lo stesso
riportato nel medaglione che la stessa Madame, e purtroppo
anche Anne, portavano al collo.
Non poteva essere una burla, non si mette una pergamena
autentica, che oggi avrebbe un valore collezionistico molto alto,
dentro ad un secretaire, che da un antiquario poteva essere
valutato non meno di centomila euro, per burla: di conseguenza
qualcuno aveva fatto giungere, attraverso i secoli, quell’ultimo
avvertimento prima di fuggire o essere ucciso. Maledetta la sua
curiosità, si disse. Se non avesse aperto il cassetto segreto, a
quest’ora starebbe passeggiando per le strade di Villeneuve in
attesa di Anne e non si troverebbe a dover decidere se rimettere
a posto il documento, parlarne con lei o tacere del tutto. Rimise
a posto i due cassetti, si spogliò ed entrò nella doccia. Lasciando
scorrere a lungo l’acqua, alzò il viso verso il getto; il mal di
testa, che poco prima si stava annunciando con il pulsare alle
tempie, lentamente svanì e lo lasciò libero di decidere cosa fare.
Due forze contrastanti lo trascinavano verso direzioni
opposte. Una gli imponeva di parlare con Anne, per non iniziare
un rapporto al quale teneva molto, con una menzogna. L’altra,
più radicata all’interno della sua mente, gli lanciava messaggi di
allarme e avvertimento. Che cosa sapeva in definitiva di lei?
Nulla, al di fuori di quanto gli aveva raccontato, e anche quel
poco era fortemente influenzato dagli strani atteggiamenti che
aveva più volte assunto. Per di più, avrebbe dovuto confessare

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di aver messo le mani dove non doveva. Decise quindi che per
ora avrebbe taciuto, in attesa di conoscerla meglio. Si rivestì in
fretta rendendosi conto che la sua investigazione antiquaria, gli
era costata la cena. Doveva almeno andare fuori, per non dover
giustificare con lei tutto il tempo trascorso in camera.
Questo pensiero lo colpì e si arrestò a metà strada tra il
bagno e il secretaire: perché aveva usato la parola, giustificare?
Aveva forse acquisito nei suoi confronti un atteggiamento di
soggezione? Dovette confessare a sé stesso che la personalità di
lei sicuramente lo sovrastava ed ora, dopo il fortuito
ritrovamento, un poco lo spaventava. Nascose la pergamena in
uno scomparto della valigia e dopo aver chiuso silenziosamente
la porta della camera, scese le scale cautamente. I ritratti alle
pareti questa volta gli parvero molto meno risibili; quanti di loro
erano stati adepti del Triskell, o come diavolo si chiamava quel
simbolo? Automaticamente il suo sguardo cercò sul collo di
ognuno la presenza di quel monile, ma la penombra gli impedì
questa verifica.
Al termine della scalinata, la luce che filtrava da una porta
socchiusa gli fece capire che Madame era ancora in casa e
ringraziò il folto tappeto che lo salvava da un’altra surreale e
molto probabile conversazione. Ancora in punta di piedi, si
avvicinò alla grande porta d’ingresso, soffocò come poté il
cigolio dei cardini, la richiuse con una manovra al rallentatore e
imprecando un poco contro lo scatto del chiavistello, fu
finalmente in salvo.
Il grande orologio barocco sul campanile della chiesa di
fronte segnava le nove e trenta; aveva più o meno mezzora
prima dell’incontro con Anne. Camminando sotto un porticato
molto simile a quelli piemontesi, raggiunse una piazzetta nella
quale convergevano altre due vie. Una di queste portava
l’indicazione per “La Chartreuse”, l’altra verso il viale da cui
era arrivato lasciando Avignone. L’aspetto medievale della

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cittadina era presente ovunque, nei grandi portali in legno, nelle
pietre del selciato e nelle insegne dei negozi che vi si
affacciavano. Una scuola di musica aveva finestre che davano
su giovani musicisti concentrati su un violoncello, una viola da
gamba ed un flauto: la musica che si levava dai loro archetti,
che incalzava e si espandeva sulla strada, con il suono di un
allegro e cristallino ruscello - Vivaldi forse - lo calmò un poco.
Villeneuve era molto graziosa, con l’architettura
provenzale della pietra chiara presente in tutte le case,
l’uniformità dei suoi colori, l’ordine delle strade e l’armonia
delle piazzette. Continuava a chiedersi l’origine della
pergamena, ripetendosi nella mente quanto vi era scritto e
cercando di interpretarlo: le poche frasi comprensibili nel senso,
erano terribili nel significato. Se non era un falso, parlava
dell’omicidio di uno degli uomini più famosi del Cinquecento, e
di altri omicidi, perpetrati da una setta chiamata degli Eletti.
Secondo il documento, a loro si opponeva un gruppo di
dissidenti, ma chi erano? E cosa diamine era la Vallis
Occisorum a Torino?
Il cielo stava passando dal color rame scuro al blu violetto
che segue il tramonto; già da qualche tempo Sirio, la luminosa
stella della sera, era uscita dall’ombra del campanile per fare da
staffetta ad una bianca e splendente luna di agosto. Decise di
avvicinarsi al luogo del suo appuntamento con Anne e proprio
in quel momento, il suo cellulare compose sul display il suo
nome. Al suo sì, sentì la voce di lei che gli diceva un semplice e
sensuale “j’arrive”. Ci sono parole il cui significato può avere
maggior fascino con l’uso di una lingua piuttosto che un’altra.
Forse il tutto è solo soggettivo, ma a lui parve che quella parola,
“ j’arrive “ scacciasse di colpo tutti suoi dubbi, dandogli nel
contempo la consapevolezza del potere che quella donna aveva
su di lui. Era bastata la sua voce, per ridargli la calma e la
fiducia in sé stesso.

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Quando se la ritrovò dinnanzi le sorrise e la baciò sulla
guancia; lei ricambiò il suo sorriso, con una sorta di calma
fiducia, che poteva tradire una più intima e profonda emozione.
Tra loro c’era una lieve sospensione, un’aspettativa che
cercarono di mascherare avviandosi sottobraccio e
chiacchierando. Forse per alleggerire la tensione Anne gli
chiese:
«Che impressione ti ha fatto Madame? Cosa ti ha detto, ha
parlato molto?»
Lui le rispose facendo un breve e comico resoconto del suo
incontro, non tralasciando neanche dei suoi dubbi sul fatto che
la prenotazione fosse tutto uno scherzo. Ripassarono dalla strada
che lui aveva percorso poco prima e lei rifiutò l’invito a bere
qualcosa prima di ritirasi.
«Non bevo mai nei bar - disse - non mi piace e poi a quest’ora ci
sono solo uomini che sono lì pour picoler» e per spiegarsi alzò
il braccio portando, in una maniera modo comica, il pollice alla
bocca. Lui sorrise di quel gesto così popolare e di quella
espressione, che non conosceva.
Dopo aver lasciato il centro della cittadina, lei lo guidò
verso il ponte sul Rodano da dove si poteva vedere la mole
illuminata del Palazzo dei Papi e verso sud, i piccoli battelli in
disuso che fungevano da bistrò per i turisti. Rumori attutiti
giungevano dai gruppi che ne uscivano, mentre il lento scorrere
delle acque rifletteva l’argento della luna, ormai alta nel cielo.
Ritornando indietro, raggiunsero infine la palazzina che per una
notte sarebbe stata la loro casa e lui iniziò ad armeggiare con la
chiave del portone per aprirla senza fare troppo rumore.
Precauzione inutile, perché l’alloggio di Madame era buio e
silenzioso: salendo insieme a lei la scala, lui cercò di non
guardare la galleria di antenati minacciosi, che questa volta
avevano un intruso in più da osservare dai loro ritratti. Entrando
nella stanza, lei posò un piccolo necessaire sul letto e si guardò

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attorno:
«Conosco questa camera, i miei amici di Parigi l’hanno a volte
occupata quando gli altri alberghi erano al completo. Mi pare
bella, cosa ne dici?»
Lui concordò con lei sforzandosi di distogliere gli occhi dal
secretaire, che ora gli pareva divenuto enorme, come se fosse
l’unico mobile presente nella stanza. Mentre lei si chiudeva
dietro la porta del bagno, lui si spogliò velocemente, infilò una
delle t-shirt esotiche acquistate nei suoi viaggi, un comodo
boxer e si sedette sul letto. L’idea della pergamena nascosta era
come una presenza estranea, che alterava fastidiosamente
l'emozione di trovarsi insieme ad Anne, Si sentiva combattuto
tra il piacere di essere con lei e la paura di lasciar trasparire
quanto le stava nascondendo. Si voltò verso la parete, spense la
luce centrale e accese solo quella piccola sul suo comodino,
dando in questo modo alla stanza una penombra che metteva
ancor più in risalto il mistero che per anni aveva custodito.
In quel momento la porta del bagno si aprì e Anne,
coprendosi con il vestito con un gesto che a lui parve molto
sensuale, si avvicinò al letto e gli disse disinvolta “a te la
doccia”. Marco, quasi senza guardarla, ruotò intorno al letto ed
entrò in bagno, dove aleggiava ancora il suo profumo, lo stesso
che lo aveva colpito la sera prima durante il loro primo tango.
La sua persistenza gli ricordò che al di là della porta, c'era la
donna più affascinante che avesse mai incontrato nella sua vita.
Lo stesso destino che li aveva uniti la sera prima, e nella
giornata appena trascorsa, pergamena o no, avrebbe deciso per
loro. Attraversò la stanza immersa nella semioscurità e vide che
Anne era sul fianco, il viso girato verso la parte libera del letto,
in attesa. Lui scostò il lenzuolo e si distese accanto a lei, senza
ancora toccarla. Per un istante stettero così, felici solo di
condividere la penombra della camera ed il silenzio che li
isolavano dal mondo esterno, sentendo la presenza dell’altro

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solo dal suo respiro. Dopo aver spento l’abatjour sul comodino,
lentamente insinuò il braccio sotto il suo capo e l’accolse tra le
braccia.
«Marco, c’è qualcosa che non va?»
Evidentemente, avvertiva qualcosa di diverso in lui, quindi
decise di scacciare ogni pensiero e di sforzarsi d’essere l’uomo
che sarebbe stato, senza la scoperta della pergamena. Le disse in
italiano:
«No Anne, è che sono tanto felice...»
«Si caro, parlami in italiano. Mi piace, dimmi ancora…»
«Si, Anne, ti parlerò in italiano, ti dirò del tuo sorriso, dei tuoi
bellissimi occhi e di quello che sento quando mi guardi con la
tua espressione un poco assorta. Ti dirò del tuo piccolo,
incantevole singulto, quando qualcosa ti sopprende… della tua
bocca, di queste due piccole fossette deliziose, del tuo modo di
camminare e pure … del tuo corpo che indovino là sotto.»
Lei emise una piccola esclamazione:
«Oh là là! guarda che ho compreso, ricordati del nostro
patto…»
Poi la notte fu tutta per loro, fatta dell’assenza di rumori e del
buio ovattato che li circondava, piena del calore che era in parte
eccitazione, ed in parte appagamento del desiderio di sentirsi e
accarezzarsi, che avevano avuto sin dal mattino. Nei loro baci e
nelle loro carezze, c'era solo tenerezza, senza la fretta di arrivare
più avanti e più avanti ancora.
«Marco, le tue mani… hanno una dolcezza che raramente ho
trovato in un uomo. Sono felice di essere qui con te, in questa
notte meravigliosa.»
La voce che sussurrava quelle parole nel buio, toccava nel
profondo il suo animo, risvegliando sensazioni dimenticate da
tempo e rimuovendo difese che si era andato costruendo anno
dopo anno, per non soffrire. Il suo profumo di donna e il calore
del suo corpo, che pareva attendere con ansia le carezze con cui

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lui la scopriva a poco a poco, lo riportarono indietro negli anni.
Ad emozioni che aveva accantonato in qualche ripostiglio della
memoria. Scese lentamente lungo morbida rotondità della sua
spalla, ed incontrò la forma circolare del monile, che pareva
scottare sotto le sue dita; mentre allontanava la mano
velocemente, si chiese se non se lo togliesse mai. Quando sentì
l'ampia curva formata dal duo fianco, il desiderio era divenuto
un’onda che saliva lenta nel buio, s’infrangeva contro il loro
accordo e si ritraeva per ritornare subito dopo. Tenerla a freno
rendeva tutto ancor più eccitante.
Forse è questa l’essenza dell’erotismo - pensò lui - tenere
imbrigliata la sensualità per mezzo di un qualche fine superiore
e nello stesso tempo, gustare ogni istante, ogni carezza. Mentre
la tenerezza e l’amore addolciscono la pena data dal piacere
negato. La sua mano, come animata da una volontà propria,
scese ancor di più e sentì che la curva sensuale del bacino era
solcata dall’elastico di quello che gli parve un tanga: il solo
pensiero di quanto racchiudeva, gli provocò un improvviso
dolore, dovuto all'eccitazione giunta al culmine. Sistemò meglio
quanto i suoi boxer non riuscivano più a contenere e tornò a lei.
Scendendo lungo la sua coscia, la mano andava libera verso la
pelle di seta dell’interno, fermandosi giusto in tempo perché il
leggero ansare di lei gli dicesse quanto quel gioco pericoloso le
piacesse. Stavano avanzando insieme, come due acrobati su una
corda tesa, senza rete e con il solo aiuto di un amore che
cresceva a poco a poco, che veniva rafforzato da questa prova a
cui avevano voluto sottoporsi.
«Io credo che tu sia un poco masochista» gli disse lei,
contraddicendosi subito dopo, quando sussurrando un «Desolé,
scusami un attimo...» si alzò dal letto, esponendo in questo
modo un sottilissimo tanga che si insinuava tra la meravigliosa
rotondità delle sue natiche. In quell’attimo, ebbe la conferma di
quanto i suoi jeans scoloriti gli avevano soltanto fatto

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intravedere; un corpo bellissimo e armonioso che avrebbe
ossessionato le sue prossime notti solitarie a Torino. Dopo un
poco lei tornò e gli chiese:
«Cerchiamo di dormire un poco, vuoi? Domani dovrai viaggiare
e devi riposare. Se mi giro e tu mi abbracci da dietro, potremo
dormire come due fanciulli.»
Senza attendere risposta a quello suggerimento, che pareva più
una provocazione impertinente che il desiderio di dormire, si
voltò e gli venne contro. Lui la strinse lasciando che la sua
eccitazione si trasmettesse dolcemente a lei, come una
compagna del loro desiderio. Fu in quel momento che ebbe la
certezza di amare quella donna, perché soltanto amandola,
poteva tenerla in quel modo, sentire al di sopra delle braccia il
leggero peso dei suoi seni e provare tanta tenerezza. Desiderare
di entrare in lei non per possederla ma per restare con lei qui ad
Avignone e poi lungo il tragitto in cui l'avrebbe portata il suo
viaggio; dentro di lei negli alberghi in cui avrebbe dormito per
giorni, nelle milonghe in cui avrebbe ballato con uomini che
l'avrebbero stretta e sicuramente desiderata.
«Buona notte» gli disse lei con voce assonnata e lui stringendola
ancora di più, le disse in italiano «Buona notte amore mio.»
Dopo un poco il suo respiro, divenuto sempre più regolare, gli
disse che si era assopita; lui era ancora troppo eccitato per
riuscire a prender sonno, sentiva vampate di calore percorrerlo
da capo a piedi. Dormirono a tratti, perché l’abitudine al sonno
solitario, rendeva il corpo dell’altro una presenza nuova; in ogni
risveglio ascoltava il suo lieve respiro, il suo abbandonarsi a lui
nella completa vulnerabilità del sonno. Infine, svegliato dalla
luce che penetrava dalle fessure delle persiane sconnesse, si
voltò verso di lei e attese. Come se avesse percepito tutto
questo, Anne si destò e lo abbracciò dolcemente dicendo:
«Buon giorno caro io ho dormito bene e tu?»
«Poco, ma è bellissimo ritrovarti qui con me.»

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Guardandola alla luce della lama dorata del sole che si rifletteva
sulla parete, pensò a quel detto per cui per capire cosa provi per
una donna, devi guardarla al mattino appena sveglia: lui vedeva
le sue piccole rughe intorno agli occhi, le palpebre ancora
gonfie di sonno, i suoi capelli scarmigliati e gli piaceva più che
mai, anche così. Mentre lei si distendeva languidamente, sentì
l’umidore della sua pelle, che sapeva di traspirazione e di
recessi caldi e intimi. Provò una grande tenerezza.
«Mi sembri una gattina appena sveglia.»
«Una piccola gatta sì, io amo i gatti, sono creature misteriose,
sono le creature della notte… mi piace accoccolarmi come loro
così…» si raccolse tutta per poi stirarsi, provocando un
imprevisto abbassamento del lenzuolo, che le lasciò i seni
scoperti. Fu più forte di lui, si chinò a baciarle il piccolo
capezzolo che, al calore delle sue labbra, iniziò ad uscire dal
sonno e a prendere forma, bocciolo palpitante di un fiore che
nasceva dal suo petto per provocarlo.
«Cosa diavolo sto facendo, sarà meglio che ci alziamo se
vogliamo ancora essere fedeli al nostro accordo.»
«Peccato, era piacevole.» lo provocò ancora lei.
«Mi prenderò la rivincita un giorno, e allora sarà meglio che tu
ti prepari ad una notte di effetti speciali, a cose dell’altro
mondo... ti pentirai di avermi preso in giro…» lei rise e
guardandolo tra le braccia che, per lasciare ancora più scoperto
il petto, aveva incrociate sul viso gli disse:
«Ma io non sarò mai più preparata di così, dopo questa notte di
supplizio; sentire dietro di me là in basso la tua presenza che, in
pieno vigore, cercava in tutti i modi di farsi strada. Sapere che
quello era dovuto all’effetto che ho su di te, era molto eccitante
ed è un miracolo che sia riuscita ad addormentarmi.»
Giocarono ancora su quanto può esserci di buffo nel sesso, tra
due persone intelligenti che sappiano coglierne l’aspetto più
comico. Risero ancora della notte passata e del loro desiderio,

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per non pensare al momento in cui tra poco, avrebbero dovuto
separarsi e fare a meno, per più di un mese, di quella gioia che
ora riempiva loro la vita. Iniziarono a prepararsi per uscire.
«Andiamo a fare colazione?» gli chiese lei uscendo dal bagno
«ti porto in una piccola pasticceria qui a Villeneuve, in cui fanno
dei croissant favolosi, anche se non potrai avere il tuo
cappuccino italiano, con tutta quella meravigliosa schiuma.»
Quando furono pronti, di fronte alla porta della camera ancora
chiusa, si arrestarono guardandosi negli occhi. Sapevano che il
momento del distacco si avvicinava. Lei gli prese la mano e
disse:
«Marco grazie per questa notte caro, salutiamoci qui finché
siamo soli, fuori ci sarà gente e non voglio farmi tradire
dall’emozione. Io ti conosco così poco, ma sto bene con te, mi
pare di aver ritrovato un amante che avevo perduto o che non ho
mai avuto.»
Poi lo abbracciò forte, si strinsero come per imprimere nei loro
corpi il ricordo dell’altro, per conservare per lunghi giorni e
notti, la sensazione di completezza che provavano stando
insieme. Lui sentì contro di sé la durezza del medaglione di lei
ma si sforzò di non pensare a cosa potesse rappresentare. Alla
luce del giorno tutto quanto aveva letto nella pergamena gli
sembrava un insieme di esoteriche e assurde fantasticherie. La
notte appena passata con lei, gli aveva ridato la stessa Anne che
aveva danzato con lui la prima volta, quella di cui si era
innamorato. Dopo aver richiusa la porta dietro di loro, si
avviarono nel corridoio illuminato dalle lame di luce polverosa
che provenivano dai grandi scuri della finestra laterale ed
iniziarono a discendere le scale. Tenendosi per mano, ogni
gradino uno sguardo, fino a che non furono interrotti da
Madame che, uscendo dalle sue camere, li accolse con il suo
cicaleccio italo-francese.
«Oh bonjour madame, nous nous retrouvons, siete venuta per le

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monsieur de Turin che sci lascia trop bientot, ier sera nous semo
andate, moi et ma copine à un conscierto nel Palais, c’etait
super, fu super vraiment la musìca de Piassolla, magnifique.
Conossete vous?»
Anne, probabilmente più avvezza di lui a gestirla, la
liquidò subito con uno stringato “bien-sur”, mentre Marco
preparava il denaro per regolare il conto della camera e lo
allungava a Madame che, con un gesto distaccato, gli dava in
cambio la ricevuta. Ora che sapeva di lei molto di più, non gli
pareva più una donna bizzarra e un po’ svanita, anzi: aveva
l’impressione che quel suo modo frivolo di fare, mascherasse la
sua vera natura. La salutarono di corsa ed uscendo dalla
palazzina, dopo aver lasciato le sue valigie nell’auto, si
avviarono verso la piazzetta in cui si trovava la pasticceria.
Anche quel giorno il tempo era splendido e il sole non
ancora caldo delle nove, illuminava stradine che profumavano
del pane appena sfornato nelle numerose boulangeries che
incrociavano. Anne si lasciava portare per mano, un modo un
poco infantile, che a lui era sempre piaciuto quando camminava
con una donna che amava. La piazzetta era molto irregolare, sul
lato in salita si stava allestendo un piccolissimo mercato, mentre
sull’altro, più in piano, i caffè disponevano i tavolini e le sedie
per la giornata. Procedendo verso il fondo a sinistra, si sentiva
aleggiare un fragrante odore di vaniglia che preannunciava
quello che una colorata insegna specificava: “viennoiseries et
croissanteries” Vi entrarono mentre lui commentava la strana
definizione di viennese per una pasticceria tipicamente francese.
Lei gli spiegò che gli austriaci, per ringraziare i pasticceri
francesi che, lavorando di notte, avevano dato l’allarme mentre i
turchi cercavano di entrare durante l’assedio di Vienna, avevano
battezzato in quel modo i loro dolci. L’interno, nella sua
raffinatezza, sembrava un’illustrazione presa dalla favola di
Alice, tanto era bianco e irreale: enormi teiere erano schierate

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sul banco e bianchi vassoi impagliati traboccavano di croissant;
la stessa rubiconda pasticcera, avvolta in un enorme grembiule,
pareva la Regina del paese delle Meraviglie.
Un profumo di zucchero caramellato, caffè e paste appena
sfornate li accolse appena entrati, contribuendo ad aumentare il
loro appetito mattutino. Ordinarono due tè verdi, un vassoio di
brioche e croissant, e sedettero in fondo, lontano dagli altri
clienti che facevano colazione. Guardandosi in silenzio, quasi
sorpresi di quella cosa nuova e sempre più grande che stava
crescendo dentro di loro. Si erano conosciuti, si erano legati
grazie al tango e avevano scoperto quanto stava divenendo
sempre più difficile distinguere oggi, tra le mille forme che
l'attrazione aveva preso. Ancora paurosi di ciò che leggevano
nei loro occhi, si guardavano senza parlare; alla maniera di tutti
gli amanti, vivevano in bolla incorporea che li isolava dal
mondo intero. Come in un sogno, compivano i piccoli gesti
della preparazione del tè e si scambiavano apprezzamenti sulla
pasticceria.
Lei gli chiese se pensava di restare a Torino nei prossimi
mesi e lui le confermò che doveva terminare il suo libro sui
Catari. Avrebbero potuto scriversi tramite la posta elettronica ed
il cellulare e se lei gli avesse di volta in volta detto dov’era,
l'immaginazione gli avrebbe fatto vivere le sue stesse emozioni.
Era l’ora della partenza e dovettero lasciare la pasticceria e i
suoi fragranti croissant, per raggiungere il parcheggio.
Camminavano lentamente, sentendo dentro la tristezza per la
separazione, unita alla felicità per quella notte passata a
conoscersi ed amarsi. Anne gli chiese di portarla sulla strada per
Avignone dove aveva lasciato la sua auto, perché voleva
salutarlo lontano dai possibili sguardi indiscreti di Madame, che
li stava osservando dalla finestra della loro camera. Dopo averle
aperta la portiera ed affrontato l’angusto passaggio senza
lasciare tracce di vernice sui muri, si avviò verso l'uscita dalla

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cittadina. Nello spiazzo in cui si trovava la sua auto, Marco si
fermò, la strinse a sé per baciarla dolcemente sulla bocca e
sussurrarle:
«Torna presto Anne, perché voglio amarti e farti felice, sento
che insieme potremo esserlo.»
«Anche tu Marco, pensa a me» e toccando il monile quasi fosse
un talismano dei desideri continuò «vedrai che tornerò presto e
potremo stare insieme.»
La strinse ancora una volta ed uscì, passò intorno all’auto, le
aprì la portiera e l’abbracciò. Si guardarono negli occhi ancora
una volta e si dissero, quasi contemporaneamente, “au revoir”,
poi quella donna, che era entrata così profondamente nella sua
vita in una calda notte di agosto in Provenza, fu solo una piccola
figura che nello specchietto retrovisore si allontanava sempre
più. Vederla svanire lentamente, fu come un presagio di altre
future separazioni, di altre sofferenze simili a quella che
provava ora lasciandola. Mentre lei lo salutava agitando la
mano, realizzò di essere entrato a far parte di quella specie
particolare di amanti, destinati ad accumulare con avidità la
gioia ed il piacere di ritrovarsi - come fanno gli scoiattoli con le
nocciole durante l’estate - per poi estrarle giorno per giorno, da
un ricettacolo della memoria, durante i lunghi inverni delle
separazioni. Amanti obbligati quindi a riporre, a concentrare il
loro sentimento nelle corrispondenze, e-mail e telefonate, senza
avere neanche il banale piacere di poter raggiungere l’amata con
una semplice corsa attraverso la città. A far tacere i morsi del
desiderio e della gelosia, nel continuo rinnovarsi di un patto di
fedeltà e fiducia reciproche, condizione indispensabile al
sussistere della loro storia.

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La pergamena, posata sul suo scrittoio, tendeva ancora ad
avvolgersi, nonostante fosse rimasta per una notte e parte del
giorno dopo, pressata nella valigia. Troppo poco rispetto agli
anni in cui era rimasta arrotolata. La distese posando sui bordi
due grossi vocabolari e decise di ricopiarne il contenuto sul
computer. Sullo schermo luminoso le parole del documento,
avendo perso il mistero del carattere gotico,parevano molto
meno drammatiche, ma certamente non avevano acquistato in
chiarezza. Pensò d’iniziare dal misterioso simbolo del Triskell e,
per approfondire, ne cercò sulla rete il significato. Era
impressionante scoprire quanto quel simbolo fosse antico e
onnipresente - in tutte le sue derivazioni - nella storia
dell’uomo.
“Simbolo ternario, il suo nome derivava dal greco triskélès, che
significa a tre gambe, ma la sua più probabile origine è celtico-
druidica, sicuramente precristiana. Presente ovunque nelle sue
differenti versioni, consiste fondamentalmente in tre spirali con
un’estremità in comune a formare un vortice destrorso o
sinistrorso; è innegabile che evoca le moderne espressioni
grafiche della matematica e della geometria frattale, potenziate
dalla rotazione attorno ad un asse centrale. Il simbolo comunica
Forza, sia nelle sue rappresentazioni più antiche, fluide e
curviformi, che in quelle indoeuropee come la svastica destrorsa
o sinistrorsa: per questo Hitler lo aveva scelto. Le spirali
congiunte al centro, possono indicare la Corrente del tempo -
passato, presente e futuro - e l’Energia che si espande dal centro
verso la periferia. Infatti, è presente anche nel Simbolo OM con
la grafia sanscrita tradizionale e nello Yin e Yang orientale.
Nell’architettura medioevale il Triskell veniva usato nelle
cattedrali, come elemento base per l’incrocio delle aperture

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trilobate, per la stesura di veli e pareti lapidee. Le clatrine,
fondamentali molecole proteiniche che guidano l’endocitosi
cellulare, alla base del processo strutturante ed espansivo della
Vita, si organizzano in forma di catene precisamente
triskelliche: questo mette in luce il Triskell come forma
estremamente potente e capace di generare strutture più
complesse e processi evolutivi.”
Incredibilmente quel simbolo, o per lo meno la sua forma,
riusciva a trascorrere dall’antichità celtica ad oggi. Dal monile
bizzarro che indossavano Anne e Madame, ai moderni laboratori
di ricerca sul DNA. Ripresa la pergamena, scoprì che gli scogli
aumentavano ad ogni riga; se il Sommo Artefice era
chiaramente Dio, cosa potevano essere la “Grande Opera” e la
“pietra trasmutatoria”. A meno che si trattasse della Pietra
Filosofale e in questo caso, dove diavolo era andato a cacciarsi e
che cosa aveva a che fare con tutto questo Anne, la sua Anne?
Così dolce, così passionale e nel contempo geofisica di fama, in
partenza per una serie di congressi internazionali.
L’avviso della posta in arrivo interruppe le sue fantasie,
riportandolo alle emozioni che lei gli provocava:
«Buona sera Marco, ti confesso che, da quando ci siamo lasciati,
non ho smesso di pensare a te. Ho questa magnifica sensazione
di non essere più sola nella vita e questo mi darà forza nei
momenti in cui mi mancherai, come già mi manchi. Ed è una
grande fortuna questa, che non provavo da molti anni, anni bui,
oscuri…ho tanta paura che tutto ciò debba finire, ma ti amo.»
Leggere il messaggio lo rese felice, perché non si attendeva
parole così piene d’amore, ma nello stesso tempo rinnovò la
sensazione di mistero che aveva costantemente provato accanto
a lei. Anche nei momenti più belli, di colpo c’era sempre
qualcosa, un’esitazione, una momentanea assenza, che gli
davano l’impressione che nella donna della quale si stava
innamorando, ci fosse una parte ignota, impenetrabile. In quel

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messaggio così amorevole, ancora una volta compariva un
richiamo a momenti bui, oscuri; cosa poteva significare? Nei
giorni che seguirono, si scambiarono messaggi d’amore sempre
più intensi, che gradatamente perdevano l’alone di mistero, per
rientrare sempre più nella consuetudine di due innamorati.
Fu un articolo pubblicitario della cronaca cittadina, a
riportarlo alla pergamena e al suo contenuto. Descriveva il tour
dedicato alla Torino magica, uno di quelli denigrati da Anne.
Riportava i soliti e fin troppo citati luoghi, la Gran Madre,
Piazza Solferino, Piazza Castello e l’immancabile Piazza
Statuto. Quel che c’era di nuovo rispetto a quanto aveva letto in
passato, spiccava in grassetto nella descrizione di quest’ultima;
vicino alla fontana del Frejus, si trovava “il cuore nero della
città”, che aveva funzionato per molti anni da patibolo. I suoi
giustiziati erano poi portati nel cimitero del vicino quartiere
Valdocco, nome che deriva dal latino Vallis occisorum. Ma nella
pergamena, si parlava proprio del cuore nero della città e di una
zona avvallata in cui si giustiziavano le persone, cioè la Vallis
occisorum!
Però, anche ammesso che l’ingresso al luogo che
Nostradamus aveva visitato fosse in Piazza Statuto, dove poteva
trovarsi e com’era la Piazza all’epoca di Franciscus Valeirole?
L’unico luogo per scoprirlo era la Biblioteca Nazionale, ma
nello stesso istante in cui ebbe quest’idea, si chiese perché
dovesse essere proprio lui, tra i tanti che avevano dormito nella
camera di Madame, ad aver scritto un saggio sull’ebanisteria, ad
avere quella maledetta propensione a cercare quello che a prima
vista non si vedeva e a cacciarsi nei guai. E pensare che avrebbe
voluto solo finire il saggio sui Catari, sognare di Anne e cercare
il modo per far passare più che in fretta, i giorni che lo
separavano da lei.

80
Il Sommo Eletto inserì il dispositivo anti-intercettazione e
rispose alla chiamata che, come era stato convenuto, gli dava la
situazione aggiornata da Lampedusa. Ancora uno sbarco di
extracomunitari, questa volta di 370 persone, fra cui 26 donne e
4 bambini: provenivano dal porto libico di Al Zuwara, la base
dei trafficanti che gestivano la tratta dei nuovi schiavi e
dipendevano economicamente dalla sua organizzazione. Almeno
sul quel fronte le cose procedevano bene, il materiale non
mancava mai. L’unico problema stava nel trasferimento
dall’isola a Marsiglia, ma per i loro motoscafi veloci in
vetroresina, che montavano 4 motori da 850 cavalli cadauno,
era uno scherzo: con una velocità di 90 Nodi, persino le
velocissime vedette della marina italiana erano impotenti.
Rispondendo soltanto con monosillabi confermò
l’accettazione dei nuovi arrivi ed agganciò il telefono senza
salutare. Ruotò poi la poltrona girevole e accavallò le gambe,
posando entrambe le mani sovrapposte su una di esse. Chi
avesse esaminato attentamente le fotografie dei gerarchi nazisti,
l’avrebbe subito riconosciuto, perché quella era la sua posa
abituale. Lo sguardo perso nel vuoto, indifferente persino al
piccolo e stupendo capolavoro di Van Gogh che gli stava di
fronte, “Ulivi con cielo arancio”.
Anche lui, più di cinquant’anni prima, era fuggito dalla
Germania come un povero profugo extracomunitario. L’Odessa
gli aveva procurato un passaporto falso, qualche dollaro e il
contatto con un frontaliere svizzero che gli aveva fatto
attraversare le montagne per passare in Italia, di notte e con un
freddo glaciale. Un altro emissario, questa volta del Vaticano, lo
aveva aiutato a fuggire in Argentina. Tutto questo per aver
puntato sull’uomo sbagliato; colui che avrebbe dovuto
realizzare il Nuovo Ordine, si era rivelato quasi subito
ingovernabile. La sua mania di grandezza lo aveva portato a

81
dichiarare guerra all’Europa, agli Stati Uniti e all’Unione
Sovietica, causando il disastro del loro progetto. A niente era
servito mettergli accanto due Iniziati - capi della loro
emanazione in Germania - a niente corrompere il suo medico
privato Morell, per avvelenarlo lentamente: sembrava protetto
dalle potenze infernali, pareva invulnerabile a tutti gli attentati.
Pazientemente, avevano dovuto raccogliere le fila di
un’organizzazione dispersa dalla guerra e ricominciare daccapo,
per cercare il modo di allontanare per sempre il cerchio di luce
nera che attendeva nel buio, mai sazio nonostante i milioni di
morti che la guerra gli aveva procurato. Si passò una mano sulla
fronte e poi lungo il viso alla ricerca di una soluzione che
potesse accelerare i tempi, ma sapeva che quanto avevano posto
in essere, era già il massimo consentito dai vincoli di segretezza
che si erano dati. Avevano i migliori scienziati, le organizzazioni
criminali più segrete e fondi illimitati, provenienti da anni ed
anni di speculazioni finanziarie andate a buon fine. Di più non si
poteva fare e nel frattempo sorvegliare, corrompere ed uccidere,
se necessario, affinché la loro esistenza restasse segreta.
Un crudele sorriso stirò la sua bocca senza labbra,
rendendo ancora più orribile quel viso senza traccia di umanità:
la superficie metallica della sua lampada moderna, gli rimandò
il volto di una creatura aliena, deformato da una smorfia di
follia. Distolse lo sguardo e si riscosse, c’era molto da fare.

Il mattino seguente, Marco decise per un itinerario che


l’avrebbe portato alla Biblioteca attraversando buona parte dei
luoghi magici della città. Dopo aver percorso un tratto di corso
Francia arrivò in Piazza Statuto, che la Torino massonica ed

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esoterica considera il punto più caldo del centro della città. La
fontana che dovrebbe abbellirla è un monumento bizzarro, a dir
poco, con quelle nude rocce su cui si distendono nell’agonia i
bianchi corpi di quelli che dovrebbero essere gli operai morti
durante la costruzione del traforo del Frejus. Non vi è nulla di
trionfante, l’impressione a prima vista è senz’altro macabra:
sopra a tutto, indifferente alla miseria umana, sta un angelo sin
troppo bello, che il bronzo scurito fa sembrare nero. Il sorriso,
così inopportuno di fronte alla morte che sta in basso, ha
qualcosa di soprannaturale: in fronte porta una stella e non per
nulla qualcuno pensa che rappresenti Lucifero.
Marco si avvicinò alla fontana e si pose di fronte
all’angelo: per terra si trovavano quattro chiusini, unico segno
evidente di un passaggio verso il basso. Dietro di lui vide una
donna netturbino ed ebbe un’idea. Con il sorriso aperto che
l’aveva sempre favorito con le donne, le chiese se sapeva dove
conducevano quei passaggi e lei, dopo averlo guardato con
curiosità, gli disse che sotto la piazza si trovava la sala comando
del sistema fognario della città. Altro che grotte alchemiche
pensò lui, altro che Pietra Filosofale! La ringraziò e tornò ad
osservare la fontana. Se in passato c’era stato un passaggio per
una o più grotte (Nostradamus era stato a Torino nel 1556, più
di quattro secoli prima), chissà quali mutamenti aveva subito la
Piazza e chissà dove era finita l’apertura alle grotte. Ammesso
che ci fosse mai stata. Forse era meglio puntare in un’altra
direzione, quella di Palazzo Madama, sotto il quale una
leggenda dice trovarsi una serie di cunicoli e grotte. Doveva
solo trovare la relazione di quelle oscure parole con uno dei
luoghi magici. Più semplice a dirsi che a farsi.
Giunto nella Piazza Carlo Alberto salì decisamente le scale
deserte di una delle più grandi biblioteche d’Europa.
All’interno, l’abituale silenzio era ancor più marcato
dall’assenza di lettori; alla ricezione c’era un solo impiegato, un

83
giovane dal capo rasato e con spessi occhiali da vista, che
accolse molto gentilmente le sue richieste.
Tre saggi sulla storia dell’Alchimia, due sull’occultismo ed
una biografia tra le più accreditate di Nostradamus. Portando
con sé la trascrizione della pergamena aveva sperato, con l’aiuto
di quei libri, di decifrarla; in capo a tre ore di lavoro però, di
chiaro c’era ben poco. Aveva ottenuto soltanto la conferma che
nel linguaggio alchemico, il Sommo Artefice e la Grande Opera
non erano altro che Dio, e la Pietra Filosofale.
Nei suoi ricordi scolastici la chimica organica gli era parsa
astrusa, perché non aveva mai letto nulla sull’Alchimia;
quest’antica scienza, da cui derivano sia la chimica, sia la
farmacologia, ora gli pareva una sarabanda infernale di termini,
uno più oscuro dell’altro. Ognuno di essi mascherava simboli,
che a loro volta mascheravano qualcosa che poteva essere o un
intruglio maleodorante – se preso alla lettera – o una
rivelazione, se tradotto da un adepto. Comunque, nulla che
rivelasse perché Nostradamus aveva lasciato la Provenza per
venire ad infilarsi nei sotterranei di Torino. Forse per capirlo,
rimaneva da chiarire cosa fossero le Grotte Alchemiche. Tra i
libri che aveva prelevato non vi era nulla di approfondito sulla
materia, quindi ritornò dal bibliotecario per restituirli e
chiederne altri più specifici.
Stranamente, il giovane che aveva visionato la sua tessera
di accesso non era più dietro al bancone, ma era stato sostituito
da un uomo anziano, molto alto, il viso incavato, i folti capelli
biancastri e gli occhi fissi da uccello. Troppo vecchio sembrava,
per poter ricoprire ancora un incarico da dipendente comunale.
Alla sua richiesta di un libro sulle Grotte, inarcò le sopracciglia,
piegò ancor di più le spalle - che già gli davano l’aspetto di chi è
da secoli in attesa paziente di qualcosa di preannunciato - e gli
chiese di aspettare. Il volume da lui richiesto non era di normale
consultazione.

84
Dopo alcuni minuti, tornò portando un libro rilegato
preziosamente e nel porgerglielo gli raccomandò di consultarlo
con cura, visto che era molto antico. Il gesto con cui lo posò
nelle sue mani, aveva un che di troppo solenne, pareva che
facesse fatica a separarsi da quel libro, come se fosse di sua
proprietà. Un bibliofilo pensò Marco, ma quando il vecchio
posò le mani sul bancone, quello che vide lo raggelò. Il brivido
che saliva lungo la sua schiena, non era effetto dell’aria
condizionata del locale, bensì del simbolo che ornava il grosso
anello della mano destra. Più ridotto rispetto ai medaglioni di
Anne e Madame, ma altrettanto evidente nella perfezione
dell’incisione orafa, un Triskell riluceva sotto la luce artificiale
della sala. Dunque, non si sarebbe mai liberato di
quell’immagine?
Aveva vissuto per anni senza vederne uno, almeno addosso
alle persone, ed ora improvvisamente si trovava circondato da
gente che lo portava. L’uomo gli disse, con voce roca e
decisamente sgradevole, che trattandosi di un libro molto raro,
poteva solo consultarlo lì, davanti a lui. Con un moto di
ribellione, Marco gli rispose che avrebbe portato i libri ed i suoi
appunti in uno scrittoio in vista, ma che non gradiva lavorare
sentendosi osservato. L’espressione dell’altro si fece ancor più
grifagna, ma assentì col capo.
Cosa diamine faceva il segno del Triskell al dito di un
bibliotecario torinese e come mai l’uomo era spuntato solo dopo
che aveva chiesto un libro sulle Grotte? Che il giovane che lo
aveva servito, avesse ritenuto che le sue richieste comportavano
la presenza del vecchio? Sapeva che la Biblioteca aveva fama di
un’ottima assistenza, ma quello gli pareva uno zelo eccessivo.
Trasferitosi in un altro scrittoio più in vista, Marco poté vedere
che il libro aveva per titolo “La chiave dell’Arcano maggiore” e
l’autore era un certo Ireneo Filalete. Se l’aspetto consunto della
rilegatura e le pagine ingiallite dal tempo gli avevano dato molte

85
speranze, il contenuto del libro gliele tolse già dopo pochi
minuti di lettura. Si trovava di nuovo alle prese con la Pietra
Filosofale per la trasformazione dei metalli, un “pane bianco” o
pane della luce, l’immancabile Arca dell’Alleanza e la Medicina
Universale. Pareva che per ottenerla bisognasse passare
attraverso anni di studio e preparazione, non essendo questa una
sostanza, ma una conoscenza. La prova finale consisteva nella
visita alle Grotte Alchemiche.
Finalmente dopo centoquindici pagine di astruserie,
qualcosa su quanto era venuta a cercare. Il testo chiariva che
nelle tre grandi città magiche, esistevano da sempre le tre Grotte
Alchemiche, luoghi di potere segreti e sorvegliati, in cui gli
Adepti - e soltanto loro - possono agire sulla materia, sul tempo
e sulla conoscenza. Esse sono porte di passaggio tra diversi
mondi, punti di contatto tra la dimensione corporea conosciuta e
dimensioni spirituali. Tra il nostro mondo di esseri pensanti e
mondi “paralleli”, dove l’esistenza scorre su piani vibratori
diversi ma contemporanei ai nostri. Grotte in cui è possibile
compiere la Grande Opera degli Alchimisti, la Trasmutazione
della vile materia, ma soprattutto della propria anima. La loro
ubicazione è tenuta nel più inflessibile segreto da tre persone in
Europa, che si conoscono reciprocamente e si tramandano
questa e ben altre conoscenze, ma ci vorranno ancora alcuni
secoli, prima che ne venga rivelata una minima parte. Di più il
testo non diceva e, salvo una lunga tiritera di raccomandazione
al lettore di mantenere il cuore puro per avvicinarsi ai misteri
alchemici, non c’era altro di interessante.
La giornata volgeva al termine, tra poco la Biblioteca
avrebbe chiuso e lui doveva sbrigarsi a risolvere l’ultimo
quesito, l’esistenza del firmatario della pergamena. L’ultimo
volume che gli restava, la biografia di Nostradamus, aveva un
indice con i vari capitoli della vita dell’uomo ed una bibliografia
molto dettagliata dei suoi esegeti, biografi e studiosi. Scoprì che

86
l’uomo aveva avuto molti estimatori da vivo, ma innumerevoli
erano quelli che ne avevano scritto da morto e tra questi trovò
quello che non avrebbe voluto trovare. Se non ci fossero state
tracce di Franciscus Valeirole, avrebbe potuto pensare alla
pergamena come ad una bizzarria, ma lì, sulla pagina di fronte
ai suoi occhi, il suo nome spiccava come biografo di
Nostradamus. Nelle note sulla sua vita, risaltava nitidamente ed
inconfutabilmente che era stato ucciso in modo misterioso, nella
notte del 14 maggio 1755. L’essersi rifugiato a Napoli, un anno
prima, presso nientemeno che Raimondo di Sangro, principe di
San Severo, non era riuscito a salvarlo. Nel leggere quel nome,
Marco trasalì.
Il Principe di San Severo non era stato soltanto uno dei
personaggi più misteriosi del Settecento europeo, ma anche una
delle menti più brillanti del suo tempo. Beniamino del re Carlo
III di Borbone, fu fantasioso inventore (il fucile a retrocarica, il
lume eterno, il tessuto impermeabile), massone, adepto dei Rosa
Croce e, conseguentemente, attivo alchimista. Questa sua
passione, i cui fini sarebbero dovuti necessariamente restare
segreti, era continuamente tradita dagli odori pestilenziali e dai
fumi di colore diverso, che uscivano dal suo laboratorio. Questo
fatto, unito al mistero di cui amava circondarsi, fece sì che i
napoletani gli dessero la fama di oscuro stregone. Il suo
massimo capolavoro è la Cappella della Pietatella, che ancora
oggi resta uno delle pìù importanti testimonianze dell’arte
esoterica del mondo. Piena di simboli ermetici, ancora oggi non
decifrati, è un insieme di opere d'arte (il famosissimo Cristo
velato di Giuseppe Sammartino) e di macabri reperti come le
due celebri Macchine Anatomiche. La diceria popolare era che,
per realizzare i due reperti anatomici, Raimondo avesse “fatto
uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne
stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno
tutti i visceri, le arterie e le vene”.

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Nella breve nota su Valeirole, si diceva che il principe
l’avesse ospitato a Napoli nel palazzo del barone Postiglione,
non molto distante dal suo palazzo di famiglia, per quasi dodici
mesi; al termine dei quali lui, credendosi ormai al sicuro, era
tornato in Provenza per esservi ucciso.
Il sollievo che pochi minuti prima gli aveva dato scoprire
che non c’erano in ballo omicidi, in Marco sparì di colpo e
nonostante l’aria condizionata, la sua fronte si coprì di sudore.
La fantasia si era messa a galoppare e la comparsa dell’anello
con il Triskell nel dito del bibliotecario, gli pareva sempre meno
casuale. Per di più Franciscus aveva scritto che già prima di lui,
alcuni suoi confratelli erano stati uccisi ed ora aveva la prova
che quanto il seguace di Nostradamus temeva, si era avverato.
Cosa avrebbe trovato, si chiese, se fosse andato a Napoli nel
palazzo Postiglione e, visto che c’era, alla Cappella? Qualche
simbolo che ricordasse il Triskell, visto che il principe, avendo
ospitato Valeirole, era sicuramentre un seguace di Nostradamus?
Prese i suoi appunti e i due volumi da restituire, si alzò e si
diresse verso il bancone guardando dritto in viso il bibliotecario:
voleva capire se si trattasse solo di sue fantasie o se c’era
veramente qualcosa di cui temere. L’uomo attese che lui gli
giungesse davanti poi, con un sorriso mellifluo gli chiese: Ha
trovato quel che cercava? Il tono della voce canzonatorio gli
tolse ogni dubbio e anche se le sue parole potevano apparire
innocenti, lo sguardo che lo seguì, mentre usciva dalla grande
sala, poteva significare forse che quell’uomo sapeva.
Cosa esattamente sapesse, Marco non poteva immaginarlo,
ma gli bastava aver avuto la conferma che la sua ricerca non era
passata inosservata. Almeno avesse davvero scoperto qualcosa
tra quelle pagine! Al di là di una serie di oscuri e
incomprensibili procedimenti, che potevano interessare solo la
ristretta cerchia degli innamorati della dottrina alchemica, che
cosa ne aveva ricavato? Nemmeno il materiale per un articolo,

88
perché esporre quanto aveva letto qua e là in quei trattati in
modo da farsi capire da un comune mortale, sarebbe stato un
compito al di là delle sue forze. Non poteva nascondere di esser
un poco deluso, inconsciamente sapeva che una ricerca di
mezza giornata non poteva dargli niente di più ma la credenza -
comune a molti - che la fortuna aiuta i principianti, è dura a
morire. Ritornò verso casa rifacendo lo stesso percorso
dell’andata e con la mente talmente occupata, da stupirsi di
trovarsi senza essersene accorto, davanti alla palazzina in cui
abitava. Gli pareva ora che la storia del passato, di cui era
sempre stato appassionato, fosse tutta da riscrivere; accanto alle
figure conosciute di sovrani, politici e uomini influenti, avevano
sempre agito nell’ombra altre figure molto meno note, ma non
per questo meno potenti.
Mentre attendeva che lo schermo del computer di casa
fosse operativo, pensò che per tutto il giorno non aveva pensato
ad Anne e si sentì sentì in colpa. Nello stesso tempo, si rese
conto di tutta la schizofrenia presente nel suo rapporto con lei.
Mentre svolgeva ricerche, per capire se lei facesse parte di una
congiura che in passato aveva persino ucciso, sentiva d’amarla
con un’intensità che raramente aveva provato prima. Magari il
suo monile non era altro che quello, un gioiello che qualcuno gli
aveva regalato o che lei si era fatta fare su un disegno trovato da
qualche parte. Perché prima di partire non le aveva chiesto da
dove proveniva e perché lei lo aveva indirizzato proprio da
Madame, una donna che portava lo stesso monile? Si rese conto
che doveva ancora continuare a cercare, non c’era altra via per
dissipare ogni dubbio. Per questo cercò sulla rete le parole
“cattedrali gotiche”, un altro filone di ricerca.
Gli si aprì davanti un mondo fatto di un numero
incredibile di simboli. Pareva che gli artefici di quelle
meraviglie, non potessero farne a meno di usarli dappertutto.
Scoprì che il termine “gotico” potrebbe derivare da argotique, o

89
argot, un linguaggio per iniziati che vogliono comunicare senza
essere capiti dagli altri che stanno intorno. Che ogni simbolo,
unicorno, leone o animali immaginari, è stato posto per
tramandare conoscenze ormai perdute. Quasi sempre, è presente
sul frontone il segno del Triskell, che aveva il compito di
concentrare l’energia su coloro che entravano nella Cattedrale.
L’ingresso della stessa è orientato in modo che il fedele,
entrando nell’edificio sacro, cammini verso l’Oriente, ovvero
verso la Palestina, luogo di nascita del Cristianesimo. La
maggior parte dei luoghi in cui sono costruite, è lo snodo di una
griglia elettromagnetica che ricopre tutta la terra: in quei punti si
verifica la massima emissione di energia, appunto
elettromagnetica.
Ed eccomi servito – pensò Marco – cercavo nessi e ne ho
trovati, mi stanno travolgendo addirittura. Anne è una geofisica
specializzata in campi magnetici terrestri, i megaliti riportano
spesso il Triskell, le Cattedrali venivano considerate crogioli
alchemici, quindi tutto torna o quasi. Cenò sul piccolo terrazzo
guardando una luna che non era più la stessa di Avignone
perché, pur mantenendo il suo diafano splendore, si stava
riducendo ad un’immensa sfera asimmetrica. Improvviso, a
tradimento, lo prese il desiderio di Anne. La trovò in procinto di
uscire per prendere un taxi e fece appena in tempo a dirle
quanto aveva gradito il suo messaggio ed augurarle buon
viaggio. Lei capì e un poco affannata gli disse “je t’aime cheri”.
Tre parole soltanto ma l’effetto che ebbero su di lui, fu più
grande di quello che avrebbe ottenuto una conferenza
sull’estraneità di Anne al contenuto della pergamena. Decise che
quando si fossero rivisti, le avrebbe parlato di tutta la vicenda e i
suoi dubbi si sarebbero chiariti. A volte, per restituire la serenità
di giudizio, basta prendere una decisione e seguirla, senza farsi
continuamente turbare da dubbi e incertezze. Lui l’amava, lei
pareva corrispondere nella stessa misura, questo bastava. Intanto

90
però, prima di coricarsi, prenotò un volo di andata e ritorno
Torino Napoli per il giorno dopo.

Napoli gli diede il suo tipico benvenuto già all’aeroporto, con


l’iniziativa messa in atto dal comune per accogliere turisti e
viaggiatori che arrivavano con aereo e treno: la Musica di
Qualità, che in quel momento era una selezione scelta dei
brani di Pino Daniele, troppo presto mancato a Napoli e a
tutti gli italiani. Come se si fosse sintonizzato con lo stesso
programma anche il tassista, la musica li seguì mentre lo
portava (forse sarebbe meglio dire lo scagliava, vista la
velocità), verso le viuzze del centro.
Scendendo da via Foria si sentì colpito, come sempre
quando tornava a Napoli, dalla marea di sensazioni che il
cuore della città riesce a provocare. La totale immersione nel
caos dell’imprevedibilità che si affaccia da ogni scorcio
trasversale, che si tratti della visione improvvisa di una chiesa
dalla meravigliosa facciata barocca, dei vicoli larghi pochi
metri decorati da festoni ricolmi di panni stesi oppure dei
panieri che scendono dall’alto, rivolti a bancarelle di
negozianti d’ogni specie. Sull’onda improvvisa del clamore
di una musica a tutto volume, degli schiamazzi provenienti
dalle botteghe, dei clacson delle auto o del rombo dei
motorini, ti assale il profumo di caffè appena fatto, fragranze
di pasta cotta nel forno di panetterie, pizzerie, friggitorie; la
sensazione atavica di suk, ricordi lontani del quartiere Gotico
di Barcellona e di una casba araba. Un teatro in strada, le cui
quinte sono i bassi da cui escono i personaggi del tirare a
campare quotidiano che come ha scritto qualcuno: “Non è più

91
“colore”, ma anima urbana che in varie forme si tramanda nei
secoli, resta nella Storia come la gramigna, le pietre e gli
uomini sembrano legati allo stesso destino da un incantesimo;
ogni angolo nasconde un’antica memoria, personaggi,
aneddoti, sofferenze e resistenze”.
In pochi minuti si trovarono in via Atri che un poco più
a sud taglia il Decumano Maggiore, l’attuale Via dei
Tribunali. Da più di duemila anni, questa grande via traccia,
insieme al Decumano Inferiore (Spaccanapoli) e a quello
Superiore, l’intreccio di strade greco-romane dell’antica
Neapolis. Ancora oggi è rimasto nella sua forma originale, e
rappresenta il cuore più antico della città. I Decumani, tre
ampie strade parallele che scorrono da est a ovest tagliando
Napoli in quattro parti, a loro volta sono intersecati, ad
angolo retto, da una serie di strade più strette, i Cardini, che
coincidono con i tanti vicoli del centro storico di oggi. Alle
due estremità dei Decumani stavano un tempo, le porte della
Città.
Il palazzo del barone di Postiglione era quindi molto
vicino al Decumano Maggiore che, partendo da
port’Alba, dove ci sono le prime mura greche di Napoli,
include alcune delle meraviglie come Cappella di Sansevero
(che cela il Cristo Velato), San Gregorio Armeno e Via
Duomo, che porta al Duomo di San Gennaro, il patrono della
città.
Mentre un gruppo di motorini li sorpassava, infilandosi negli
impossibili spazi creati dalla fantasia con cui i napoletani
riescono a parcheggiare le auto, il tassista gli chiese “mi avete
detto al 17, vero?” e Marco gli confermò il numero,
chiedendo a sua volta:
«Sapete se il palazzo del barone Postiglione è ancora abitato?».

92
«Come no, ci sta un bedenbrekfast nuovo nuovo, molto
elegante, che hanno aperto più o meno un anno fa. Si chiama
atrunapoli, o qualcheccosa di simile. Cercate forse una stanza?»
«No, purtroppo stasera riparto» Almeno ci sarà qualcuno cui
chiedere informazioni pensò, ma fu interrotto dal guizzare
veloce di un ragazzo in motorino che, tagliando loro la strada,
aveva sfiorato il cofano dell’auto; una brusca frenata, seguita
dalle colorite imprecazioni del tassista, il consueto e rassegnato
mantra del “noi poveri tassisti di Napoli”.
«E questi sò i vicoli di Napoli, camma fa, io vi lascio davanti a
quel giardinetto; a due passi ci sta l’atrunapoli».
Pagato il tassista, Marco s’incamminò in uno di quei vicoli che
solo a Napoli hanno saputo mantenere il fascino delle antiche
pietre (poste sul selciato dai greci 500 anni prima di Cristo),
con il barocco seicentesco e il colorito degrado dei nostri tempi.
Avvicinandosi al palazzo vide una donna che lo fissava
incuriosita; indossava un grembiule-minigonna che sulla vita si
allargava per lasciar posto al ventre sporgente. Da
quell’indumento, che le arrivava sopra le ginocchia, uscivano
due brache rosa merlettate, che avevano più l’aspetto di un
pigiama, che di un paio di pantaloni.
Il portone del 17 era un cancello di ferro battuto, piuttosto che
un portone; attraverso s’intravedeva un atrio luminoso,
affrescato da poco e, sullo sfondo, il cortile di una casa di
ringhiera. Sopra il citofono era fissata un’insegna che
riproduceva un tempio greco stilizzato e conteneva una scritta
che lo fece sorridere: il B&b si chiamava Atrium Neapolis Casa
Vacanze e non la fantasiosa parola creata dal tassista. Aveva
appena suonato il campanello, che un uomo brizzolato, dal
sorriso aperto e i modi accoglienti, gli aprì.
«Buongiorno», lo salutò Marco «dovete scusarmi se non vi ho
preavvertito; sono appena arrivato da Torino e dato che questa

93
sera riparto, vorrei rubarvi qualche minuto per chiedervi
informazioni sul vostro palazzo».
«Meno male, credevo cercaste una stanza per questa notte;
siamo al completo, avrei dovuto dirvi di no, cosa che mi
dispiace sempre molto. In quanto al palazzo no, non è mio; sino
agli anni ’40 apparteneva alla famiglia Postiglioni, poi è stato
frazionato. Io ho comprato una parte per farne un B&b qualche
tempo fa e l’ho ristrutturato … ma cosa vi porta a Napoli e in
particolare a questo palazzo?»
Marco decise di fidarsi della prima impressione che aveva avuto
dell’uomo, e di essere sincero.
«Mi chiamo Marco Fabiani e sono uno scrittore …»
«Molto lieto» disse l’altro tendendogli la mano «Gianni
Archeologo. Ma venite dentro mentre parliamo… » poi rivolto
alla donna che li aveva osservati sino a quel momento «Signora
Elvira, come state oggi?»
«A bona ‘e Ddio!»
«Steteve buono.»
Mentre chiudeva il cancello e si avviava dentro l’androne, il
Signor Archeologo, abbassando il tono della voce, gli disse:
«Quella è la mitica signora Elvira, che fino a qualche anno fa
faceva i “panini napoletani”, una torta salata simile al famoso
casatiello, a base di uova, formaggio e salame, e li vendeva qua
fuori. Magari la signora per integrare vendeva pure le sigarette,
e questa era la famosa Economia del Vicolo che ha fatto
campare tanti napoletani. Auto imprenditorialità mai legale, ma
intanto i soldi arrivavano». Poi indicando il cortile alla fine
dell’androne e una porticina semiaperta davanti alla quale stava
uno stendino ricolmo di biancheria. «Abita in quel “basso” e,
come tante altre, ha dovuto essere sempre intraprendente. Bene
o male si doveva sbarcare il lunario e loro s’ingegnavano in tutti
i modi per farlo. Il vicolo è il loro regno, basta guardarsi
qualche film di De Filippo; l’ordine e la pulizia del loro basso, o

94
vascio in napoletano, è il loro vanto, poiché i passanti possono
vedere all’interno del loro “vano”. L’abitudine di lavare ogni
sera le pietre laviche del pavimento davanti all’entrata, è dovuta
al ricordo atavico delle molte epidemie che in passato hanno
decimato i quartieri spagnoli, a causa delle condizioni igieniche
terribili. Scusate, ma a volte mi lascio prendere …»
«Anzi, mi fa molto piacere, mi ha sempre interessato la storia
della città e dalle vostre parole, si sente che voi l’amate.»
Non erano ancora usciti dal porticato sotto l’androne, che
sentirono una voce maschile:
«Dottor Archeologo, che mi volete lasciare fuori?».
Il gestore si voltò e nel riconoscere l’uomo al cancello, esclamò:
«Uè Giovanni, che bello che sei passato, vengo subito ad
aprirti». Poi rivolto a Marco «Vi presento l’avvocato Giovanni
Traveller, anche lui grande appassionato della storia di Napoli».
Fatte le presentazioni, il gestore tornò a rivolgersi a Marco:
«Prima mi dicevate che siete scrittore; ma com’è che
v’interessate al palazzo? Siete forse a caccia di storie macabre
legate al principe di San Severo?»
A quel punto, si disse Marco, visto che aveva davanti due
appassionati di storia della città, meglio scagliare un sassolino,
per vedere come lo stagno reagiva. «Veda, io sto scrivendo una
biografia di Nostradamus e i suoi discepoli; dalle mie ultime
ricerche risulta che, intorno al 1754, uno dei suoi biografi fu
ospitato dal barone Postiglione, proprio in questo palazzo».
«Nientemeno che Nostradamus … del resto, il principe di San
Severo era un grande alchimista pure lui … vero Giovanni?»
«E come no? Uno dei più grandi direi».
«Come si chiamava il biografo?» chiese il gestore.
«Franciscus Valeirole, e veniva dalla Provenza».
«Io sto facendo delle ricerche sulla storia del palazzo
consultando, alla Biblioteca Nazionale, lo stradario
dell’urbanista Italo Ferraro, che ha fatto una ricerca decennale

95
su tutte le strade di Napoli. Riguarda tutti i palazzi e
monumenti, è diviso per quartieri, e conta almeno una decina di
tomi. Un lavoro immane. All’interno, sono state inserite alcune
pagine del diario del barone riguardanti opere di
consolidamento; sono quasi certo che è proprio Valeirole, il
nome del francese che lo aiutò nel lavoro. Pare che costui fosse
in contatto con alcuni artigiani itineranti della Provenza, che
eseguirono il lavoro a regola d’arte.»
«Dunque, questa è un’importante conferma di quanto sapevo.
Valeirole dovrebbe essersi fermato quasi un anno qui a Napoli,
prima di ritornare in Provenza. Mi aiuterebbe molto sapere,
visto che avete ristrutturato proprio il piano nobile, se durante i
lavori siano stati trovati simboli strani …».
«Napoli è tutta un simbolo, signor mio» rispose Giovanni «e
non poteva che essere così visto il gran numero di alchimisti
che ha ospitato. Giovanni Balsamo conte di Cagliostro, Luigi
D’Aquino, il Giovanbattista della Porta dell’Accademia dei
Segreti, Gianbattista Vico, per arrivare sino a Raimondo Di
Sangro Principe di San Severo … il Palazzo Lieto, ad esempio,
è tutto un simbolo alchemico esoterico. La chiesa del Gesù
Nuovo la conoscete? No? Non ve la dovete perdere,
specialmente la facciata: è tutta bugnata con piccole piramidi
rivolte all’esterno, una fattura poco consona ad una chiesa. Ma
la cosa più interessante è che molte piramidi riportano una serie
di simboli esoterici, una sorta di codice. Si dice che li
incidessero gli artigiani di una confraternita francese itinerante,
specializzata nella scultura della pietra. Come dicevamo,
Napoli è città di misteri.»
Ancora loro, pensò Marco, ancora i Compagnon itineranti della
Provenza devoti a Nostradamus; c’era un legame tra loro e
Napoli?
«E in questo palazzo che voi sappiate, è stato trovato nulla?»

96
«Niente di così chiaro da poter essere interpretato» rispose
questa volta il gestore «una sola pietra, infissa nel muro, che
nell’intenzione degli operai francesi doveva ricordare il loro
lavoro. Riporta segni di scalpello che potrebbero far pensare a
una scultura rimossa; resta solo un quadrato, iscritto in un altro.
Volete vederla? Gli ospiti del check-out sono già usciti e quelli
del check-in devono ancora arrivare, ho ancora del tempo.
Vieni anche tu Giovanni, così mi aiuti. Cominciando
dall’androne. È di pipierno, una piettra grigia dura e resistente
che si usa per fare strade o decorazioni. Come saprete, l'altra
tipica pietra vulcanica è il tufo, gialla, porosa, resistente alle
sollecitazioni (vale a dire terremoti) e facile da scolpire. Ogni
palazzo di Napoli, dal sedicesimo secolo in poi è stato costruito
scavando il tufo direttamente sotto il palazzo, per evitare una
tassa di “importazione tufo” dalle cave ufficiali extra moenia,
cioè fuori dal centro storico».
«Avevo già notato in passato che molti androni del centro
storico, come questo, sono altissimi, come mai?»
«Questo è alto circa 8 metri, e il motivo sta nel fatto che vi
dovevano entrare le carrozze bardate con tutti i pennacchi. In
fondo, nel cortile, c'erano due stalle; in una, quella di fronte, ora
ci vive la signora Elvira, nell’altra degli studenti. Il passaggio da
stalle a bassi è stato inframmezzato dall’essere state due
garage».
Mentre parlavano, si erano intanto avviati verso la scalinata che
portava ai piani superiori. Alzando lo sguardo in alto Marco
vide che il soffitto era ornato a stucco, con un motivo
baroccheggiante. Superato il primo pianerottolo, il gestore
indicò una pietra consunta dal tempo e incastonata nella parete;
riportava infatti un quadrato grande, che all’interno ne ospitava
un altro, con l’asse rovesciato, rispetto al primo.
«Dovete sapere» riprese il gestore «che io sono più che
convinto che l’antica Neapolis sia stata fondata a pochi metri da

97
quì: la chiesa della Pietrasanta (dove c'è il campanile) è
costruita sui resti del tempio di Diana, ma prima ancora la sua
corrispondente greca Artemide, sorella di Apollo dio del Sole,
aveva un tempio ubicato sulla strada parallela»
«Che si chiama infatti via del Sole» completò l’avvocato
Giovanni «Il tempio di Diana» riprese il gestore «era riservato
esclusivamente alle donne, che la invocavano per non avere
parti dolorosi. Nonostante la dea fosse anche protettrice della
caccia, gli uomini si opponevano al suo culto perché molte
donne, per evitare matrimoni infelici, preferivano dedicarsi a lei
e restare vergini. Le sacerdotesse erano chiamate dianare,
giravano nei boschi per raccogliere erbe per le partorienti, e
nell'immaginario popolare maschile erano mezze streghe».
«Da qui il termine napoletano di “janara”» ancora l’avvocato
«cioè fattucchiera, non malvagia come la strega, ma depositaria
di riti esoterici».
«Su una pietra vicino è scolpita una canefora che si presume
portasse offerte al tempio di Diana, che in seguito fu poi
cristianizzato dedicandolo a Maria».
«Come le Feriae Augusti dei romani divenute poi Ferragosto.
La credenza resta, ma viene trasformato il contesto»
«C'è una continuità storica che porta da Artemide a Diana a
Maria: tutte vergini, Artemide come Maria ha avuto figli senza
marito, anche se Artemide un po' di sesso col pastorello
Endimione …»
«Che dici, Artemide lo visitava tutte le notti mentre lui
dormiva, ma a lei bastava guardarlo …»
«Séh, na gurdata séh, séh na’mpressione séh …»
Marco non potè fare ameno di sorridere apertamente; i due si
alternavano nel racconto, integrandosi perfettamente, ed erano
troppo simpatici.
«La scalinata che stiamo salendo» proseguì il gestore «è pure in
piperno e il B&b è al piano nobile (un piano e mezzo, tre rampe

98
di scale). Questa nell’angolo è una cappella votiva alla
Madonna. Ora apriamo ed eccoci nel mio B&b.»
L’ingresso, come tutta la casa vacanze, era ampio e luminoso
con soffitti alti per lo meno cinque metri e cassonetti decorati o
travi a vista. Un divano era posto di fronte ad uno schermo
televisivo piatto e l’impressione generale era di grande
accoglienza. Più avanti una sala da pranzo dalla quale si
accedeva alla cucina e a due camere da letto, una delle quali
aveva due letti matrimoniali. Separé e pareti mobili garantivano
la privacy.
«Mi dispiace di non aver posto in questi giorni, ma la prossima
volta che verrete, vi ospiterò volentieri». Si vedeva che il
gestore era orgoglioso dei lavori di restauro, che avevano reso
un palazzo del sedicesimo secolo, costruito in una strada che
risaliva ai greci, un ambiente giovane e accogliente.
«Gianni, qui ci vorrebbe il siparietto pubblicitario…» chiese
l’avvocato.
«Vabbè, Giovanni si riferisce a quello che scriviamo sulla
pubblicità on line: “Siamo viaggiatori, e sappiamo cosa
significa arrivare affamati e stanchi in una città. Ecco perché
nel nostro cesto di benvenuto troverai, fra le altre cose da
degustare, gli ingredienti per preparare una rapida e gustosa
ricetta napoletana. Accompagnata ovviamente da una buona
bottiglia di vino”».
«“La cultura di un popolo passa per il suo stomaco”» completò
l’avvocato «parola di archeo gastronomo. Sì, perché dovete
sapere che l’amico Gianni è laureato in archeologia e valente
gastronomo. Come continua la tua pubblicità?»
Sorridendo il gestore rispose «Ho voluto specificare tutto quello
che differenzia la mia casa vacanze dagli altri B&b. Ho scritto
che “Anche se la casa è antica, non abbiamo dimenticato che
siamo nel XXI° secolo, ecco perché su ogni testata dei letti ci
sono due prese USB per ricaricare i cellulari o tablet e

99
continuare a navigare comodamente sdraiati. Così come c’è una
cucina completamente attrezzata con piano cottura a induzione,
forno, frigorifero e lavatrice. In sala da pranzo c’é la macchina
del caffè con capsule, il bollitore per té e tisane, succhi di frutta;
tutto a disposizione.
completano la casa un bagno in stile vittoriano con doccia e
bidet, bustine di shampoo e saponette, phon e piastra per capelli.
Condizionatori caldo/freddo, wi-fi gratuito in tutta la casa e
cavo ethernet per collegamento rapido a disposizione. E così vi
ho detto tutto su Atrium Neapolis. A proposito del qui presente
avvocato Giovanni, dovete sapere che anche lui è un grande
appassionato di archeologia e storia di Napoli. È lui che ha
scritto una serie di articoli sull’ipotesi che Dracula sia sepolto a
Napoli.»
«Intendete proprio il conte Vlad Tepes di Valacchia?»
«Proprio lui» rispose Giovanni «la storia in sè sembra più il
frutto della fantasiosa mente di un romanziere che qualcosa di
reale. Tuttavia, un gruppo di studiosi, dopo una serie prove
documentali, è sceso sul terreno dell’indagine materiale; la
vicenda è molto complessa, sepolta dalla millenaria storia della
città. La storia di Dracula, creata dalla fantasia di Bram Stoker,
è ispirata a un personaggio realmente esistito: il Conte Vlad
Tepes III di Valacchia che nell’odierna Romania è considerato
un vero eroe nazionale, per aver combattuto efficacemente
l’espansione turca verso l’Europa nordorientale. Era noto anche
come Vlad l’impalatore poiché era il suo metodo di esecuzione
preferito; al prigioniero venivano tagliate le mani e i piedi per
poi essere impalato e lasciato alla sua agonia. Come il padre,
che era soprannominato “Dracul”, uno dei modi in cui anche il
III conte di Valacchia era chiamato fu “Dragwlya” o “Drăculea”,
facendo sempre riferimento all’Ordine del Drago a cui
appartenevano. Vlad III ebbe una vita molto tormentata.

100
Più volte detronizzato e imprigionato, si guadagnò la fama
di feroce e sanguinario condottiero. Gli ingredienti per
suggestionare la fantasia di un moderno romanziere come Bram
Stoker ci sono tutti, se consideriamo infine che nel moderno
rumeno la parola drago si dice dragon, mentre la
parola drac derivata dal latino draco è diventato sinonimo del
diavolo; così che draculea o dracula significa figlio del
demonio e non del drago. Più verosimilmente, portando
l’impalatore le insegne del dragone e non essendo la gente
abituata alla vista di quell’immagine, la stessa finì col sembrare
uno spirito demoniaco. Con riguardo a Vlad Tepes realtà e
leggenda, fantasia e verità si mescolano, rendendo il
personaggio quasi un mito. A contribuire definitivamente a ciò,
c’è l’incertezza legata alla sua fine.»
«Credevo fosse stato ucciso da un traditore» lo interruppe
Marco «durante una battaglia contro i turchi.»
«In realtà non si conosce il luogo di sepoltura; si diceva che
fosse nel monastero di Snagov, su un’isola al centro di un lago
in Romania, ma la presunta tomba risulta essere vuota.
Insomma, dove sia il corpo e se ci sia ancora un corpo da
cercare è rimasto un mistero fino al giugno del 2014, quando
nuovi studi hanno portato a formulare l’ipotesi che la tomba di
Vlad Tepes sia proprio nel chiostro di Santa Maria la Nova, un
complesso monumentale in una delle zone più antiche di
Napoli».
«La prossima volta però, dovete fermarvi un poco di tempo, non
si può venire a Napoli per un giorno! Ora però dovete gradire
per lo meno un caffè, così vi resterà il ricordo profumato
dell’Atrium Neapolis Casa Vacanze.»
Più tardi, sull’aereo che lo riportava a Torino, pensò che se il
suo viaggio non aveva aggiunto molto alle sue indagini, gli
aveva regalato ancora una volta il contatto con Napoli e la
conoscenza di due belle persone.

101

Fu la telefonata del suo vecchio compagno di liceo


Giovanni Barbero, ora uno dei maggiori geofisici italiani, a
riportarlo alla pergamena e al suo contenuto. Nei giorni passati
aveva pensato a lui come fonte d’informazioni, ma il desiderio
di non considerare più Anne come la componente di una setta,
glielo aveva impedito. Non si sentivano da tempo e il tono della
conversazione, e le loro parole stesse, risentivano dell’affetto
reciproco che li aveva sempre uniti. Senza che se ne rendesse
conto, si sentì pronunciare le domande che aveva deciso, solo
pochi giorni prima, di non porsi.
«Giovanni, sto scrivendo un saggio sul magnetismo terrestre e
sui suoi effetti. Mi sono documentato sulla rete, ho letto degli
articoli di una scienziata francese, Anne Vicelli, ma mi restano
ancora molti dubbi. Se tu leggessi, da qualche parte, che in un
certo momento il Nord diventa Sud e viceversa, questo potrebbe
farti pensare all’inversione del campo magnetico?»
«Non starò a chiederti dove l’hai letto, sulla rete ormai si trova
di tutto. Certo, a meno che non si tratti di una bussola rotta o di
un marinaio ubriaco, si potrebbe parlare d’inversione. Nel corso
delle ere geologiche, vi sono stati spostamenti dei poli
magnetici rispetto ai continenti e a ripetuti fenomeni di
inversione del campo, con scambio reciproco dei poli magnetici
Nord e Sud.»
«Quale potrebbe essere l’effetto di una tale inversione sulla
nostra vita?»
«Per non annoiarti, non starò a dirti che le sue variazioni
vengono calcolate sulla base dei valori medi giornalieri, mensili
ed annuali, nonché su dati rilevati in secoli di misurazioni

102
magnetiche e di questo si occupano la geofisica e la
magnetometria. I cambiamenti nella direzione del campo
geomagnetico sono meglio conosciuti per gli ultimi 5 milioni di
anni, disponiamo di informazioni sui cambiamenti di polarità
degli ultimi 80 milioni di anni ma possiamo arrivare, con
minore dettaglio, fino a 170 milioni di anni fa. Noi geofisici
oggi disponiamo di apparecchiature così sofisticate, da essere in
grado di esplorare le profondità della Terra sino alle strutture più
nascoste. I nostri supercalcolatori osservano continuamente un
mondo che si agita in un sommovimento senza posa, come un
pentolone in ebollizione: interi frammenti di fredda crosta
terrestre superficiale, affondano lentamente nel caldissimo
mantello e provocano la salita di rivoli di lava che risalgono dal
nucleo fluido e si espandono creando immense bolle che restano
sotto la superficie oppure, in presenza di un vulcano, lo rendono
attivo. Questi flussi interni sono lentissimi ma molto imponenti,
riescono a muovere i continenti e mutare la forma degli oceani.
Nel corso degli ultimissimi secoli la componente Nord-
sud del campo geomagnetico si è notevolmente indebolita e
l’intero campo ha subito una deriva verso ovest. Alcuni
ritengono che questo non dovrebbe avere conseguenze
devastanti per la vita sulla Terra. Lo giustificano con il fatto che,
se ci sono state almeno due inversioni nell’ultimo milione di
anni, la razza umana non si è estinta. Io invece penso che
l’inversione, o addirittura la sparizione del campo, che molti
sostengono possa avvenire di nuovo, abbia portato alle diverse
glaciazioni in cui l’umanità è giunta prossima all’estinzione.
Inoltre, tutti gli animali che usano il campo magnetico per
orientarsi, le balene, le tartarughe, gli uccelli migratori,
sarebbero persi. Già ora si contano migliaia di casi di delfini e
balene arenati su spiagge e uccelli dirottati dagli abituali flussi
migratori: i loro sensori biologici, che utilizzano i due poli
magnetici terrestri come fari, sentono che il campo magnetico si

103
affievolisce o si inverte. Per non parlare dello spaventoso
aumento dell’attività sismica e vulcanica i cui effetti potrebbero
essere notevoli e sconvolgenti: sarà solo un caso lo strano
fenomeno dell’incremento dell’attività tellurica, che si verifica
da alcuni anni a questa parte su tutto il pianeta ed è la ragione
per la quale ultimamente sto viaggiando avanti e indietro?»
«A questo proposito Giovanni, nel mio ultimo viaggio in
Provenza ho conosciuto casualmente una geofisica che si
chiama Anne Vicelli e che partecipa anche lei a congressi dallo
stesso tema. La conosci?»
«Non quanto vorrei. Certo che la conosco e mi pare una strana
combinazione; c’è chi in tutta la vita non ne incontra uno e tu in
pochi giorni hai parlato con ben due geofisici. Siamo una specie
in via di estinzione, nonostante il bisogno che ci sarebbe di noi
in molti campi. La dottoressa Vicelli è abbastanza conosciuta
per la sua competenza e moltissimo per la sua bellezza al punto
che, se non avessimo avuto alcuni scontri professionali, l’avrei
corteggiata. Purtroppo, fa parte di un gruppo di scienziati molto
conservatori e poco disposti a condividere le loro scoperte: lei in
particolare ha sviluppato moltissimo la tecnica della ricerca
delle reti magnetiche, per mezzo della radiestesia. Le sue
ricerche hanno dato risposta a molti interrogativi, ma molti di
noi sospettano che lei ed il suo gruppo, abbiano scoperto molto
di più. Il mistero con cui si circondano ha creato molte dicerie,
che però non riguardano la sua reputazione; da quel lato sembra
inaccessibile.
Tornando a noi, io sono uno scienziato lo sai, ma ho
sempre letto molto sulle civiltà che ci hanno preceduto: è
innegabile che cinquemila anni fa, coloro che si ponevano le
domande che ancor oggi noi ci poniamo, avevano trovato
risposte che solo oggi la scienza inizia ad indagare. Il concetto
che la materia sia energia è sempre stato presente tra gli
sciamani, ma la nostra fisica atomica ci sta arrivando solo in

104
questi anni. Mi hai chiesto cosa potrebbe accadere se i poli si
invertissero; il fatto certo è che abbiamo perso il rispetto verso
la Terra, che gli antichi consideravano madre ed in molti casi
l’unica dea. La capacità di ascoltare il suo respiro, di prendere
energia dalle sue fonti. Forse non sai che il nostro pianeta ha un
battito cardiaco che è detto risonanza Shumann: senza
addentrarmi molto, ti dirò che la sua frequenza influenza le
comunicazioni, le variazioni di temperatura e le condizioni
meteorologiche mondiali. Bene, questa frequenza sta
drammaticamente aumentando. Per decenni il suo valore medio
era di 7,8 cicli al secondo, oggi si rileva un valore di oltre 11
cicli.
«Hai parlato di respiro della terra. Cosa sai dirmi della
Radiestesia e della Geobiologia?»
«Marco a cosa ti servono veramente le mie informazioni e più
che altro, cosa vuol dire “conosciuto”, nel caso di Anne
Vicelli?»
«Niente di particolare, vorrei ampliare il mio saggio scrivendo
anche sul feng-shui e sulla Geobiologia.»
«Chissà perché, ho la sensazione che tu sia arrossito, ma visto
che sei reticente non ti chiederò altro. Tornando a tutto quello
che va ad interferire in maniera molto complessa con il campo
magnetico terrestre, anche i fiumi sotterranei e le correnti
telluriche, che sono campi elettrici naturali, lo influenzano. Se
scorrono a piccole profondità, possono perturbare il normale
campo magnetico e causare notevoli perturbazioni energetiche,
che possono arrivare ad avere effetti letali sull’equilibrio delle
cellule viventi. Ormai è certo che vi sia qualcosa
nell’elettromagnetismo e nei campi magnetici, che può creare
pericolosi disturbi agli esseri umani. L’uso continuato dei
cellulari, i tralicci dell’alta tensione degli elettrodotti e così via.
Di misteri, quando si parla di acque, non si resta mai a corto: le
acque miracolose, dette acque di Luce, la cui temperatura è

105
vicina a 4° gradi C alla sorgente, presentano vortici destrogiri
che distruggono i batteri. L’effetto composto dell’irraggiamento
cosmico, tellurico, e di quello artificiale, che ormai non può più
essere considerato trascurabile, provoca delle risonanze e delle
interferenze energetiche sulla molecola dell’acqua che agisce
come una cassa di risonanza del campo prodotto da queste
interferenze.
L’acqua si trova ovunque, è la principale costituente
della vita e noi stessi siamo fatti dall’ottanta per cento di acqua.
Ti ho parlato dell’acqua per parlarti della Radiestesia, che è
sempre stata il mezzo più antico per trovarla. Anche in questo
caso, questa conoscenza fu custodita gelosamente dagli uomini
appartenenti alla gerarchia religiosa ed i maggiori ricercatori in
Europa del periodo medioevale e post-medioevale, furono dei
sacerdoti. Al di là dell’uso di attrezzi come il pendolino o la
forcella di un ramo, si deve riconoscere l’esistenza di energie
che vibrano a frequenze diverse e pervadono tutto quanto ci
circonda. Quante volte ti sei chiesto perché in un certo luogo, ti
sentivi a disagio senza che apparentemente ci fosse una causa?
Molti scienziati che non viaggiano con i paraocchi,
pensano ormai che ogni corpo sia un emettitore di energie
elettromagnetiche ad una determinata frequenza di vibrazione;
costante, fissa, immutabile per un tempo indefinito finché
permangono le stesse condizioni ambientali. Saremmo quindi
circondati da una serie di generatori di energia autoalimentati,
ognuno con una propria frequenza di vibrazione. Un uomo che
abbia la capacità di poter assorbire le vibrazioni e di saperle
classificare con lo straordinario elaboratore che abbiamo nella
testa, saprà riconoscere la sostanza che sta ricercando. Vi sono
diverse scuole legate alle tradizioni di ogni paese; so che in
Francia esiste una scuola molto antica, che ha mantenuto come
strumento principe il pendolino. La Germania ha anch’essa una
scuola molto attiva che ha sviluppato la costruzione del

106
biosensore, un trabiccolo che utilizzano per ricerche cosmo-
telluriche. E non mi chiedere di cosa si tratta. Come vedi
abbiamo parlato di nuovo di frequenza e pare proprio che questa
sia alla base della vita.
Debbo ripetermi, quello che gli antichi hanno sempre
saputo, la scienza lo scopre solo ora. Un team di scienziati
dell’istituto HeartMath – che già nel nome, matematica del
cuore, è tutto un programma – di Boulder Creek, in California,
ha scoperto che il cuore possiede un cervello. Il che spiega un
vecchio paradosso prenatale: quando viene concepito un
bambino, il cuore umano inizia a battere prima che il cervello
sia formato. Ciò ha portato i medici a chiedersi da dove
provenga l’intelligenza necessaria ad avviare e regolare il battito
cardiaco.
Con sorpresa del mondo medico, gli scienziati
dell’HeartMath hanno scoperto che il cuore ha un proprio
cervello, molto piccolo in quanto ha soltanto all’incirca
quarantamila cellule, ma sono cellule cerebrali. Questa scoperta,
di enorme importanza, conferma la veridicità delle affermazioni
di coloro che per secoli hanno parlato o scritto sull’intelligenza
del cuore. Gli scienziati dell’HeartMath hanno fatto una
scoperta forse ancora più grande riguardo al cuore. Hanno
dimostrato che il cuore umano genera il campo energetico più
ampio e potente di tutti quelli generati da qualsiasi altro organo
del corpo, compreso il cervello all’interno del cranio. Hanno
scoperto che questo campo elettromagnetico ha un diametro che
si estende dai due metri e mezzo ai tre metri, con l’asse centrato
nel cuore.
Il medico legge su un elettrocardiogramma quello che il
sensitivo leggeva nello stesso campo magnetico e lo chiamava
AURA. Dalla sua colorazione - che evidenzierebbe l’armonia o
la disarmonia delle frequenze degli altri organi con quella del
cuore - riusciva a stabilire lo stato di salute del paziente. E se

107
fosse vero che ogni campo del cuore, comunica con il campo
magnetico terrestre e con i campi di tutti gli altri esseri viventi?
Cosa sappiamo esattamente di certe ghiandole, come la pineale,
nascosta all’interno del nostro cervello? Conosciamo la sua
influenza sui processi di invecchiamento, ma perché gli induisti
la considerano il nostro terzo occhio? Forse perché contiene
cellule pigmentate simili a quelle che si trovano nella retina ed è
sensibile alla luce in maniera da fornirci un orologio biologico
giorno-notte? Chissà a che funzioni presiedeva prima di
divenire quello che è ora? Dimmi, sono stato esauriente?»
«Certo e te ne sono grato. Ora molte cose sono più chiare.»
«Fammi sapere se ti serve altro e … non cacciarti nei guai. A
presto.»

Mentre riattaccava il telefono, Marco si chiese il perché di


questa ultima raccomandazione, ma c’era qualcosa di più
importante a cui pensare: quanto aveva detto il suo su Anne.
Che cosa intendeva il professore per “gruppo conservatore poco
disposto a condividere”? Non si attagliava sin troppo bene, alla
figura di un’adepta degli Eletti? Ancora quel senso di
schizofrenia, che lo faceva passare alternativamente dal senso di
colpa per i sospetti su di lei, alla certezza che in qualche modo
vi fosse coinvolta. Ogni qualvolta decideva di attendere il suo
ritorno per eliminare ogni dubbio, scopriva una nuova
possibilità che lei fosse implicata. Non in modo chiaro e netto,
ma attraverso una serie di notizie discordanti, una vaga
percezione di ambiguità. Si rimise al computer ed iniziò a

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spuntare parola per parola il contenuto della pergamena
annotando a fianco ciò che rappresentava ancora un enigma o
meno.
- Il potere delle acque e il respiro della Terra: poteva essere
riferito all’influsso combinato dei fattori indicati dal professore.
- Come si potesse ricavarne la preveggenza e
l’immortalità, sapeva troppo di argomenti al confine tra il
fantastico e il pazzoide.
- Perché poteva essere una bestemmia il tempo a spirale e
che cosa diavolo era?
- Sulle Grotte Alchemiche: la loro esistenza ed il passaggio
per accedervi, parevano compromessi per sempre, ammesso che
fossero mai esistite. Salvo che si trovassero in qualche luogo
che non era Piazza Statuto.
- Perché la luce dell’alba si addice allo zaffiro? Forse
perché è una pietra azzurra?
Chi, tra le sue conoscenze poteva parlargli in maniera
approfondita di immortalità, e del concetto di tempo a spirale?
Dovette pensare un poco, prima di arrivare al nome di Roberto
Colli, il suo vecchio professore di Filosofia e di Storia delle
Religioni. Un salesiano dalla mentalità aperta, che aveva
viaggiato in tutto il mondo ed uno dei maggiori esperti di
Sidone. L’avrebbe chiamato il giorno dopo, sperando che fosse
reperibile. Prima di chiudere il compiuter, scrisse un messaggio
a lei, la sua misteriosa, bellissima, amanta provenzale.
«4 settembre. Qualcosa sta cambiando, i venti maligni che il
quindici agosto soffiavano forti verso l’occidente, portandoti
lontano, non sono più che una brezza; c’è in aria il lieve
annuncio di una inversione, presto soffieranno verso est e ti
riporteranno a me. Ti amo Anne.»

109

Erano passati molti anni da quando Marco aveva


incontrato il suo vecchio insegnante di Antropologia
specializzato in Storia delle Religioni, ma non aveva mai
cessato di seguirne i movimenti e gli studi che concernevano i
campi più svariati. Per questa ragione dubitava di poterlo
trovare subito invece, un poco più tardi, sentì la sua voce un po’
stridula, ma per niente indebolita dall’età, sgridarlo per il lungo
silenzio e chiedergli con tono sarcastico:
«Credi ancora di poter entrare in una chiesa senza ricoprirti di
pustole immonde ed avere le convulsioni? Si? Bene, allora alle
undici e quarantacinque in Duomo, ho voglia di vederti.»
Se c’era qualcosa che con l’età non aveva perso, questo era
sicuramente l’autorità e la concisione e Marco decise di
prepararsi velocemente per uscire. Sulla soglia ristette un
attimo, in forse se portare con sé la pergamena, ma poi decise di
portare solo la versione stampata dal computer.
Il Duomo di Torino sorge in uno dei punti più carichi di
storia della città, a pochi passi dalle Torri Palatine e adiacente al
Teatro Romano dell'antica Augusta Taurinorum. È l'unico
esempio di arte rinascimentale in città, con una facciata in
marmo bianco e tre portoni sormontati da un timpano. La
Cupola del Guarini, che dal 1.600 ospitava la Sindone, dopo
l’incendio del’97 era ancora in perenne restauro, coperta da
panneggi. Entrando fu accolto dall’interno austero del Duomo e
dalla tipica frescura delle antiche chiese; dopo essersi un attimo
abituato al buio, si diresse verso il fondo della navata, per farsi
annunciare. Davanti a lui era posta una teca ad atmosfera inerte,
che conteneva il sudario più famoso della storia dell’umanità:
un sarcofago ricavato da un unico lingotto in lega aeronautica e

110
da una copertura multistrato antincendio. L’atmosfera della teca
e della cappella, sono costantemente controllate da un computer
in termini di pressione, temperatura e umidità.
Deviando a sinistra della Tribuna Reale, scorse un gruppo
di prelati che stavano uscendo da una porticina e chiese del suo
insegnante. Gli fu detto di attenderlo, perché la riunione era
appena terminata. Il Duomo a quell’ora era quasi deserto, se si
escludeva la presenza dei sacerdoti che partecipavano al
simposio: molti in abito talare, alcuni in clergyman, si erano
soffermati in una delle cappelle laterali a parlare tra loro in
inglese.
Improvvisamente si sentì toccare la spalla e si voltò, per
trovarsi di fronte a due occhi penetranti che ancora una volta,
come in passato, lo soggiogarono; il viso pallido, il naso sottile
e un poco arcuato, gli zigomi sporgenti, avrebbero potuto essere
quelli di un mistico, se un dolcissimo sorriso non l’avesse reso
così umano. Emanava da lui una serenità, dietro la quale si
indovinava l’energia contenuta di un uomo abituato a battersi
per i suoi principi e contro le ingiustizie del mondo. Superava
Marco di qualche centimetro e l’abbraccio in cui lo strinse gli
ricordò quelli che da ragazzo avevano scandito le partenze per
le vacanze e la fine dei suoi studi. Come d’abitudine, il
salesiano Roberto Colli vestiva in borghese, una camicia azzurra
ed un paio di jeans grigi erano il suo abito talare.
«Vedo che non hai perso la buona abitudine alla puntualità e che
entrare in Duomo, nonostante la tua prolungata assenza da una
chiesa, sulla quale scommetterei, non ti ha provocato grandi
traumi. Possiamo andare a pranzo nella foresteria della curia, si
mangia molto bene e non avremo problemi di parcheggio; ti
posso dedicare due ore se vuoi solo parlare dei vecchi tempi,
molto di più se vorrai confessarti, visto il contenzioso che hai
sicuramente con la tua coscienza.»

111
«La ringrazio molto padre, due ore mi basteranno per quanto
vorrei chiederle: qualche anno fa, scrissi un saggio su
Nostradamus ed ora il mio editore mi ha chiesto di ampliarlo per
arrivare almeno a duecentocinquanta pagine. La parte che vorrei
approfondire con lei, è quella relativa al concetto di immortalità:
come è stata vista nella storia dell’uomo da filosofi, alchimisti,
come era, appunto, lo scrittore delle Profezie, e scienziati. Il
convegno che sta presiedendo, se non sono indiscreto, di che
cosa tratta?»
Mentre uscivano dal retro della chiesa e si dirigevano verso un
antico edificio in mattoni rossi a cui il sole alto nel cielo,
toglieva la patina del tempo, continuarono a parlare.
«Debbo confessarti che, dopo tre giorni passati con i miei
colleghi della Commissione diocesana, è piacevole cambiare
compagnia e argomenti di conversazione. Nonostante la
Sindone mi appassioni ancora molto, ormai il suo studio si è
ridotto a disquisizioni tra esperti della datazione con il Carbonio
14 e contumelie tra i laboratori prescelti e quelli esclusi. Si sta
perdendo di vista il mistero di un lino che porta impressa la
figura di un uomo, un’immagine che non è stata né dipinta, né
stampata a caldo né ottenuta con i mezzi che l’odierna scienza
umana potrebbe escogitare. Come una pellicola fotografica
impressionata da una luce che non riusciamo nemmeno ad
immaginare, il lino riporta un negativo, i cui chiaroscuri sono di
intensità proporzionale alle diverse distanze che possono esserci
tra un corpo e il telo che lo ricopre. L’immagine c’è anche dove
non poteva esserci contatto diretto con il lino: le macchie di
sangue e di siero sono compatibili con un corpo che sia stato
coperto e posato, ma non vi sono segni di spostamenti dovuti
alla rimozione. Sembrerebbe che il corpo abbia perso
improvvisamente il suo volume, sia svanito nel nulla. Questo è
il vero mistero e non la scoperta recente, per la quale io sono
qui: la cimosa del lino è identica a quelle dei tessuti rinvenuti a

112
Masada, all’epoca della dominazione romana. Per tornare alla
tua domanda, tutto fa supporre che l’uomo della Sindone abbia
trovato l’immortalità e milioni di uomini come me, credono che
sia anche divenuto eterno.»
Intanto si erano seduti ad un tavolo dell’ampia sala che fungeva
da foresteria.
«Mi corregga se sbaglio don Roberto, ma io credo che spesso si
faccia confusione tra eternità e l'immortalità. La soppressione
dell'invecchiamento non significa ottenere l’invulnerabilità, non
invecchiare non significa essere immuni da malattie non ancora
curabili, omicidi e incidenti.»
È vero, pensa al terrore che proverebbe un immortale, nei
confronti dell’imprevisto. Potrebbe arrivare a decidere di vivere
isolato dal mondo, per non fare brutti incontri. Da sempre
l’uomo si interroga su questo mistero, persino Einstein ha
ipotizzato, portando all’estremo la sua teoria della relatività, che
se si viaggiasse ad una velocità mille volte superiore a quella
della luce, l’orologio biologico che abbiamo dentro
rallenterebbe fino a fermarsi. Niente più accumulo di spazzatura
nelle nostre cellule, niente radicali liberi, niente effetti
collaterali del metabolismo. In definitiva, si vivrebbe in una
zona di confine tra l’esistenza del tempo e la sua non esistenza.
In tutta la storia umana si è sognata una vita senza fine o
indefinitamente lunga, ma, se per pura ipotesi, la
immaginassimo possibile, nascerebbero problemi di tipo etico.
Sarebbe giusto che la gerontocrazia, che è già così forte oggi,
fosse ancor più potenziata da una prospettiva di immortalità?
Comunque, a molti l'ipotesi dell'immortalità appare una cosa
assurda, visto che neanche la Terra è immortale. La morte è un
dato fondamentale, come diceva Heidegger; una vita senza fine
non si riesce nemmeno a immaginarla. E poi Marco, un'ora o
mille anni non sono forse la stessa cosa di fronte all’abisso del
nulla?

113
Per ora, religioni a parte, l’unica certezza d’eternità sta
nella morte stessa; quella sì che è eterna. Certo l’idea è
intrigante e si è speculato molto su quello che sarebbe una vita
senza la prospettiva di morire: l’uomo ha creato il mito, la
religione e l’arte proprio per continuare a vivere in eterno.
Almeno nella memoria. La ricerca della vita eterna è da sempre
presente nei racconti tramandati da epoca ad epoca, da
Gìlgamesh al replicante Roy di Blade Runner. Qual è il segreto
per non morire, questa è la domanda che ha affascinato molti
scrittori. Dalla mitica Lei - che qualcuno ha chiamato Ayesha o
Antinea – agli stessi vampiri che la ottengono barattandola con
una non-morte, la letteratura è piena di immortali. Nella realtà,
quelli che più l’hanno cercata cocciutamente e senza tregua
sono stati e sono, perché ho la convinzione che ne esistano
ancora, gli alchimisti.
Di uno di questi, si è detto addirittura che ci sia riuscito; è
il famoso conte di San Germano, detto anche Saint Germain.
Uno dei personaggi più misteriosi dell’esoterismo, sempre
pronto a sparire quando i riflettori della Storia restavano per
troppo tempo su di lui. Per riapparire subito dopo in un altro
paese e con un altro nome. Lo dicono affiliato a molte società
segrete, dai Rosa croce ai Perfettibili e alcuni sostengono che
fosse un iniziato della setta più misteriosa, quella degli Eletti. E
proprio quest’ultima l’avrebbe perseguitato per il suo voler
diffondere il sapere, anziché nasconderlo sotto un linguaggio
ermetico: per loro doveva rimanere nelle mani di pochi e per
questo si chiamavano Eletti.»
Marco, nel sentir nominare gli Eletti, fece fatica a non
tradirsi; c’erano dunque tracce di quella setta nella Storia e non
solo nella pergamena. Per non interrompere il professore, si
ripromise di parlarne più tardi.
«San Germano fu conosciuto da molte figure importanti, da
Madame de Pompadour, che lo nominò suo protetto, da Voltaire,

114
Mozart, Cagliostro e Casanova, che lo inserì nelle sue memorie.
Chi ne ha scritto finché ne aveva memoria, ne ha parlato come
di un uomo sarcastico, a volte amaro, a volte faceto, colto di una
cultura che si richiamava a secoli lontani: citava personaggi
famosi come Carlo V che lui, San Germano, avrebbe finanziato
per le spedizioni di Pizzarro e Cortez verso il Perù ed il
Messico.
«Addirittura!»
«Comparirà saltuariamente nelle sedute di alcune sette
esoteriche massoniche fino a che, nel ‘900, si sovrappose alla
figura del grande alchimista Fulcanelli. Costui, pur avendo
scritto tre libri molto famosi sull’alchimia, resta ancora oggi un
grande mistero, che nessuno è mai riuscito a svelare. Dietro lo
'pseudonimo', nessuno sa chi si celi veramente. Le sue opere
furono pubblicate in Francia dal suo discepolo Canseliet, ma
nemmeno su questo si sa molto e più si indaga più si trovano
misteri.»
«Mi pare di aver letto un suo libro qualche anno fa» disse
Marco «“Il mistero delle Cattedrali”, ma confesso di non averci
capito molto; la cosa che mi aveva più colpito era la sua
convinzione, sembrava ispirato da una vera fede. Tutto ciò che
descriveva era reale, almeno per lui.»
«Una delle sue apparizioni più sconcertanti però avvenne nel
1937, quando incontrò il fisico nucleare Jacques Bergier: lo
mise in guardia sulla pericolosità della scissione dell’atomo che
avrebbe potuto causare la fine dell’umanità. Disse inoltre che in
passato erano già esistite civiltà che conoscevano l’energia
atomica e si erano autodistrutte proprio per un suo utilizzo
sbagliato. Gli consigliò di controllare su qualche resoconto
scientifico, perché il deserto del Gobi ha una superficie
vetrificata, come se si fosse verificato un immane incidente
nucleare.»

115
Mentre il salesiano esponeva le sue idee, era stata loro servita
una squisita zuppa fredda di verdure che un filo d’olio toscano,
aveva reso ancora più saporita: un arrosto di tacchino con salsa
ai mirtilli era stato il completamento del loro pranzo. Le
spiegazioni di Roberto Colli avevano fatto emergere altre figure
coinvolte nel contesto degli Eletti; il palcoscenico si stava
affollando di personaggi appartenenti a diverse epoche. Scoprire
quale commedia o dramma fosse in copione, diventava sempre
più difficile. Restava ancora una frase da chiarire e Marco sperò
che anche in questa risposta, lo scienziato prevalesse ancora una
volta, sul sacerdote.
«Che cosa mi può dire della definizione di tempo circolare o
eterno ritorno, che ho trovato molte volte durante le mie
ricerche?»
«Molti hanno pensato al tempo come a qualcosa di eterno e
immutabile. Secondo il nostro filosofo Emanuele Severino,
potrebbe essere una pellicola i cui fotogrammi sono gli istanti
che già esistono, senza passato e senza futuro. Sarà la
proiezione che, ponendoli in sequenza, darà loro la percezione
del movimento che sembra andare da un passato ad un futuro.
La Storia e il tempo sono creati dalla proiezione, sono quindi il
progressivo apparire di qualcosa che non si crea in quel
momento, ma che esiste già. Il futuro, dunque, non si crea nel
presente e noi non lo percepiamo soltanto perché ancora non ci
è apparso. Sta nei fotogrammi a venire, quelli che pur esistendo,
non sono ancora arrivati sotto la luce del proiettore, quindi della
percezione.
Gli attimi entrano ed escono da quello che Severino
chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che quando un attimo
esce dal cerchio dell'apparire non diviene un nulla, ma si sottrae
semplicemente alla vista. Dunque, i fatti esistono anche quando
scompaiono, ovvero non si vedono. Cioè, il futuro non può
provenire dal nulla. Coloro che hanno affermato di poter vedere

116
in avanti e indietro nel tempo, quindi, avrebbero avuto la facoltà
di far scorrere la pellicola a mano: davanti a loro stanno tutti i
fotogrammi e possono scegliere quali guardare, passato o
futuro. Se invece la proiezione viene fatta in modo consueto, si
potrà parlare di Tempo Lineare, ma se uniamo la fine ed il
principio della pellicola, in modo che la proiezione riproponga
lo stesso film più volte, avremo il Tempo Circolare.
Se viceversa riuscissimo ad inserire in qualche
fotogramma, una misteriosa sostanza che interagisca con le
immagini successive modificandole, avremo il Tempo a Spirale,
in continua evoluzione. Alcuni punti della teoria della relatività
di Einstein hanno introdotto un altro concetto: in ogni istante, un
avvenimento crea un altro universo parallelo al primo e così via.
È il principio delle sliding doors, in cui una decisione o un caso
fortuito, creano altri futuri, paralleli al nostro, in cui altri noi
vivono vite determinate dagli avvenimenti o dalle scelte che
hanno fatto. Inoltre, per il geniale fisico, il tempo non è che un
eterno presente, esattamente quanto sostenevano i grandi mistici
antichi. Passato, presente, futuro, sono. Secondo i fautori del
Tempo Circolare, il cosmo non ha avuto inizio in alcun tempo; il
mondo sensibile non ha alcun inizio temporale, poiché la causa
del suo essere è il circolo. Il tempo stesso è un circolo e come il
circolo, non ha alcun punto di origine.
Ogni ciclo, dopo il massimo splendore si avvia verso una
lenta degenerazione, per poi iniziare un nuovo ciclo cosmico; i
cicli si avvicendano uno all’altro, sempre uguali, sempre diversi
e tutto questo è ignoto solo a causa del piccolo arco temporale
della vita umana. Come se noi avessimo una visuale limitata a
quanto ci sta davanti, mentre il Tempo si apre a destra e a
sinistra, a 360 gradi. Come diceva il nostro Giambattista Vico,
che credeva nella ripetizione eterna dei cicli, “perfino se ci fosse
un infinito numero di mondi, questi cicli si ripeterebbero
sempre”»

117
«Professore mi rendo conto, ogni volta che parlo con lei, di
quanto ho dimenticato dei miei studi. Non ho più riletto Vico,
ma ricordo una sua lezione in cui ci aveva parlato di quest’uomo
geniale, che non ebbe mai il riconoscimento che meritava. Anzi
se non ricordo male, fu anche perseguitato per le sue idee.»
«Beh, puoi capire facilmente che le sue idee non piacessero né
alla Chiesa, né a tutti i movimenti che credevano nel
protagonismo dell’uomo. Questi pensavano che considerare il
tempo come un grande fiume che segue imperturbabile il
proprio corso, significava massificare l'individuo. C’è un
mistero non ancora risolto nella vita di Vico; un cambio
repentino di una sua opera, la Scienza Nuova che doveva
comprendere sei libri, ma fu pubblicata solo in cinque volumi. A
quel tempo, si credette che una setta segreta l’avesse minacciato
per non pubblicare il sesto libro. Lui non rivelò mai il perché di
tutto questo.
Nella forma a spirale del tempo si collegano circolarità a
linearità; ogni periodo storico ha un inizio, che non coinciderà
con la sua fine, perché l’uomo lo trasforma. Grazie alle nuove
conoscenze, per esempio l’alchimia, l’uomo imprime al tempo
una velocità maggiore di quella che avrebbe il ripetersi costante
degli errori, dunque si avranno ripetizione e novità, memoria e
iniziazione. Nel tempo circolare e lineare ciò che si ricorda è già
stato, si procede ricordando ossia, secondo loro, retrocedendo:
nel tempo a spirale si ricorda procedendo ed il presente non è
altro che il materiale con cui forgiare il futuro.
Infine, c’è un altro tipo di tempo, quello percepito: perché i
secondi e i minuti non sono tutti uguali come li vediamo segnati
negli orologi, una barretta dopo l’altra, sessanta barrette un
minuto e così via. I minuti dell’attesa sembrano eterni come
quelli che trascorrono dal dentista, mentre quelli dei momenti
felici, quasi non esistono tanto sono veloci, o poco percepiti. Gli
ultimi, quelli che segneranno la fine della nostra vita come

118
saranno? Dipenderà da quello che ci porteranno, una morte
liberatrice oppure inopportuna, non invitata.»
«Ma lei professore, in quale tipo di tempo crede? Lo chiedo allo
scienziato, naturalmente, non al sacerdote.»
«Io, come scienziato, credo alla presenza di Dio in ogni cosa;
non sto pensando al Grande Vecchio barbuto delle icone, ma a
qualcosa di infinitamente grande, una forma di energia che ha
dato ordine a tutto il creato. Ogni tanto qualcuno dei più
fortunati di noi, artisti, matematici, filosofi, si avvicina così
tanto a lui, che ne intravede un piccolo spiraglio e cerca di
parlarcene. A volte ci riesce ma il più delle volte fallisce.
Un certo Mizler, ad esempio, un allievo di Bach, pensava,
sulle orme dei filosofi e matematici greci, che l'intero edificio
del cosmo sia composto secondo la più perfetta proporzione, e
che la musica ne rappresenti l'armonia. Rivelò che la
conoscenza matematica dei suoni dà al compositore una grande
luce, anche se in forma non immediata: tutte le musiche
consistono di suoni e i suoni sono regolati da grandezze
matematiche, su cui si fondano tutti gli effetti che la musica ha
su di noi. Riuscì a coinvolgere prestigiosi musicisti, come lo
stesso Johann Sebastian Bach che poco prima di morire,
presentò loro l'Arte della fuga. Gli esperti dicono che, insieme
alle Variazioni Goldberg, rappresenti una musica
smaterializzata, costruita in base ad astratti principi di simmetria
aritmetica e geometrica. Mizler scrisse anche: “Musica, tu
racchiudi l'intero edificio del mondo, cielo e terra sono in te, se
quaggiù i suoni sono così nobili, quale sarà la mia gioia lassù! O
cielo, vieni in mio aiuto, spezza le catene che ancora mi legano
alla terra, perché possa unirmi al coro degli spiriti, dove cantano
le voci più pure”.
Fu quasi accontentato, perché subito dopo una carrozza
tentò di investirlo per ben due volte, e in due occasioni diverse:
a qualcuno doveva aver dato fastidio che lui rivelasse i segreti

119
della composizione. Si dice che fosse un fuoriuscito da un’altra
e ben più segreta setta di cui ti ho parlato prima, gli Eletti. A
quell’epoca più di uno pensò che avessero tentato di farlo
uccidere. Fatto sta che un brillante compositore e matematico
come lui, di punto e in bianco decise nel 1755 di trasferirsi a
Varsavia e di esercitare la medicina. Dove e come aveva potuto
compiere gli studi lunghi e difficoltosi necessari ad ottenere
l’abilitazione? E perché trasferirsi così lontano e cessare di
interessarsi alla musica? Restò un mistero come la sua morte,
avvenuta nel 1778, pare per una colica epatica.
Poco fa mi hai chiesto in che tipo di tempo io creda ma in
realtà volevi farmi dire altro. Io ti risponderò in maniera
altrettanto sibillina, con le parole di un fisico moderno, Dyson.
Credo in “ciò che la mente diventa quando ha, o avrà, superato i
limiti della nostra comprensione”. Del resto, se ti chiedo a
bruciapelo, l’elettrone esiste oppure no? Tu non lo vedi quindi
non esiste, ma la natura fa esistere anche ciò che per noi non
esiste. La televisione esiste quindi l’elettrone esiste.»
Marco non poté fare a meno di considerare ancora una volta
l’apertura mentale del suo vecchio professore, che manteneva il
contatto con le evoluzioni del pensiero filosofico moderno,
anche quando era in aperto contrasto con la dottrina della
Chiesa. Del resto, si era sempre mosso come un border line tra
la scienza e le religioni di tutto il mondo ed era decisamente
contrario alle chiusure che sempre più spesso la Chiesa
assumeva nei confronti di argomenti molto vitali per il genere
umano. Ricordava ancora le sue aperte prese di posizione,
contro la condanna che Roma aveva decretato sull’uso del
contraccettivo, nei paesi del Terzo Mondo. Aveva visto troppi
malati di AIDS per poterla accettare.
C’era un’altra cosa però che turbava Marco: per ben due
volte Roberto Colli nella sua conversazione aveva citato gli
Eletti. Pareva proprio che quella setta, facesse la sua comparsa

120
lungo la Storia uscendo dall’ombra che l’avvolgeva solo per
colpire chi, prendendo le distanze da essa, ne rivelava i segreti.
Mizler costretto prima a fuggire, a cambiare professione e poi
forse anche avvelenato. Per tacere di Vico. Quali erano i loro
segreti, per arrivare a tanto pur di nasconderli?
Intanto il salesiano aveva guardato l’orologio e quasi
sollevato dallo scoprire che aveva ancora mezzora, gli chiese se
gli andasse di fare due passi per prendere un caffè all’esterno
della foresteria. Marco accettò e uscirono nel sole accecante
delle due del pomeriggio. Prendendolo sottobraccio, il suo
professore gli chiese ancora:
«Allora, ho soddisfatto le tue richieste?»
«Più che soddisfatto padre, ho scoperto cose che neanche
immaginavo e, grazie a lei, ora ho quasi tutto il materiale che mi
serve. Mi rimane un’ultima domanda che riguarda Nostradamus
e spero che lei possa aiutarmi: sa se nel suo soggiorno torinese
incontrò qualche alchimista, o iniziato di qualche setta? Inoltre,
Nostradamus è stato assassinato?»
«Su di lui so quello che sicuramente sai anche tu. Venne a
Torino su richiesta dei Savoia, per curare la sterilità della regina
e fu ospitato alla Villa Morozzo che ora non esiste più. A me
risultava che fosse morto di qualche complicanza della gotta, di
cui soffriva. Per il resto, il maggior esperto di Nostradamus che
io conosca - anche se nessuno lo sa perché schiva la vita sociale
e la ribalta dei media - è un mio vecchissimo amico arabo,
Mikha'il El Alcuflin, che risiede a Torino da anni. Bada bene, se
io che sono già vecchio dico che è vecchissimo significa che lo
è veramente. Riceve solo chi è presentato da amici fidati e con il
passare del tempo è divenuto ancor più diffidente. Se vuoi posso
provare a chiamarlo per presentarti, poi tu potrai prendere
direttamente un appuntamento con lui. Sei d’accordo?»
«Gliene sarei molto grato, visto che non lo conosco.»
«Bene questa sera ti darò la conferma della sua accettazione.»

121
Dopo aver bevuto insieme un caffè, si salutarono sul sagrato del
Duomo dove Marco aveva riaccompagnato il salesiano. Roberto
Colli lo abbracciò fortemente e guardandolo negli occhi gli
disse, “che la pace sia con te”. Poi con stupore di Marco, dato il
carattere dell’uomo, compì un gesto inaspettato: con il pollice
della mano destra gli tracciò velocemente una piccola croce
sulla fronte e si voltò per entrare in chiesa. La presenza di quella
mano ossuta, che aveva tracciato l’antico gesto, gli lasciò per
qualche minuto sulla pelle un formicolio, un senso di calore
benefico. Ancora una volta, come era sempre accaduto quando
si lasciavano, provò il rimpianto di non poter incontrare più
spesso quell’uomo. Riusciva ad infondergli una forza, che
nemmeno il passare del tempo aveva scalfito.
Si avviò verso la sua auto e tornò a casa, per riprendere in
mano il contenuto della pergamena. Gli parve una buona idea
prendere nota di quanto gli aveva detto il salesiano e completare
lo schema delle domande-risposte di qualche giorno prima:
- Nella pergamena, Valeirole metteva in guardia chi
l’avrebbe rintracciata da una setta che si faceva chiamare gli
Eletti e che, a quanto pareva, esisteva sin dal ‘500, l’epoca di
Nostradamus. Questi aveva acquisito la conoscenza attraverso
un misterioso procedimento legato al potere delle acque e al
magnetismo terrestre: l’ulteriore visita nel sottosuolo di Torino,
gli aveva fatto scoprire le mitiche Grotte dalle quali aveva
ricavato, la chiaroveggenza e forse, addirittura la vita eterna. Il
rifiuto di mettere tutto ciò a disposizione della setta, l’aveva
condannato, e questo era un vero scoop storico. La morte del
veggente per omicidio. Probabilmente questo delitto aveva
creato una frattura nella setta che si era divisa in due fazioni:
una favorevole al Tempo Circolare, cioè al lento apprendimento
ed alla diffusione del sapere. L’altra fautrice del Tempo a
Spirale, accentratrice delle conoscenze derivate dall’alchimia e
disposta ad uccidere i dissidenti. Nonostante ciò, nel ‘700 non

122
erano ancora riusciti a produrre la Grande Opera, la Pietra
filosofale. Quel che rimaneva ancora da capire, ammesso che
tutto questo avesse un fondamento nella realtà, erano alcune
cose: I moderni Eletti conoscevano il potere congiunto delle
acque e del magnetismo terrestre? In tal caso, avevano il dono
della preveggenza?
Ancora una volta rimanevano misteri non svelati,
nonostante la visita al salesiano che pur gli aveva dato molto.
Alle nove di quella stessa sera, Roberto Colli lo chiamò per
dirgli che il vecchio arabo aveva accettato di vederlo e che gli
dava un appuntamento telefonico per le undici del giorno dopo.
Marco lo ringraziò calorosamente e gli diede la buona notte.
Con la sensazione di vedere molto più chiaro nell’estraneità di
Anne alla setta, sentì il bisogno di scriverle.
«Cara Anne, il tuo viaggio dovrebbe volgere al termine e sento
che mi manchi molto: se chiudo gli occhi, rivedo la piazza dove
ci siamo conosciuti e la nostra camera di Villeneuve. Ti prego
torna presto, ho desiderio di ballare con te come solo io e te
abbiamo il dono e la suerte di poter ballare.»

10

L’uomo era chino su una mappa molto dettagliata del


Messico, quando la speciale suoneria, abbinata al supervisore
della cellula di quel Paese, lo avvertì che lo stava chiamando. Si
alzò dal grande tavolo di lavoro in ciliegio intarsiato - un pezzo
introvabile che risaliva all’epoca napoleonica - e con una lunga
falcata raggiunse la scrivania; aprendo la comunicazione disse
solamente “sono io”. Dall’altra parte dell’oceano, sentì che nella
voce del suo interlocutore, oltre alla solita deferenza, c’era
un’agitazione che gli fece capire che qualcosa di grave era

123
accaduto. Il preavviso che la posta elettronica gli aveva
recapitato quel mattino, trovava una spaventosa conferma nelle
parole del suo collaboratore nell’area latino-americana. La
polizia messicana aveva rinvenuto cinque corpi semisepolti, in
una delle vecchie miniere abbandonate di Taxco, la vecchia città
dell'argento. Qualcuno non aveva svolto il suo compito sino in
fondo ed ora cinque corpi stavano viaggiando verso il
laboratorio di qualche anatomopatologo di Città del Messico.
Con tutti i segni di quanto lui e gli altri Eletti si sforzavano da
sempre di nascondere al mondo intero.
Rapidamente, con una voce che aveva ben poco di umano,
diede le sue istruzioni. Assaltare il veicolo che trasportava i
corpi, ucciderne gli occupanti e distruggere tutto quanto con un
lanciafiamme. Risalire la catena di comando, sino a chi aveva
lasciato i corpi insepolti ed eliminare in modo lento e più
doloroso possibile i responsabili. Che questo episodio fosse un
esempio. A futura memoria.
Il suo interlocutore ripeté più volte che così sarebbe stato
fatto e quando lui disse “è tutto”, attaccò. Posato il telefono,
l’Eletto, si appoggiò con entrambe le mani alla scrivania, in
preda ad una collera terribile. Strinse i pugni finché le nocche
divennero completamente bianche poi, con un gesto troppo
rapido per essere avvertito, ne abbatté uno sulla scrivania. Il
dolore che gli risalì lungo il braccio, gli disse, ancor prima di
controllare, che il piano in palissandro era completamente
rovinato; una crepa larga quasi un centimetro, lo attraversava da
un lato all’altro. Nessuno avrebbe potuto credere che quello
fosse l’effetto di un pugno. Un pugno umano, almeno.

124
Al telefono lo studioso di esoterismo era stato all’altezza
della sua fama: prima ancora che Marco si presentasse, gli
aveva posto una serie di domande che riguardavano Roberto
Colli, il suo professore. Le risposte presupponevano una
conoscenza approfondita del salesiano, e Marco le diede con la
sensazione di dover superare quell’esame per poterlo incontrare.
Man mano che le domande si succedevano la sua voce, che
all’inizio della telefonata aveva un tono inquisitorio, si
distendeva gradatamente sino a divenire quasi un bisbiglio.
Marco si chiese quanti anni potesse avere quell’uomo. L’ultima
domanda fu diretta e non riguardava il professore ma il loro
incontro:
«Perché il mondo sensibile non ha alcun inizio?» Ancora una
volta Marco ringraziò il cielo per la memoria di cui l’aveva
dotato e per l’abitudine di scrivere subito, dopo ogni incontro,
una relazione. Grazie a questo poté rispondere: «Poiché la causa
del suo essere è il circolo.» Evidentemente l’esame era superato
perché il vecchio disse solo «Oggi pomeriggio alle diciotto in
Piazza Vittorio: quando sarà arrivato, mi richiami e le darò il
numero civico.»
Lo scatto del telefono riattaccato fu l’unico saluto che
l’uomo gli rivolse. Alle cinque e mezza era al caffè Elena,
impaziente di incontrare quell’uomo misterioso e quando
mancavano pochi minuti alle diciotto, lo chiamò. Gli rispose
con una voce profonda, che pareva provenire da immense
lontananze. Gli diede il numero civico e il codice del citofono di
annuncio - millecento ventitré e cinquantotto - e attaccò.
Uscendo dal caffè, scoprì che pochi metri lo separavano
dal numero 7 e dal sontuoso citofono in ottone, abbinato ad un
vecchio portone pesantissimo e guarnito da otto grandi borchie
di bronzo. Aprendosi stridette in modo insopportabile e Marco
si chiese, guardando in alto verso i piani rialzati, come potessero
accettare di notte quella tortura. L’ascensore era fuori uso per

125
manutenzione e dovette farsi a piedi i sei piani che lo
separavano dall’alloggio dove era diretto. Sulla targhetta della
porta era indicato lo stesso codice numerico, che aveva dovuto
comporre per annunciarsi al citofono. Misteri su misteri.
Suonò, anzi ruotò l’antiquato congegno posto sulla porta,
che fungeva da campanello, provocando un sinistro gracidio;
dopo un lungo silenzio sentì dietro alla porta un rumore felpato
di pattini strisciati ed un occhio magico, che prima non aveva
notato, si aprì su di lui e sul suo viso. Ancora una volta ripeté,
anche se non gli era stato richiesto, il suo nome e la porta,
questa volta senza rumori stridenti, si aprì lasciando scorgere un
lungo corridoio in penombra, rischiarato soltanto da una lontana
lampada liberty. Dalla porta fece capolino una testa, che pareva
più quella conservata al Museo Egizio sotto il nome di Ramsete,
che quella di un essere vivente. La pelle diafana e tesa sugli
zigomi sembrava quasi trasparente, l’attaccatura alta dei capelli
lasciava scoperta un’ampia fronte dalla forma bizzarramente
bombata, quasi avesse ceduto alla pressione interna di un
cervello in continua espansione. Solo gli occhi erano vividi e
attenti, rivelando un’intelligenza superiore. Doveva trattarsi con
molta evidenza di un arabo di provenienza francese, dato il
colore molto chiaro della carnagione.
Gli fece cenno di entrare e chiudendo subito la porta, lo
precedette senza una parola in direzione della fine del corridoio.
Strisciava sul pavimento quasi senza rumore e Marco dovette
riscuotersi, per uscire dalla sensazione che il vecchio levitasse
anziché camminare. Il suo respiro era udibile anche dal punto in
cui Marco lo seguiva, ed aveva un leggero sentore di enfisema,
o comunque di difficoltà respiratoria. Entrarono in una stanza
arredata con mobili molto antichi e scuri, il barocco piemontese
che lui detestava. Tutta la casa sapeva di chiuso e di polvere,
anche se in realtà il poco di pavimento rimasto scoperto dai folti
tappeti orientali, sembrava pulitissimo. Fu invitato a sedersi da

126
un semplice gesto e quando fu seduto in un’ampia poltrona di
cuoio consumato dal tempo, si trovò fissato da due occhi
penetranti, che contrastavano notevolmente con l’impressione di
vecchiezza che dava il suo interlocutore. Marco decise che stava
a lui iniziare la conversazione.
«La ringrazio di avermi ricevuto senza conoscermi e con tutti
gli impegni che avrà sicuramente.»
«Le persone della mia età hanno solo gli impegni che vogliono
avere, e la sua amicizia con il dottor Colli è una garanzia per
me.» rispose l’arabo «Mi ha detto che lei sta scrivendo una
biografia di Nostradamus. Pensa che se ne sentisse il bisogno?
Non ve ne sono abbastanza?»
«A dire il vero non è una vera biografia, ma uno studio sull’idea
di immortalità ai tempi del veggente e presso gli alchimisti
come lui. Inoltre, volevo avere una conferma sulla sua morte,
dato che alcuni pensano sia stato assassinato.»
«Chi può aver detto o scritto una cosa così bizzarra? Tutti sanno
che Nostradamus è morto di un attacco di gotta acuta, causata
dallo stress dovuto alla fatica o a forti emozioni. Evidentemente,
per rispondere alla sua prima domanda, non aveva trovato
l’immortalità.»
«Immortalità non significa immunità dal pugnale o meglio dal
veleno che uccide giorno per giorno, a poco a poco.»
L’ispirazione di citare un brano della pergamena era stata
improvvisa; senza sapere perché, sentiva di potersi fidare di
quell’uomo, che ora lo stava guardando in modo diverso, come
se meditasse attentamente su quanto aveva detto.
«A poco a poco, lei dice. Sì, era un mezzo diffuso nell’antichità,
avvelenare la vittima in modo da non lasciare tracce evidenti. A
quei tempi le autopsie erano proibite dalla Chiesa. Dunque,
avrebbe trovato fonti che parlano di un assassinio: cosa dicono,
che riguardi ancora Nostradamus?» chiese ancora l’arabo.

127
«Che si ispirava al respiro della terra, che credeva all’eterno
ritorno e che trovò le Grotte Alchemiche, dove acquisì la
preveggenza. Che al suo ritorno in Francia, trovò l’ostilità di un
gruppo di alchimisti come lui, che volevano a tutti i costi
conoscere il suo segreto e che, di fronte al suo rifiuto, decisero
di avvelenarlo. Le mie fonti lasciano anche supporre che alcuni
seguaci del veggente, continuarono a credere in lui e
tramandarono i suoi insegnamenti nel tempo. Pare che il nostro
filosofo Giambattista Vico fosse uno di loro.»
«Molto di quanto mi ha detto, si può trovare in qualsiasi
libercolo sull’esoterismo e sulla “Torino magica” dei depliant
turistici. Unica parte interessante potrebbe essere la scoperta di
due gruppi antagonisti che si fronteggiavano, pro e contro il
Maestro. E mi dica, se mi è consentito, chi o cosa sarebbero le
sue fonti?» ancora un tono canzonatorio, ma a Marco non sfuggì
il fatto che avesse chiamato Maestro il veggente. Decise di
giocare il tutto per tutto, anche se non era mai stato forte
nell’arte del mercanteggiare; quei giochi a rimpiattino lo
stufavano subito. Seccamente disse:
«Franciscus Valeirole è la mia fonte.»
Per la prima volta da quando era entrato in quella casa, l’arabo
sembrò cambiare espressione, perdendo l’aria di
commiserazione che aveva tenuto sino a quel momento. Il suo
sguardo si fece ancora più inquietante e Marco, avvertendo di
colpo tutto il carisma che quel vecchio possedeva, provò quasi
paura della sua reazione. Si sentiva osservato, pesato e valutato
fin nell’anima, come se quegli occhi potessero leggergli dentro:
aveva bisogno di tutta la sua lucidità, sentiva di essere ad un
passo da una scoperta sensazionale, di quelle che possono
capitare una volta nella vita.
L’erudito, inaspettatamente si alzò dalla sua poltrona e
avvicinandosi ad un enorme samovar, gli chiese «Gradisce del
té?» Dovette farsi forza per vincere l’impulso di ridere

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istericamente di quella domanda. Pochi istanti prima era sotto
interrogatorio, quasi fosse in un tribunale dell’Inquisizione, ed
ora gli veniva offerto del tè. Una situazione assurda, evidenziata
anche dai contrasti che scorgeva intorno a sé: il samovar verso
cui il vecchio si dirigeva sembrava uscito da una scena dello Zio
Vanja di Cechov, mentre sullo scrittoio posto di fronte al
balcone, stava in mostra un portatile dell’ultima generazione,
completo di stampante e scanner. La tazza che gli fu offerta, era
di porcellana di una trasparenza incredibile, quasi si vedeva
attraverso di essa il liquido scuro e profumatissimo che
conteneva. Un tè che non aveva mai provato, sapori di torba e di
legni pregiati, lontani sentori di erbe dimenticate. Per lui,
amante del té, fu un’esperienza meravigliosa, appena scalfita da
una voce lontana che gli mormorava di diffidare di quella
bevanda: voce che tacque subito, vedendo che l’arabo si serviva
anche lui dal samovar. Non poté resistere senza chiedergli da
dove provenisse.
«Una mistura di foglie coltivate sulle pendici dei monti tibetani
e di erbe della Provenza, più un piccolo apporto personale che
non le rivelerò. Anch’io ho le mie piccole alchimie. Lei mi
parlava di Valeirole, ma non mi risulta che abbia scritto nulla su
Nostradamus, e mi stupisce che lei ne conosca persino
l’esistenza.» la sua voce acquisì un tono inspirato e dopo una
piccola pausa, riprese «Veda, io studio da molti anni quel
veggente, medico, astrologo, astronomo, chimico e potrei
ancora continuare per ore. Ponendosi a lato del tempo, scrutò
nel passato e nel futuro che, come lui sosteneva, si ripetono
ciclicamente, ma la visione che ne trae, è distorta dalla distanza
che separa gli dèi da noi uomini. Ecco perché sono così oscure.»
Marco non capiva questo ipnotico preambolo, aveva fatto
un’affermazione decisa e si aspettava una conferma oppure una
smentita, tutto fuorché quel sunto della vita del profeta. Stava
per interromperlo per dirgli che queste cose le sapeva, dato che

129
aveva scritto un saggio in cui la sua vita era molto dettagliata,
ma il vecchio, fissandolo con intensità gli chiese a bruciapelo:
«Che cosa si addice allo zaffiro?»
Impiegò un attimo a riprendersi, combattuto fra il tacere e
l’aprirsi; sentiva il bisogno di parlare finalmente con qualcuno
che potesse capire quanto aveva scoperto. Scandendo la frase e
senza abbassare lo sguardo, pronunciò quelle poche parole.
«La luce dell’alba.» L’improvviso addolcirsi dei lineamenti
dell’arabo, gli diedero l’impressione che sperasse in quella
risposta, e che ne fosse quasi compiaciuto. Quell’uomo riusciva
modificare le proprie espressioni con una velocità
impressionante.
«Signor Fabiani, i monili di zaffiro azzurro trasmettono i loro
poteri a coloro che li indossano e Nostradamus non si separava
mai dal suo. Quasi nessuno oggi lo sa, e pochi lo sapevano ai
suoi tempi, se non gli intimi. È divenuta quasi una forma di
riconoscimento entro una ristretta cerchia di persone. Lei è
venuto forse in possesso di uno scritto di Valeirole?»
Marco estrasse dal suo portadocumenti la copia della pergamena
e gliela porse, mentre raccontava come e dove si era svolto il
suo ritrovamento. Omise soltanto di parlare di Anne. Non
voleva mischiarla in questa storia, almeno finché non si fosse
chiarita. L’arabo lesse attentamente lo scritto e lo rilesse ancora
e ancora: pareva visibilmente commosso, come se si trattasse di
qualcosa che lo toccava profondamente.
«Il fato è imperscrutabile, lo sapevano bene gli antichi. Ad uno
scrittore completamente estraneo a tutto come lei, viene data
l'occasione di mettere le mani su un documento che molti
studiosi della materia, darebbero la vita per possedere. Mi deve
dire la prego, che cosa intende farne? Davvero vuole inserirlo in
un’ennesima biografia su Nostradamus, che questa volta
avrebbe l’esclusiva dello scoop del suo assassinio?»
Sino a quel momento Marco aveva proceduto nelle sue ricerche

130
senza chiedersi lo scopo di tutto quel cercare, quasi come se
fosse spinto dall'esterno a farlo. Ora, di fronte a quella domanda
diretta, si rese conto che l’unica cosa importante per lui, era la
prova dell’estraneità di Anne a quel groviglio di congiure, ricatti
e omicidi. Rispose quindi che la biografia era stata un pretesto
per incontrarlo, a lui interessava solo capire il senso dei fatti
descritti nella pergamena. A queste parole, il vecchio sembrò
riprendere vita, si erse nella poltrona e disse:
«Come le ho già detto, il fatto che goda della stima di Roberto
Colli, mi fa pensare a lei come a una persona con saldi principi
morali: le racconterò quindi una storia, la stessa che
raccontarono a me molti anni addietro. Dopo di che, lei potrà
dirmi cosa intende fare.»
L’erudito fece una pausa, gli chiese se volesse ancora del tè, lo
servì e si servì a sua volta. Aprì poi un cassetto dello scrittoio e
prese una cartella che riportava sul frontespizio un simbolo che
a Marco, dalla posizione in cui si trovava, parve molto simile a
un Triskell. Con una voce lenta e profonda, che pareva venire
dalla notte dei tempi e senza l’aiuto degli occhiali, il vecchio
iniziò a leggere.

«Moltissimi anni fa visse tra noi Lug, illuminato di una luce che
nessun mortale può guardare: come quella che aveva Mosè
quando, sceso dal Sinai, dovette coprirsi il volto per proteggere
quelli che lo avvicinavano. Lug, il mitico eroe figlio di Latona,
la dea della Notte, l’Iperborea venuta dalle lontane terre artiche.
Ci svelò il segreto delle acque sotterranee, ci disse che la
Terra gira su sé stessa generando un campo magnetico, e che si
sposta nel contempo nello spazio, ruotando intorno al Sole: che
siamo sottoposti all’irraggiamento cosmico di radiazioni che
giungono dagli abissi stellari insieme ai venti solari. Ci disse
che queste forze, congiunte alle correnti telluriche e applicate

131
secondo riti segreti noti ai soli iniziati, possono creare risonanze
e interferenze energetiche nelle molecole d’acqua che ci
compongono. Questo provoca vortici destrogiri che spazzano
via le cellule morte e un forte aumento dell’energia vitale.
Inoltre, e questo è l’effetto più grande, modifica la riproduzione
cellulare di chi vi si espone con il risultato di una forte crescita
delle capacità intellettive e il dono della preveggenza, limitata
alle successive due o tre ore.»
L’arabo si interruppe, come per studiare la reazione di Marco a
quella lettura, oppure per dargli modo di fare domande su un
argomento sconosciuto alla maggior parte delle persone.
«Vedo che conosce già alcuni dei termini che ho letto, si è mai
interessato di campo magnetico in passato?»
«No, ma nei giorni scorsi ho interpellato un amico geologo che
mi ha descritto dettagliatamente la sua esistenza ed i suoi
mutamenti nel tempo.»
«Non gli avrà parlato della pergamena, vero?» chiese con
trepidazione il vecchio.
«No, lei è la prima persona a cui ne parlo.» Dopo aver
dimostrato visibile sollievo, l’arabo riprese la lettura.
«Lug portava con sé il sacro Triskell, lo stesso che ci fece
scolpire su uno di questi luoghi magici, e su tutti i siti che
avremmo individuato per mezzo di una strana forcella ricavata
dal ramo di un nocciolo. Il Triskell, un cerchio che rappresenta
la perfezione, la vitalità del Sole, nel quale stanno tre spirali con
un’estremità in comune e le altre a formare tre vortici, ovvero
“tre raggi di luce”, energia pura data dal cerchio e dalla spirale;
la rappresentazione stessa di Dio. Portato sul petto può
equilibrare le forze contrarie, evolutive ed involutive, perché
utilizza la cassa di risonanza dell’Uomo, il torace. Da allora è
divenuto il nostro simbolo. Ci insegnò che la terra è un essere
vivente con un’anima, che è tanto più viva e tanto più capace di
donarci benessere, quanto più diveniamo consapevoli del

132
legame magico esistente fra tutte le cose. Non la massa di pietre
e terriccio che ci appare a prima vista, ma qualcosa che vive e
respira come noi; per questo dobbiamo preservare la conoscenza
e l'armonia della creazione. Nella terra è scritto il nostro passato
e il nostro futuro.
Si dice che visse per oltre cento anni in Provenza,
spostandosi tra Glanum, Vaucluse ed un villaggio divenuto poi
Le Baux. Qui creò un oppido, un santuario celtico e costituì il
primo nucleo di tre adepti che dovevano tramandare quanto ci
aveva rivelato. Ogni qualvolta si avvicinava la fine per uno di
loro, addestravano un altro iniziato che, dopo aver superato una
dura selezione diveniva il nuovo adepto. Qualcuno pensò che
Lug, finito il suo compito, fosse prelevato dai suoi simili,
oppure che anche per lui, fosse venuto il momento di morire.
Dopo di lui, ogni triade cercò di conservare il suo sapere, ma
l’oscurità è sempre in agguato e non risparmia nulla. Guerre,
epidemie e cataclismi naturali, impedirono di formare nuovi
iniziati e il suo scibile in molti paesi andò perduto, oppure
distorto in mille credenze e leggende che dell’antica sapienza
avevano ben poco. Gli anni passavano e le conoscenze si
perdevano lentamente o venivano modificate nel ricordo: solo
nel sud della Francia si conservava quasi intatto, grazie alla
grande presenza di correnti telluriche e Fonti di Luce.
Per millecinquecento anni le correnti del tempo fluirono, le
triadi si succedettero senza mettersi mai in luce, conservando
gelosamente i propri segreti e ricoprendo posizioni di potere
che, grazie alle loro conoscenze, conquistavano. La
chiaroveggenza, anche se limitata a poche ore, consentiva un
largo vantaggio sugli uomini normali. La complessità che
andava prendendo la struttura sociale, rese necessario
l’ampliamento della triade. Per questo furono creati sottordini, i
cui adepti si chiamarono gli Eletti. Fu l’inizio del cambiamento
rovinoso della nostra fratellanza. Tutti coloro che nella storia si

133
sono proclamati eletti, hanno deviato verso la zona d’ombra
dell’energia vitale. L’ultima occasione per ritornare all’umiltà
degli antichi insegnamenti, ce la diede un uomo nato nel 1503, a
St. Remy de Provence: si chiamava Michel de Nostredame, ma
più tardi si fece chiamare Nostradamus. Grazie alla sua grande
intelligenza, fu scelto per divenire un adepto e fu finanziato
affinché studiasse, oltre alla nostra, anche la scienza del tempo,
l’alchimia.
Alternò lo studio della medicina ai nostri riti segreti,
vivendo a Salon e a Glanum, dove fu immerso e trattato con le
acque di Luce della sua Sorgente Magica. Da loro trasse i primi
barlumi di preveggenza, ma la sua sete di conoscenza lo spinse
a cercare di più, sempre di più. Studiò la Cabbalah, iniziò a
viaggiare e, contravvenendo alle regole della triade, si recò ad
Agen per studiare con Scaligero, un erudito che dietro la
docenza in medicina, nascondeva pratiche magiche. Gli Eletti lo
richiamarono aspramente al giuramento di segretezza che aveva
fatto, gli intimarono di smettere e lui rispose minacciando di
rivelare tutto quanto in una serie di profezie, che lui chiamava
“Centurie”, che aveva in corso d’opera. Si mise dunque in
opposizione alla triade, la quale per fermarlo gli sguinzagliò
contro l’Inquisizione con l’accusa di eresia, ma lui riuscì a
fuggire a Carcassonne e poi a Bordeaux, per fermarsi nella
regione di Bourges.
Qui si fece fama di gran medico e guaritore, combatté la
peste ed altre malattie con la nostra scienza, facendo sì che
queste imprese giungessero sino alla corte di Parigi. Divenne
intoccabile. La continua minaccia di propagare i loro segreti,
bloccò gli Eletti nella loro persecuzione e si raggiunse un
temporaneo armistizio. Finché nel 1556, mentre curava con
successo i Savoia da una persistente sterilità, entrò in contatto
con un’emanazione della setta in quella città. I suoi componenti,
conoscendo la sua sterminata cultura e non sapendo dei suoi

134
attriti con i capi francesi, gli sottoposero antichi documenti che
non riuscivano a decifrare. Grazie alle sue cognizioni sulla
Sezione Aurea e sulla serie di Fibonacci ad essa correlata, riuscì
a scoprirne il codice, ma pensò di nascondere questo fatto ai
suoi committenti, perché troppo compromessi con il potere di
corte.»
Marco sentì accelerarsi il suo battito cardiaco, sapeva di
essere vicino alla rivelazione che l’aveva portato fin lì, di fronte
a quest’uomo misterioso. Il suo racconto quadrava
perfettamente con quanto era riportato sulla pergamena e ciò
che pareva all’inizio un bizzarro scherzo del destino, stava
acquisendo i contorni di un giallo storico. Intanto l’arabo
proseguiv la lettura.
«Nostradamus aveva riscoperto il segreto smarrito nel tempo,
l’esistenza delle tre Grotte Alchemiche, ovvero il punto di
contatto tra la nostra dimensione corporea ed altre dimensioni
parallele, non materiali. Tra il nostro mondo di esseri razionali
ed altri mondi, dove l’esistenza scorre su piani energetici
diversi, contemporanei dei nostri, ma molto più evoluti.
Alternando le visite ai Savoia, con il vagabondare per le strade
della città, quando fu certo di non essere seguito si inoltrò nelle
vie ipogee di Torino, visitò le Regie Ghiacciaie, i sotterranei del
Monte dei Cappuccini e quelli di Palazzo Madama. Poi una
notte esplorò la Vallis Occisorum, vide che il luogo coincideva
con la decifrazione del codice e scoprì l’accesso a una serie
interminabile di cunicoli. Percorrendoli, si trovò infine davanti
ad un’antica scultura in pietra che sovrastava un arco chiuso da
un muro. Rappresentava un Triskell. Comprese di essere di
fronte ad una rivelazione e la notte seguente ritornò, con gli
strumenti adatti ad abbattere il muro: quella che gli si parò
davanti era una grande, profonda caverna illuminata da una
fosforescenza innaturale, generata dalle pareti stesse, come se
milioni di esseri microscopici fosforescenti, avendone fatto il

135
loro habitat, le ricoprissero. Una scritta nell’antica scrittura dei
celti, annunciava essere quella la prima delle Grotte, quella della
conoscenza, della Gaia Scienza degli Alchimisti, della
Trasmutazione.»
«Mi perdoni se la interrompo, ma perché la credenza popolare
ha sempre collocato le Grotte sotto la Piazza Castello e in
corrispondenza di Palazzo Madama?» chiese Marco.
«La disinformazione è una scienza molto antica, la utilizzavano
già gli egizi duemila anni prima di Cristo. Evidentemente era
stata creata una falsa diceria per mascherare quella vera. Nel
tempo impiegato a decifrare il testo di quella iscrizione,
Nostradamus si trovò preda di una forte agitazione, una
tachicardia che, se non avesse conosciuto i segreti della
respirazione tantrica, l’avrebbe ucciso. Quando si riprese erano
passate tre ore e, da quanto disse in seguito a pochissimi suoi
seguaci, sentiva che qualcosa in lui era mutato; tutto quanto
osservava aveva infine una ragione. La grotta, gli esseri
fosforescenti e il fatto sconcertante che la planimetria delle vie
sotterranee che l’avevano portato dov’era, si sviluppasse nella
sua mente come una chiara proiezione tridimensionale. Ogni
interrogativo non risolto in passato, scorreva nel suo pensiero
acquistando via via forma e dimensione, diveniva un
ologramma che conteneva al suo interno la soluzione.
Disse che in quella grotta aveva compreso, grazie a un
accrescimento della sua capacità di memoria, il carattere eterno
degli eventi già accaduti. Gli si presentarono davanti non come
passivi testimoni della Storia, ma ancora pieni di vita, come se
stessero accadendo e come accadranno: vide molto più indietro
nel passato, molto di più di quanto sia stato registrato nella
storia. Per mezzo dei suoi nuovi poteri, visse il tempo di civiltà
dimenticate, vide Atlantide e Antinea e l'immane cataclisma che
sprofondò un intero continente nel mare, provando le stesse
emozioni di coloro che vi avevano vissuto. Di ciò che vide nella

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seconda e nella terza grotta non parlò mai, ma l’uomo che risalì
alla superficie, non era più lo stesso. Chi lo vide a Salon, dopo il
suo rientro da Torino, riferì che aveva acquistato una sicurezza
estrema sia nella medicina, che nella compilazione di predizioni
che riguardavano i potenti del tempo; non sbagliava più un
vaticinio come se vedesse nel futuro, molto più lontano di
chiunque.
Costruì le sue quartine come un gioco di specchi,
evocando il passato per riflettere e rivelare il futuro, che lui
viveva come un presente senza tempo e che gli scorreva accanto
parallelo all’altro suo presente. Per lui il futuro non era che
l’ombra riflessa di un passato che si perpetua. Sostenne che Lug
ci aveva donato il simbolo del Triskell, per significarci il
Passato, il Presente e l’Avvenire riuniti in un unico, grande ed
eterno ciclo chiamato Continuo Infinito Presente, in cui tutto
esiste nello stesso tempo. Iniziò a redigere e a spedire in tutta
l’Europa, oroscopi, previsioni e profezie, suscitando negli Eletti
il terrore che in qualche quartina avesse nascosto la rivelazione
della loro esistenza. Per di più, il suo rifiuto di rivelare
l’ubicazione delle Grotte Alchemiche di Torino e gli effetti che
avevano avuto su di lui, lo esiliava dalla confraternita.»
Marco non potè fare a meno di pensare alla reazione di
Anne al sentir parlare del veggente. La sua ostilità così
manifesta poteva esser dovuta a mille ragioni, una delle quali
però, poteva proprio essere il fatto che lei fosse un’adepta.
«Nostradamus conosceva molto bene, la sete di predominio
sugli altri uomini che la triade aveva più volte manifestato e
quando il suo rifiuto divenne definitivo, essi decisero di
ucciderlo. Doveva essere fatto in modo oscuro e segreto, perché
sospettavano che nelle Grotte avesse acquisito una sorta di
immunità alle malattie. Incaricarono uno dei suoi famigli di
correggere il vino, che lui beveva in quantità, e i cibi speziati di
cui si nutriva, con polvere di elleboro nero, giusquiamo e

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stramonio. Questi veleni, agendo lentamente nel suo sangue, gli
causarono prima un’acuta infiammazione articolare, poi la gotta
di cui morì, il 2 luglio del 1566.»
Questa era la notizia che Marco attendeva, ma l’idea che Anne
non fosse estranea alla setta degli Eletti, gli rovinava
l’appagamento di aver portato le ricerche sino a quel punto.
Come se avesse compreso i suoi pensieri, il vecchio aveva
sospeso la lettura per guardarlo fissamente e fargli un cenno del
capo, che forse significava la conferma quanto era scritto nella
pergamena.
«Quelli come noi che gli erano più vicini, non capirono mai
perché non l’avesse previsto: probabilmente il velo che riusciva
a sollevare per scrutare nel futuro degli altri, nel suo caso
restava imperscrutabile. Colpiti fortemente dalla sua morte,
iniziammo a distaccarci segretamente dalla politica della triade
e creammo in tutta Europa, un piccolo gruppo di dissidenti che
professava le idee del Maestro. Lo zaffiro divenne il nostro
segno di riconoscimento segreto e ci chiamammo, soltanto in
privato, i Compagnons: un titolo che prima di allora era
riservato a quelli di noi che, nella gilda degli artigiani,
progettavano e costruivano le cattedrali. Ancora oggi, dopo
cinquecento anni, quel titolo è presente, ma identifica solo gli
artigiani itineranti, che percorrono la Francia durante gli anni
dell’apprendistato.
Con la morte di Nostradamus gli Eletti poterono
continuare a tessere le loro trame di potere e nel contempo a
proseguire la ricerca spasmodica della Pietra Filosofale e delle
Grotte, che consideravano una scorciatoia per la Trasmutazione.
Quei pochi di noi che ne conoscevano l’ubicazione, mantennero
il segreto finché, nel 1706 durante l’assedio di Torino, avvenne
il disastro. Le opere di fortificazione progettate dal Testa di
Ferro Emanuele Filiberto nel 500’, che solo per la presenza di
un nostro adepto tra i progettisti, non avevano portato alla luce

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le Grotte, prevedevano una fitta rete di cunicoli sviluppati su
due piani. Si diramavano dal mastio della Cittadella in tutta la
città e raggiungevano la profondità di quattordici metri, sotto la
quale si trovava una falda acquifera, la stessa che scorreva sotto
le Grotte, potenziando il loro effetto.
All’epoca dell’assedio i cunicoli divennero gallerie di mina
e fu creato uno speciale corpo di 51 soldati minatori e addetti
agli scavi, con lo scopo di pattugliare le gallerie e fare saltare
grossi barili di esplosivo sotto le file dei soldati francesi. Uno di
questi minatori era lo sfortunato Pietro Micca che, a causa di
una miccia bagnata, dovette usarne una molto più corta. Pur
sapendo che per fermare i soldati francesi penetrati nei cunicoli,
avrebbe rischiato di morire, come infatti avvenne.
Evidentemente il Sommo Artefice ci aveva giudicati indegni
dell’esistenza stessa delle Grotte Alchemiche, perché nella notte
tra il 13 e il 14 agosto i francesi scoprirono, nella zona che
costeggia il fiume Dora, un'entrata d’accesso ai cunicoli e vi
penetrarono dopo ingenti perdite. Un emulo di Pietro Micca,
avvertendone la presenza mentre percorreva una galleria sotto il
Rondò della Forca, decise di far esplodere il barilotto che aveva
con sé e seppellire i nemici: fu fortunato perché aveva una
miccia asciutta e lunga, ma fummo disgraziati noi, che in
quell’esplosione perdemmo le Grotte. Esse sprofondarono nella
falda seppellendo per sempre il sogno d’accesso ad una
spiritualità più elevata.»
Ed ecco spiegato il fatto che delle Grotte non fosse rimasta
alcuna traccia, se non nella leggenda: del resto, tutti gli scavi
effettuati per l’ammodernamento della rete fognaria nella zona
della Vallis Occisorum, cioè Piazza Statuto, le avrebbe
sicuramente scoperte se fossero ancora esistite. Poteva
facilmente immaginare il dolore provato dai seguaci di
Nostradamus di fronte a quella catastrofe, a cui si era aggiunta

139
sicuramente la sensazione di essere abbandonati dal Sommo
Artefice.
El-Alcuflin nel frattempo si era interrotto, quasi volesse
sottolineare la gravità di quella perdita. Gli chiese se gradisse
ancora del tè, ma questa volta Marco rifiutò cortesemente;
quella miscela così profumata doveva anche contenere un bel
po’ di teina, a giudicare dall’eccitazione che aveva provato dopo
averla bevuta. Sentì il bisogno di porre una domanda e con un
cenno chiese la parola.
«Capisco che la distruzione delle Grotte possa essere stata una
disgrazia, ma stando a quanto lei mi ha letto sinora,
sembrerebbe che nessun altro dopo Nostradamus vi sia più
entrato. Dunque, le Grotte erano in realtà inattive.»
Ancora una volta il vecchio non rispose subito, si appoggiò di
più alla poltrona e chiuse gli occhi. Marco non riusciva a
spiegarsi come avesse potuto leggere per tutto il tempo senza
occhiali, data l’età che dimostrava e la scarsa luce della stanza.
Sempre ad occhi chiusi, come se parlasse a sé stesso, l’altro
disse:
«Inattive lei dice. Eppure, Roberto Colli le avrà ben parlato di
quelle figure che hanno attraversato l’Europa, non solo
muovendosi nello spazio, ma anche nel tempo. Le avrà detto di
quegli uomini, che sentivano il loro lento battito cardiaco come
il battito del potere della vita sulla morte, il loro respiro come
una continua vittoria contro il cerchio d’ombra che avanza
implacabilmente per tutti, fuorché per loro. Quegli uomini che
svegliandosi ogni mattina, pensavano a milioni e milioni di
mattine come quella, perché per loro era per sempre, pensi a
queste parole e le scandisca, “per sempre”... Uomini che
vivevano ben oltre quanto è consentito, vedendo intorno a sé
invecchiare inesorabilmente e morire uno dopo l’altro, quelli
che amavano.

140
Le avrà raccontato del loro continuo vagare, in fuga dai
sospetti della gente che scruta ogni tua ruga alla ricerca dei
segni del tempo. Di quelli denunciati e poi bruciati vivi
dall’Inquisizione perché i loro concittadini li vedevano sempre
uguali, sempre giovani, nonostante il passare degli anni. Del
loro terrore di cadere vittime di incidenti, aggressioni, ferimenti,
insomma di tutto quanto li avrebbe portati nel cerchio d’ombra
dal quale pensavano di essere fuggiti per sempre. Mi stupirebbe
se non le avesse parlato di quelli che, per continuare a vivere,
dovevano morire: come fa l’insetto avvolto nella crisalide di
seta che ha filato intorno a sé, immobile e in attesa di rinascere
sotto un’altra forma, più bella e più giovane. Della loro
tremenda solitudine e delle loro nevrotiche forme di esaltazione
per cui si lasciavano andare a dichiarazioni fatte solo per stupire
i mortali. L’amicizia con Anna, la madre di Maria, la descrizione
del Castro Pretorio di Ponzio Pilato, oppure l’elencazione del
menu completo delle nozze di Cana.»
Uno stanco sorriso era apparso sul viso dell’uomo che gli stava
davanti, ma questo non bastò a togliere da Marco la paurosa
sensazione di trovarsi di fronte ad una creatura estranea, lontana
anni luce da quanto lui potesse provare o sentire come essere
umano. La passione con cui aveva pronunciato le ultime frasi
aveva qualcosa di troppo, per essere solo dettata da un’ironica
risposta alla sua domanda. Man mano che elencava le sue
considerazioni sull’immortalità, il suo viso prendeva una forma
diversa, come se sotto i lineamenti di un vecchio stessero
formandosi altri tratti, più decisi più vitali; come se la pelle tesa
che lo ricopriva fosse anch’esso una sorta di crisalide pronta ad
aprirsi, per lasciare uscire chissà quale forma aliena ...
Improvvisamente Marco ebbe paura. Chi era quell’uomo
così vecchio, che leggeva senza occhiali, che rivelava a tratti
una vitalità sorprendente e che parlava di immortalità come se
fosse una delle cose più naturali al mondo? Perché lui era

141
andato a cacciarsi in quella stanza, che l’imbrunire del giorno
stava rendendo ancora più buia di quando vi era entrato? Tutto
intorno a lui era soffocante, i folti tappeti sembravano
imprigionargli i piedi, la poltrona pareva volesse inglobarlo
dentro di sé e gli arazzi alle pareti, che prima non aveva notato,
sembravano animati da oscure figure indecifrabili. Come se
l’arabo avesse intuito il suo stato d’animo, cambiò decisamente
il tono di voce, sorrise ancora e tendendosi verso di lui disse:
«Mi perdoni la digressione, mi sono lasciato prendere la mano
dall’argomento. L’immortalità è sempre stata tra i miei interessi
più forti, per le implicazioni che porta con sé. Non ha mai
pensato che, come diceva Borges, tutte le creature animali lo
sono, giacché ignorano la morte? Oppure, rovesciando il tutto,
solo l‘uomo è mortale, perché ne conosce l’esistenza? Ricordo
una frase del vostro grande Pavese. “Immortale è chi accetta
l'istante, chi non conosce più un domani”. Ma ora torniamo ai
fatti che seguirono la scomparsa delle Grotte.»
Se il vecchio non si fosse voltato su un fianco per accendere la
lampada a stelo che stava a lato della sua poltrona, l’avrebbe
fatto lui, Marco. Di tutto quello che aveva vissuto sino a quel
momento, la cosa più insopportabile era quella lettura che
proseguita nonostante la stanza fosse quasi al buio, come se
l’uomo conoscesse a memoria quelle pagine o le avesse scritte
lui stesso.
«Pur non conoscendo l’ubicazione delle Grotte, gli Eletti
avevano sempre sognato di poter venire in possesso del loro
segreto. La fine di questa speranza, li portò ad intensificare in
modo isterico la ricerca della Pietra Filosofale e la sorveglianza
su ogni scoperta riferita alle correnti sotterranee e alla Sezione
Aurea. Ogni qualvolta nasceva un pericolo, non esitavano a
distruggerne la causa con tutti i metodi, leciti e illeciti. Nel ‘700
Giambattista Vico, un dissidente come noi, aveva in progetto la
pubblicazione di una grande opera filosofica, La Scienza

142
Nuova, composta da sei libri; in essa esponeva il concetto di
"storia ideale eterna", secondo cui la storia si ripete secondo
precisi paradigmi e secondo una logica comune alla storia dei
vari popoli. Dimostrava che l’idea cristiana del Tempo Lineare è
fallace e che un ipotetico Tempo a Spirale non poteva esistere:
enunciava la teoria dei "corsi e ricorsi storici" e, nel sesto libro,
analizzava i sistemi sociali e la lotta dei loro sottosistemi contro
altri sistemi. Anticipando di molti anni la Rivoluzione francese e
la lotta di classe marxiana. Inoltre, rivelava l’esistenza di un
gruppo tedesco di potere sovranazionale, che governava dietro
le quinte e che si era dato il nome di Perfettibili. Infiltrando
molti suoi membri - che non erano altro che Eletti mascherati -
nella massoneria del tempo, era arrivato alle posizioni di potere
più alte. Essi scoprirono l’esistenza del libro di Vico, lo
minacciarono di morte e lui fu costretto a pubblicare, nel 1730,
la sua Scienza Nuova nei soli primi cinque libri anziché sei.
Più tardi, nel 1776, i Perfettibili divennero gli Illuminati di
Baviera ed iniziarono il loro progetto di Nuovo Ordine
Mondiale: la stessa Baviera in cui sarebbe nato nel 1923, il
nazismo. La strategia di questa società segreta, un’emanazione
della triade, si basava sulla lenta soppressione dei governi
nazionali e sulla concentrazione del potere in governi
sovranazionali, occultamente gestiti dagli Illuminati. I punti
fondamentali del loro piano stavano nell’impedire una presa di
coscienza nelle masse, creando continue divisioni politiche o
corrompendo e ricattando i politici orientati verso il benessere
sociale. Del resto, il loro fondatore pensava che “per
raggiungere la società ideale si deve passare, per parecchie
generazioni, attraverso l'esperienza della società autoritaria”. Il
loro più grande successo, infatti, fu la creazione del
Nazionalsocialismo e del suo capo, Adolf Hitler. Una
personalità demoniaca, dotata di una volontà maniacale e priva
della sia pur minima traccia di scrupoli.

143
Negli anni del suo vagabondaggio a Vienna, entrò in
contatto con un Illuminato che scrisse di lui più tardi: “aveva
l’aspetto di uno spettro, di quelli che raramente si osservano tra
i cristiani, gli occhi sfolgoranti e lo sguardo di una fissità
sconvolgente.” Molto probabilmente venne da loro addestrato e
gli furono inculcati i principi che lo informarono per tutta la
vita. Nel 1920 scelse, su suggerimento di un altro Illuminato, la
croce uncinata come simbolo del suo partito. Un simbolo che
proveniva addirittura dall’epoca babilonese ed era sempre stato
sinonimo di fecondità e di vita, divenne per causa sua,
l’emblema del male. Nello stesso anno Hitler ricevette dalla
setta un finanziamento di sessantamila marchi, con cui poté
acquistare un foglio antisemita che divenne il giornale del
partito nazista. Da quel giorno non ebbe più problemi
economici, sebbene nessuno sapesse esattamente di cosa
vivesse. Allorché qualcuno glielo domandava, diveniva
improvvisamente isterico e agitato. La sua naturale
predisposizione, unita al condizionamento fornitogli
probabilmente nel suo soggiorno a Vienna, contribuirono a
sviluppare la sua capacità oratoria in modo quasi disumano. La
sua abilità nell’influenzare il popolo, aveva del soprannaturale.
Nonostante fosse stato scelto dagli Illuminati per portare avanti
il loro progetto del Nuovo Ordine, continuò per tutta la vita a
credere in un solo Dio, una specie di «spiritualismo ariano» che
guardava soprattutto agli esempi induisti.
Hitler riteneva di essere il messia che avrebbe dato una
svolta decisiva al mondo, che avrebbe fatto da cerniera del
tempo. Parlava e agiva come un veggente preso da una sua
mistica biologica, per cui il mondo doveva continuamente
ringiovanire per mezzo del crollo delle epoche superate.
Attraverso una serie di salti in avanti, in una visione del tempo a
spirale. Fu finanziato segretamente durante tutta la sua battaglia
per la presa di potere e più tardi venne affiliato da Rudolf Hess,

144
ad un gruppo ancora più segreto degli Illuminati, un segreto nel
segreto. La Società Thule, diretta da Karl Haushoffer. Una setta
fermamente convinta che, nel lontano passato, fosse esistita una
razza superiore, formata da semidei ariani, gli antichi "Maestri
Sconosciuti". Evidentemente un lontano ricordo del passaggio
in Germania di Lug e della sua immortalità. Braunau, il luogo di
nascita di Hitler, fu un altro fatto non preso nella dovuta
considerazione dagli Eletti e dalle nazioni europee: una cittadina
che era un vero e proprio vivaio di medium. Uomini comuni,
insignificanti per la maggior parte della loro vita, finché
improvvisamente vengono colpiti da qualcosa ed entrano in
contatto con un’altra dimensione. Accedendo alla Thule, Hitler
divenne il medium, cioè una strana commistione tra il disordine
mentale di un semplice caporale dall’aspetto persino un po’
comico e la cupa potenza del Fürer. Nei suoi discorsi alle folle
oceaniche, sembrava entrare in una trance medianica che gli
consentiva quasi il controllo del pensiero di chi lo ascoltava:
subito dopo ridiventava mediocre, persino volgare. Come ha
scritto Hannah Arendt, “L’insopportabile banalità del male.”
Dietro di lui sembravano esserci un pensiero molto più alto
e forze molto più spaventose del nazismo, di cui lui era solo il
portavoce. Alcuni dicevano di aver provato, in sua presenza, una
sorta di brivido di orrore come se si trovassero dinnanzi a un
posseduto. Fino al 1934 credette di operare per un partito
nazionale e socialista, dopo operò per le Potenze oscure che lo
possedevano: creò le SS non come un corpo di polizia, ma come
un ordine satanico di monaci guerrieri, per realizzare il sogno
incredibile di un gruppo magico che agiva attraverso lui.
La sua precisa chiaroveggenza, nella prima parte della
guerra, gli derivava da questo e dall’addestramento occulto della
società Thule, il cui giuramento di fedeltà assicurava fiducia,
energia e buona sorte. Lo stesso giuramento che prestava
l’antico popolo ariano, rifugiatosi in Tibet dopo un disastro

145
nucleare che aveva reso la regione del Gobi un deserto
vetrificato. Quando le truppe russe entrarono in Berlino,
scoprirono un migliaio di cadaveri tibetani nella uniforme dei
volontari della morte. Gli Eletti avevano creato Hitler, per
realizzare in Nuovo Ordine mondiale, ma lui sfuggì loro di
mano. Dando vita ad un Ordine Nero di monaci guerrieri, le SS,
aveva preso un’altra direzione.
Ci si potrebbe chiedere perché i nostri fratelli
Compagnons tedeschi, non intervennero per fermare
l’incarnazione del male rappresentata da Hitler: la loro mentalità
portata verso l’obbedienza al capo ed i continui successi
diplomatici e militari del dittatore, scoraggiarono un’azione di
vasto respiro. Del resto, gli oltre quaranta attentati, messi in atto
da pochi e isolati eroi, erano tutti falliti, come se il Sommo
Artefice avesse posto la sua mano sul capo di Hitler per
salvarlo: nemmeno i nostri confratelli vicini all’ammiraglio
Canaris prima ed al colonnello von Stauffenberg poi, riuscirono
a fermarlo. Al punto che credé fermamente di essere immortale
e che potesse morire solo di propria mano.
Gli Iniziati avevano “Spezzato il sigillo, senza avvertire il
soffio del maligno, lasciando libero il demonio per il mondo.”
Avevano puntato su Hitler e sui suoi accoliti, per abbreviare la
realizzazione del Nuovo Ordine attraverso la sua follia. Leggere
questa follia solo come un fatto politico ed economico è
sbagliato, si trattava di ben altro, una cospirazione per
assicurarsi il dominio sul mondo. Ma non avevano tenuto conto
di quanto diceva Ruggero Bacone: “Noi possiamo più di quanto
sappiamo, ma benché tutto sia possibile, tutto non è permesso.”
I capi superstiti realizzarono velocemente, un’organizzazione
per il salvataggio dei gerarchi e dei medici in fuga, dai processi
che gli Alleati stavano imbastendo in tutta la Germania. La
chiamarono Odessa e riuscirono così a far fuggire, insieme a
molti altri, anche il dottor Josef Mengele, l’angelo della morte

146
di Auschwitz, specialista in “studi” sui gemelli. Grazie alla
complicità dei governi sudamericani, essi si stabilirono in
Argentina, Brasile, Bolivia.»
Marco rabbrividì dentro di sé perché quegli orribili fatti, che
parevano così lontani nel tempo, ancora oggi facevano sentire i
loro effetti nefasti. Solo pochi mesi prima di partire per la
Provenza, aveva letto di una cittadina brasiliana ai confini con
l’Argentina, Candido Godoi, dove gli abitanti sono per l’ottanta
per cento tedeschi e i gemelli sono inspiegabilmente, ben il
venti per cento della popolazione. Come non pensare con
raccapriccio al fatto che in quei luoghi, negli anni Sessanta,
Mengele organizzasse riunioni a casa di contadini per parlare
dei benefici delle nuove tecniche di inseminazione artificiale?
Mentre tutti pensavano a lui come un rifugiato tra i selvaggi
delle foreste amazzoniche, egli usava quei luoghi come suo
laboratorio personale.
Intanto il vecchio aveva fatto una pausa per bere un sorso
di tè. Marco guardò l’orologio al polso e si accorse con stupore
che erano già passate tre ore, da quando era entrato in quella
stanza. Notando il suo gesto, l’erudito gli chiese se avesse
impegni e al suo diniego, riprese a leggere.
«Odessa e gli Eletti che la componevano, continuarono anche
nel dopoguerra ad occupare posizioni di potere e riuscirono a
salvare dalla forca di Norimberga molti dei criminali che, dopo
il processo, ripresero la loro carriera e spesso godettero dei
tesori d'arte trafugati nelle loro esplorazioni nell’Ahnenerbe.
Sul versante delle ricerche sul campo magnetico invece,
sembrò che una sorta di stasi intellettuale calasse sull’Europa in
relazione a quegli argomenti: solo nella metà del XIX secolo,
iniziarono timidi studi sul magnetismo terrestre, l’irraggiamento
cosmico e quello tellurico, ma soltanto nei tempi che stiamo
vivendo, essi vengono posti in relazione con la potenza delle
acque sotterranee.»

147
L’arabo sospese la lettura e chiuse gli occhi: più che
riposare, sembrava assorto nell’ascolto di qualcosa che solo lui
poteva udire. Si voltò verso Marco e gli chiese:
«Conoscete la storia del Philadelphia Experiment?»
«So soltanto che si trattava di un esperimento della Marina
americana per rendere invisibile una nave, niente di più: oggi mi
pare che sia relegato tra le leggende metropolitane.»
«Esattamente, come molte altre cose che più tardi si rivelarono
autentiche. Negli anni ‘30, l’Istituto per gli Studi Avanzati di
Princeton, con il quale collaborava anche Albert Einstein, iniziò
uno studio sulla possibilità di ottenere l’invisibilità, per mezzo
di forti e pulsanti campi magnetici. La parte teorica si concluse
con un test, sulla nave Eldridge, il 28 ottobre 1943. Alcuni
testimoni riferirono di aver visto la nave sparire e riapparire
dopo pochi minuti: altri dissero che, nello stesso momento, era
apparsa a Norfolk per poi scomparire subito dopo.
Da indagini svolte in seguito da un accademico
accreditato, risultò che molta parte dell’equipaggio morì, oppure
soffrì di terribili effetti collaterali: il governo dichiarò che
l’intero equipaggio si era improvvisamente ammalato di mente
ed era stato congedato. Le poche testimonianze filtrate
attraverso la segretezza imposta dalla Marina, parlarono di
uomini bruciati vivi e di altri impazziti per non aver retto alla
totale “modifica della struttura delle cose”: il fatto di rimanere
sospesi tra le due dimensioni era orribile e molti non erano stati
in grado di ritrovare la via del ritorno verso il piano fisico.
Qualcuno affermò che era diventato possibile camminare
attraverso le pareti e che anche dopo l’esperimento, gli effetti
continuarono. Due dei marinai sparirono mentre erano a tavola
con la famiglia, altri si sollevarono in aria, per poi ricadere
subito dopo. Tutti descrissero il rallentamento apparentemente
eterno del tempo, come una sensazione infernale.» Un’altra

148
pausa nell’attesa di un suo commento, per poi proseguire
tenendo ancora gli occhi chiusi.
«Ammesso che questa storia sia vera, si tratterebbe di un
utilizzo estremo del campo magnetico, senza un’adeguata
preparazione degli uomini che vi venivano sottoposti. Una tipica
azione da apprendisti stregoni insomma. Ma credo sia meglio
proseguire nella lettura del documento, che sta ormai avviandosi
verso la fine.
L’esistenza della confraternita, una vera e propria
criptocrazia, si è sempre mantenuta segreta sinora; ogni
qualvolta è stata minacciata, non ha esitato ad uccidere,
utilizzando veleni che non lasciano tracce, con una spietatezza
che non ha più nulla degli insegnamenti dei nostri Maestri.
Fallito l’esperimento nazista, ripiegarono su un piano a più lenta
realizzazione. Controllare la politica, i mezzi d’informazione,
inculcare nelle masse il fittizio soddisfacimento di bisogni creati
ad arte e non necessari.
Il degrado spirituale, la confusione e l’insoddisfazione
generata da una vita vissuta senza valori, avrebbero portato le
masse a cercare un protettore al quale sottomettersi liberamente.
Da qui, alla costituzione di organi sovranazionali che,
accentrando il potere decisionale in poche mani avrebbero
costituito un unico Governo Mondiale, il passo è breve. Del
resto, già nel ’800, lo statista inglese Disraeli aveva detto “Il
mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti
da coloro i quali non sanno guardare dietro le quinte”.
La nuova cospirazione non è più occulta, ma avviene alla
luce del giorno, senza percorsi iniziatici. Esaminando l’attuale
situazione mondiale, si direbbe che il piano degli Illuminati,
divenuti ormai il braccio più potente degli Eletti, stia avendo
successo: guerre civili e religiose, genocidi di massa, terrorismo,
violenza e corruzione ovunque. Si incrementa un populismo
molto simile al tribalismo, sicura anticamera di un nuovo

149
fascismo. Perdita totale dei valori, aumento esponenziale
dell’uso di droghe, mentre più di metà della popolazione
mondiale è soggetta a fame, malattie, analfabetismo,
disoccupazione e mancanza di speranza. Come non sospettare di
una delle emanazioni degli Eletti, creata negli anni ’50, il
Gruppo Bilderberg; ancora oggi, riunisce alcuni tra i personaggi
più illustri dei vari campi, scelti per il loro potere industriale,
finanziario e politico.
Questo gruppo, o meglio il suo comitato politico, si è posto
sin dall’inizio la strategia delle “Armi Silenziose per delle
guerre tranquille”. Controllo dell’Economia e della Stampa,
creazione di una forza internazionale con la soppressione degli
eserciti nazionali e di un parlamento internazionale che limiti la
sovranità degli stati membri. Sul piano economico, la
globalizzazione ed un mercato libero da ogni regola, hanno
provocato l’anarchia ed il disastro economico che stiamo
vivendo: si prevede che ben presto, gli stessi Eletti
manovreranno in modo che s’instauri un bilancio comunitario,
una banca mondiale e un governo mondiale. In questo modo
distruggeranno del tutto l’autodeterminazione nazionale.
Ed ecco che tutto quanto Lug ci aveva rivelato, è andato
disperso per sete di potere e gli stessi simboli, la spirale, il
cerchio e il Triskell si sono corrotti, non hanno più il significato
originale. Agli inizi, queste rappresentazioni davano la visione
simbolica, cioè l’abilità di percepire con i sensi, la realtà
invisibile che sta dietro gli oggetti. Oggi sono soltanto immagini
che rivestono di significato poetico la realtà fisica. Sono stati
svuotati della loro potenza evocativa. Gli antichi maestri
costruivano cattedrali dall’altezza smisurata per avvicinarsi a
Dio, vi ponevano il Triskell per concentrare l’energia e
impiegavano la luce che proveniva dalle grandi vetrate e dai
rosoni, per renderle eteree, diafane, quasi trasparenti. Come per
la musica, la perfetta proporzione delle loro composizioni

150
architettoniche, oltre che a esprimere la bellezza, doveva elevare
i costruttori stessi.
Chartres, Cluny, St. Denis, Sens, Milano, Como, sono tutti
esempi di questo: in esse il compasso diviene il simbolo di
un’arte che comprende tutto, anche se rivela così poco. Un’arte
dimenticata, che arriva da un passato lontanissimo e della quale
non sono rimasti che pochi frammenti. Pur senza comprenderli,
i costruttori li hanno trovati, conservati copiandoli e miniandoli
nei codici dei monasteri. La successiva interpretazione è
avvenuta non in funzione delle conoscenze antiche che li
avevano elaborati, ma con quelle del loro tempo. Per questo le
cattedrali sono il frutto della loro interpretazione, sono dei veri e
propri trattati alchemici.
La nostra lotta impari contro le forze deviate degli Eletti,
proseguirà finché sarà vivo uno di noi ma abbiamo bisogno
dell’aiuto di tutti ed è per questo che abbiamo lasciato questa
denuncia. Deve servire da futura memoria per quanti
continueranno la lotta dopo di noi. Ci sono segni nell’aria che
parlano di fatti orribili, crimini contro l’umanità di cui alcuni tra
gli Eletti, si sono già macchiati in passato. Non li abbiamo presi
in considerazione perché ci paiono troppo terrificanti, troppo
lontani dagli insegnamenti di Lug il grande, il magnifico. Ma la
sete di immortalità tra gli Eletti è più forte persino della loro
sete di potere. Una volta raggiunta quella meta, diventerebbero
invincibili, il tempo per loro non sarebbe più un impedimento. Il
Sommo Artefice non lo voglia.»
Il vecchio posò il documento sul piccolo tavolino davanti a
sé e guardò ancora una volta Marco, restando in attesa di una
sua risposta. Lui era ancora sotto l’impressione di quella sequela
di fatti che, se fossero stati autentici, avrebbero potuto riscrivere
tutta la Storia dell’umanità. Quello che gli era sembrato il
semplice ritrovamento di un’ antica pergamena nascosta, poteva
rivelarsi la denuncia di un complotto che si estendeva lungo i

151
secoli con l’obbiettivo del predominio occulto sul mondo. Si
rivolse al vecchio e gli chiese:
«Lei cosa pensa, di quanto mi ha letto sinora?»
«Io non ho mai creduto al caso, come fanno i vostri scienziati
moderni; per essi, tutto ciò che è inspiegabile è casuale.
Ricordo che quando si dovettero trasportare due obelischi a
Roma, occorse un numero enorme di rimorchi e traini; come
facevano gli egizi a movimentarne a decine? No, signor
Fabiani, non credo al caso: se lei è stato scelto tra tutti, per
ritrovare una pergamena di trecento anni, c’è sicuramente una
ragione. Potrebbe essere quella di portare alla luce quanto le ho
letto sinora, far conoscere al mondo la realtà che si cela dietro a
una congiura che ha già causato immani tragedie e ancora ne
causa. L’ultimo accenno a crimini contro l’umanità, che riporta
il documento che le ho letto, mi sgomenta, lascia intravedere
panorami agghiaccianti.»
«Ma perché non l’ha fatto lei, che sapeva queste cose da
tempo?»
«Perché sono vecchio, terribilmente vecchio, anche se una volta
ho scritto che il vecchio di ieri è il bambino di domani. Sono
stanco, e mi aspetta un viaggio verso la purificazione lento e
faticoso. Poi c’è un altro fatto, che mi impedisce di avere quella
determinazione necessaria, a rivelare la macchinazione degli
Eletti. Penso che la nostra civiltà si trovi nelle ultime fasi, di un
ciclo giunto ormai a conclusione. La decadenza che ha portato
all’incredulità religiosa, alla sfiducia, al feticismo del piacere è
inarrestabile. Gli Iniziati governeranno da soli quando, come
concordano diverse tradizioni, si passerà all’era dell’Aquario e
metà del mondo sarà distrutto. Finis gloriae mundi.
Veda Signor Fabiani, come riporta il mio documento, più
volte l’umanità ha avuto l’occasione di migliorarsi
spiritualmente. Qualcuno degli antichi maestri vi è riuscito, ma
la più parte degli uomini è troppo legata alla terra per poter

152
guardare al cielo. L'alchimia era nata in Oriente, tramandando le
conoscenze dell’Egitto e di Babilonia e fondendole con quelle
greche e persiane. L’avanzata degli Arabi in Europa, i rientri dei
Crociati dalla Palestina – in particolare dei Templari – diffusero
le antiche nozioni tra gli europei avidi di conoscenza. Principi,
gentiluomini, monaci, sapienti, artigiani, orefici, vetrai,
smaltatori, farmacisti, furono presi dal desiderio di maneggiare
la storta, come se fossero colpiti da una pandemia. Io ne so
qualcosa. Si fecero lunghi e pericolosi viaggi per accrescere il
bagaglio di conoscenze e si informarono l’un l’altro con codici
cifrati che porteranno in seguito alla crittografia: nacquero
confraternite, logge, centri iniziatici.
L'alchimia è l'arte della trasformazione della materia. La
materia prima, impura, deve disfarsi per mezzo del primo lavoro
alchemico, l’Opera Al Nero; il fine ultimo è la sostanza perfetta,
la Pietra Filosofale. Bruciare, distillare, dissolvere non è che la
ricerca dell’anima, contenuta in ogni entità fisica. La Grande
Opera rappresenta l'intesa armonica con la Natura, per il
raggiungimento della Conoscenza. Ma non è che il primo
gradino di una lunga scalata verso la perfezione, verso la ricerca
della propria anima. Oggi tutto questo è stato coperto
dall’azione di mascheramento degli Eletti che non volevano il
diffondersi di queste conoscenze. Decida lei cosa fare di quanto
ha appreso dalla pergamena e dal mio documento: ogni
decisione sarà quella giusta, se lei ne sarà convinto. Si guardi
soltanto dagli Eletti, hanno occhi e orecchie dappertutto e come
avrà ben compreso, non esitano di fronte a nulla.»

11

153
Uscì nella notte chiudendo dietro di sé il grande portone e
percorse senza accorgersene il tratto di Via Po che si affacciava
sulla piazza. Nella sua mente risuonavano ancora le ultime
parole del vecchio erudito e ogni passo che compiva era
meccanico, quasi senza coscienza. Si erano salutati con la
gravità con cui si salutano due uomini che stanno partendo per
una missione terribilmente rischiosa; nel momento finale, il
vecchio pareva sollevato, come se avesse adempiuto quanto da
tempo si proponeva. Come se avesse ceduto il testimone, di una
staffetta iniziata chissà quanto addietro nel tempo.
Senza rendersene conto, Marco si trovò all’incrocio con
Via Montebello e soltanto la memoria inconscia lo portò a
svoltare a destra, per poter ritornare in Corso San Maurizio,
dove aveva parcheggiato l’auto. In quel momento la pioggia,
che si era annunciata con piccole e rade gocce d’acqua,
manifestò tutte le intenzioni di trasformarsi in un temporale
d’agosto. Affettò il passo e alzando il capo, vide che stava
costeggiando la Mole Antonelliana, la mancata sinagoga che
Nietzsche aveva definita “l’edificio più geniale che sia mai stato
costruito”. Sulla facciata sud, spiccava l’installazione luminosa
che riproduceva i primi numeri della Serie di Fibonacci, ma
questa volta non pensò più alla sua immancabile presenza,
perché proprio l’alzare il capo verso l’alto gli salvò la vita.
Se l’avesse tenuto basso, per evitare le prime pozzanghere
che si stavano formando, non avrebbe visto il rapido movimento
di un qualcosa che mirava a colpirlo. Istintivamente, piegò le
ginocchia e sopra di lui passò fulminea una forma oblunga, una
punta metallica che subito si ritrasse, in attesa di colpire ancora.
Con il cuore in gola e con gli occhi fissi su una lama
assurdamente posta sulla punta di un ombrello, non ebbe
nemmeno il tempo di chiedersi chi lo assaliva; la punta si
muoveva nell’aria come un fioretto, faceva finte e si ritraeva per

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poi avanzare. Si ritrovò di colpo ad un secolo addietro, alle
lezioni di scherma della Villa dei Glicini. Quelle che, quasi per
gioco, aveva deciso di frequentare durante una “leva di
sciabola” durata un anno.
Inspirò forte, portò tutto il peso a terra e si pose di quarto
con il lato sinistro in avanti in modo da ridurre il bersaglio.
Movimenti automatici che credeva dimenticati, ma che il suo
corpo aveva memorizzato. Sotto l’influsso dell’adrenalina, la
gamba di appoggio gli tremava violentemente, perché per la
prima volta in vita sua, doveva lottare per sopravvivere. Né
sulla pedana quando tirava di scherma, né sul tatami quando si
esercitava nel karate, si era trovato di fronte ad una minaccia
che, se non si fosse scansato per puro istinto, l’avrebbe
sicuramente colpito. Alla luce del lampione, l’acciaio della lama
che spuntava dal bastone dell’ombrello riluceva lungo tutta la
sua estensione, salvo sulla punta che era stranamente scura. Di
certo non si trattava di fango, perché aveva iniziato a piovere
solo da poco, quindi cosa poteva essere…
Si sentì male, una nausea improvvisa gli salì dallo stomaco
riempendogli la bocca di un gusto acido. Parola per parola,
ricordò un articolo letto molti anni prima, che trattava dei mezzi
usati dai sicari della Stasi, il servizio segreto della Germania
dell’Est. Tra tutti spiccava il più strano e micidiale, l’ombrello
bulgaro. Un ombrello arrotolato strettamente e dotato di una
lama retrattile con la punta ricoperta di veleno. Di colpo sentì i
capelli rizzarsi sulla nuca, ma non ebbe il tempo di approfondire
quella sensazione di cui aveva sempre e solamente letto, perché
la lama fece un rapido affondo in avanti. Il suo vecchio maestro
di scherma, gli ripeteva continuamente l’importanza del gioco di
gambe, ma in quelle lezioni lui era armato come il suo
avversario, poteva parare di prima, di quarta o di contro, prima
di colpire a sua volta.

155
Invece in quella strada deserta, al buio e di fronte ad un
uomo che lo stava attaccando con una lama probabilmente
avvelenata, cosa era in grado di fare? Con un velocissimo
movimento, ruotò all’indietro facendo perno sul piede sinistro,
in modo da uscire dalla traiettoria dell’affondo; in questo modo
la lama e quasi tutto l’ombrello, gli passarono lungo lo stomaco,
senza ferirlo. Fortunatamente nell’assalto l’aggressore aveva
alzato il braccio destro, lasciando scoperta l’ascella. Marco
intravide una possibilità e dissociando fortemente il busto
all’indietro, portò un violento pugno frontale in quella zona
piena di terminazioni nervose.
L’avversario emise un gemito soffocato e fu costretto ad
arretrare; il suo braccio ripassò ancora lungo il suo corpo e
Marco pensò che se fosse stata una sciabola, sarebbe stato
sgozzato. Il grugnito dell’uomo rivelava un forte dolore, c’era
da sperare che la rabbia gli facesse perdere la coordinazione dei
movimenti, che in qualche modo si scoprisse. Doveva fare in
modo che nel prossimo affondo, l’altro avesse di fronte a lui il
lato più indifeso, il fianco e il dorso. Fortunatamente l’altro
poteva solo colpire di punta, ma che punta! Bastava un piccolo
graffio ed in pochi minuti si sarebbe trovato per terra rantolante,
negli spasmi dell’agonia.
Nonostante la pioggia, che rinfrescava la calura del giorno
appena trascorso, sentiva il sudore scendergli copioso lungo la
schiena e sul viso, rischiando di accecarlo. Si scrollò con un
gesto rapido, mentre portava il braccio sinistro a proteggere
l’addome e chiudeva leggermente le gambe per essere pronto a
caricare un calcio o per cambiare direzione velocemente.
Ancora non riusciva a scorgere il volto del suo assalitore, che
aveva il bavero del giubbotto rialzato ed uno strano cappello a
forma di basco calcato sul viso. Un rapinatore da strada? Ma
quelli non usano ombrelli bulgari, a loro basta mostrare un
coltello a serramanico nascosto, per ottenere quello che

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vogliono. Restando sempre in guardia e fissando la zona buia in
cui dovevano trovarsi i suoi occhi gli chiese:
«Cosa vuoi da me e perché mi fai questo?»
Senza neanche degnarsi di rispondere, l’uomo portò avanti il
piede, nella classica posa dell’affondo e si distese in avanti,
verso la sua gola. Appena vide la punta della lama avanzare,
Marco aprì a destra e pose l’avambraccio contro la stoffa
dell’ombrello che stava avanzando rapidamente; aveva ottenuto
quanto si era riproposto un minuto prima. Portò tutto il peso sul
piede sinistro e ruotando sul bacino, sferrò una fortissima
ginocchiata sulle costole fluttuanti dell’altro, in direzione del
fegato. Provò un fortissimo dolore alla rotula prima che il suo
avversario, cadendo in avanti, gli regalasse un rivoltante afrore
di sudore stantio. Il ginocchio era affondato nel suo fianco
molle, facendogli emettere un urlo che aveva qualcosa di
animalesco. Visti dall’esterno, potevano sembrare due ubriachi
abbracciati in una rissa da strada, per contendersi un ombrello.
Cercando di vincere il disgusto per la vicinanza con il
volto del suo assalitore, si avvide che che quanto più lo
stringeva a sé, quanto meno l’altro avrebbe avuto libertà di
movimento con la lama dell’ombrello. Doveva assolutamente
evitare di concedergli spazio. Nello stesso istante in cui si
rendeva conto di questo però, un’idea improvvisa lo raggelò.
Prima o poi l’uomo avrebbe capito che, ruotando il manico,
l’ombrello poteva divenire l’impugnatura di un lungo pugnale
da usare per colpire la sua gamba dall’alto al basso. Mentre la
sensazione di freddo diveniva sempre più forte, un roco
mormorio rotto dalla sofferenza, gli fece capire che l’uomo gli
stava parlando. L’idioma era incomprensibile, un misto di argot
marsigliese e occitano, ma il tono era chiaro; lo stava
maledicendo.
Ancora una volta provò a parlargli, ripeté la domanda di
poco prima, ma l’altro o non capiva la lingua, o non voleva

157
rispondergli. La tensione sulle sue braccia aumentava sempre
più, evidentemente l’uomo doveva avere un recupero
eccezionale, visto che si stava riprendendo rapidamente dal
colpo subito. Doveva pensare a qualcosa e subito. Con i muscoli
doloranti per lo sforzo di trattenere quello che ormai gli pareva
sempre più un pazzo scatenato, ricordò che quella sera aveva
calzato le sue scarpe dalla spessa suola di cuoio e non i soliti
mocassini estivi con la suola sintetica. Concentrandosi e
cercando di immaginare la posizione che l’uomo teneva, capì
che molto probabilmente la sua tibia era a pochi centimetri dalla
sua gamba destra, quindi alla portata di un suo calcio. Il pericolo
più grande era dato dal fatto che per calciare avrebbe dovuto
portare il peso su un solo piede, indebolendo in tal modo la sua
stabilità a terra. Poteva sferrare un solo colpo, e doveva essere
forte abbastanza da infliggergli il massimo dolore. Strisciando
lentamente la sua gamba all’indietro, la rilassò per poi farla
esplodere in avanti con il piede irrigidito. Sentì un orribile
rumore di osso scheggiato ed un altro urlo proruppe dall’uomo
che, lasciando di colpo la presa, si buttò all’indietro, fuori dalla
portata di un altro calcio.
In quel momento una coppia di passanti vide la scena e
gridò loro di smetterla, altrimenti avrebbero chiamato la polizia.
Nello stesso istante, un’auto sbucò da Via Verdi e suonò il
clacson ripetutamente. Il suo assalitore si voltò zoppicando
vistosamente, la raggiunse e aperta la portiera posteriore, vi salì.
Prima che ripartisse sgommando, gli gridò:
«Tu es foutu!»
Il tutto era durato pochi secondi e lo aveva lasciato esausto, le
gambe tremanti e il cuore che batteva furiosamente nel petto. La
carica di adrenalina che lo aveva sostenuto sino a quel
momento, stava facendo l’effetto di una droga alla quale lui non
era abituato. Si appoggiò al muro e lentamente scese sui talloni

158
sapendo che, se non l’avesse fatto, le gambe gli sarebbero
mancate di sotto.
La coppia che aveva minacciato di chiamare la polizia lo
raggiunse, e la donna, una cinquantenne molto energica che si
riparava sotto l’ombrello del compagno, gli chiese se avesse
bisogno d’aiuto e se l’aggressore l’avesse rapinato.
«No vi ringrazio, non mi serve nulla e non sono stato rapinato»
rispose con una voce che a lui stesso sembrò estranea. «Grazie
al vostro intervento quell’uomo è fuggito.»
«Ma si figuri» intervenne compagno con uno spiccato accento
piemontese «se non ci si aiuta tra noi, con tutti questi
extracomunitari che ci sono in giro... perché era un
extracomunitario vero?»
Marco sentì un forte bisogno di reagire perché pur sentendo
gratitudine per l’aiuto ricevuto, non aveva nessuna intenzione di
favorire la loro xenofobia.
«No, era italiano. Abbiamo anche molti delinquenti italiani, e
sono la maggioranza.»
Quasi avesse fatto un’affermazione blasfema i due, dopo aver
borbottato in piemontese qualche cosa come “bel
ringraziamento” si allontanarono. L’essere stato accovacciato
sui talloni aveva agito positivamente sulla sua eccitazione, e
aver risposto bruscamente ad un altro di quegli italiani dalla
memoria corta, l’aveva distratto. Solo cinquant’anni prima, gli
extracomunitari in tutto il mondo erano gli italiani. Si avviò
lentamente nella strada in discesa che portava verso Corso San
Maurizio e giunto alla sua auto vi salì.
La risposta alla domanda che inconsciamente si faceva da
quando tutto era iniziato, ora gli esplose chiara nella mente.
Doveva prender atto che l’accaduto non era semplicemente una
rapina, ma un tentativo di sopprimerlo. Probabilmente era
sorvegliato da tempo ed il solo fatto di aver incontrato El-
Alcuflin, aveva spinto qualcuno a decidere che doveva essere

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aggredito. Non aveva prove della presenza di veleno sulla lama
dell’ombrello, ma anche senza questo, i suoi trenta centimetri
sarebbero bastati ad ucciderlo. A meno che, l'intento non fosse
solo quello di spaventarlo perché desistesse dal continuare le
ricerche. Cosa che era riuscita benissimo. Si allontanò dal
parcheggio senza smettere di guardare nel retrovisore se
qualcuno lo seguiva e giunto sotto casa, dopo aver aperto il
portone ed essere entrato nell’androne, spiò attraverso la piccola
fessura formata dalla porta discosta, l’eventuale passaggio di
un’auto. La strada era deserta e la pioggia appena caduta
formava larghe pozzanghere a causa dei chiusini di scarico
ostruiti dal forte temporale. Le luci dei lampioni si
rispecchiavano nell’acqua e quando fu nel suo alloggio e andò
alla finestra senza accendere la luce, ancora gli rimandavano
l’immagine di una via tranquilla, in una calma notte di
settembre. Dopo aver messa la catena alla porta, si tolse i vestiti
madidi di sudore e si mise sotto la doccia, per togliersi di dosso
la spiacevole sensazione del contatto con l’aggressore.
Sapeva che la notte sarebbe stata terribilmente agitata,
almeno finchè non avesse smaltito tutta l’adrenalina che sentiva
ancora scorrergli dentro. L’ultima cosa che ricordò prima di
addormentarsi, fu l’urlo dell’aggressore “Tu es foutu!”.

Il mattino dopo alle otto trovò un messaggio di Anne.


Ancora una volta si chiese il motivo per cui si metteva in
contatto con lui solo in quel modo, e non utilizzando il telefono.
«Ho davvero bisogno di vederti, ho voglia di stare con te, di
escludere il mondo dai miei pensieri. Appena avrò sbrigato
alcune cose, ti avvertirò e tu corri da me, ti prego.»

160
«Anne non appena mi dirai che sei libera, io partirò ed in cinque
o sei ore sarò da te.»
Cercando di uscire dalla malia del suo messaggio e con la
lucidità che gli dava l’ora mattutina, ripensò all’avventura della
sera prima; aveva la certezza che il vecchio erudito fosse
sorvegliato, fors’anche in pericolo. Facendo scorrere sul
cordless le telefonate ricevute, scoprì che la sua chiamata
riportava “nessun numero” segno che voleva celarlo. Doveva
avvertirlo, ma per farlo poteva solo chiamare il salesiano e con
una scusa, farselo dare da lui. Alle 9 cercò il professor Renato
Colli e gli parlò un attimo prima che entrasse in riunione con la
commissione della Sindone. Sentendo la sua richiesta, il
salesiano gli ricordò quanto gli aveva spiegato sulle abitudini
dell’arabo nel loro incontro precedente; sarebbe stato meglio se
avessero proceduto come l’altra volta. Sarebbe stato il vecchio a
chiamarlo, se e quando voleva.
Faticò molto a non mostrare l’insofferenza che quella
risposta gli causava; ogni ritardo poteva portare spiacevoli
conseguenze, ma a meno di non rivelare al salesiano tutto
quanto, non poteva che aspettare. Passò la mattina a riscrivere
per sommi capi quanto El Alcuflin gli aveva letto e se fino a due
giorni prima, tutta la questione gli era sembrata una sorta di
divertente caccia al tesoro ora, con quel che sapeva e dopo
l’aggressione subita, niente era più come prima. Un’incredibile
cospirazione si prolungava lungo i secoli, in funzione della
creazione di un Nuovo Ordine mondiale e tutto, nella storia
ufficiale, era solo apparenza. Sentì l’enorme peso che lo avrebbe
gravato d’ora in poi, perché lui sapeva; era uno dei pochi, oltre
agli Eletti, a sapere. Prima di addormentarsi, ricordò una scena
di “Cabaret”, rimasta così impressa nella sua mente, da tornargli
alla memoria ora, dopo molti anni. Un’osteria tedesca di
campagna all’aperto, in una splendida giornata estiva; tutti
bevono e sono allegri, perché finalmente il Paese si sta

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sollevando dagli effetti disastrosi della Grande Guerra.
Improvvisamente nel brusio generale, si alza la flebile voce di
soprano di un adolescente, inquadrato in primo piano. Biondo
esile, quasi indifeso, canta una dolce melodia nella quale si dice
che il sole riscalda i campi con il suo calore estivo, i rami degli
alberi sono verdi e il Reno dona il suo oro al mare. Con la sua
fragile voce, annuncia che “il futuro mi appartiene” e questo,
data l’età, sembrerebbe legittimo; fino a che lentamente il
campo non si allarga e il giovane appare interamente.
Indossa l’uniforme della gioventù Hitleriana ed in un lento
crescendo, la sua voce cambia accento, perde l’innocenza, per
proclamare che da qualche parte la Gloria attende tutti loro;
intorno a lui alcuni iniziano ad alzarsi in piedi per unirsi al suo
canto, “Sorgete, sorgete, Patria mostraci il segno che i fanciulli
attendevano, il futuro mi appartiene”. Uno dopo l’altro, tutti si
alzano e cantano, una coppia di camicie brune canta a
squarciagola, solo un vecchio sconsolato resta seduto e scuote la
testa, lui sa cos’è la guerra perché l’ha vissuta. Ormai la melodia
si è trasformata in una marcia militare, il rullo dei tamburi
sottolinea le parole “Il mattino viene ed il mondo è mio perché
il domani mi appartiene”. Tomorrow belongs to me.
La scena quasi bucolica è divenuta un’adunata di fanatici
hitleriani; il giovane chiude il suo canto, con il saluto nazista.
Michel York in una delle scene più geniali di Cabaret, domanda
al suo amico tedesco: pensate ancora di poterli controllare?
In quel momento Marco si sentiva allo stesso modo; unico
a vedere la realtà celata dal velo di apparente normalità che la
ricopriva.
Nel pomeriggio Roberto Colli si fece vivo per dirgli che
era preoccupato, aveva più volte chiamato l’arabo, ma nessuno
rispondeva al suo telefono e questo era molto più che strano, era
allarmante. Di solito non usciva di mattino e sicuramente per
pranzo stava sempre a casa: sarebbe stato meglio verificare

162
subito e di persona, che non fosse accaduto qualcosa. L’avrebbe
fatto lui, se non fosse stato occupato con la commissione.
Dunque, doveva farlo Marco. Dopo avergli assicurato che
sarebbe andato subito, si salutarono e il salesiano gli disse,
come sempre, “Dio sia con te”. Nell’udire quella vecchia
formula, sentì la forte tentazione di raccontargli
dell’aggressione, ma poi capì che quell’impulso era troppo
simile a quello che lo spingeva da ragazzo, a confidare al
salesiano i suoi primi problemi di adolescente. Ora non era più
il giovane prete pieno di vigore d’un tempo, era anziano e si
sarebbe spaventato; la sua lucidità, all’interno della
commissione per la Sindone, era troppo importante per turbarla
con il suo racconto.
Si preparò velocemente e dopo appena venti minuti,
parcheggiava in una via laterale di Piazza Vittorio. La giornata
era ventosa ed il cielo terso faceva da sfondo al verde intenso
delle colline oltre il fiume. Nel comporre sul citofono il codice
dell’arabo, si acccorse di quanto gli era sfuggito il giorno prima;
mille cento ventitré e cinquantotto, non era una cifra qualsiasi,
ma 112358, la prima parte della sequenza di Fibonacci. Preso
dall’emozione dell’incontro, non vi aveva fatto caso. Il silenzio
che seguì, era troppo prolungato per non significare qualcosa di
preoccupante; mentre pensava di suonare a qualche altro nome,
il portone si aprì per lasciar uscire una signora bionda, molto
elegante, che gli chiese se dovesse lasciare aperto. Lui la
ringraziò, ed entrò per avviarsi verso l’ampio scalone di accesso
all’androne, dove troneggiava l’ascensore che il giorno prima
era guasto. Visto che il cartello “in manutenzione” era stato
tolto, aprì la porta grigliata che accedeva alle due piccole porte a
battenti ed entrò nella cabina, che partì sferragliando verso
l’alto. Giunto di fronte all’appartamento, posò l’orecchio in
corrispondenza del cicalino, per sentire se dall’interno venisse
qualche rumore.

163
Bastò questa leggera pressione, per fargli capire che la
porta era solo accostata. In preda ad un brutto presentimento la
sospinse, trovandosi davanti al buio, lungo e vuoto corridoio.
Allungando con apprensione una mano a cercare tentoni
l’interruttore, si accorse che la corrente era staccata. Prese dalla
tasca il portachiavi dell’auto a cui era legata la microscopica
pila alogena e l’accese: i vasi cinesi sulle mensole, i quadri alle
pareti, la lampada che il giorno prima rischiarava il corridoio,
tutto era sparito. Con l’aiuto di quel piccolo cono di luce,
avanzò sino al salotto per scoprire che il divano, le due poltrone,
lo scrittoio e persino il samovar erano scomparsi. Le pareti
senza l’arazzo erano spoglie e la stanza era spaventosamente
vuota: andò verso una finestra e aprì i doppi, pesanti scuri che
davano sulla piazza. La luce del sole al tramonto gli consentì di
osservare che tutto l’appartamento era vuoto e l’unico rumore
era quello dei suoi passi.
Un lungo brivido, gli corse lungo la schiena.
Aveva l’orribile sensazione che tutto quanto aveva vissuto
il giorno prima, non fosse che un sogno nato nella sua fantasia.
Come poteva accadere che un alloggio sino a poche ore prima
pieno, addirittura ingombro di mobili, oggi sembrasse disabitato
da anni? Non aveva alcuna prova che testimoniasse il suo
incontro con l’arabo, niente che provasse tutto ciò che aveva
scritto nei suoi appunti la sera avanti. Tornò all’ingresso e uscì
sul pianerottolo; sulla porta non c’era più la targhetta che
riportava il codice del citofono, ma avvicinandosi ancor di più
vide che due piccoli fori erano stati stuccati. Era ancora presente
l’odore di cera colorata dello stucco. Una piccola insignificante
prova, ma sufficiente a fargli capire che non si era sognato tutto
quanto. L’alloggio occupava tutto l’ultimo piano, quindi non
aveva vicini. Scese al piano di sotto e suonò il campanello
dell’appartamento sottostante; nessun segno di vita. Si rivolse
all’altro campanello, quello dell’alloggio di fronte e dopo un

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poco sentì di là dalla porta, una voce rauca di vecchia chiedere:
Chi è? Rispose che stava cercando il signor El Alcuflin del
piano di sopra, sapeva per caso se avesse traslocato?
«Io so niente di queste cose di marocchini, io mi faccio i fatti
miei, chieda a qualcun altro!» Da quella parte era inutile sperare
di ottenere qualcosa. Sconsolato, scese lentamente le scale
pensando che a quel punto, non poteva far altro che accettare il
fatto. Nel giro di poche ore l’arabo era svanito, con tutti i suoi
segreti e la sua conoscenza, senza lasciare traccia. Sparito di sua
iniziativa o fatto sparire?
In quel momento, il suono collegato ai messaggi gli disse
che sul telefono c’era un messaggio di Anne. “Domani sarò a
casa, vieni.” Combattuto come sempre tra la gioia di rivederla e
quanto gli accadeva intorno, appena tornò nl suo studio riprese
gli appunti sull’incontro del giorno prima. C’era qualcosa nelle
ultime parole dell’erudito, che continuava a tornargli alla mente,
come una dissonanza, “Ricordo che quando si dovettero
trasportare due obelischi a Roma”. Si alzò e andò verso la parete
opposta, interamente occupata dalla libreria, per cercare una
monografia sui monumenti dell’antico Egitto. Nel capitolo sugli
obelischi trovò la storia completa dei loro furti e scoprì che
l’Italia, ad iniziare dell’Impero Romano, ne aveva il più alto
numero. Il fatto più curioso però era un altro.
Gli unici due obelischi trasportati insieme, risalivano al
1842! Come poteva il vecchio dire “ricordo” riferendosi a quel
fatto? Posò il volume sullo scrittoio e sedette sull’ampia
poltrona girevole, cercando di rivivere la scena del pomeriggio
precedente. La casa immersa nel silenzio, la voce dell’arabo che
sussurrava nel buio opprimente, la sua sensazione di trovarsi
accanto ad un uomo completamente estraneo al mondo esterno...
Come l’aveva definito il salesiano? Un erudito, il più grande
esperto di Nostradamus, talmente vecchio da essere un po’
bizzarro. C’era qualcosa che aveva detto in quelle interminabili

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ore, parole che ad un certo punto gli erano sembrate familiari,
un déjà-vu, frasi che aveva già udito o letto da qualche parte, ma
dove?; “purificazione, il vecchio di ieri è il bambino di domani”
Improvvisamente la sua mente associò queste frasi con
altre, riferite al “Il mistero delle Cattedrali”, un libro che sapeva
di aver letto in passato e che doveva aver riposto da qualche
parte. Si alzò, fece scorrere la piccola scaletta agganciata alla
libreria e la fermò nel settore dedicato all’esoterismo dove,
sull’ultimo ripiano e macchiato dal tempo e impolverato, lo
trovò. Furono le sottolineature a matita, che lo aiutarono a
trovare le espressioni incomprensibili che aveva evidenziato con
un grosso punto interrogativo. Eccole le parole che cercava, le
aveva scritte Fulcanelli negli anni Trenta e l’arabo le aveva
citate alla lettera: “purificazione come rinascita, dopo la quale il
vecchio di ieri diverrà il bambino di domani”.
Fulcanelli, un nome italiano, nonostante fosse francese.
Sul retro del libro era riportata una breve biografia
dell’esoterista: nato nel 1839, di famiglia nobile, laureato al
Politecnico di Parigi, alchimista. Mentre scorreva quei dati,
nella sua mente cominciò a prender forma un pensiero
strisciante, che arrivava da lontano, ma che cresceva senza
sosta. Prese la penna e scrisse su un foglio bianco, Fulcanelli,
poi Ful Ca Nelli, spostò alcune lettere e rimase a guardare,
folgorato, il risultato. Come aveva fatto proprio lui,
appassionato di anagrammi, a non capirlo prima? Come aveva
potuto non collegare l’assonanza tra El Alcuflin e Fulcanelli?
Una semplice coincidenza, oppure il vecchio arabo non era che
un altro travestimento dell’alchimista?
Non poteva credere di aver avuto davanti a sé una
leggenda vivente, l’uomo che si diceva avesse realizzato la
Grande Opera, guadagnando l’immortalità e la Conoscenza.
Ecco spiegato il colore molto chiaro della pelle, ecco la ragione
del suo italiano perfetto, del suo accalorarsi sull’argomento

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dell’immortalità. Ecco spiegata la sensazione che lui aveva
provato durante tutto il loro incontro: di trovarsi accanto ad un
uomo superiore, lontano anni luce da quanto accadeva intorno a
lui. Si diceva che ogni cento anni si ritirasse per rinnovarsi e in
seguito, tutti quelli che lo avevano conosciuto, smarrissero il
suo ricordo. Quindi la sua sparizione poteva essere dovuta al
fatto che sospettando che gli Eletti lo sorvegliassero, avesse
deciso di sparire; oppure semplicemente il suo tempo era
scaduto. L’arrivo di Marco con la sua pergamena, gli aveva dato
l’occasione buona per ritirarsi e per consegnargli il pericoloso
testimone di una staffetta volta a contrastare la cospirazione
degli Eletti. Leggendogli uno scritto che rivelava un mondo
occulto e parallelo, che probabilmente aveva scritto lui stesso,
l’aveva coinvolto irrimediabilmente.
Fulminato dalla sua scoperta, si distese sulla poltrona e
chiuse gli occhi per concentrarsi meglio: cosa poteva sapere lui,
di ciò che poteva provare un essere umano che aveva sconfitto il
tempo, che vedeva la storia scorrergli accanto come un uomo
seduto sulla riva di un fiume? Con una paura della morte
enormemente più grande di quella che affligge i mortali. Per
questa ragione Fulcanelli oppure - a questo punto tutto poteva
essere - lo stesso Saint Germain, compariva sempre
discretamente, senza mettersi in luce. Probabilmente ogni volta
cercava qualcuno di fiducia come Canseliet nel 1920, oppure
come lui, Marco, per rivelare una parte dei suoi misteri. Cosa
aveva detto alla fine del loro incontro, sulla decadenza
dell’umanità e sull’inversione dei poli, che coincideva su quanto
gli aveva detto il suo amico geologo? Metà del mondo sarà
distrutto. Finis gloriae mundi.
Ecco un’altra prova, forse quella definitiva. Fulcanelli
aveva scritto tre libri di cui solo due pubblicati: Le Dimore
filosofali, e Il mistero delle Cattedrali. Il terzo non aveva voluto
che fosse pubblicato, forse per non turbare troppo l’umanità in

167
anni che avevano già grandi motivi di tensione. S’intitolava
“Finis gloriae mundi” e preconizzava un grande cataclisma. E
lui Marco, per il solo fatto di aver trovato e sottratto una
pergamena da un secretaire di Villeneuve, si trovava con le sue
povere forze a conoscenza di fatti più grandi di lui e che, doveva
ammetterlo, non avrebbe mai voluto conoscere.
Sicuramente, partire il giorno dopo per la Provenza
sarebbe stato molto positivo, se non addirittura salutare.
L’avrebbe allontanato da Torino (dove pareva che gli esoteristi
non riuscissero a far a meno di stabilirsi) e gli avrebbe dato
modo di guardare Anne negli occhi, per capire qualcosa di più
su di lei. Nell’inviarle il messaggio in cui le confermava il suo
arrivo per l’indomani, provò un’eccitazione crescente. Tra
poche ore l’avrebbe rivista, ma come tutto era così diverso da
come se l’era immaginato! Il piacere di ritrovarla era offuscato
dal desiderio di sapere, di capire, e la stessa partenza, che aveva
sognato per giorni, aveva ora il sapore di una fuga da altre
aggressioni e da tutti i misteri che quell’uomo che forse era
Fulcanelli gli aveva esposto. Mentre preparava la valigia non
poté impedirsi di pensare, nonostante fosse ottimista per natura,
che le cose non avvengono quasi mai come ce le aspettiamo.
Si era immaginato un incontro con Anne, libero da altri
pensieri che non fossero quelli rivolti al loro amore, al piacere
di ritrovarsi, mentre ora andava da lei con una ridda di
interrogativi. Per distrarsi un poco prima di dormire, riprese
“Viaggio in India” di Yoshua, che aveva appena iniziato. La
descrizione di Benares e dei roghi in riva al Gange, così estranei
al giovane protagonista israeliano, gli fecero dimenticare i suoi
problemi e lesse fino a che sentì gli occhi bruciargli. Pensava
ancora ad Anne quando la stanchezza lo vinse. Chiuse il libro
sul segnalibro e lo ripose.

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12

Il medico uscì dalla porta scorrevole della Fondazione per


la Ricerca sulle Cellule Staminali e si avviò verso il parcheggio
dove aveva lasciato la sua Audi A6. Assaporò lungamente l’aria
tersa dei millecinquecento metri di Cuernavaca; il dorato rifugio
degli abitanti più facoltosi di Città del Messico
dall’inquinamento, dalla malavita e dal sovraffollamento. La
brezza che proveniva dagli altipiani, gli diede un momentaneo
sollievo, ma non bastò a togliergli di dosso la cappa di orrore
che, dopo dodici ore di lavoro, gravava su di lui. Da mesi ormai
si sentiva così, vivendo la schizofrenia di un lavoro di ricerca al
massimo livello mondiale e l’atrocità quotidiana con cui doveva
misurarsi.
L’auto lussuosa, che aprì le sue portiere al solo avvicinarsi,
la residencia di proprietà nella zona più costosa del Messico e
l’alto tenore di vita, non bastavano a cancellare l’orrore.
L’ambizione e il desiderio di fama lo avevano portato a lasciare
il Centro Medico Nacional Siglo XXI, per entrare a far parte di
un progetto che, ormai lo sapeva, si era rivelato essere il suo
cuore di tenebra. Non serviva ripetersi che non era il solo a
portare quel pesante fardello, che altri condividevano le sue
responsabilità, che esisteva la speranza di un successo vicino.
Nemmeno la remota, eppur possibile, promessa di una
compartecipazione al risultato finale del progetto, gli dava più
lo stesso brivido che aveva provato anni prima, quando gli era
stata prospettata. Nemmeno la parola “per sempre “ gli dava più
la stessa emozione.
Ed ora per giunta, doveva parlare con l’uomo che stava al

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vertice di tutto quanto, doveva riferire che un altro esperimento
era fallito, anche se questa volta la sopravvivenza delle cavie si
era prolungata per più di un mese. Un mese di orrore per lui.
Poteva anticipare la reazione che l’uomo dall’altra parte
dell’oceano avrebbe avuto. Rintanato nel suo covo di Avignone,
come un ragno all’estremità della sua tela, attendeva solo
risultati e non voleva sentir ragioni. Senza rendersi
minimamente conto dell’immensità dell’impresa in cui si erano
imbarcati. Del resto, sapeva che anche il centro di Lione era allo
stesso punto: ma secondo quell’uomo orrendo, che lui aveva
visto per fortuna una sola volta, loro avevano il vantaggio di
essere in Messico e di poter operare più liberamente. Come se
questo bastasse. Prese dal cassetto dell’auto il satellitare e
compose il numero strettamente riservato, che solo lui e pochi
altri conoscevano: dall’altro capo sentì la voce fredda, distante,
dire “sono io”.

La giornata splendida e le strade poco battute di un mattino


di venerdì, gli davano modo di fantasticare sul loro incontro e su
quel che sarebbe seguito. Durante la separazione aveva ricevuto
da lei molti messaggi pieni di tenerezza, ma un mese di
lontananza in una storia che aveva solo due giorni di
conoscenza, poteva aver cambiato molte cose, fatto scemare in
lei l’attrazione che l’aiuto del tango gli aveva dato. Se lui fosse
riuscito a ricreare la magica atmosfera del loro primo giorno, se
avesse messo da parte tutti i dubbi nati dal ritrovamento della
pergamena, tutto sarebbe andato per il meglio. Alle undici
chiamò Anne per dirle che si trovava nei pressi di Valence e che
entro un’ora e mezza sarebbe arrivato ad Avignone. Lei gli
sembrò molto contenta di sentirlo e gli diede appuntamento

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sulla Piazza dei Papi per le dodici e trenta. Anche lei, quindi,
attribuiva a quel posto un’importanza particolare, il potere di
riunirli dopo averli fatti conoscere.
Alle dodici fu ad Avignone e si avviò decisamente verso il
parcheggio sotterraneo che lo avrebbe lasciato proprio sotto il
Palazzo dei Papi. Era smanioso di arrivare, voleva attenderla
sulla spianata dove si erano trovati un mese addietro, voleva
vederla lui per primo, questa volta. Uscì dalla scalinata del
parcheggio e dopo l’oscurità sotterranea in cui aveva lasciato
l’auto, il sole quasi lo abbagliò. Investito dalla luce e dai colori
della Piazza, cercò gli occhiali da sole e si fermò un attimo per
ambientarsi. C’erano ancora turisti, ma meno numerosi e di un
genere diverso da quelli di agosto. La piazza aveva l’aspetto che
Marco amava, viva, ma non caotica. Si rivolse verso il duomo e
il fulgore dorato della vergine che lo sovrastava, si sovrappose
al bianco delle pietre e delle scalinate che il sole di settembre
faceva ancora brillare.
Salì la gradinata e si sedette sul bordo della fontana,
emozionato dal trovarsi nello stesso luogo in cui si erano
conosciuti. Cercò di rivivere quella notte, risentì il bandoneon di
“Zum” che incalzava l’orchestra ed i ballerini stessi, prima di
accompagnarli verso la sospensione tesa della pausa. Riprovò
nella mano il piacere di stringere il corpo di Anne durante il
ballo e si smarrì nel suo ricordo. All’improvviso, fu assalito
dalla chiara sensazione della sua vicinanza, avvertì dietro di sé
una presenza e si voltò. Lei era lì, sorridente, radiosa, arrivata
alle sue spalle per sorprenderlo ancora una volta.
«Marcò - esclamò lei - Marcò infine ti ritrovo!»
L’afferrò e la strinse a sé, sentì il suo corpo esplodergli contro,
teso nell’aderente abito bianco. La baciò con trasporto,
perdendosi in quel liquido bacio profumato di labbra umide e
calde. Finalmente insieme, un uomo ed una donna più che
adulti, incuranti dei turisti che li osservavano curiosi e un poco

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partecipi di quella manifestazione d’amore. Si parlavano
addosso in un misto delle due lingue, lui aveva del tutto
dimenticato il francese e lei nello slancio aveva scordato di
parlare lentamente, di essere in pubblico; lo stringeva a sé
davanti a tutti, cheri, mon amour, cara, la manque, sei tu,
proprio tu …
Lui la prese per mano, la guardò negli occhi e le disse che
era sempre più bella, che quel mattino aveva un’aria sbarazzina,
pareva una studentessa che avesse marinato la scuola. Lei
rispose che così si sentiva, una ragazzina che corresse incontro
al suo primo amore. Parlarono, parlarono ancora di loro e del
mese passato, muovendosi lungo la Piazza senza meta: lui ad un
certo punto le chiese, ti ricordi di quella notte?
«Ma certo Marco, solo con te ho provato ciò che ho provato
quella notte. Quella gioia di sentirmi trasportare interamente
nella musica: non so esprimerlo, ma c’è un’emozione nel nostro
tango che abbiamo sentito sin dal primo momento. Non si può
neanche dire che sia l’amore, perché ci conosciamo appena. È
una cosa rara, solo nostra, un vero regalo che la vita ci ha dato.»
«Durante tutto questo mese ho sentito un vuoto dentro, non sono
più riuscito ad andare in milonga, senza te.»
Sempre parlando, lei lo portò verso il ristorante Le Moutardier e
gli disse di aver riservato un tavolo all’aperto.
«Ormai questo sta divenendo il nostro ristorante» lei disse
sorridendo, poi gli chiese se fosse stanco per il viaggio e se
voleva riposarsi un poco a casa sua, dopo pranzo.
«Grazie cara per l’ospitalità, ma non sono stanco. Se non hai
altri impegni, mi piacerebbe passeggiare con te sotto questo sole
meraviglioso di Provenza... noi non abbiamo il vostro clima, il
nostro inverno a volte può essere molto lungo e per me ogni
occasione è buona per stare al sole, all’aperto.»
Dopo un pranzo leggero in cui entrambi scelsero di provare il
dentice e le conchiglie St. Jaques marinati, che trovarono

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squisiti, lei gli propose una passeggiata in riva al Rodano. Dopo
aver tolto le auto dai rispettivi parcheggi, si sarebbero trovati in
una piazzola oltre il ponte per Villeneuve, dalla quale partiva un
sentiero tra i boschi. Più tardi si separarono, per ritrovarsi più
tardi e, lasciate le due auto, si avviarono lungo un sentiero che
costeggiava il fiume. Il pomeriggio era reso splendido dai
contrasti tipici della Provenza: bianco e azzurro, luce e ombra,
mentre il Rodano rifletteva il verde folto delle rive e le cime
degli alberi più alti. I boschi che lo affiancavano non
impedivano la vista del bastione dei giardini del Palazzo dei
Papi, che di lontano appariva ancora più bello. Come in un
gioco di specchi, si trovavano esattamente nel luogo che
avevano osservato la mattina del loro primo appuntamento e le
macchie e le rive, che avevano visto insieme da lontano, ora li
circondavano tutto intorno. Anne gli disse che vi veniva spesso,
insieme ad alcune amiche, a correre o soltanto a passeggiare.
Anne quel giorno era particolarmente bella ed era difficile
non guardarla. Il vestito bianco aveva un taglio alla coreana che,
pur nascondendo il collo e le sue belle spalle, le illuminava il
viso, la ringiovaniva. Marco le parlò della conclusione del suo
saggio sui Catari e le chiese del suo viaggio. Sapeva che lei
aveva avuto una serie d’incontri di lavoro in varie città
d’Europa, ma nella loro corrispondenza non ne aveva parlato
molto, Lei gli rispose che era stato proficuo, anche se stancante,
dato che si era mossa tra una serie d’impronunciabili luoghi in
Islanda, in Spagna, Santorino in Grecia e persino in Italia, a
Catania.
«Hai fatto collezione di vulcani» lui commentò «e quali risultati
ha portato il tuo viaggio?»
Anne ebbe un rapido mutamento, si guardò intorno e divenne
improvvisamente guardinga; il sorriso sparì per lasciar posto ad
un leggero incresparsi della fronte. Tutto il suo viso sembrò
perdere di colpo la luminosità ed una serie di piccole rughe di

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tensione si formò intorno alle sue labbra contratte. Con l’occhio
all’orologio gli disse “dobbiamo andare, si è fatto tardi”.
Uno strano cambiamento d’umore - pensò lui -
considerando la semplice domanda che l’aveva provocato, ma
alzando lo sguardo, vide lo spettacolare preannuncio di
tramonto che il cielo stava mettendo in scena per loro. Il sole di
metà settembre colorava di rosso, il cielo screziato di nuvole, il
verde dei boschi e dei prati intorno s’incupiva, mentre l’acqua
del Rodano prendeva riflessi violetti.
Lungo le strade che portavano alla zona residenziale di
Villeneuve, dove lei abitava, comprese la ragione del nome che
era stato dato a quella parte della cittadina, “La Rocaille”. Una
serie di ville in stile provenzale si mimetizzava nel terreno
roccioso, alcuni piccoli condomini di lusso erano ben nascosti
da pioppi e piante sempreverdi e il tutto dava l’idea di un
labirinto di strade e stradine che s’inerpicavano su per la collina.
Lei lo guidò dentro ad uno di questi complessi, aprì con il
telecomando il grande cancello e gli indicò un posto, nel
parcheggio di fronte all’ingresso della sua palazzina. Davanti
alla porta di casa lei gli disse:
«Marcò, benvenuto. Mi casa es tu casa come si dice.»
La baciò dolcemente sulla fronte e il profumo della sua pelle,
che gli era rimasto impresso per giorni e giorni, gli ricordò la
loro prima notte di tango. Si staccò un poco per guardarla
meglio e fu ancora una volta colpito dalla sua bellezza. Nel
controluce creato dalla vetrata, il sole incendiava i suoi capelli
di riflessi dorati ed il sorriso, ora caldo e aperto, partendo dagli
occhi arrivava alla bocca piena, invitante. La leggera e
misteriosa piega ai lati delle labbra lo attirava e lui, vinto dalla
tenerezza, la baciò.
La sentì rilassarsi tra le sue braccia, la tensione costante
che animava ogni suo gesto, quasi fosse ingaggiata in una
continua lotta contro il tempo, finalmente quietata. Sin dal

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primo istante dei loro primi tanghi, all’inizio della loro
conoscenza, aveva sentito questo forte contrasto tra la sua
fisicità, fatta di quella tensione psichica e muscolare, che i
maestri argentini chiamano presenza, e l’abbandono completo in
cui riusciva a porsi tra le sue braccia, nel momento in cui lui la
portava nella musica. Questa commistione tra la sua apparente
determinazione e la passività con cui si donava completamente
alle sue mani, l’aveva fatto innamorare di lei, profondamente,
perdutamente. Rimasero ancora un poco abbracciati, felici di
essersi ritrovati e felici di scoprire che nulla era cambiato
durante la separazione. Il filo rosso che li aveva uniti dal primo
tango, aveva potuto tendersi lungo tutto il viaggio da lei
compiuto senza spezzarsi.
Dopo essersi rinfrescato la raggiunse nel soggiorno, dove
lei aveva già servito il tè, abbassato le luci e lo attendeva seduta
sull’ampio divano bianco, che occupava tutta la parete della
sala. Il suo sorriso, quello che l’aveva colpito sin dal primo
istante e l’aveva spinto a chiederle il primo tango, lo invitava a
sedersi accanto a lei. La guardò, preso ancora una volta dai suoi
occhi. Verdi, profondi, che potevano divenire violetti nei
momenti d’intensa emozione, ma che in quel momento
riflettevano il colore del tè che stava versando.
Si era cambiata ed il suo corpo, fasciato da una
leggerissima vestaglia cremisi, pur disteso conservava la
souplesse che le consentiva di compiere qualunque gesto con
estrema armonia. La stessa che dava al suo tango quella
leggerezza così esclusiva. Senza cessare di guardarlo negli
occhi, azionò il telecomando per dare inizio al primo brano di
Maquillage, un concerto di Adriana Varela che aveva portato da
Buenos Aires nel suo viaggio precedente. Con voce suadente,
arrochita dal fumo, Adriana cantava “Toda mi vida”:
Io, dopo molto tempo, del non vederti, del non parlarti,
già stanca di cercarti sempre, sento che sto morendo lentamente

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per il tuo oblio, e nel freddo della mia fronte i tuoi baci non
torneranno. So che molto mi hai amato, tanto, tanto come me,
ma però in cambio io ho sofferto molto più di te.
Un vecchio tango un poco triste ma completamente
rinnovato nell’interpretazione e nell’accompagnamento
moderno del pianoforte; la voce riusciva ad essere tenera nel
ricordo e forte nella protesta per il grande amore perduto. La
mano nella mano, senza parlare, si lasciarono attraversare dalla
musica; nella penombra i suoi occhi parevano immensi, resi
forse un po’ lucidi dall’emozione. Si chinò per baciarla
leggermente sulle labbra piene e calde e quando lei,
abbandonandosi al bacio le dischiuse un poco, sentì il primo
lungo fremito dell’eccitazione. La sua bocca ora si apriva
completamente, si adattava alla sua in modo perfetto, gli stessi
tempi, gli stessi ritmi, il bacio diveniva un loro linguaggio
esclusivo, come lo era stato il loro tango. Senza l’ansia di
dimostrare nulla, solo il piacere di essersi ritrovati, di volersi
espandere uno nell’altro. Nel lungo e lento muoversi in lei, la
sentì gemere e inarcarsi e fu stupendo toccare il suo seno fermo,
solido, avvolgerlo nella mano e sentire il piccolo e impudente
capezzolo eretto verso di lui, quasi a reclamare attenzione.
Iniziò ad accarezzarlo sentendolo muoversi ed espandersi
quasi fosse una parte separata e indipendente; a quel contatto lei
prese ad ansimare. L’eccitazione si mescolava dolcemente alla
tenerezza, era stupendo sentire che ogni suo gesto era atteso,
voluto, amato e si rese conto che non poteva più rimandare il
bisogno di vederla tutta, ammirare quel corpo di donna che
sentiva sotto di sé. Si scostò un poco, le aprì la vestaglia e
sempre guardandola negli occhi, mise completamente a nudo
l’ampia curva delle spalle, le braccia, il seno.
Ignorando il monile del quale ormai conosceva ogni cosa,
ammirò l’armonia delle sue forme, il piccolo incavo al disopra
dello sterno, la dolce discesa verso il solco tra seni.

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Guardandolo attraverso gli occhi socchiusi, lei sembrava
provare piacere nell’essere osservata e ammirata, pareva
eccitarsi leggendo nei suoi occhi il desiderio. Si lasciò scivolare
dal divano e si trovò inginocchiato di fronte a lei, tra le sue
gambe, dove si fermò, come per adempiere al rito di un culto
antico come l’uomo. Era la sua dea, era bellissima.
I capelli un poco scarmigliati, gli occhi brillanti
d’eccitazione, i seni protesi verso di lui, con l’aureola rosata che
circondava la sfrontatezza dei capezzoli eretti. La spogliò con
tenerezza, quasi fosse la sua bambina e ammirò le lunghe gambe
di ballerina, finalmente nude, finalmente sue. Le accarezzò
lentamente, soffermandosi sul dolce rilievo del monte di Venere
che indovinava sotto la trasparenza del tanga: Je t’aime, ti amo,
ti amo, le disse e pareva che ognuno dei due aspettasse da tempo
chi avrebbe risvegliato tutta la passione che si portava dentro,
chi riuscisse ad intuire in ogni istante, il gesto o la carezza che
l’altro desiderava.
Così scese verso le dolci e morbide labbra della sua
intimità, verso l’umida, palpitante fenditura; si prese cura del
suo desiderio, pensando solo a lei, respirando il suo gemere e le
sue parole. Oui, oui, cherie, tu me fais jouir. La erre francese,
che un tempo gli sembrava un poco dura, ora gli pareva fosse
nata per dire mon amour: quel prolungarsi, arrotarsi un po’ roca
nel palato, la rendeva deliziosa ed eccitante. La portò
lentamente all’apice del piacere, sentendone il forte pulsare poi,
bocca sulla bocca, ne aspirò il culmine, mentre la baciava
dolcemente. Per non lasciarla sola nella landa sconfinata e
misteriosa della voluttà femminile.
Cullandola con parole d’amore, la tenne stretta a sé, fino a
quando il suo desiderio fu troppo grande e lo spinse ad entrare
con tenerezza in lei, che ora aveva aperto gli occhi. Sprofondò
senza peso in quel verde che gli pareva sempre più un fiume, il
verde cupo del Rodano dei giorni nuvolosi, si perse nel suo

177
fluire, si mosse con i suoi flutti tra le rocce, le rive, gli anfratti,
superando rapide e correnti sino a scorrere finalmente in lei.
Desiderò annullarsi nell’esplosione della fugace
sensazione di morire, provò il desiderio di confluirle dentro, per
non lasciarla mai. Pensò che non ci sarebbe stato mai più un
momento come questo, forse un momento anche più bello, ma
mai più così. Panta Rei, tutto scorre e nessun uomo può bagnarsi
nello stesso fiume due volte. Perché né l’uomo, né le acque del
fiume sono gli stessi, diceva il greco Eraclito. Qualcosa produce
dentro di noi l’intensità del sentire, alcuni ci riescono in maniera
maggiore di altri ed hanno la facoltà di rinnovarlo di volta in
volta. Ogni nostro istante non è mai uguale all’altro e noi non
siamo gli stessi da un istante all’altro. Per un istante ebbe il
miraggio di un futuro fatto di ore piene di vita, di gioia, di
desiderio e possesso e languore e struggimento e si commosse.
Lei, dal suo mondo così indecifrabile, che per un breve
istante aveva pur condiviso con lui, parve accorgersene e gli
strinse la mano per poi sussurrare je vais me doucher ... Le
rispose vengo anch’io e la seguì nella grande cabina doccia, un
mosaico di piccole tessere colorate di tutte le tonalità
dell’azzurro. Lì giocarono a lavarsi l’un l’altro come due bimbi,
riscoprendo insieme il piacere primordiale di bagnarsi sotto le
cascate, di ancestrali lagune tropicali. Mentre si asciugavano,
vide che Anne aveva gli occhi velati di lacrime, le andò vicino e
abbracciandola le chiese:
«Cosa succede cara, dimmi cosa c’è?»
«Niente Marco, niente, sono felice, tutto qui. Da molto tempo
non mi sentivo così, avevo rinunciato a pensare che potessi
ancora innamorarmi e adesso sono felice di averti.»
Più tardi si ritrovarono in cucina, a guardarsi attraverso la lente
deformante di due flute di champagne, accompagnati da
tramezzini di patè de foie; tutto intorno, un concerto di
Piazzolla riempiva il loro spazio con la lentezza e l’intensità dei

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suoi tanghi. “Verano porteño, Oblivion, Los sueños”, tutti scritti
da un visionario musicista che, pur non amando i ballerini, ha
donato loro una nuova musica sulla quale volare. L’effetto
combinato della stanchezza, dello champagne e dell’emozione,
li portò sulla soglia di una piacevole sonnolenza e lei, scorgendo
il socchiudersi dei suoi occhi, gli disse:
«Dobbiamo coricarci caro, vieni, per domattina ti ho preparato
una sorpresa e non potremo dormire sino a tardi.»
Mentre scostava il lenzuolo e la leggera coperta, sistemando un
cuscino tradizionale sul traversin, il rotolo che i francesi
utilizzano come cuscino, si sentiva appagato e felice, come
poche volte nella sua vita. Quando lei uscì dal bagno
completamente nuda sentì, nonostante il sonno e la stanchezza,
ancora una volta il potere che quella donna aveva sul suo karma,
così incline alla sensualità. Senza parlare si abbracciarono,
assaporando il piacere di completarsi, prima di lasciarsi
scivolare dolcemente nel sonno. Si dissero entrambi bonne nuit,
poi lui le sussurrò nel buio “ti amo”.

Si svegliò di colpo con l’orribile sensazione di una
sciagura incombente e la certezza che, se avesse ricordato
qualcosa di importante, avrebbe potuto evitarla. Poi
d’improvviso, ricordò che pochi minuti prima lei aveva gridato,
un grido acuto e stridulo proveniente da una voce che non
sembrava nemmeno la sua. Esprimeva terrore e dolore infiniti,
senza speranza. Quel grido l’aveva destato, strisciando nella sua
mente resa indifesa dal sonno, contagiandola con l’angoscia che
lo aveva provocato.
Si voltò verso di lei, e vide il suo volto illuminato dal
chiarore dell’enorme luna piena che filtrava dalle persiane
socchiuse. Le labbra erano serrate, il collo inarcato all’indietro.
Qualunque cosa le avesse provocato la necessità di gridare,

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aveva lasciato il segno sulla sua bellezza; nella spettrale luce
lunare, pareva deformata da un dolore profondamente radicato
all’interno della sua anima. Rivolse lo sguardo in alto e la vide,
Artemide, lontana eppur presente, con il suo freddo e maculato
biancore che poteva sollevare immense maree, spostare la crosta
terrestre e far ululare i loup-garou nelle foreste della Bretagna.
È tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla terra fa
impazzire tutti” aveva scritto Shakespeare nel suo Otello.
Sentì l’angoscia abbandonarlo lentamente, sostituita da un
sonno leggero, pieno di sogni brevi e assurdi, di quelli che al
risveglio non lasciano alcuna traccia. Si voltò ancora ansioso
verso Anne, ma vide che ora il suo viso era disteso, il respiro
leggero. La sua mano stringeva il bordo del lenzuolo ed una
gamba nuda usciva dalla coperta, eccitante. Il piede leggermente
arcuato, evocava agilità, ma le piccole dita carnose si
stringevano degradanti una all’altra, a chiedere tenerezza.
Improvviso il mormorio francese della radiosveglia interruppe i
suoi pensieri e si voltò verso di lei mormorandole all’orecchio
“buon giorno amore”. Gli rispose con un bonjour impastato di
sonno e lo abbracciò. Sapeva di donna e di calda traspirazione,
di pelle nuda morbida e passiva, labbra aride nel bacio. Nessuna
traccia dell’urlo notturno. Brontolò ancora qualcosa a riguardo
dell’uscire presto e senza preavviso si catapultò fuori dal letto,
piedi, gambe, natiche e spalle, in rapido movimento verso il
bagno. Lui rassegnato si alzò e scese nel bagno di servizio. Più
tardi, sulla lunga penisola della cucina davanti alla teiera
fumante e spalmando di marmellata di fichi una cialda di riso
soffiato, lei gli disse – incredibilmente – che, nonostante da anni
non dormisse più con un uomo, aveva dormito molto bene. Lui
era il primo da molto tempo ed era felice che fosse anche quello
che amava.
Marco le sorrise, le accarezzò la mano e la guardò negli
occhi; dopo quanto gli aveva detto, ogni parola sull’incubo che

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l’aveva costretta ad urlare. sarebbe stata di troppo. Più tardi
presero le rispettive borse, si avviarono verso la porta e dopo
aver inserito l’antifurto, furono sulle scale; da qui passarono nel
box, lei salì in auto e lo attese mentre lui portava nel cassonetto
il sacco dei rifiuti. La giornata era molto ventosa, già sotto casa
fu investito da forti folate che si infilavano in ogni fessura,
facendo sbattere le persiane solo accostate e le cime degli alberi
in alto. Il tempo stava probabilmente cambiando oppure, come
commentò Anne, c’est une rage du temps, molto frequente in
Provenza.
Attraversarono prima Villeneuve, poi Avignon, ancora
assopite nel lento scorrere di un mattino di sabato e si diressero
verso est con il sole - reso accecante dal vento - negli occhi. Si
voltò verso Anne che guidava concentrata; quel mattino si era
vestita in modo molto sportivo, una camicia fucsia molto
accollata - il colore dell’affermazione e dell’individualità - sopra
jeans vintage molto scoloriti. Infine, un paio di scarpe italiane
dalle lunghe estremità, che confermavano l’adattabilità della
donna alle condizioni anche apparentemente impossibili, come
la guida con quelle calzature. Fece ancora un tentativo per
conoscere dove erano diretti, ma lei, con un sorriso malizioso,
non volle ancora rivelarlo. Ti guasterei la sorpresa, gli rispose.
Lasciarono Avignon e si diressero a sud sulla strada per St-
Remy de-Provence; la campagna scorreva tutt’intorno, calma,
serena, con l’unica presenza dei covoni cilindrici rovesciati,
l’equivalente moderno di quelli alti e irregolari, dipinti da Van
Gogh.
Davanti a loro ad occidente, filari di cipressi conducevano
alle alte colline vicine al cielo, attraverso una terra gialla e
verde, con chiazze di rara lavanda che si alternavano ai filari
ordinati delle viti. Un gioco di colori interrotto solo dal bianco
grigio-azzurro delle basse nuvole sull’orizzonte. Ad est si
vedevano alcuni “villages perchés”, aggrappati alle colline su

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improbabili prospettive, con stradine strette e tortuose e case in
pietra e ardesia. Costeggiarono Rognonas e Chateaurenard,
superarono senza fermarsi St-Remy e proseguirono diritto
dentro il territorio delle Alpilles che contornano Les Baux. Per
un attimo non poté impedirsi di pensare che a St-Remy era nato
Nostradamus, ma scacciò subito quel pensiero.
Il paesaggio era improvvisamente cambiato, le “piccole
Alpi” della bassa valle del Rodano alteravano gradatamente il
verde della campagna con speroni calcarei di roccia bianca
mentre la strada, inerpicandosi sulle colline, rivelava ad ogni
curva squarci di un panorama che lo riportava al passato. Ai
giorni che aveva trascorso in quegli stessi luoghi, mentre
scriveva il suo saggio su Vincent, il visionario pittore olandese.
Aiutato dalle lettere che Vincent scriveva al fratello Theo, aveva
ripercorso gli stessi sentieri, fotografato gli stessi alberi, campi e
colline. Uno zaino con gli album delle riproduzioni, una
borraccia per alleviare la sete ed una baguette al formaggio,
erano stati insieme ad un binocolo, i suoi compagni per giorni e
giorni di escursioni. Alla ricerca di qualcosa che lo portasse
sempre più vicino al pittore.
Quasi fosse telepatica, lei gli chiese proprio della sua
biografia e di quanti quadri avesse potuto vendere il pittore.
«Negli ultimi dieci anni dipinse 850 quadri, dei quali 200 solo
nei due anni provenzali; un lavoro immenso di ricerca sul
colore, sull’uso di toni violenti, diretti e senza ombre, mentre le
strisce di colore s’ingrossavano, si coagulavano per dare anche
movimento e materia alle forme. La chiesa di Auvers-sur-Oise
sembra sul punto di sciogliersi in una tremolante macchia di
bruno, gli ulivi hanno nodosità contorte, niente più è reale. Pare
la visione di un folle.»
«E’ questo che ci hanno sempre fatto credere su di lui non è
forse vero?»
«Si sono dette su di lui un monte di calunnie. Anche

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l’automutilazione dell’orecchio, potrebbe essere falsa, perché
sembra che sia stato Gauguin, con un colpo di sciabola, a
tagliarlo. Ha lottato tutta la vita per le sue idee, arrendendosi
soltanto dopo aver vagato per dieci anni in lungo e in largo, alla
ricerca della fine dell’arcobaleno, dove pensava di trovare la sua
pentola d’oro. Quell’oro che gli era stato sempre negato. In tutta
la vita suo fratello Theo, che pur lavorava in una galleria d’arte,
riuscì a vendere per lui solo il quadro intitolato “vigneto rosso”.
Ed ora i suoi quadri sono quotati in milioni di euro. Del resto, il
mondo non vuole che gli artisti abbiano successo, li vuole
poveri, disperati, alcolizzati, perché ognuno possa meglio
giustificare, con sé stesso, l’aver barattato ogni ispirazione
artistica con la noia di una vita produttiva.»
Improvvisamente, dopo un’ultima curva videro davanti a
loro il villaggio fortificato dei Baux, bianca pietra calcarea a
disegnare scalinate, torrioni, archi e fontane. Il tutto attraversato
da strette viuzze che quel giorno erano piene di pacifici turisti.
Marco sapeva però che lì, in quel piccolo villaggio tranquillo,
Lug aveva creato il primo oppido e Baldassarre aveva costruito
la “ casa del Re “ e la Porta del Mago; niente era quel che
sembrava, tutto poteva essere ben diverso da quanto appariva.
«E’ qui che mi volevi portare? Lo conosco ma è bello ritornarci
con te.»
Lei, senza parlare, continuò a guidare per qualche centinaio di
metri prima di accostare sulla destra e parcheggiare. Si
trovavano davanti ad un’enorme collina, sventrata da squadrate
pareti che si addentravano al suo interno per una lunghezza che,
da dove si trovavano, non era possibile valutare. Il colore
dominante era l’ocra in tutte le sfumature che andavano dal
bianco abbacinante delle pareti esposte al sole, al giallo bruno di
quelle più interne. Le pareti stesse erano perfettamente piane,
come ricavate da uno smisurato laser manovrato da alieni che,
per qualche ragione, ne avevano poi abbandonato il progetto.

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Diverse persone stavano entrando in quella che da lontano
pareva una caverna troglodita e Marco girandosi verso Anne le
chiese dove si trovavano.
«Questa è la Cathedral d’Images una cava di bauxite - il
minerale che ha preso il nome dal paese - abbandonata e
convertita a mostra permanente d’immagini e suoni. La sorpresa
più grande la troverai all’interno, aspettami qui, io vado a
prendere i biglietti d’ingresso così tu saprai solo all’ultimo
momento di cosa si tratta.»
Lui la guardò allontanarsi a rapidi passi verso la biglietteria, le
lunghe gambe da ballerina che sostenevano la perfetta rotondità
delle natiche. Al pensiero che la sera prima l’aveva posseduta,
sentì il flusso interno del suo sangue addensarsi dal desiderio.
Questa donna è stata mia - si disse - sono entrato in lei, quelle
gambe erano intorno a me, mi allacciavano stretto, la sua pelle
era contro la mia, una cosa sola con me.
Anne ritornò con i biglietti, lo prese per mano e lo
accompagnò verso l’ingresso della caverna. Appena entrati
furono investiti dalla musica, il Mozart del Flauto Magico. La
Regina della notte modulava la sua voce di soprano al limite del
possibile, facendola volare in alto sino alla sommità delle pareti
che si coloravano di rosso, blu, verde e ocra, in un continuo
movimento di figure. Marco riconobbe, nelle enormi mele che si
spostavano lungo le pareti e nel panno bianco che si deformava
sugli angoli per riapparire sulla parete seguente, un quadro di
Cezanne, ma non fece in tempo a riconoscere il titolo. Lui ed
Anne si trovarono immersi dentro un bosco di betulle che
sfilava adattandosi alla geometria delle pareti su cui era
proiettato, dividendosi in due, tre, quattro parti. Ancora alberi,
pioppi, pini e frutteti, casolari e villotte della borghesia, le stesse
piccole montagne della Provenza, ma con tonalità rassicuranti.
L’orizzonte era fermo, gli ulivi consueti. La musica stava ora
cambiando, gli impossibili acuti della Regina della notte si

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diluivano nella struggente dolcezza dei violini di Eleonor Rigby,
mentre la voce di Paul cantava la solitudine senza speranza che
l’estro poetico dei Beatles aveva inserito in una ballata dal
sapore barocco, rendendola indimenticabile. La penombra della
caverna incupiva un poco il tono dei colori, ma, di tanto in
tanto, l’intensità della luce che stava dietro alla proiezione,
variava di colpo ed esplodevano il giallo di una mela, il
biancore di un vaso che la conteneva, l’interno di una casa
borghese.
«Grazie Anne, per questo regalo, questo posto è meraviglioso.»
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto. Io ci vengo ogni anno perché il
tema delle proiezioni cambia sempre. Ho visto Ritratto della
Cina, Da Bosch a Bruegel e poi … ah si ricordo, Alessandria
d’Egitto: il prossimo anno, pensa, ci sarà la tua Venezia, cosa ne
dici? Ci verremo insieme?»
«Certamente, immagino cosa possano essere le vedute di
Venezia su queste pareti. Non ho mai visto niente di simile
prima d’ora, qui sei dentro al quadro, dentro all’artista stesso.»
Intanto, sulle pareti si succedevano ritratti e nature morte, le
frutta assumevano proporzioni gigantesche e i diciotto colori
della tavolozza di Cezanne - tre verdi, tre blu, sei rossi, cinque
gialli ed un nero - si dispiegavano per rappresentare, come lui
diceva, che “è il colore che rende vive le cose”. Anche la musica
era cambiata, le dolcissime note della “Cavatina” di Myers
trasportavano, dentro ai paesaggi provenzali, altri paesaggi
dell’animo. Per Marco, al cielo limpido dei quadri si
sovrapponeva l’immagine di un giovane ed ancora motivato De
Niro, piegato sui talloni ed appoggiato alle pareti di una stanza
d’albergo. Teso, quasi come se fosse incerto tra l’ascolto della
stessa cavatina della colonna sonora, oppure di echi non ancora
abbastanza lontani, degli orrori di un Vietnam da cui proveniva.
“Un colpo solo Nick, ricordi? Un colpo solo!”
Si addentrarono ancora un poco, tra quelle pareti divenute

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immensi schermi onirici e Marco le chiese se sapeva che gli
organizzatori avessero in mente una proiezione su Van Gogh:
immergersi nei suoi vividi colori, avrebbe avuto un effetto
dirompente su chiunque.
«Non so caro, ma devi considerare che Cezanne era di Aix-en-
Provence mentre Vincent era pur sempre un hollandais.»
«Un olandese che ha arricchito, da morto, molte città della
Provenza, a cominciare da Arles; per non parlare di St-Remy e
dello stesso Baux! Neanche ad Amsterdam ho visto vendere un
così grande numero di poster dei suoi quadri.»
Lentamente e a malincuore uscirono dalla cava, altri
visitatori stavano entrando nonostante fosse già l’una: fuori
dovettero chiudere gli occhi per difendersi dalla luce
abbacinante, perché entrambi avevano lasciato gli occhiali da
sole in auto. Li recuperarono e si diressero verso il villaggio,
abbarbicato ad un grande sperone roccioso: sulla sommità
svettava il suo torrione, tutto sommato ancora in buono stato
considerando che, come disse Anne, usciva dalla Moyenne Âge.
Si inerpicarono tra ripide scalinate e tortuose viuzze,
immergendosi in un insieme di colori e profumi. Le case ben
disegnate avevano piccoli giardini con papaveri, ginestre,
corbezzoli e acacie; gli orti odoravano di timo, rosmarino e
lavanda. Lungo le strade, piccoli banchi vocianti e chiassosi di
allegria provenzale, offrivano i Santon, i pastori da presepio in
terracotta, la lavanda secca e qualunque cosa l’uomo abbia
potuto realizzare con dura fatica, dal legno di ulivo.
Passeggiando nelle intricate stradine, erano investiti dagli
odori che aleggiavano intorno ai tanti piccoli ristoranti del
villaggio; predominavano il vino sfumato del coq au vin e
l’aglio dell’aïoli, i piatti tipici della regione. Improvvisamente si
accorsero di essere affamati e si misero alla ricerca di un
ristorante. Lei ne conosceva uno con il terrazzo in un’ottima
posizione, ma era molto scettica sulla possibilità di trovare

186
posto all’aperto o addirittura all’interno, visto che era domenica.
Ancora una volta la fortuna degli innamorati, e la mancia che
Marco diede ad un cameriere, fecero il miracolo di trovare un
tavolo all’aperto e dinnanzi al panorama stupendo delle Alpilles.
La sfilata di rocce bianche, inframmezzate da tutte le
tonalità del sempreverde d’inizio autunno, degradava fino a
morire nella vasta pianura di fronte. Come le quinte di uno
scenario preistorico, i due cordoni di piccole montagne ad
oriente e ad occidente, correvano sino alla Camargue e alla
Crau, senza incontrarsi mai. Una delle più belle zone della
Francia, si dispiegava con i suoi mandorli e ulivi e cipressi e
pini marittimi, fin dove arrivava lo sguardo. Si potevano vedere
chiaramente gli squadrati appezzamenti delle vigne e i Mas,
trasformati in piccoli alberghi di lusso. Emozionati da tanta
bellezza, ristettero un poco ad ammirarla, mentre il cameriere
portava loro due calici di un bianco secco e profumato della
Côte du Rhône. Lasciandosi prendere dal freddo piacere
ambrato di quel vino, Marco la guardò. Era stupenda. La tersa
luminosità del sole di settembre pareva ricoprire di pulviscolo
dorato i suoi capelli ed i profondi, espressivi occhi che
l’avevano fatto innamorare, in quel momento erano più che mai
violetti. Lei ricambiò il suo sguardo e gli sorrise, quasi avesse
letto nei suoi pensieri, poi aprì lentamente i due bottoni del
colletto della camicia.
Illuminato in pieno dal sole e sfolgorante nel lento e
illusorio ruotare delle sue tre spirali, apparve sul suo petto
abbronzato il segno del Triskell. Senza alcun preavviso, quella
vista gli provocò un sensibile cambiamento di percezione, l’aria
intorno gli parve diversa, come se avesse aumentato di densità;
persino il sole sul suo braccio scoperto pareva ora meno caldo.
Quel simbolo dal quale non riusciva a staccarsi, era apparso
come un promemoria su quanto aveva lasciato in sospeso a
Torino, sicuro di poterlo chiarire con lei in Provenza. Nel

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momento stesso in cui pensò questo, Anne portò velocemente la
mano a coprirlo e gli chiese se la sorpresa era stata all’altezza
delle sue aspettative. Sforzandosi di non dar peso al suo gesto le
rispose:
«Certo cara, ho gli occhi così pieni della bellezza di questo
posto che la mia mente fa persino un poco fatica a ritornare
nella normalità. Ci ero già stato da solo per lavoro, ma riviverli
con te è completamente diverso. Sarà perché l’amore affina tutti
i sensi, ma tutto mi sembra differente, pure i colori sono più
vivi.»
Continuarono a conversare sul panorama, mentre gustavano
entrambi un misto di colorati e profumati piatti di peperoni,
zucchini e melanzane, ripieni di riso nero ed erbe provenzali.
Ordinarono poi due petits noirs, come chiamano il caffè in
quella zona. Lei volle sapere se gli fosse piaciuta la visita alla
Cathedral des Images, e quando aveva iniziato anche lui a
dipingere.
«Ho avuto un amico come maestro di pittura, si chiamava
Amerigo ed era un artista molto inventivo, pieno di talento;
davanti ad una sua opera, si veniva presi al primo sguardo.
Purtroppo, anche lui non c’è più, se l’è portato via un infarto
ancora molto giovane, e prima che potesse esprimere in pieno
quanto aveva da dire con la sua pittura. Ed è questo che mi fa
più male quando penso a lui; sapere che le persone che potevano
ancora darci molto, non abbiano più la possibilità di farlo.»
Lo guardò in silenzio per qualche istante, reclinando il capo
verso il sole e lui poté cogliere un fremito delle palpebre
socchiuse. I capelli erano così brillanti da proiettare riflessi
dorati sulla mano che le sosteneva il capo.
«E’ la vita caro, la vita che avanza in una sola direzione» disse
lentamente. Poi con voce più roca «non si può tornare indietro,
non ti viene mai data un’altra chance.»
Come se fosse stato colpito da una paralisi, il suo viso si

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impietrì con lo sguardo fisso verso l’orizzonte, su cui il cielo
terso e azzurro si espandeva. La pelle tesa sugli zigomi si era
sbiancata, le labbra contratte, sembrava star male e Marco
preoccupato le chiese:
«Che c’è Anne, ti senti bene?»
Lei non rispose subito. Riportò la mano a toccare il medaglione
sul petto - che si alzava e si abbassava vistosamente in cerca
d’aria - e distolse lentamente, come a fatica, gli occhi da
qualche luogo lontano, in cui la mente a tradimento l’aveva
portata. Voltò lo sguardo verso di lui e Marco ebbe paura,
perché non aveva espressione; era remoto, le pupille dilatate da
qualcosa di terribile, che aveva visto dentro di sé. Solo molto
gradualmente e attraverso un’impressionante trasformazione, i
lineamenti del suo viso si ricomposero, per ridargli la sua Anne.
La bocca riprese colore, le guance si distesero e lo sguardo
tornò alla sua lucentezza, ad un barlume di riconoscimento. Lei
lo guardò stupita dall’espressione d’ansia che lui manifestava
poi, come ricordandosi solo in quel momento della sua
domanda, gli rispose:
«Niente Marco, niente ...»
Per un istante, fu tentato di rigettare questa risposta, che
contrastava fortemente con quanto lui aveva appena letto sul suo
viso; voleva chiederle, voleva indagare ancora su quel buio
improvviso in cui lei sembrava essere caduta. Vedendola però
alzarsi stancamente per avviarsi alla toilette, pensò di rimandare
a più tardi le sue domande e chiamò il cameriere per il conto.
Uscendo all’esterno, il sole era ancora molto alto.
Ridiscesero le scalinate del villaggio in silenzio, lui le teneva il
braccio intorno alle spalle, di tanto intanto la guardava e lei
rispondeva con un sorriso. In auto posò il capo all’indietro sul
sedile e lasciò che lui guidasse sino a Salon-de-Provence, dove
entrarono alle quattro del pomeriggio. Dopo aver inutilmente
cercato un parcheggio nelle vie d’accesso al centro, trovarono

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un posto in un grande ed alberato boulevard. Di fronte al
parcheggio un’ampia vetrina mostrava seducenti tentazioni al
cioccolato che, attraverso la porta aperta del negozio,
spandevano il fragrante profumo di cacao, spezie e miele della
Camargue. Sempre in silenzio entrarono nella città vecchia, fatta
di stretti e tortuosi vicoli pieni di botteghe d’artigianato e
gallerie d’arte. In una di queste Marco comprò due splendide
fotografie di prati fioriti di lavanda, cieli intensamente azzurri e
verdissime garrigues. Ammirando il contrasto tra il viola-
azzurro ed il verde, si chiesero per quale ragione Vincent non
era stato preso dal colore della lavanda. Troppo banale per il suo
temperamento?
In Salon, al di là dall’atmosfera rilassata che hanno sempre
le piccole cittadine votate al turismo d’elite, non restava molto
che potesse ricordare il suo tempo. A parte le innumerevoli
riproduzioni dei suoi quadri, esposte persino nelle gallerie
d’arte. Era difficile immaginarlo muoversi tra le sue viuzze,
cercando di vendere qualcuno dei centocinquanta quadri che in
quella zona aveva dipinto. Chissà se oggi gli avrebbero rifiutato
l’originale degli stessi Iris, di cui esponevano le riproduzioni
nelle loro ricche vetrine piene di postmoderno e installazioni?
Più tardi si sedettero in un caffè molto rilassante, sulla
Place Crousillat: aveva sedie e tavoli in vimini e uno strano
marchingegno che, facendo scorrere acqua sulla tenda che
copriva il dehor, lo rinfrescava. Marco le disse:
«Mi piace questo posto, ha l’aria fané di una Francia
dimenticata. Guarda il cameriere, se non è ottuagenario, poco ci
manca. Sembra uscito direttamente da un film di René Claire e
vedendolo arrancare verso quel tavolo più lontano, potresti
pensare che si stia dirigendo verso il cenno pieno di fascino di
una bionda e adorabile Michele Morgan.»
È vero hai ragione, qui sono venuta molte volte, ma non l’ho
mai visto come lo rappresenti tu. Sarà perché scrivi, che riesci a

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rendere tutto più colorito. Ti piaceva Michele Morgan?»
«Moltissimo, mi piacevano il suo sorriso dolce e misterioso ed i
suoi occhi, intensamente azzurri. La ricordo con Marcello
Mastroianni; quei due s’integravano perfettamente, avevano la
stessa dolce malinconia che derivava dal sognare quello che la
vita potrebbe essere e non è. Lei per me allora aveva il fascino
di quelle donne-attrici che paiono un prestito temporaneo fatto
dagli dèi, a noi mortali, che ti restano nel cuore per sempre.»
Anne sorrise a questi suoi ricordi e vedendo arrivare il
cameriere, gli consigliò di ordinare due caffè italiani, perché
quel bar era famoso per le miscele italiane che utilizzava. In
effetti, era buono.
Guardandosi attorno, pareva quasi impossibile che in quel
grazioso villaggio, in cui la vita sembrava scorrere quietamente,
fosse vissuto e morto Nostradamus. Che quello fosse il luogo in
cui aveva concepito le sue “Centurie e Profezie”. Come aveva
potuto, se non con l’aiuto delle Grotte Alchemiche, prevedere
l’avvento di Napoleone e di Hitler, descrivere nei minimi
particolari la metropolitana londinese divenuta rifugio antiaereo
e passo per passo, tutte le conquiste naziste sino alla caduta,
dovuta all’entrata in guerra degli Stati Uniti?
Intanto, lei gli stava dicendo che ora sarebbero andati ad
Elapse, dove si trovava la tomba di famiglia.
«Vedrai Marco, è un piccolo paesino arroccato su un bastione
roccioso. Io sono nata a St-Rémy, ma ho abitato là con mio
marito per venti anni e lì … lì è nata mia figlia Amelie, che ora
vive a Parigi ...».
Un’altra, inspiegabile incertezza, un altro estraniarsi da lui e da
quello che li circondava, reso palese dall’espressione assente del
volto, che contrastava enormemente con l’abituale vivacità che
gliel’aveva fatta amare. Dopo aver pagato il conto, si avviarono
verso il parcheggio e lui ricordò che non molto lontano si
trovava la fontana dedicata a Nostadamus. Sentì l’irresistibile

191
bisogno di rendere omaggio a quell’uomo così misterioso e
chiese ad Anne se potessero fare una piccola deviazione per
vederla. Lei lo guardò stupita, come se le avesse chiesto
qualcosa di assurdo:
«Perché mi domandi questo? Ti avevo già detto che tutto quanto
riguarda quell’uomo, non mi piace. Perché vuoi vedere quella
fontana che, tra l’altro, non è neppure bella?»
«Non mi pare così strano fermarsi un attimo… è soltanto una
curiosità.»
Ci risiamo – pensò lui - ogni qualvolta decido di mettere da
parte i miei sospetti, ecco che lei diceva o faceva qualcosa che
rendeva tutto più difficile. Con un piccolo gesto della mano
Anne gli indicò di proseguire per quella stradina, mentre lei
telefonava a sua figlia; l’avrebbe seguito subito dopo.
Ad un centinaio di metri di distanza e al centro di una
minuscola piazza, si trovava la piccola vasca semicircolare che
faceva da cornice al busto di Nostradamus. L’espressione del
volto era quieta, serena, come di chi ha visto nelle
imperscrutabili correnti del tempo, senza esserne scalfito. Gli
occhi non avevano la vacua fissità dei busti marmorei, ma
parevano osservarlo penetranti, come per trasmettergli un muto
messaggio. Si voltò turbato per cercare Anne, ma vide che lei
parlando al telefono girava le spalle a lui ed alla fontana,
allontanandosi sempre di più. Nessuna speranza di attirare la sua
attenzione.
Guardò ancora una volta il veggente; il bizzarro cappello
dell’epoca non riusciva minimamente a sminuire l’intensità
della sua espressione, che ora gli sembrava ancor più accesa. Il
bordo un poco limaccioso e le scure venature marmoree della
vasca suggerivano profondi e inaccessibili anfratti dai quali
fluivano le acque che l’alimentavano. L’unico suono intorno a
lui era il rumore del getto d’acqua nella fontana, un fluire
continuo che a lui parve simboleggiare il trascorrere

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inarrestabile del tempo. Osservò il continuo variare dei filetti
liquidi che alla luce del sole acquistavano riflessi traslucidi e
sentì la forza di quell’elemento che, dopo aver percorso vie
sotterranee e misteriose, risaliva alla luce per adempiere ad una
funzione solo apparentemente decorativa. La Provenza era terra
di acque e di sorgenti che provenivano da recessi antichi; al
disotto della superficie, erano disseminati laghi e caverne che
riproducevano il disegno dei corsi d’acqua in superficie.
Nell’allontanarsi dalla fontana si chiese il perché qualcuno
avesse deciso di porre il busto di Nostradamus, sopra un getto
d’acqua e sentì che la risposta, seppur semplice, quasi banale,
poteva essere anche molto oscura. Raggiunse Anne che, dopo
aver finito la sua telefonata, gli disse un poco bruscamente e
guardando l’orologio, che dovevano affrettarsi per non arrivare
tardi. Lasciarono quindi Salon e scesero verso sud e verso
oriente; si trovavano ai piedi delle Alpilles e stavano
attraversando una serie ininterrotta di boschetti di ulivi,
mandorli, ciliegi e ancora vigne. Solo con un grosso sforzo, si
poteva rinunciare a fermarsi per la notte in uno dei romantici
Mas che incontravano sulla strada. Superarono Mouriès e
Mussane, due grandi centri di produzione del famoso olio
d’oliva di Baux, percorsero la stretta strada piena di biciclette
che costeggiava la garrigue e furono in vista del plateau di
roccia calcarea bianca che sosteneva Elapse.
Antiche case che sembravano scolpite nella roccia, si
stringevano una all’altra contro il picco roccioso sulla cui cima
stava un mastio medievale. Il paese sembrava aver scelto di
fermare il tempo, per continuare a vivere sotto l’influsso di
un’epoca senza automobili e senza fretta. Una piazza circondata
da platani, un lavatoio ed una fontana dalla quale pareva che si
fosse appena allontanato un gruppo di dragoni napoleonici,
dopo aver abbeverato i cavalli. Superarono una serie di caffè,
piccole oasi di pace nella penombra e girarono intorno al

193
villaggio, per dirigersi infine verso una piccola cappella
romanica, che segnava l’ingresso al cimitero. Parcheggiarono
all’ombra di un platano e lei, senza aspettare che Marco le
aprisse la portiera, scese dall’auto per dirigersi verso un
cancello di ferro battuto. Al suo accenno a seguirla lo fermò:
«Aspettami qui se non ti spiace, torno subito.»
Senza dire altro, si voltò ed entrò a passo spedito dentro il
piccolo cimitero, dirigendosi verso uno dei viali che si aprivano
sulla destra. Colpito dalla secchezza con cui gli aveva parlato,
mortificato quasi dal suo tono di voce, si appoggiò all’auto
mentre lei spariva dietro una fila di lapidi. A quell’ora il piccolo
cimitero era deserto, l’unica presenza era data dal custode che a
tratti, appariva attraverso l’apertura del cancello. Scrostato dalla
ruggine, assurdamente elaborato nel disegno, questo si
aggrappava ad un muretto di cinta che mostrava i segni del
tempo, nei tanti punti in cui l’intonaco si era staccato, lasciando
intravedere vecchi mattoni corrosi. Tutto intorno la vista era
incantevole, mentre il sole, quasi al tramonto, colorava di rame
le poche nuvole basse ad occidente.
Perché non aveva voluto che lui la seguisse alla tomba di
famiglia? Riservatezza, forse pudore? Da quel che lui sapeva, i
suoi lutti erano lontani nel tempo, padre e madre ancora in vita.
Dunque? E quella voce, completamente diversa da quella con
cui abitualmente gli parlava. Sembrava volesse difendere a tutti
i costi quello spazio da una sua intrusione; non ammetteva
repliche. Stava ancora cercando una risposta a queste domande,
quando lei uscì dal cancello, camminando con uno strano passo
esitante, incerto; era pallida, gli occhi arrossati e gonfi, le labbra
tirate cancellavano del tutto le due fossette ai lati della bocca.
Lo guardò diritto negli occhi, quasi a sfidarlo a farle
domande che non sarebbero state per niente bene accette. Lui
senza parlare si accostò, per cingerle le spalle ed abbracciarla
teneramente, ma nel farlo sentì il suo corpo rigido e teso, come

194
se non gradisse quel contatto. Si staccò per guardarla ancora, i
suoi occhi erano troppo accesi e nello stesso tempo lontani; nel
suo stare ferma si avvertiva un’inquietudine, un eccesso di
energia che pareva sforzarsi di tenere a freno. Le aprì la portiera
per farla salire, salì a sua volta e, cercando di eliminare dalla sua
domanda ogni traccia di perplessità, le chiese:
«Cosa pensavi di fare tesoro? Torniamo a Villeneuve, oppure ci
fermiamo per strada a cena?»
Lei non rispose subito, sembrava ancora lottare con i fantasmi
che aveva dentro o con quelli che aveva trovato nel piccolo
cimitero di campagna; lui si allontanò in fretta, voleva portarla
lontano dall’influsso che quel luogo pareva avere su di lei.
Tornò verso il paese e fu dentro le prime case, guidando piano
perché non sapeva se avrebbe dovuto, più tardi, invertire la
direzione. Ormai erano in pieno tramonto, le luci nelle ville che
si affacciavano sulla strada erano già accese, anche se i loro
muri di cinta, sopra il cornicione erano ancora rossi di sole.
Un tramonto dolcissimo che sapeva un poco d’estate
lontana; le nuvole si erano diradate e la poca luce allungava a
dismisura le ombre degli alberi. Marco aprì il finestrino e
respirò l’odore già un poco umido della terra lambita dalla
prima bruma di settembre. Improvvisa, alla sua destra, la sua
voce gli giunse come da lontano:
«Questo sole al tramonto è splendido, non è vero?»
Come se nulla fosse stato. Annuendo la guardò; sembrava essere
di nuovo con lui, le guance avevano ripreso colore ed alla luce
del tramonto i suoi occhi erano più violetti che mai. Le ripeté la
domanda sulla loro destinazione e lei, con la sua voce di sempre
gli rispose:
«Mi piacerebbe farti conoscere un ristorante qui vicino, La
Ferme d’Elapse, hanno una cucina provenzale molto raffinata.
Vai sempre avanti diritto poi quando ti dirò, girerai a destra.»
Continuò a guidare seguendo le sue indicazioni, mentre ancora

195
si arrovellava sulla causa di quegli strani comportamenti.
Evidentemente in quella particolare zona c’era qualcosa che la
turbava, ma era stata lei stessa a portarcelo dunque ... Tutto
questo discordava dalla prima impressione che aveva avuto di
lei, sembrava una donna così sicura di sé. Si chiese se dovesse
parlarne a tavola con calma, ma nello stesso istante capì che, se
non aveva risposto alle sue domande, significava che non
voleva dare spiegazioni. Meglio attendere un altro momento,
forse lei stessa avrebbe deciso di spiegargli il perché di un
malessere, che arrivava al punto di stravolgerla in quel modo.
Il piccolo ristorante in cui si fermarono era grazioso come
le case che lo contornavano; le sue luci discrete davano risalto
alla pietra con cui era costruita la cinta, interrotta da un piccolo
steccato in legno. Racchiudeva un minuscolo stagno in cui
galleggiavano bianchi gigli d’acqua e larghe foglie di loto. Il
giardino che circondava lo stagno era ben curato e giungeva
sino all’ingresso del ristorante, arredato secondo lo stile tipico
della Provenza. Piattiere e madie in bruno noce massiccio, tavoli
coperti dai vivaci colori delle tovaglie indiennes, vecchi arnesi
da lavoro alle pareti. Venne loro incontro la patronne, una donna
bionda sulla quarantina, vestita di un abito blu a piccoli fiori,
molto elegante.
Sull’ampio petto portava una grossa spilla che, pur nella
luce soffusa della sala, colpiva per la sua fattura; uno smalto blu
cobalto, nel quale erano immerse tre spirali fiammeggianti in
oro.
Tra tutti i ristoranti che si trovavano nella zona, erano
venuti proprio in questo, diretto da una donna che portava il
Triskell; troppo semplice per essere casuale. Dopo aver rivolto
ad Anne un leggero cenno di riconoscimento, chiese se
volessero stare all’aperto oppure nella sala. Nonostante la
leggera brezza che si era alzata nel frattempo, scelsero di stare
fuori e furono accompagnati ad un piccolo tavolo a due, sotto

196
un’ampia pergola di glicine. Preferì sederle accanto anziché di
fronte, per averla vicino e per non farle sentire il peso di uno
sguardo interrogativo. C’era ancora silenzio tra loro. La festosa
allegria che li aveva accompagnati tutto il giorno, svanita di
fronte a quel cancello di ferro battuto. In attesa del menu, le
disse che il villaggio gli era piaciuto molto, così semi
addormentato ed apparentemente incurante del turismo che
invadeva la Provenza.
«Questo è un villaggio tranquillo, ma non ti far ingannare.
Anche qui si sono vissuti momenti terribili. Vi si era rifugiato un
maquis molto famoso, Jean Moulin, dopo essere stato tradito da
un suo compagno partigiano; fu preso dai tedeschi per essere
poi torturato ed ucciso dal famigerato Klaus Barbie.»
«Non era l’ufficiale delle SS, che cercava disperatamente Simon
Wiesenthal?»
«Si, mio padre mi disse che a Lione aveva creato, nell’albergo
più lussuoso della città, una vera e propria centrale di tortura,
perché era convinto che tutti sapessero qualcosa sulla resistenza;
strappando in quel modo tante piccole verità e unendole una
all’altra, avrebbe ottenuto grandi risultati. Per questo faceva
retate anche tra la popolazione. Gli abitanti di Lione erano
terrorizzati e nessuno aveva più il coraggio di camminare per la
strada; si è persino pensato che al di là della resistenza, stesse
cercando di scoprire qualcosa che aveva a che fare con
l’esoterismo e le antiche credenze sulla Provenza. Era stato per
anni nelle SS agli ordini di Himmler, prima di venire a Lione.»
«Io mi sono sempre chiesto come la gente potesse vivere per
anni nel terrore senza impazzire; sapere che in ogni momento
qualcosa di terribile può essere in agguato dietro la porta di casa
o all’angolo di una via. Che incubo deve essere stato!»
«Qualcosa di terribile può essere sempre in agguato, fuori o
dentro di noi, e non so quale sia la cosa peggiore… »
Una pausa di sospensione ed ancora quello sguardo, che

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riusciva improvvisamente a svuotarsi, come se lei avesse la
straordinaria capacità di volgerlo all’interno di sé stessa. Per un
brevissimo istante, lui vide nei suoi occhi qualcosa che non
avrebbe voluto vedere e che più tardi attribuì ad un ingannevole
riflesso. Si era aperto un mondo alieno, freddo e desolato come
la superfice del lato oscuro della luna; dove non c’è né passato,
né futuro, solo disperazione. In quel momento di estrema
lucidità, Marco pensò che chi non abbia mai visto il viso della
donna che ama, trasformarsi completamente in un altro, non può
dire di conoscerla.
Questa volta fu l’arrivo della patronne a distoglierla da
quello stato; nel prendere dalle sue mani la grande carta goffrata
e ripiegata del menu, emise un lungo sospiro, come se fino a
quel momento fosse stata in apnea. Accorgendosi di questo, la
signora ristette per un attimo a guardarla fissamente, prima di
allontanarsi. Il sopracciglio alzato esprimeva più
disapprovazione che sorpresa, e lui ebbe la netta impressione
che la donna conoscesse Anne molto bene, e sorvegliasse ogni
suo anomalo comportamento. Per distrarla le chiese di scegliere
per tutti e due, dato che era pratica del ristorante e lei ordinò due
croustillants per antipasto e due brochettes di St-Jaques come
piatto principale. Stranamente, chiese une demi bouteille di
rosato di Baux solo per lui perché, gli disse, pensava di guidare
durante il ritorno a Villeneuve.
«Come va Anne, tutto bene?»
Lei, ancora impenetrabile ad ogni domanda, in risposta diede
solo un leggero assenso con il capo. Sopra di loro, nello spazio
lasciato vuoto dai viticci del glicine, la luna si stava alzando, un
luminoso disco d’argento nell’immensità punteggiata di luci del
cielo. Le piccole foglie si muovevano, agitate da una brezza che
manteneva ancora un ricordo dell’estate, contribuendo a rendere
indimenticabile quella notte di settembre in Provenza.
Intuendo il suo stato d’animo, Anne aveva disteso le labbra

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in un leggero sorriso e lo guardava, forse grata per non aver
insistito, per non aver voluto sapere … era impressionante
vedere quanto veloci fossero i suoi mutamenti. Intanto erano
arrivati i piatti, larghi, filettati d’oro e blu intenso. Tutto
sembrava perfetto e lui, scacciando le ombre che avevano
pesato sui suoi pensieri poco prima, si voltò verso di lei e la
baciò sussurrandole poi all’orecchio che l’amava.
«Anch’io Marco ti amo, andiamo a casa, ho voglia di tenerti
stretto a me. Quando sono tra le tue braccia dimentico tutto.»
Che cosa doveva dimenticare? Che cosa del suo passato o del
suo presente, poteva avere su di lei un tale potere? Non appena
riusciva, impiegando tutte le sue forze, a non pensarci, ecco che
lei diceva qualcosa di misterioso, oppure si allontanava,
abbandonandolo al tormento di tutti i suoi dubbi irrisolti.
Lasciarono Elapse, e tutto ciò che per lei significava, per
riprendere la stessa strada che avevano percorso al mattino. Fu
un viaggio molto tranquillo e dopo la doccia si ritrovarono
abbracciati nel grande letto, bisbigliando tenere parole d’amore
paghi di sentirsi vicini e innamorati. Prima di affondare nel
sonno, quando il respiro di lei si era già fatto più regolare, pensò
ancora a quel cimitero nella campagna, a quel cancello
arrugginito che nel buio della notte forse stava cigolando
sinistramente. Come quello che si aggrappava alle mura piene di
crepe, della casa degli Usher.

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Il responsabile del ramo italiano della confraternita chiuse
la comunicazione sul cellulare di ultima generazione, con cui
aveva parlato sino a quel momento. L’uomo che era stato
incaricato di indagare sulla sospetta presenza del Maledetto in
un appartamento di Piazza Vittorio, aveva fatto il suo rapporto.
L’alloggio risultava vuoto e nessuno nella casa conosceva
l’inquilino che l’aveva occupato. Unica stranezza, il fatto che la
sera prima era uscito dallo stesso stabile lo scrittore che avevano
avuto l’incarico di seguire a causa delle sue ricerche sulle Grotte
Alchemiche. Nel vederlo uscire dal palazzo in cui si sospettava
si nascondesse il Maledetto, i due che lo sorvegliavano avevano
preso, senza essere autorizzati, la decisione di impaurirlo per
fargli cessare ogni ricerca. Purtroppo, la sua reazione era stata
imprevedibilmente decisa e nonostante il sicario fosse ben
addestrato, aveva dovuto fuggire. Pareva in ogni modo che
l’azione fosse servita, perché lo scrittore due giorni dopo era
praticamente fuggito, partendo in auto per la Francia.
Ora toccava a lui informare il Sommo Eletto del fatto che,
ancora una volta e all’ultimo momento, il Maledetto era
sfuggito loro di mano. Lo già aveva fatto innumerevoli volte, in
ogni luogo dell’Europa in cui aveva deciso di “rinnovarsi”,
come ipocritamente diceva lui. Tutto questo a loro era stato
precluso e non restava che la via più lunga e faticosa, la
prosecuzione della Grande Opera. Oppure, continuando a
investire tempo e denaro, quell’altro progetto, quello di cui era
unico responsabile il Sommo Eletto. Il Progetto Staminali, che
aveva il codice di massima segretezza.
Riscuotendosi da quei pensieri capì che non poteva
rimandare oltre la telefonata; doveva chiamarlo subito per
comunicargli la loro sconfitta. Immaginando la reazione all’altro
capo del filo, ebbe paura; pareva assurdo che lui, uno dei capi
della setta, potesse temere un suo confratello, ma era così e non

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poteva farci niente. Aveva paura perché una cosa aveva
imparato su di lui in tutti quegli anni. Rappresentava la più
verosimile incarnazione del Male. Quando si trovava di fronte a
lui, oppure anche soltanto al telefono, sentiva le sue emanazioni
propagarsi tutto intorno, come se si trovasse davanti ad un
demone proveniente “dall’altra sponda”. Qualcosa che usciva
dalle tenebre e si serviva delle debolezze umane per ottenere ciò
che voleva. Qualcosa generato da un nodo tra linee temporali.
Purtroppo, lui era l’unico tra gli Eletti, a percepirlo in quel
modo; gli altri erano così pieni di utilitarismo, così bramosi di
potere, da non riconoscere il Male nemmeno quando se lo
trovavano davanti. E quell’uomo, ammesso che si potesse
ancora definirlo così, era davvero malvagio.
Per un attimo il responsabile pensò a Lug, ai suoi
insegnamenti e a ciò che la confraternita era divenuta nel tempo,
e si sentì molto triste. Davanti a lui, la grande vetrata del suo
studio lasciava intravedere, al di là del fiume, la città che aveva
sempre amato, quella che Lug aveva scelto come sede delle sue
Grotte Alchemiche. Con i suoi mille segreti, con i suoi simboli
esoterici, con i suoi santi e i suoi peccatori. Passò la mano
sull’anello che riportava il segno del Triskell - come per trarre
da quel gesto la forza per chiamare il capo supremo - e compose
il numero segreto di Avignone. Sempre più spesso negli ultimi
tempi il suo compito gli sembrava insostenibile, ma c’era un
giuramento a cui era legato, un giuramento che non si poteva
infrangere.

Ansimante e sudato, si svegliò di colpo. Il sogno era stato


particolarmente vivido e reale, sentiva ancora nel petto e nello

201
stomaco, l’atroce sensazione di cadere e, mentre i suoi occhi
stentavano a distinguere qualcosa nel buio della stanza, ebbe la
certezza di essere caduto davvero, di essere già morto. Lo salvò
il respiro di lei che a tratti diveniva una flebile cantilena, come
se stesse cantando oppure lamentandosi; si alzava e si abbassava
di tono per poi trasformarsi in un borbottio incomprensibile.
Anche lei stava sognando e si augurò che i suoi sogni fossero
migliori di quello da cui era appena uscito. Si alzò
lentissimamente per non svegliarla, e andò in bagno;
dall’orologio della cucina vide che erano le sei. Bevve
avidamente un bicchiere d’acqua e poi un altro, chiedendosi
cosa potesse provocargli tutta quell’arsura e cosa poteva
significare quell’incubo, così dettagliato nei particolari.
I sogni, aveva letto tanto tempo prima, sono finestre
notturne attraverso le quali l’inconscio trasmette informazioni
che nello stato di veglia non si riescono a percepire. Sognare di
cadere o di volare, un tipo di sogno molto comune, sarebbe la
compensazione di qualche difetto nel modo di vivere o
considerare la vita. Oppure secondo altri, anticiperebbe un
importante evento situato nel futuro. Sul modo di vivere la vita
ogni religioso, guru o filosofo aveva i suoi ammaestramenti, ma
in definitiva, pensò, non facciamo che seguire la nostra indole,
che è la sola vera forma di destino dell’uomo, come aveva
scritto Eraclito.
Attraverso uno spiraglio della serranda entrava già una
sottile, ma intensa lama di luce. Azionò il telecomando per
sollevarla ancora e vide che stava nascendo un’altra splendida
giornata di sole. Il blu intenso della notte si stava stemperando
nel grigio-azzurro dell’alba, le stelle parevano spegnersi una ad
una, man mano che la luce del giorno le raggiungeva. Tornò a
letto e si riaddormentò, per risvegliarsi insieme a lei molto più
tardi; il suo orologio biologico o era in riparazione o scioperava,
perché Anne, prima di alzarsi e mostrare la sua nudità velata

202
dalla penombra, gli mormorò all’orecchio che erano le nove e
mezza. Nemmeno questa notizia riuscì a smuoverlo dal letto ed
attese che lei tornasse dal bagno. I capelli arruffati, la bocca
aperta nel sorriso che lui amava tanto, gli venne incontro
attraverso la stanza e gli fu sopra, una gattina desiderosa di
carezze e di baci.
Sentiva la sua pelle ancora calda del letto, muoversi
lentamente sulla sua, la mano scendere in basso a cercarlo, a
chiudersi su di lui con una delicatezza stupendamente eccitante.
Un piccolo singulto di sorpresa e di piacere prima di dirigerlo
verso di sé, passarlo lentamente lungo il solco umido e caldo ed
ansimare mentre dolcemente lo introduceva. Muovere il bacino
per accoglierlo e portarlo ancora fuori, quasi che lui, Marco, non
esistesse se non come strumento del suo piacere.
Fecero l’amore dolcemente e a lungo, giocando una con la
voluttà dell’altro, parlando d’amore e di desiderio, ogni ombra
finalmente svanita. Per tutto quel lunedì e durante i due giorni
che seguirono, il loro accordo fu perfetto, sia che fossero
insieme nelle incombenze che lei doveva svolgere, sia che
fossero separati dalla scala a chiocciola che delimitava il
confine dei loro due differenti mondi. Lei presa da una serie
interminabile di corrispondenze con tutta Europa, lui a stendere
la bozza del nuovo romanzo; ed era delizioso nelle pause dal
lavoro, chiamarla per chiederle, “Un cafè cherie? “ e sentirla
rispondere - “Mais oui, c’est un plausir”.
Spesso al mattino andavano ad Avignone, lei per i suoi
impegni, lui per lunghe passeggiate: vagava per quelle vie che
ormai non avevano che pochi turisti, prendeva appunti seduto in
un caffè sulla Piazza dell’Orologio e visitava le numerose
gallerie d’arte che la circondavano. Quando scopriva qualche
artista interessante, ci ritornava più tardi con lei, trovandosi
quasi sempre d’accordo sul valore delle opere. Il loro calore, il
loro entusiasmo, erano contagiosi e, pur non acquistando nulla,

203
riuscirono a fare amicizia con due galleriste; a dimostrazione di
quanta simpatia suscitassero nella gente. Si portavano dietro il
loro amore come un’aura che li racchiudesse, impermeabile alle
influenze esterne, ma per un effetto osmotico a senso unico,
aperta nell’elargire agli altri la comprensione e la bontà di cui si
sentivano essi stessi gratificati. A volte Marco si sentiva felice
come mai gli era accaduto prima, ma un attimo dopo veniva
preso dalla paura per tutta quella felicità piovutagli dal cielo:
temeva di ingelosire gli dèi, nello stesso momento in cui era
loro grato. Sapeva della mutevolezza dei loro caratteri.
In passato era sempre venuto in Provenza con scopi e
obbiettivi precisi; il turismo quando era giovane, i suoi libri poi,
con una fame di possesso, con una voglia di impadronirsi dei
suoi colori, dei suoi angoli più intimi, per poterne parlare,
scrivere, mercificarli.
Ora, lasciava che la Provenza entrasse in lui, che si
impadronisse lentamente dei suoi pensieri, dei suoi sensi.
Sedeva in quelle piazzette sentendo che gli penetrava nel
sangue, nella linfa che lo percorreva tutto, in una simbiosi che
non era abbastanza sciocco da ritenere innocua, per lui e per il
suo futuro. Gli entrava dentro lentamente, come un virus che
non avesse molta fretta di raggiungere i suoi scopi, lasciando ad
altri alleati la conquista dei territori limitrofi. La lingua ad
esempio. Non era lui ad impadronirsene, ma il contrario;
parlandola tutti i giorni trasfondeva da Anne a lui e lo permeava.
Sentiva che tra poco avrebbe iniziato anche a pensare in
francese.
Le loro serate erano molto tranquille, passate a conoscersi
meglio, condividendo interessi e passioni che li legavano
sempre più. In un pomeriggio di forte vento, passato entrambi
lavorando, lui le scrisse un biglietto e lo nascose nel portacarte
all’ingresso, sperando che lei lo trovasse solo quando sarebbe
già tornato a Torino: «Chiudo gli occhi e ritrovo il tuo sorriso, il

204
tuo passo leggero di danzatrice, di ragazza. E vorrei avere le
parole di Brel, di Brassens, o di Prevert… ma vorrei amarti
soltanto come ti ama Marco, perchè nessuno potrebbe amarti di
più.»
Il mattino di qualche giorno dopo, partirono per Nimes per
una serata di tango. Da molto tempo non ballavano insieme ed
erano molto emozionati. Lui le disse che delle due cose che
sognava di fare con lei quando erano lontani, una l’avevano
ampiamente sperimentata, l’altra era ballare con lei. Lei scoppiò
a ridere e più tardi sull’auto, guidando verso l’autostrada, Marco
le chiese se fosse felice. Lei gli si strinse contro per dirgli:
«Tu sei la mia gioia caro. Ora ti anticipo qualcosa sulla milonga
di questa sera: ci saranno delle buone coppie di ballerini, ed
anche due argentini che insegnano a Nimes. Sono molto belli a
vedersi. Non dobbiamo preoccuparci della cena perché in quella
milonga è d’uso “la mode de l’auberge espagnol” ossia che
ognuno porta qualcosa da casa, di solito molto buona. Ti
consiglio di assaggiare il sidro, se ti piace, perché è prodotto in
casa, come pure molti paté maison. Noi compreremo in un
negozio di fronte del vino, quello va sempre bene. Ma ecco che
siamo arrivati. Prosegui diritto sino ai Giardini della Fontana
poi gira a sinistra, da lì in avanti possiamo cercare un
parcheggio.
Proseguirono la loro passeggiata lungo il Boulevard Victor
Hugo, onnipresente in ogni città della Francia, deviarono a
sinistra per passare nell’allegra Place du Marchè, piena di
giovani studenti seduti nei molti caffè. Calde luci gialle intorno
alla piazza erano già accese, sebbene mancasse ancora tempo al
tramonto. Passarono oltre, sino al maestoso Anfiteatro che gli
abitanti chiamano Les Arènes, un ovale insieme di archi
perfettamente disegnati.
La milonga, ospitata nel teatro della municipalità, era una
sala molto ampia, con un pavimento in legno consunto dai

205
frequenti balli che vi si svolgevano. Le sedie erano state poste
tutt’intorno alle pareti e, quando lui ed Anne entrarono dopo
aver acquistato del vino, c’era già molta gente. L’atmosfera era
festosa, già si udiva la musica di un tango, ma non era ancora
iniziata la serata di milonga. I più erano intorno ad un lungo
tavolo addossato alla parete di fondo e, un bicchiere in una
mano ed un piatto nell’altra, conversavano, bevevano ed
assaggiavano quanto era stato portato da ognuno di loro.
Più che un buffet freddo, la “mode de l’auberge espagnol”
pareva una grand bouffe. Un’infinita varietà di insalate di
diversa composizione, salsicce, paté, confit, torte dolci e salate,
riempivano il tavolo in allegro e colorato disordine. Su un altro
tavolo più piccolo, il campionario di vini che andavano dal “vin
du pays”, prodotto in casa, a quello di etichetta. In una sorta di
panciuti orci in ceramica, si trovavano pure varie qualità di
sidro. Anne andò subito verso l’organizzatrice, una donna
piccola, bruna, riccioluta e piena di energia che gli regalò un
ampio sorriso e gli disse - ah, un danceur italien, bien venu! -
quando le fu presentato. Le lasciarono le bottiglie e si
avvicinarono al buffet, accolti da alcuni ballerini che avevano
visto Anne da lontano; fu presentato ancora ad altre donne,
uomini e coppie. Si conoscevano quasi tutti tra loro.
Dopo aver assaggiato un po’ di vino ed aver scelto un
misto d’insalate, cercarono un angolo in cui appartarsi; le sedie
erano tutte occupate, quindi dovettero restare in piedi. Le
insalate erano gustose, profumate e ricche; costituivano un
piatto unico ed il sidro aveva il sapore delle cose un poco
acerbe, ruvide, fatte in casa. Marco non aveva l’abitudine di
bere molto prima di ballare e scoprì che anche per lei era così.
«Se bevo perdo il mio asse e di conseguenza l’equilibrio.» disse
lei.
Intanto, qualcuno stava già avviandosi verso il ballo. La pista
iniziava a pochi metri dal buffet e proseguiva per tutta

206
l’ampiezza della sala; Anne vide passare i due maestri argentini
e andò loro incontro per salutarli. Incuriositi da quanto lei
diceva su di lui, i due deviarono dal percorso verso il ballo e si
avvicinarono a Marco.
Monica, così si chiamava lei, era una donna alta e slanciata,
i capelli scurissimi, quasi neri, raccolti in una coda che scendeva
sulla spalla. L’atteggiamento altero del portamento, addolcito
dal sorriso ampio e cordiale, le labbra tumide rosso corallo;
l’archetipo della ballerina di flamenco. Lui Alfonsito, portava
un abito a doppio petto rigato ed il sorriso vissuto di chi ha
ballato in tutte le milonghe. Poteva avere cinquant’anni, almeno
venti più di lei, a giudicare dall’apparenza. Fu lui a chiedere a
Marco del tango a Torino; sapeva che stava divenendo, se non lo
era già, la città in cui si ballava più tango in Europa. Chiese di
quanti maestri argentini ci fossero e i loro nomi, poi gli disse
che aveva studiato con Copes e che era in Francia da sei anni.
Girandosi verso Anne, la invitò a ballare e a questo punto
Marco, per ricambiare, invitò Monica. La pista era ancora
semivuota, i ballerini fermi in attesa del prossimo brano:
dovevano esserci problemi tecnici, perché le note di “Yuyo
verde” tardarono qualche minuto a diffondersi nella sala.
La musica di questo tango all’inizio è lenta, per incalzare
più avanti i ballerini, e la stessa cantante, con l’inserimento del
bandoneon; un brano difficile da ballare, poco scandito, quasi
un brano da camera. Marco sentì al primo abbraccio che Monica
aveva una forte presenza; la mano destra di lui si avvolgeva
intorno ad un’apparente esilità, ma le due fasce dei dorsali erano
pronte al movimento. Lo si sentiva dalla leggera tensione che le
percorreva. In omaggio alla sua terra ed al suo idioma, decise di
ballarlo sul significato delle parole, molto romantiche: questo è
uno dei pochi tanghi che lo consentono. Seguendo la voce di
Adriana Varela, si arrestava per una pausa, oppure sottolineava
una frase con una leggera accelerazione. Nel muoversi in questo

207
modo, si accorse che lei aveva compreso, perché rispondeva ai
suoi inviti sulla poesia di quel tango e non solo sulla sua musica.
Mentre eseguiva un perfetto lapis con la punta del piede prima
di toccarlo e risalire, gli rivolse un aperto sorriso e lui provò
ancora una volta l’emozione di poter comunicare - grazie al
tango - senza parole e con il solo movimento, ad una donna
sconosciuta quello che sentiva. Ballarono insieme per tutta la
tanda, ma non fu più la stessa magia; del resto, se fosse così
comune, non sarebbe così prezioso scoprire di ritrovarsi al di là
della lingua, età o differente origine.
La cortina interruppe il loro ballo e mentre uscivano dalla
pista, si trovarono a confluire insieme ad Anne e Alfonsito verso
il bar; lui desiderava disperatamente un caffè italiano - ma
dovette accontentarsi di un café fermé - e ballare con Anne.
Finalmente soli, le prese il braccio e mentre l’accompagnava
verso la pista, sentì incomprensibilmente le gambe tremargli,
emozionato come la prima volta in cui avevano ballato insieme.
Non riusciva a capire come fosse possibile tutto questo, dopo
tanti anni e anni di ballo. Come se la loro relazione si nutrisse,
oltre che di carezze, amore ed erotismo, anche del loro tango.
Lo stesso dio - fosse Eros o la divinità stessa del tango - che li
aveva portati ad incontrarsi su una piazza di Avignone, volle che
il brano che li accolse nella pista fosse “Vuelvo al Sur”. Ancora
Pugliese e la sua orchestra.
Marco lo aveva ballato dieci, cento volte ma quel giorno
c’era Anne tra le sue braccia; l’emozione di muoversi con lei in
quel tango fu troppo forte. Non riuscì a pensare ad una sola
figura, si mosse con lei in una semplice camminata, perché le
gambe gli tremavano ancora. Sentiva quella donna che era stata
sua, nella quale era entrato con il desiderio di non uscirne più,
tremare leggermente, sfiorare con le labbra i suoi capelli, piena
di tenerezza e d’amore. Dovettero fermarsi, alla fine del brano, e
andare verso una parete a cui sorreggersi, ansimando come se

208
avessero corso per ore: i loro corpi, privati da giorni e giorni del
piacere di danzare insieme, dovevano riabituarsi al loro tango.
«E’ incredibile Marco, io non ho mai provato questa emozione
... non riesco a stare ritta senza dovermi appoggiare a te, le
gambe non mi sorreggono…»
«Anch’io Anne, non ho mai provato nulla di simile…» rispose
lui e, come colpito da un pensiero improvviso rise, di sé e di
loro due che non riuscivano neanche a ballare insieme per tre
minuti senza doversi appoggiare ad una parete. Lei, come se
avesse capito, lo seguì nella risata e stettero affiancati a
guardarsi negli occhi mentre intorno a loro il mondo si muoveva
lento, sfocato, immensamente lontano.
Riprovarono a ballare più tardi, su tanghi di De Caro,
“Maipo, Ojos negros” ed altri: tanghi composti esclusivamente
per il ballo, senza l’esplosiva tensione di Pugliese. Quel che ci
voleva perché i loro corpi, riprendessero confidenza uno con
l’altro. Si lasciarono trasportare dal ritmo sincopato e
confidenziale, di quella musica degli anni ’30; camminata,
arresto, camminata. Quando si fermarono per cercare una sedia,
una coppia li avvicinò dicendo loro “il vostro tango è supér,
siete forse argentino signore?”. Dopo aver risposto che no, era
italiano e loro erano molto gentili, si stupì con Anne di tanta
cordialità. In Italia era molto improbabile che ci si
complimentasse, persino con i maestri. Sedettero a fianco di una
coppia che Anne conosceva ed osservarono il ballo che si stava
animando ancora di più, a causa di tutti quelli che avevano
finito di cenare.
Osservando i ballerini, la sua attenzione fu attirata da un
uomo alto, bruno, atletico e molto abbronzato, che si stava
avvicinando guardandolo con insistenza. Lo sguardo era fermo,
persino imbarazzante nella sua fissità, la bocca contorta in
quello che pareva tutt’altro che un sorriso. Certo di non averlo
mai conosciuto, e infastidito dal suo atteggiamento, distolse lo

209
sguardo per rivolgerlo ad Anne; anche lei l’aveva visto
avvicinarsi e nonostante la penombra della sala, era evidente
che fosse impallidita. Nel momento in cui l’altro si arrestò ad un
metro da loro fissandola, tutto il suo corpo s’irrigidì
visibilmente. Chiunque fosse quell’uomo, la conosceva bene
perché l’occhiata che le diresse era profonda, volutamente
intensa. S’inchinò leggermente verso di lei in un invito che
conteneva un che di beffardo ed Anne esitò un attimo prima di
alzarsi. Segno che quell’invito non le era molto gradito. Che
fosse un ex innamorato ancora geloso e che, vedendoli ballare,
si era avvicinato con quell’aria innegabilmente ostile?
Già dal primo abbraccio Marco intuì che quell’uomo
esercitava qualche specie di potere su di lei, perché tutto il suo
corpo pareva quasi subire la sua stretta, molto più chiusa di
quanto lei di solito consentisse. Ancor più strano il fatto che
l’uomo iniziasse subito a parlarle fittamente nell’orecchio, con
un’espressione che sapeva decisamente di rimprovero. Il loro
tango era meccanico, senza figure e irrigidito dalla postura di
lei, che si inarcava tutta all’indietro nel tentativo di scostarsi.
Nel giro successivo passarono di fronte a lui ed Anne si voltò a
guardarlo in modo strano, come se lo vedesse per la prima volta.
Come se avesse scoperto qualcosa di lui, che non aveva mai
saputo sinora. Cosa le stava dicendo quell’uomo sconosciuto,
dall’aspetto così temibile, e che lui non aveva mai visto?
Al termine dei tre tanghi la riportò al tavolo e, mentre lei
si sedeva, s’inchinò profondamente verso di lui, portò la mano
al petto, poi alle labbra e infine alla fronte. Il tipico saluto arabo
che voleva significare “Ti do il mio cuore, la mia anima, il mio
pensiero”, ma che in quel caso indicava chiaramente che l’uomo
si stava prendendo gioco di lui. Non fu però quel saluto, a
provocargli il forte senso di nausea che gli serrò
improvvisamente lo stomaco; nel chinarsi in avanti, l’uomo

210
aveva fatto uscire fuori della camicia aperta, un medaglione che
portava inciso l’inconfondibile segno del Triskell.
Ancora e sempre quel simbolo, che lo perseguitava
ovunque! Per di più, in questo caso eliminava ogni possibilità
che l’uomo fosse soltanto un ex innamorato geloso: ma chi era e
perché Anne era così turbata, mentre lo sconosciuto si
allontanava, si voltava ancora verso di lui e lo guardava con la
stessa ostilità di prima? E pensare che sino a poco prima la
serata era stata perfetta, com’erano stati perfetti i giorni passati,
nei quali era riuscito a non pensare alla pergamena ed al suo
contenuto. Ora Anne sedeva rigida, senza guardarlo e quando lui
le chiese se volesse ballare rispose:
«Grazie ma sono stanca, più tardi forse.»
Meglio non parlare, attendere che il suo turbamento passasse,
qualunque ne fosse la causa. Tuttavia, quel silenzio, a cui non
erano abituati, pesava enormemente. Questa Anne che non lo
guardava, che si volgeva verso la pista, era ancora un’altra
Anne, dopo tutte quelle che aveva conosciuto; quale era quella
che lo amava davvero? L’amo troppo, si disse. Per la prima
volta, ebbe la certezza che l’avrebbe amata sempre troppo,
molto al di là di quanto fosse giusto amare. Troppo, per non
aspettarsi di soffrire ora, fra un mese e fra un anno.
Più tardi le chiese ancora di ballare e lei lo guardò con
intenzione negli occhi, prima di annuire con il capo;
s’inserirono nel flusso antiorario dei ballerini, muovendosi su
alcuni tanghi pacati ed eleganti di Carlos Di Sarli. Abbandonata
tra le sue braccia, lei si appoggiava leggera alla sua guancia, ma
il suo ballo non aveva presenza, come se non fosse lì con lui.
Aveva posto una sorta di sottile diaframma tra loro. Per quella
sera, l’incanto che li aveva portati persino a tremare
nell’abbraccio, era finito, svanito; gli pareva di danzare non con
Anne, ma con una sua vaga apparenza. Meglio dunque ritornare
a sedersi e smettere quell’inutile sofferenza. Dopo aver

211
scambiato qualche parola con le persone che le stavano accanto,
lei gli chiese - on y va? - e lui acconsentì. Si cambiarono le
scarpe, salutarono tutti quelli che non erano troppo lontani, ed
uscirono dalla sala. Guidando sulla strada che li portava fuori da
Nimes, si voltò verso di lei per chiederle:
«Anne che cosa succede, c’è stato qualche malinteso di cui non
mi sono accorto?»
Pareva che non l’avesse neanche sentito, perché guardava fuori
dal finestrino come persa in uno dei suoi estraniamenti. Quando
lui ripeté la domanda, togliendo una mano dal volante per
stringere forte la sua, lei si voltò e rispose:
«Nulla, nulla di nulla. Ho incontrato un conoscente che non
vedevo da tempo.»
Sarebbe bastato il pallore del viso a smentire la sua risposta. Più
che un conoscente, pareva avesse incontrato un fantasma, che
ora voleva scacciare dalla sua mente chiudendo gli occhi, e
appoggiando il capo sul sedile. Lasciò la mano nella sua e non
disse più nulla per tutto il viaggio di ritorno.
Più tardi, quando furono a casa e insieme nel letto, si
strinse a lui respirandogli addosso, accarezzando il suo volto e
ripetendo il suo nome con il viso affondato nel petto. Stettero
così nella penombra, per cercare di ritrovarsi uno con l’altra. La
curva che le scendeva lieve dal collo alla spalla era tesa, quasi
fosse imprigionata in un reticolo di tensione che la percorresse
tutta.
Dopo un poco, sentendo la sua involontaria eccitazione
farsi strada tra loro, si mosse per supplire alla sua immobilità,
come a favorire la crescita di quanto premeva contro di lei. La
stretta si fece più forte, sentì le sue unghie premere dietro le
spalle come un richiamo contro la sua inerzia. Avrebbe voluto
darle tenerezza, ma non era ciò che lei voleva quella notte,
perché la forza della sua stretta aumentò sempre più, portandolo
al limite del dolore. Cercò di muoversi per alleviare un poco la

212
sua posizione, ma questo la eccitò maggiormente. Gravando su
di lui con il suo peso e tenendolo fermo, aprì le gambe e gliele
strinse intorno, rinserrandolo contro la leggera peluria del monte
di venere. Non capiva se volesse tenerlo per paura di perderlo,
oppure punirlo per qualche cosa di cui solo lei era a conoscenza
e lui non seppe far altro che accettare il ruolo che lei gli aveva
attribuito. Lo schiavo di una padrona esigente, che traeva
piacere dal suo corpo passivo.
Più che baciarlo, mordeva e addentava le sue labbra e la
sua lingua, senza più traccia della Anne dolce e arrendevole che
lui aveva conosciuto nelle notti passate, quando si abbandonava
nelle sue mani. Lo incalzava con il suo desiderio, si muoveva
come per provocare in lui una reazione che confermasse
l’accettazione della sua parte, in quella pantomima della quale
era la sola regista. Ad ogni affondo delle unghie, dopo ogni
morso, attendeva un poco, prima di passare la lingua sul labbro
appena tormentato, in un gioco nel quale il silenzio era assenso,
la passività accettazione. Era frastornato, il dolore si mischiava
al piacere, dentro di lui l’eco di una voce lontana gli diceva di
uscire da quel ruolo, ma non capiva se fosse soltanto il suo ego
maschile a ribellarsi, oppure la premonizione – celata nel
profondo della sua mente – di qualcosa di minaccioso, di là
venire.
Lei proseguì scendendo verso il suo petto, leccando e
mordendo, artigliando con le unghie i suoi fianchi e affondando
i denti tra il collo e la spalla, nel trapezio rilassato della sua
arrendevolezza. A volte una fitta di dolore, sovrapponendosi e
incrociandosi con una di piacere, gli provocava un lungo brivido
di riso isterico, che sapeva inconsciamente di dover trattenere.
Era proibito perché avrebbe distrutto la sacralità di quella forma
d’erotismo, a cui lei si stava abbandonando e nella quale gli
imponeva di entrare. Una porta aperta sulla sua intimità più
segreta, in fondo alla quale era nuda e vulnerabile di fronte a lui,

213
suo complice-schiavo.
Svanita la tenerezza, il loro rapporto si era trasformato in
qualcosa di completamente diverso. Anne si muoveva su di lui
attiva come non lo era mai stata prima e a tratti si arrestava per
guardarlo: ma lui, vergognandosi dell’inerzia con cui accettava
tutto questo, teneva gli occhi chiusi. Guardarla, avrebbe
significato mettersi di fronte ad un altro sé stesso nel quale non
sapeva nulla. Il silenzio era rotto solo dall’ansimare di lei e da
un’affermazione che, con una strana voce di gola, ogni tanto
quasi gli gridava: tu est mien, tu est à moi, à moi.
Poi, per impedirgli di rispondere, gli chiudeva la bocca con
la sua e affondava la sua lingua sempre più dentro. Lo stava
possedendo e ne dichiarava il possesso, senza richiedere né
volere conferme da parte sua: imponendogli in questo modo
anche una passività verbale, quasi che la sua capacità
affabulatoria in quel momento le facesse paura, anziché aiutarla
ad amarlo. Come se avesse potuto leggere i suoi pensieri, lei
iniziò a muoversi ritmicamente, accordandosi in questo modo a
quelle immagini e portandolo ad un dirompente orgasmo
mentale. Solo più tardi venne quello reale, fisico, a cui entrambi
si abbandonarono.
Ne uscì febbricitante, con tremiti intermittenti che
partivano dal basso e lo scuotevano tutto. Le mani di lei lo
accarezzavano e la sua bocca lo baciava, in un’inversione di
ruoli che voleva ancora far durare. Era lui la donna da
vezzeggiare, dopo aver fatto l’amore. Rimase ad occhi chiusi,
incapace di dare un significato a quella sua totale e
incondizionata sottomissione. Fino a che punto Anne l’aveva
preso, fino a che punto lo teneva in pugno?
La malia contenuta nella sua pelle e nel suo corpo
sembrava aver rimosso qualcosa dentro di lui, togliendo il
paravento che celava scale e sotterranei segreti all’interno della
sua mente. La sua affettività, la sua stessa sessualità, basate

214
entrambe sul senso di protezione che le donne gli ispiravano, era
svanita, lasciandolo a chiedersi cosa esattamente conoscesse di
sé stesso a cinquant’anni. Anne aveva rivolto verso di lui uno
specchio, obbligandolo a guardarvi dentro. L’incrinatura che lei
aveva aperto, forse inconsapevolmente, dentro la corazza delle
sue convinzioni, l’accettazione passiva di quel ruolo di
sottomissione, sarebbe via via divenuta una crepa devastante
che - come quella della casa degli Usher - avrebbe provocato la
rovina del loro rapporto?
Quanta parte aveva avuto nel suo comportamento,
l’incontro con quell’uomo pauroso alla milonga, non era dato di
sapere; allo stesso modo, non riusciva ad immaginare se le
stesse parlando di lui mentre ballavano. Restava il fatto che
l’uomo portava il segno del Triskell e il modo in cui lo aveva
guardato era quasi di sfida, o di ammonimento. Conteneva una
minaccia, che era difficile attribuire solo alla gelosia. Avrebbe
voluto parlarne con lei ma come nelle altre occasioni, non si
sentiva in grado d’imporle di rispondergli in modo credibile.
La voce di Anne, che rompendo il silenzio della stanza gli
sussurrava - cheri, je t’aime - ed il suo - moi aussi - non
riuscirono a cancellare l’impressione che per lui, e forse per
entrambi, si fosse aperta una nuova fase del loro rapporto nella
quale, l’esaltazione del ritrovarsi e le sicurezze derivate
dall’essersi amati, avrebbero dovuto fare i conti con quanto
avevano scoperto quella notte.

14

Il mattino dopo la loro vita riprese con la regolarità dei

215
giorni precedenti, lui ad Avignone a cercare spunti per il
romanzo e lei impegnata nel suo lavoro. Durante la colazione e
in auto, lei non parlò del giorno prima, come se nulla fosse
accaduto. Invano lui aveva cercato nei suoi occhi tracce di
delusione o risentimento; o non c’erano più, oppure lei sapeva
recitare molto bene. La loro notte d’amore, con l’intensità e la
diversità di quanto avevano vissuto, era per lui ben presente,
anche se non ne parlavano. I segni rossi che si era ritrovato sulle
spalle e sui fianchi quando aveva fatto la doccia, stavano a
dimostrarlo. Le labbra ancora gli dolevano. Se prima di quel
giorno lui aveva sempre accennato alle loro performance
erotiche, per rievocarle oppure per scherzarci sopra, questa volta
non si sentiva di farlo, sapeva che erano entrati in una zona
oscura e sconosciuta, che non amava la luce del giorno.
Ovviamente erano entrambi liberi e non potevano far del male a
nessuno, se non a sé stessi. Ogni gesto, ogni parola, erano una
tessera in più nel mosaico che si andava delineando per
rappresentare la loro storia. Nel bene e nel male.
Emily Dickinson, aveva scritto “per fare un prato bastano
un trifoglio, un'ape un trifoglio, un'ape e un sogno. Può bastare
il sogno, se le api sono poche”.
Qual era il sogno di Anne? Nella mente e nel cuore, lui al
suo prato stava già dando forma, nutrendolo delle albe, dei
tramonti, dei cieli, delle colline e persino delle pietre che la
Provenza dispiegava in quel settembre indimenticabile. Come se
l’amore per quella terra, nato molti anni prima, fosse rimasto in
animazione sospesa dentro ad una sorta di campana criogenica,
nell’attesa che lei, con il calore del suo amore, lo risvegliasse.
Senza rendersene conto stava sognando una sua futura vita in
Provenza, per non dover affrontare tutte le inevitabili
separazioni che sarebbero venute in futuro, a cominciare da
quella che lo attendeva tra pochi giorni. Già iniziava dentro di
sé, quel processo che lo avrebbe portato a non poter concepire la

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vita lontano da Anne, senza curarsi minimamente di tutti gli
interrogativi che lo avevano tormentato, e che periodicamente
tornavano a farsi vivi.
Come tutti gli altri giorni Anne lo lasciò all’ingresso di una
delle porte della città e si avviò veloce sul lungo Rodano,
divenendo sempre più piccola sullo sfondo delle alte chiome dei
boschi sovrastate da un cielo percorso da grandi nuvole bianche.
Lui si avviò verso il centro per concedersi un caffé nella place
Crillon, la sua preferita a causa della tranquillità che vi regnava.
A pochi metri dalla piazza vide una targa in ottone che indicava
- nelle due lingue - un “Centro per lo sviluppo degli scambi
culturali franco-italiani” e decise di entrare. Spingendo la porta
vetrata che si trovava sotto la targa, si trovò in una stanza in
penombra che poteva essere la sala d’aspetto; dato che non c’era
anima viva, prese un lungo corridoio al termine del quale trovò
finalmente un poco di luce. Proveniva da un ampio ed elegante
salone, arredato come sala delle feste; aveva il pavimento in
larice e molte sedie addossate alle pareti.
Come comparsa dal nulla, una donna magra, vestita di
nero, gli venne incontro. Indossava un’ampia gonna che le
arrivava sino alle pallide caviglie, e l’occhio che non era reso
orbo dal fumo della sigaretta stretta tra le labbra, lo scrutava
indagatore. Poteva avere quarant’anni e quando fu più vicina,
sentì dal profumo asciutto e avvolgente che emanava, un’aria
fortemente seduttiva, da donna abituata ad usare nel rapporto
con l’uomo, anche la sua scarsa avvenenza. Con un largo sorriso
accolse la notizia che un italiano era venuto a far visita al loro
Centro e lo informò che adorava l’Italia e gli italiani. Indicando
poi con la sigaretta una sedia che faceva angolo con un’altra, lo
invitò a sedersi di fronte a lei. Volle sapere da che città italiana
venisse, ma incredibilmente non fece l’immancabile
abbinamento Torino-Fiat. Inoltre, gli chiese quale opera era in
cartellone in quei giorni al Teatro Regio; “ho avuto la chance di

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assistere a La Tosca, ed ho pianto tanto; la soprano aveva une
immense poitrine, connaissez vous?”
Marco, non sapendo se gli avesse chiesto se conoscesse
quel soprano dall’immenso seno oppure se avesse mai visto un
seno immenso, rispose che una settimana prima davano Il
Rigoletto di Verdi. Evidentemente era una melomane, perché lo
investì con altre domande sul genere; ad ogni domanda gli
toccava il ginocchio con la mano libera dalla sigaretta ed ogni
tocco si faceva man mano più persistente finché, quando lui le
chiese se tenevano corsi di perfezionamento di francese per
italiani, la lasciò stabilmente posata su di lui. Amore per l’Italia
e la sua cultura? Desiderio di farlo sentire a suo agio?
«Sicuro che abbiamo corsi per italiani! Il vostro francese è
comprensibile, ma si può certamente migliorare: due professori,
un italiano de Rome ed un francese, tengono corsi al lunedì e al
giovedì sera, dunque questa sera. Volete iniziare subito?»
Incerto tra allontanare lentamente il ginocchio dalla sua mano o
lasciarlo dov’era, cercando di isolare dalla sua mente quel
contatto, rispose che tra pochi giorni avrebbe dovuto lasciare
Avignone, ma che nella prossima visita, avrebbe approfittato dei
loro corsi. Che peccato - rispose lei - debbo lasciarle i nostri
depliants, aspettatemi un istante, se non vi dispiace. Senza dire
altro, si alzò con insospettabile agilità, per riprendere la via da
cui era uscita poco prima.

Al fondo del corridoio la donna aprì la porta di un


ascensore e premette il pulsante del terzo piano. Il solito senso
di vuoto che le causava la velocissima accelerazione della
cabina, andò a sommarsi con la paura che provava per il
prossimo incontro. Di là dalla porta isolata acusticamente, che
stava di fronte all’uscita dell’ascensore, l’attendeva l’uomo che

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più d’ogni altro, nella sua vita, la terrorizzava. Lei che aveva
militato prima nell’indipendentismo corso, poi nel milieu
marsigliese, che aveva al suo attivo l’uccisione di un
informatore e di un poliziotto, quando doveva incontrare
quell’uomo si sentiva persa.
Di fronte a lui provava la sensazione di trovarsi invischiata
in un bozzolo enorme, di non potersi muovere per fuggire ai
suoi occhi che la mettevano a nudo. Tutta l’energia e la sua
stessa identità le erano sottratte, come se quell’uomo fosse un
ragno di una nuova specie, che succhiava la mente anziché il
corpo. Un vampiro energetico lo aveva definito Andrè, un suo
collega, prima di sparire per sempre. Ma pagava bene e
procurava chirurghi plastici e documenti falsi per chi come lei,
doveva rinascere per una seconda volta. Batté alla porta per
annunciarsi e quando vide il led luminoso incastonato nella
porta passare dal rosso al verde, entrò.
Fortunatamente l’uomo era alla finestra e le girava le
spalle; oggi non avrebbe sopportato a lungo i suoi occhi. In un
dialetto misto d’occitano e marsigliese, gli riferì che l’italiano
era di sotto e attendeva nel salone. Pochi istanti prima, aveva
sentito la leggera vibrazione del bracciale che portava al polso e
aveva subito interrotto la conversazione, per salire da lui.
Sapeva che l’uomo aveva spiato il loro incontro dalla
telecamera nascosta, per poi attivare il vibratore. Come si
chiama un cane ubbidiente. Attese in silenzio la risposta,
sperando che l’uomo non si voltasse, ma proprio in quel
momento lui ruotò su sé stesso, con un movimento innaturale,
robotico, come se poggiasse sull’aria anziché sul cuoio delle sue
scarpe. Si sforzò di guardargli il petto, che si trovava all’altezza
dei suoi occhi, ma non appena l’uomo parlò, si trovò soggiogata
al magnetismo che emanava da quella figura in controluce. Con
poche frasi brevissime, le disse di consegnare all’italiano il
gadget che le stava porgendo, motivando il dono come un

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augurio di averlo tra i loro allievi.
Costretta ad allungare la mano dovette fare uno sforzo:
quegli occhi, incredibilmente, si stavano aprendo verso
l’interno. Come se lui, per torturarla, le avesse spalancato una
finestra che dava nel suo animo, un nero e vuoto abisso in fondo
al quale, pulsava qualcosa di primordiale. Male concentrato.
Con un singhiozzo si staccò da quella visione, aprì la porta e
fuggì senza attendere l’ascensore, mentre alle sue spalle
risuonava una risata che sapeva di follia. Discese le scale di
corsa e si chiuse nel primo bagno che trovò: le mutandine erano
bagnate di un liquido rossastro come se qualcosa dentro di lei si
fosse rotto, come se quell’uomo l’avesse frugata con un artiglio.
Si asciugò con la carta e cambiò il salva slip, mentre la paura
che l’italiano non l’avesse aspettata le esplodeva nella mente.
Doveva assolutamente essere ancora lì, altrimenti
l’avrebbe rincorso ovunque fosse. Concitatamente riabbassò la
gonna, con le dita si sistemò i capelli, prese i depliant, il gadget
ed uscì rapidamente dal bagno. Si buttò quasi sulla porta che
dava nel salone e tirò un sospiro di sollievo, vedendo che
l’italiano stava leggendo da un grosso blocco di appunti.
«Desolé ma non trovavo questo gadget che ci tenevo tanto a
lasciarle, con la speranza che vorrà tornare da noi.»
Marco prese con un po’ di imbarazzo l’astuccio che la donna gli
porgeva, stava quasi per dirle che non poteva accettarlo, quando
lei posando fermamente la mano sulla sua, gli disse di aprirlo.
Era solo un gadget pubblicitario. In effetti, si trattava di una
penna dal disegno molto moderno, un roller probabilmente, ed il
pulsante era montato lateralmente alla voluminosa sommità che
riportava sul fianco l’intera dicitura del Centro. La ringraziò e
lei, inarcando un poco il sopracciglio e inclinando il capo di
lato, prima di rivolgergli un altro smagliante sorriso, rispose:
«Non c’è di che, chiedete di me,di Silvie, la prossima vola che
verrete.»

220
Dopo averla rassicurata che sarebbe tornato, ripercorse in sua
compagnia il buio corridoio, la salutò e fu fuori dal Centro.
Neanche lui sapeva perché vi fosse entrato. Forse stava
mettendo inconsciamente la prima tessera del puzzle che lo
vedeva muoversi tra Villeneuve e Avignone, per approfondire il
suo francese e farne la sua seconda lingua. In una vita in
comune con Anne. Sulla piazza i caffè avevano la clientela di un
giorno feriale; amiche che si ritrovavano davanti ad una tazza di
tè, pensionati che sfogliavano La Provence, il quotidiano locale.
I turisti di settembre erano meno numerosi, più attempati e
meno frettolosi di quelli d’agosto. Quasi tutti evitavano le zone
d’ombra che il sole disegnava con i giovani alberi e le tende dei
caffè, per immagazzinare ancora un poco di calore, prima
dell’autunno imminente. Sedette al sole anche lui e dopo aver
ordinato, aprì il depliant che quella donna gli aveva lasciato.
Poche fotografie contornavano una lunga descrizione della città,
che Marco trovò molto originale.
Sospese più volte la lettura per bere il caffè, osservando
due piccoli passerotti che si contendevano un minuscolo
frammento di croissant caduto per terra. Terminato il depliant,
guardò l’orologio e scoprì che mancava poco al suo
appuntamento con Anne. Aveva solo pochi minuti per
raggiungere la porta davanti alla quale si sarebbero trovati prima
di lasciare Avignon e raggiungere Orange, su a nord. Lei doveva
fare scorta di vino e voleva mostrargli la Strada dei Papi che, da
quanto lui aveva capito dall’elenco dei vini che si producevano
in quella zona, avrebbe potuto più realisticamente chiamarsi la
Strada dei Vini.
Lei arrivò puntualissima e con un luminoso sorriso gli
disse che voleva continuare a guidare perché si sentiva bene
quel mattino; si era liberata di tutti gli impegni in modo da avere
tutto il pomeriggio per loro. Gli tenne la mano sul ginocchio per
un lungo tempo, e lui ancora una volta ebbe la conferma che,

221
quando ritornava ad essere la donna che aveva conosciuto,
nessuna poteva essere più adorabile. Viaggiarono spediti verso
est e dopo aver superato uno dei tanti Chteauneuf e il villaggio
di Le Thor, si trovarono a Fontaine-de-Vaucluse, la sorgente
della Valle Chiusa che aveva incantato il Petrarca, al punto di
farne il suo domicilio, dopo la fuga dalla corrotta corte papale
d’Avignone. Anne gli disse che aveva voluto portarlo là, per
vedere la casa del poeta ora museo, e in onore della poesia
italiana, che lei amava. Nel ringraziarla, pensò all’intrico di
correnti sotterranee che si ramificavano sotto la cittadina;
sicuramente Lug era passato di lì diecimila anni prima e questo
era stato, se non lo era ancora, uno dei santuari degli Eletti.
Nelle sue parole non c’era il minimo indizio che poteva far
credere che tutto questo lei lo conoscesse bene; ne aveva parlato
con la stessa indifferenza con la quale illustrava tutti gli altri
luoghi. Fortunatamente il loro programma era molto intenso e a
nessuno dei due venne in mente di cercare un parcheggio;
sarebbe stato impossibile dato il numero di turisti. Visitarono
quindi la cittadina dall’auto e mentre si districavano tra altre
vetture, camper e roulotte, fu più forte di lui, non riuscì ad
impedirsi di chiederle di colpo:
«Mi pare di aver letto che le acque di queste fonti sono
miracolose e chi vi si bagna regolarmente acquisirebbe poteri
straordinari. Ne sai qualcosa?»
Lei, tutta presa dalla guida si voltò un attimo a guardarlo e con
una strana luce canzonatoria negli occhi, gli rispose:
«Bien sur, al Petrarca sicuramente hanno dato molto visto che
qui ha scritto “Claire fresche dolci acque, ove le bell membre
pose colei que seule a me par dona.”»
Vedendo la sua espressione di stupore, fece un gran sorriso e
confessò che nel programmare quella loro gita prima della sua
venuta a Villeneuve, si era preparata studiando a memoria quel
brano. Mai come il quel momento i versi del Petrarca gli furono

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così graditi, perché non vi era stata traccia di turbamento sul suo
viso, dopo la sua domanda; quindi, era molto probabile che lei,
la sua Anne, non avesse nulla che fare con gli Eletti e le loro
cospirazioni. Il monile, un bel gioiello, null’altro e il fatto che lo
portassero uomini e donne poteva voler dire che in Provenza,
fosse di moda. L’uomo della milonga, soltanto un vecchio
innamorato che l’amava ancora, niente di più. Vedendola ballare
con lui lo aveva guardato con rancore solo perché n’era ancora
geloso e le sue rimostranze avevano provocato il malumore di
lei. Tutto si poteva spiegare, senza ricorrere alle congiure di
quella setta.
Uscirono dalla cittadina per poi deviare decisamente a
nord, in direzione di Carpentras dove, passando dalla Porte
d’Orange, comparve loro inaspettato il Mont Ventoux. Lei lo
informò che il Petrarca lo aveva visitato e la sua relazione su
quella escursione, aveva dato inizio all’osservazione
naturalistica, praticamente al Touring Club francese. Il poeta era
un italiano perfettamente inserito in quella terra, visto che aveva
studiato a Montpellier, vissuto ad Avignone e innamorato, come
lui, di una provenzale che si chiamava Laura. Evidentemente era
proprio di buon umore e lui rise al suo calembour.
Carpentras è un importante centro del commercio di frutta
ed Anne gli disse che negli ultimi anni stava risentendo, come
l’Italia, della forte concorrenza spagnola e nordafricana; lo portò
davanti alla Cattedrale per fargli notare la tipica architettura
provenzale e gli chiese se volesse vedere “il Saint Mors”.
«Non capisco - disse Marco - come si può vedere un morso?»
«Le filet du chaval.» rispose lei aprendo la bocca e ponendo
l’indice di traverso davanti ad essa.
«Il filetto di cavallo? Ma è una chiesa, o una macelleria?»
A questo punto lei dovette arrestare l’auto, sopraffatta da un
convulso di risa irrefrenabile e, vedendo la sua espressione
ebete, rise ancora di più, sino ad avere le lacrime agli occhi.

223
Rovistando affannosamente con la mano nella borsa che
poggiava sul sedile posteriore, afferrò un fazzoletto di carta e
prese a asciugarsi gli occhi.
«Sei incredibile caro, tu mi fai morire dal ridere …»
Con la sensazione di essere stato invitato a partecipare ad un
gioco di cui non conosceva le regole, continuava a guardarla
ridere, felice di averle provocato anche se inconsapevolmente,
quella gioia. Quando lei si riprese, gli strinse la mano e ripartì
con la sua spiegazione:
«Le mors du cheval» e rimise il dito sulla bocca, ma questa
volta stringendolo con i denti «è il morso che Sant’Elena
avrebbe costruito con un chiodo della croce di Gesù, per il
cavallo di Costantino Imperatore, suo figlio. E, per prevenirti, ti
dico che se tutti i chiodi che vi sono in Francia, Spagna e Italia,
fossero autentici, la croce sarebbe stata costellata di chiodi.»
Sul percorso che li avrebbe condotti a Orange, attraversarono
piccoli villaggi deliziosi che facevano a gara tra loro per il titolo
di villaggio più bello di Francia. Crestet con la sua architettura
romanica, Mornas con la sua fortezza, e Séguret, un gioiello
restaurato del ‘400, che riportava indietro nel tempo, chiunque
camminasse sul suo acciottolato e si muovesse tra le sue torri.
Più tardi entrarono in Orange, la città di Ottaviano il cui
solo nome evoca romanzeschi principati franco-olandesi,
massacri di ugonotti e principi divenuti re d’Inghilterra. A
metter ordine su tutto e definitivamente, la Rivoluzione
francese. La loro meta era un commerciante di vini da cui Anne
si era sempre servita e che si trovava vicino al magnifico Teatro
Romano; lei nel mostrargli quella meraviglia, disse che aveva
un’acustica perfetta e, a differenza del teatro greco, nei passaggi
più difficili i cantanti volgevano le spalle al pubblico, per poter
sfruttare l’effetto di rimbalzo e amplificazione dell’alto muro
che chiude la scena. Per essere stata solo una colonia romana,
pensò Marco, in Provenza c’erano monumenti che potevano far

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invidia a quelli della stessa Roma; conquistatori, è vero, ma che
bagaglio culturale si portavano appresso! Lei dovette guidarlo
nell’attraversare la strada, perché teneva ancora lo sguardo
rivolto al teatro, non riuscendo a staccarsene. All’interno,
l’enoteca aveva più l’aspetto di una boutique, che quello di un
negozio; nella grande sala di degustazione, si potevano
assaggiare famosi vini francesi che venivano spediti in tutto il
mondo.
Il commesso che si fece loro incontro riconobbe subito
Anne e le dedicò un inchino, prima di stringerle la mano e
rivolgersi con un sorriso misurato a Marco. Era un uomo alto,
sussiegoso, vestito di scuro, con lunghi capelli ribelli tagliati
molto corti sui lati, che gli davano, insieme all’espressione un
po’ ansiosa, una bizzarra rassomiglianza con Stan Laurel. Dopo
una serie di fitti convenevoli, scambiati ad una velocità che gli
fece capire quanto era ancora lontano, dal poter partecipare ad
una conversazione che non fosse con la sua comprensiva Anne,
lei disse secca “comme d’abitude” ed il commesso si eclissò.
Poco dopo ritornò con un cestino in vimini che conteneva
cinque bottiglie di vino rosso stappate, ma ancora integre. I
primi due Châteauneuf du Pape, disse loro l’incaricato, erano un
Cru e un Reservée, ma se madame voleva, lui avrebbe potuto
portarle anche un noble “Vieilles Vignes”. Madame gli rispose
scuotendo il capo in senso di diniego.
Aveva uno strano modo di trattare quell’uomo, un modo
che lui non le aveva mai visto; si teneva ritta e altera sulla sedia,
non concedendogli niente di più che un minimo d’attenzione,
come se lui, nel salutarla all’ingresso, avesse detto qualcosa di
scorretto o indiscreto. Purtroppo, Marco non era riuscito, in quel
flusso di rotacismi, che ad afferrare una sola parola pronunciata
dal commesso: condoléance o forse doléance, ma non ci
avrebbe giurato. Una cosa era certa però: qualunque cosa avesse
detto, non era piaciuta ad Anne ed aveva la strana impressione

225
che la causa stesse nel fatto che lui, Marco, era lì ad ascoltare.
Nei due calici che si trovavano di fronte a ciascuno di loro,
l’incaricato versò dalle due diverse bottiglie un poco di vino e
lui si trovò tra le labbra e sul palato un vino di struttura, robusto
e aromatico, dal lontano sentore di frutta. Se avesse dovuto
scommettere sulle differenze tra i due vini, avrebbe perso
sicuramente perché, a parte il fatto che uno dei due era più
vecchio, altro non avrebbe saputo dire. Quel bouquet, n’est pas?
chiese l’altro ad Anne e lei assentì.
L’appliqué aux vins, prese altre due bottiglie dal cestino e
altri due bicchieri da una mensola in vetro che sovrastava il
lungo bancone: i suoi movimenti erano lenti e rituali e, rivolto a
Marco, disse che ogni bottiglia veniva aperta prima della
degustazione per poter far respirare il vino. Si trattava di due
Côte-du-Rhone Village Plan de Dieu, di due diverse annate. Nel
calice avevano un bel rosso profondo, con un profumo molto
sottile di prugna ed un gusto rotondo nella bocca. L’amore per le
denominazioni altisonanti era sempre vivo nei francesi ma del
resto non per nulla avevano avuto un impero.
Anne, dopo aver assaggiato da ogni calice, prendeva note
che probabilmente le sarebbero servite per gli acquisti e lui si
sentiva un poco messo da parte in questo rituale: per contro, per
sua stessa ammissione, non era un grande conoscitore di vini e
dunque era meglio così. La quinta bottiglia era di un superbo
bianco di Cassis, ottenuto dai vitigni Clairette, Marsanne e
Ugni; quest’ultimo proveniva, come disse il commesso con un
leggero cenno del capo verso Marco, dall’Italia. Un vino dal
colore ambrato intenso, molto profumato, che poteva
accompagnare sia un pesce arrosto, sia un plateau de
coquillage. Pareva che, dopo questo ultimo bicchiere, il rito
fosse finito, Anne terminò di scrivere le sue note e le consegnò
al commesso il quale, molto discretamente, le passò un elenco
con i prezzi dei vini assaggiati: lui non poté resistere senza

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sbirciare le cifre che comparivano a fianco ad ogni voce. Erano,
secondo i suoi canoni, semplicemente pazzesche.
Mentre attendevano che l’incaricato preparasse
l’ordinazione, lui le strinse la mano sotto il bancone; lei voltò il
capo sorridendo, ma non era il suo sorriso quello. Le labbra
contratte in una linea diritta e tesa e piccole rughe di tensione
intorno agli occhi, che non sorridevano. Sembravano cercare sul
viso di lui le tracce di una curiosità insoddisfatta o, peggio, di
una prossima domanda. Marco, come nelle altre occasioni in cui
lei si era trasformata, le sorrise per farle capire che qualunque
fosse la ragione del suo turbamento, lui le era vicino. Si accostò
al suo orecchio e le mormorò, je t’aime cherie. Rassicurata da
quuesto, lei gli rispose moi aussi ... ma non poté completare la
frase perché il commesso le portò l’ordine da controfirmare; le
avrebbero spedito la commande a casa entro una settimana, con
i complimenti della direzione.
Anche questa è fatta - disse lei - ora abbiamo tutto il tempo
per passeggiare un poco per Orange oppure se preferisci,
fermarci a Cheteauneuf-du-Pape. Lui scelse la seconda
alternativa perché non lo conosceva e voleva salire sulla torre da
cui, come aveva letto su una guida, si poteva vedere un
panorama stupendo. Lei concordò su questo e, cedendogli le
chiavi dell’auto, si sedette accanto a lui stendendosi tutta e
chiudendo gli occhi. Era difficile capire se questo fosse dovuto
ai pochi sorsi di vino bevuti - lei non aveva voluto sputare il
vino nel crachoir che si trovava discretamente nascosto ai piedi
del bancone - oppure al desiderio di isolarsi. In pochi minuti
arrivarono a Châteauneuf, passarono davanti ad una selva di
degustations e ventes de vin che esponevano altri Château e
Côte: pareva che, se la vigna non era situata nei pressi di un
castello oppure di un fiume famoso, il vino prodotto avesse
poche speranze. Un’etichetta senza il profilo di un castello o il
nome fantasioso di una côte, non avrebbe venduto.

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Arrivarono alla fortezza e salirono sulla sua torre, dalla
quale si potevano ancora vedere le Dentelles ed il Mont
Ventoux, illuminati in pieno dal sole radente che si stava
avviando al tramonto. La cima del monte ricoperta dalla sabbia
aurifera, che solitamente la fa sembrare perennemente innevata,
a quell’ora pareva rivestita d’oro. Tutto quello che li circondava
sembrava osservato dietro un filtro rossastro e l’aria era ferma e
sospesa, come in attesa. Quell’attimo, che annunciava la fine di
un altro giorno, diede ancora una volta a Marco la
consapevolezza della piccolezza della propria esistenza, di
fronte alla grandezza della natura. Il barlume di coscienza che
illumina d’improvviso la mente, che ci rende certi del fatto che
la nostra unica speranza di salvezza, sia racchiusa nell’amore e
nella bellezza. Che le cose migliori della vita sono gratuite e alla
portata della nostra mano, se soltanto lo vogliamo.
La strinse a sé e lei gli offrì il viso; era morbido e molto
caldo, come se avesse un poco di febbre e anche le labbra,
quando la baciò erano calde. Le toccò con le labbra la fronte:
scottava. Le chiese se si sentisse bene e lei, stringendosi ancora
di più a lui rispose di sì. Non sapeva se insistere, non sapeva
come agire con lei, quando si chiudeva in quei silenzi. Poteva
solo offrirle tenerezza e continuare a prendere su di sé tutto il
peso di quanto c’era di non detto tra loro. Per un brevissimo
istante pensò che quel carico fosse già notevole, che ci fossero
già troppi segni inspiegabili, nel comportamento di lei; e si
stavano accumulando giorno per giorno. Molto più tardi, in
piena notte, fu svegliato dalla voce di lei che si lamentava nel
sonno; un gemito lungo, da piccolo animale ferito. Ancora
addormentato cercò di sovrapporsi ai suoi sogni, sussurrandole
dolci parole francesi, mon amour, mon ame, mon petite ange, je
vis pour toi, je t’adore. Lentamente, come ipnotizzata dalla sua
voce, lei si quietò e riprese a respirare regolarmente mentre lui,
vinto dal sonno, avrebbe voluto annullarsi in quel respiro.

228
15

La prima luce del giorno, schiarendo la stanza, li trovò


abbracciati in quello stato di torpore che non è più sonno, ma
non è ancora veglia. Un insieme di pensieri coscienti e brevi
incursioni nel sogno. Dopo un poco però lei si alzò, perché
doveva uscire molto presto per le sue course: incontrarsi con il
suo fiscalista, passare in facoltà e alla posta. Fecero colazione
scambiandosi le impressioni sul giorno prima, lei scherzò
ancora su San Morso e lui imitò la sua espressione mentre
assaggiava il vino, esageratamente intenta ad annusare,
masticare e gonfiare le guance “comme un poisson balle”. Ma
intanto si stava facendo tardi e lei andò a prepararsi, mentre lui
sparecchiava la colazione: aveva deciso di lavorare a casa quel
mattino ed uscire più tardi solo per fare un poco di spesa giù in
paese. Dopo qualche minuto, lei fu pronta, rinnovata da una
lunga doccia e dal trucco, Era splendida ed il lamento della
notte passata così lontano, da sembrare appartenere ad un’altra
donna, in un altro continente. Prima di uscire, lo abbracciò forte
e guardandolo negli occhi disse, più a sé stessa che a lui, “je
t’aime, oui, je t’aime”.
Rimasto solo iniziò a lavorare sodo, imbastendo lo
scenario del suo prossimo romanzo. Per scriverne la scaletta,
aveva deciso di provare la penna del Centro e non appena iniziò
a spostarla sulla carta, provò un piacere quasi sensuale: mai,
prima di quel momento, aveva provato qualcosa di simile. La
punta procedeva sulla pagina come se l’attrito non esistesse e
l’inchiostro blu si posava seguendo i suoi movimenti, con una
nitidezza e una perfezione incredibili. Pensò che non avrebbe
potuto più scrivere se non con quella penna. La soppesò sulle

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dita e scoperse che era perfettamente bilanciata, nonostante il
rigonfiamento ergonomico sull’estremità. Quando svitò la
punta, scoprì che il refil era stranamente molto corto e tozzo,
come se il desiner avesse sacrificato la lunghezza in favore del
diametro. Un bel regalo davvero, molto di più che un gadget
pubblicitario.
Lavorò per un paio d’ore poi decise di meritarsi un caffè e
sorseggiando il liquido bruno, caldo e profumato, si accostò
all’ampia vetrata del terrazzo per guardare fuori. Il mattino era
già molto chiaro, l’azzurro terso del cielo era maculato dal
grigio chiaro dei rimasugli delle nuvole di passaggio e il
pavimento del terrazzo tratteneva ancora un poco della pioggia
della notte. Si volse verso l’interno e passeggiò per il grande
salone, ammirando ancora una volta i quadri alle pareti ed i
portaritratti con fotografie di Anne con un’amica e con un
piccolo cocker.
Nell’angolo estremo della mensola, la fotografia di una
ragazza bruna, seria, assorta; una leggera somiglianza, gli fece
pensare fosse Amelie, la figlia che viveva a Parigi. Prese tra le
mani il ritratto per studiarlo meglio. In effetti, gli occhi erano
molto somiglianti a quelli di sua madre, ma il sorriso era
decisamente un altro, più lontano, meno comunicativo. Si
vedeva l’impronta del padre anche nella linea diritta del naso
che, invece di assottigliarsi, all’estremità si allargava. Sentì
sotto le dita che i fermi in metallo che trattenevano la fotografia
sul retro erano difettosi, uno di essi era allentato e faceva
muovere la piastra in legno che teneva la foto pressata contro il
vetro. Posata la cornice sul tavolo, la voltò per vedere se poteva
riparare il fermo, ma nel farlo, questo si staccò del tutto: lo tolse
insieme alla piastra e scoprì, sotto la fotografia di quella che
pensava essere Amelie, una busta azzurra un poco scolorita. Fu
più’ forte di lui, non arrivò neanche in tempo a proibirsi di farlo,
che la busta era aperta ed il suo contenuto - un’altra fotografia

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ed una lettera - erano sul tavolo.
Una ragazza dal sorriso caldo, gli occhi luminosi, lo
guardava come a trasmettergli la sua gioia di vivere, la felicità
di quel momento. Il suo viso era più magro e il naso un poco più
lungo di quello di Amelie, ma le assomigliava comunque. La
bellezza di quella donna, che poteva avere meno di trent’anni,
era tutta in quel sorriso. Chi era e perché la sua fotografia era
nascosta sul retro dell’altra? Sentendosi in colpa, ma senza la
forza di desistere, dispiegò la lettera. Era scritta con una grafia
molto elaborata, quasi gotica e in un francese pressoché
incomprensibile, ermetico.
Nel poco che poté tradurre, si parlava di un “tradimento
della donna di St. Remy, che porterà nocumento alla figlia
primogenita e la colpa sarà così lavata” poi altre parole di
minaccia ed infine la chiusura “nel sacro segno del Triskell”.
Nell’angolo in basso a destra, lo stesso simbolo che ritrovava
ovunque, da quando aveva scoperto la pergamena. In questo
però, le tre spirali sembravano infuocate, il tratto era spesso e
minaccioso, l’energia che emanavano era palese, quasi tattile.
Come se scottasse, lasciò cadere la lettera sul tavolo e restò
immobile, folgorato da quello che aveva letto. Una calma e
gelida paura, nata in qualche punto remoto dentro di lui, gli si
gonfiò dentro fino ad invaderlo tutto. Le inquietudini, i misteri
dei giorni passati, tutto confluiva verso quel portaritratti e la
fotografia che celava. Come un fiume impetuoso che, per
quanto contorto sia il suo percorso, trova infine la sua ragione
d’esistere nel mare.
Una fotografia nascosta a ridosso di quella d’Amelie,
poteva solo significare che era accomunata in qualche modo a
lei. Una fotografia qualsiasi sarebbe stata nascosta in un altro
supporto e in un altro luogo. La cornice era abbastanza nuova,
dunque il guasto poteva essere dovuto solo ad una frequente e
non corretta apertura del portaritratti. La domanda che la sua

231
mente ripeteva incessantemente, che l’avrebbe perseguitato
d’ora innanzi era: perché nasconderlo? Quell’incomprensibile
scoperta gli opprimeva il petto come un macigno, e non aveva
alcuna speranza di chiarimento immediato, come non l’aveva
avuto il ritrovamento della pergamena. Non poteva certamente
parlarne ad Anne, avrebbe dovuto dirle che, anche se non
intenzionalmente, aveva frugato nelle sue cose.
Preso dalla frenesia di riparare il fermo al più presto, prima
del suo arrivo, andò in terrazzo e badando a non bagnarsi i
piedi, aprì la porta del ripostiglio. Vi trovò una modernissima
valigetta professionale per bricolage ad alto livello. Prese un
cacciavite, un succhiello ed una pinza, ma mentre si abbassava
per riporre la valigetta, il suo cellulare prese a suonare. Lo
spavento gli fece cadere di mano il cacciavite, lo raccolse e
rientrò di corsa nel salotto per rispondere: si stava comportando
come se lei fosse lì ad osservarlo. Anne lo chiamava per dirgli
che non sarebbe venuta a casa per l’ora di pranzo, perché
trattenuta da un impegno; sarebbe rientrata verso le sei del
pomeriggio. Le rispose di non preoccuparsi, sperando che
attraverso il telefono, lei non capisse l’agitazione che sentiva
dentro: infine, lei lo salutò con un allegro “à bientôt”.
Con pochi gesti precisi - l’abilità manuale non l’aveva mai
tradito - rifece un altro foro per la piccola vite che teneva il
fermo, ma prima di riporre la fotografia dove era rimasta per
chissà quanto, la osservò meglio. Voleva vedere a quando
risaliva. Sul retro c’era impressa una data, il 2006 e poche
parole scritte a penna con una scrittura confusa e incerta. Una
larga macchia - forse una lacrima - aveva diluito l’inchiostro,
allargando a dismisura la e finale:
«Je suis coupable, coupable, et une partie de moi est partie
avec toi cherie …»
Un grido di dolore che da quel portaritratti, si innalzava
muto verso il cielo. Con il cuore in tumulto rimise velocemente

232
a posto la cornice, ripose gli attrezzi e tornò a sedersi al tavolo
da dove non avrebbe mai voluto alzarsi, ora che sapeva. Ma
cosa sapeva? Chi era quella giovane donna e per dove era
partita? Troppe domande senza una risposta. Eppure, sentiva
che era lì, di fronte a lui, ed andava ricercata nelle
trasformazioni che Anne aveva subito a Baux e ad Élapse: nel
suo viso impietrito all’uscita del cimitero.
Stupido imbecille, perché non ci aveva pensato prima! Il
cimitero, ecco per dove era partita quella splendida ragazza!
Ecco la ragione per cui l’impiegato dell’enoteca le aveva porto
le sue “condoléances”. Anne era nata a St. Remy, dunque era
plausibile che la minaccia di un nocumento fosse rivolta a sua
figlia. Dio mio, si disse, la data è recente, di appena un anno
prima. Questo significa che, se è mancata, può essere successo
da poco, da pochi mesi addirittura. Se era la sorella di Amelie,
come ha potuto Anne sopravvivere al dolore della perdita di una
figlia così bella e, giudicando da ciò che trasmetteva il suo
sorriso, così deliziosa?
Chi aveva detto che è contro natura sopravvivere ai propri
figli? Era persino incredibile, se le sue congetture erano nel
giusto, che una donna così provata vivesse da sola, con un ex
marito lontano in Africa e un’altra figlia a Parigi. Anche se il
TGV aveva accorciato di molto le distanze, era pur sempre
troppo lontano per poter essere d’aiuto. Una ridda di pensieri gli
vorticava dentro e tra tutti, uno lo tormentava più degli altri,
legato alle frasi di minaccia contenute nella lettera. Alla fin fine
lei, la donna che amava smisuratamente, era coinvolta in
qualche modo con gli Eletti.
Questo era innegabile.
C’era però quella frase: “il tradimento della donna di St.
Remy”; dunque lei poteva essere una loro vittima che per
qualche ragione li aveva traditi e non un’attrice. “Porterà
nocumento alla figlia primogenita e la colpa sarà così lavata”,

233
poteva forse significare che per vendicarsi del tradimento, le
avevano ucciso la figlia! Era orribile, ma in linea con quanto lui
sapeva degli Eletti!
Allora, sant’iddio, perché lei portava ancora il Triskell?
Per quel giorno non avrebbe più concluso nulla, troppo
preso dalla sua scoperta e tormentato dall’impotenza che lo
bloccava: decise di uscire per andare a far spesa in paese. La
casa di Anne distava cinque chilometri dal centro di Villeneuve,
ma non volle prendere l’auto perché sentiva il bisogno di
camminare, di sfogare con il movimento l’eccitazione che
provava. Uscì dal cancello e si diresse a lunghi passi verso la
confluenza di strade che portavano verso il basso, superando
una serie di ville in stile provenzale; da alcune di queste,
proveniva l’abbaiare astioso di un cane disturbato dal rumore
spedito dei suoi passi. Nello spazio tra un muro di cinta e l’altro,
lo colpì come uno schiaffo improvviso, il magnifico panorama
di Avignone, che risplendeva nel sole del mattino. La pioggia
della notte aveva reso il cielo limpido e non c’era più traccia di
nuvole.
Sbucò nella Rue de la République, la via che attraversa
tutta la cittadina e si diresse verso la piazza del mercato per
preparare qualcosa per la cena. Ma si sentiva confuso, senza
iniziativa, non sapeva cosa fare e come comportarsi con lei.
Comprò delle insalate miste, del formaggio e del confit: tutto
intorno il cicaleccio ignaro delle donne di casa, che sceglievano
tra i vari banchi le verdure migliori e le famose erbe della
Provenza. Ignaro? Quante di loro erano state sfiorate dalla setta,
o meglio quante di loro sapevano? Quella donna che lo
osservava dall’altra parte del banco, era solo incuriosita dal suo
aspetto oppure sapeva?
La voglia spasmodica di un caffè forte, lo portò ad
allontanatosi dal mercato e a sedersi nel bistrò di fronte. A
sinistra, vide la pasticceria dove avevano fatto colazione il

234
mattino dopo la loro prima notte. Un milione di anni prima, per
come si sentiva in quel momento. Allora la loro vita futura
sembrava piena di speranza e senza ombre, ora invece … Come
sarebbe stato tutto diverso se avesse detto subito ad Anne della
pergamena. Se lei era estranea, avrebbero potuto fare ricerche
insieme, mentre se era coinvolta ... In tutti i casi, non avrebbe
avuto questo senso di colpa che lo opprimeva, che gli rendeva
faticoso ogni respiro. Per tutto quel tempo, aveva
inconsciamente sperato in uno scoop che gli consentisse di
pubblicare il best-seller dell’anno, ma non aveva mai affrontato
il fatto che, prima o poi lei avrebbe scoperto tutto. Si era
trascinato sino a quel giorno senza mai pensarci, senza fare
alcun piano, Ogni piccolo gesto - come la ricerca di uno
scarabattolo o il tentativo di riparare il gancio di una porta
ritratto – si era trasformato in una scoperta drammatica, quasi
fosse il destino a condurlo per mano. E allora che fosse il
destino a decidere, lui non avrebbe detto nulla, non avrebbe
rovinato quell’amore che aveva sempre cercato, senza mai
trovarlo. Se lei era coinvolta nella setta, forse lo era solo
marginalmente, forse ne era una vittima. .
Decise di risalire per un’altra strada, più lunga ma anche
più varia, in quanto vi si poteva vedere il forte Saint André con
le sue splendide torri. Risalì lungo i tornanti che la strada
compiva per congiungersi a quella più in alto sulle Rocailles e
dopo una buona mezz’ora fu di ritorno a casa: l’auto di Anne era
posteggiata davanti al suo box, segno che lei era tornata molto
prima del previsto. Entrando nell’androne della palazzina, lo
specchio posto all’ingresso gli rimandò il suo volto sudato e
teso; cercò di ricomporsi, per cancellare ogni segno della
scoperta del mattino. Ci riuscì solo perché lei, dopo averlo
baciato, lo investì con il resoconto del monte di cose che era
riuscita a chiudere in poche ore, spostandosi da un posto
all’altro sempre sotto la minaccia delle multe per divieto di

235
sosta. Aveva pranzato con un vecchio amico ed ora, se a lui non
dispiaceva, avrebbe evaso del lavoro arretrato. Lui assentì,
pienamente d’accordo su quella parentesi che gli avrebbe
permesso, mentre riponeva i suoi acquisti, di pensare.
Muovendosi nella cucina tra i vari cassetti, si ripeteva
mentalmente, come in una preghiera, le sue ultime
considerazioni: Anne era contro la setta, non a favore.
Più tardi lei gli annunciò che aveva in serbo una sorpresa
per quella sera; dovevano uscire alle sette per … no meglio non
anticipargli nulla, “sappi solo che ceneremo fuori”, aggiunse. Il
pomeriggio passò lento, vederla allegra e piena di progetti,
aveva fatto bene anche a lui; questa era la Anne che amava.
Lavorarono entrambi fino a che fu l’ora di prepararsi ed uscire.
Guidò lei, scendendo verso Villeneuve e fermandosi nell’ampio
parcheggio in cui si erano salutati quella prima mattina, in un
passato che ora gli appariva molto lontano. Vedendolo assorto,
lei gli chiese:
«C’è qualcosa che non va caro?»
Lui le disse che stava pensando a quel mattino di agosto e lei,
sorridendo, lo baciò leggera sulla tempia e si strinse a lui.
Ancora una volta ripeté in fretta “je t’aime, je t’aime, oui je
t’aime” come se fosse un mantra propiziatorio. Aveva la strana
sensazione che quando lei lo diceva in quel modo, stesse
chiudendo una verifica che aveva iniziato con sé stessa, verifica
che l’aveva portata a concludere che sì, lo amava. Come
esprimerle tutto questo, sarebbe stato arduo anche se avessero
parlato la stessa lingua… ma, in fondo, non era affatto questione
di lingua.
Uscirono dall’auto e lei lo condusse verso la Rue de la
République, al fondo della quale si trovarono di fronte al
cancello, che portava in un piccolo cortile; il bizzarro ingresso
alla Chartreuse-du-Val-de-Bénédiction. La sorpresa che Anne
gli aveva preparato, era una cena nel ristorante della Chartreuse,

236
seguita da un concerto di musica celtica, che sapeva essere una
delle musiche preferite da Marco. Superato il piccolo cortile,
entrarono nella costruzione vera e propria, una serie di edifici
posti in cerchio attorno ad un grande chiostro che emergeva
nell’immensa piazza; tutto era in pietra chiara, che il sole
calante colorava di un rosa intenso.
Alcuni visitatori si aggiravano tra le costruzioni, entravano
o uscivano dal chiostro mentre altri erano diretti, come loro,
verso la piccola terrazza dove si trovava il ristorante. Pochi
tavoli ben disposti, coperti da tovaglie provenzali indienne,
davano all’ambiente il calore di una raffinata eleganza.
Sedettero nell’ultimo tavolo che dava verso il giardino, un
angolo ancora illuminato dalla luce magica di un tramonto in
Provenza. La luce che aveva incantato poeti, pittori e chissà
quanti anonimi innamorati.
Lui le teneva la mano e ne sentiva il calore, la guardava
negli occhi e gli sembrava di affondare lentamente nello
struggimento di quell’ora, di quel luogo, di tutto l’amore che
sentiva per lei. I loro sguardi erano legati come erano stati i loro
corpi nell’abbraccio del tango, come milioni e milioni di uomini
e donne avevano fatto prima di loro. Il meraviglioso istante in
cui due animi si protendono un verso l’altro, superando la loro
limitatezza di esseri mortali. La consapevolezza certa e
immediata, che tutto, sin dall’inizio, avrebbe potuto essere
diverso per l’uomo, se non avesse ceduto alla vanagloria del
potere, se avesse corrisposto al disegno divino originale, che
poneva l’amore al centro di tutto.
Il sogno più che reale di Dedalo, l’estasi di volare alti
sopra il labirinto - che finalmente rivelava il suo mistero - reso
vano a causa dell’ipertrofico ego di suo figlio Icaro. Una musica
proveniente dall’interno del ristorante, si diffondeva sino alla
terrazza. Il flebile suono di un sax sullo sfondo di un’atmosfera
rarefatta, probabilmente il Vangelis di Blade Runner. Su

237
quell’aria sognante, che sembrava appartenere ad un'altra
dimensione temporale, si svolse la loro cena. Un’ombra vestita
di bianco, forse la cameriera, si muoveva intorno a loro ed
intorno ad altre ombre sedute ai tavoli, tutto aveva un moto
rallentato, persino il brusio francese che li circondava era
ovattato. Il profumo del cibo, il sapore del vino, arrivavano ai
loro sensi non diretti, ma come se filtrassero con lentezza
attraverso un sottile velo che li avvolgeva. Una parola, uno
sguardo, una stretta alla mano posata sul tavolo, questo il loro
dialogo.
Più tardi, un incaricato annunciò che dopo quindici minuti
sarebbe iniziato il concerto. A fatica si distolsero uno dall’altro,
a fatica lui regolò il conto, per tornare subito da lei, per
prenderle il braccio ed accompagnarla verso l’auditorium. La
grande sala, probabilmente ricavata dall’antica chiesa, era in
penombra e si stava riempiendo lentamente della gente che
proveniva dall’altro ingresso. Tutti prendevano posto in
silenzio: la Chartreuse trasmetteva un senso di forte aspettativa,
permeata com’era dalle tracce di tutto quello in cui avevano
creduto, per secoli, generazioni di benedettini. Sul palco i
musicisti preparavano i loro strumenti, un violino, un’arpa
celtica, una tastiera, un flauto ed una cornamusa. Si spensero le
poche luci e scese il silenzio.
Esile eppure teso, crescente, il suono del flauto si levò
verso l’alto.
Il suono del più antico strumento dell’uomo, che dalle
pietraie dei pastori dell’Attica e sino alle pianure del Tigri, si era
sempre levato ad esprimere quello che le povere parole degli
uomini non sapevano comunicare. Accompagnato dal
sottofondo dell’arpa, s’incuneava tra le alte volte di quella che
un tempo era la navata e scendeva tra di loro, parlava di un
tempo lontano, di uomini che avevano amato, sofferto e creduto
in divinità neppure più ricordate. Sentimenti ed emozioni

238
altrettanto forti di quelle che loro due provavano in quel
momento, ma poi disperse come molecole vaganti nello spazio e
nel tempo. Che ne era di loro? Tutto quel puro, distillato sentire,
disperso nel nulla?
Una forte commozione lo prese alla gola, la sentì chiudersi
su uno spasmo che saliva dal petto e gli occhi si riempirono di
lacrime dolorose, che non riuscì a piangere. Avrebbe voluto
aprirsi a quello sfogo e lasciar uscire tutto il dolore accumulato
nell’ultimo periodo della sua vita, ma un blocco glielo
impediva, glielo aveva sempre impedito, da molti anni in qua.
Lei doveva aver sentito il mutare del suo starle accanto, perché
si voltò verso di lui e, vedendo i suoi occhi, lo strinse forte,
ombra indistinta e tremolante tra le lacrime che offuscavano
ancor di più la penombra. Gli si addossò ancor di più e gli prese
la mano. Aveva compreso ciò che provava e forse lo provava
anche lei, dato che per molti versi erano simili.
Per tutta l’ora che seguì, il concerto passò dalle ballate
tradizionali irlandesi, alle lente melodie bretoni, nelle quali la
cornamusa dava la sua voce ed il suo immaginario. Evocava alte
scogliere battute dal vento e dalla risacca, l’onda lunga del mare
di erica che si muove sotto un cielo percorso da grigie nuvole
veloci. Francia anche quella, ma di una bellezza più nordica, più
essenziale, con cieli del tutto diversi.
Uscirono nella notte con il cuore pieno di quella musica
antica e percorsero lentamente la strada in salita verso casa;
volevano ritardare un poco il momento in cui si sarebbero
trovati insieme, allacciati nel buio. Per poterlo apprezzare di
più, quando sarebbe arrivato. Nel silenzio della notte, lei si
rifugiò tra le sue braccia senza una parola. Tra loro c‘era ancora
quella musica che fungeva da linguaggio muto e segreto: il
desiderio salì lento dai loro corpi per arrivare alla bocca e alle
mani che morsero, toccarono e strinsero con un’impazienza di
possesso reciproco, mai provata prima. Si mossero uno

239
sull’altra, si penetrarono e si lasciarono più volte, niente
sembrava proibito quella notte, niente doveva restare intentato.
In lei tutto lo chiamava e lo bramava, se ne appropriava con una
fame che sapeva di paura del futuro.
Lui provava il desiderio di sciogliersi in lei, avvolgerla o
esserne avvolto per scongiurare l’imminente, troppo vicina
separazione. Più volte lei ripeté che era suo, solo suo e non
l’avrebbe mai perso, le stesse parole che lui le diceva creando
una sovrapposizione che sempre più assomigliava ad
un’invocazione; rivolta agli stessi dei che li avevano fatti
incontrare, quelli che avrebbero deciso anche del loro futuro.
Fu una notte intensa, unica. Volavano, come volano i
gabbiani sul mare in tempesta, tesi verso il cielo, le lunghe ali
spiegate a ricevere il vento. Come loro si lasciarono cadere
nell’esplosione della tensione, sprofondando nelle onde, sempre
più in basso, dove tutto era quiete. No, pensò lui, dopo averla
baciata ancora una volta, tutto questo non può finire, e si lasciò
andare ancora più in basso, senza più alcuna resistenza, verso il
sonno.

Camminava in una via che gli era familiare, la luce dei


lampioni faceva brillare l’asfalto umido perché aveva smesso di
piovere da poco. Più avanti, un’insegna tremolante, la cui grafia
manuale annunciava ad intermittenza, “Café Procope”. Tirò
verso di sé la grigia porta metallica e si trovò davanti a ripide
scale che scendevano in basso, verso il buio: sentiva una musica
lontana, ovattata. Sulla destra un grande oblò circolare, si
affacciava su una sala in penombra. Sullo sfondo una sbilenca
scaletta alla marinara, portava alla consolle abbarbicata sotto il
soffitto, mentre tutto intorno si muovevano lentamente ombre

240
colorate.
Al termine della scalinata si apriva a sinistra un grande
bancone bar, illuminato da livide pareti in vetro su cui si
allineava un numero incredibile di bottiglie. Il bar era spettrale e
deserto, come la cassa, e la bacheca posta sul muro di fronte
riportava manifesti polverosi e ingialliti dal tempo. Le pareti
esponevano una serie di quadri angosciosamente moderni, che
istintivamente evitò di guardare: sentiva che era molto
importante, addirittura vitale. Nel salone la volta ricurva era
illuminata da luci colorate, che davano ombre variegate ai
mattoni a vista delle pareti. La musica era ancora lontana,
troppo lontana, come se la consolle dalla quale Aurora gli stava
sorridendo, fosse a chilometri di distanza. Alzò stancamente la
mano per salutarla e vide che i tre grandi ventilatori sul soffitto,
giravano con una lentezza esasperante, emettendo uno stridulo
cigolio.
Il suono lontano e spiacevolmente stonato di un valz fu
interrotto dalla voce di Aurora, deformata come se arrivasse da
profondità remote: a malapena riuscì a comprendere che in suo
onore, una coppia avrebbe ballato un brano che lui amava
particolarmente. Le note del “La vals d’Amelie” planarono
lentamente dalle casse poste sul soffitto e lui si trovò in un
viaggio nel tempo, in una balera sulle rive della Marna
illuminata dalla luna, con donne dalle ampie gonne plissettate
che volteggiano tra le braccia di ballerini vestiti di scuro.
Tutt’intorno, la belle époque, ma non quella dei borghesi o dei
dragoni di cavalleria di Renoir. Quella ben più tragica degli
apaches di periferia di Becker che, stretti nella fascia che
cingeva loro la vita - nascondiglio del lungo coltello - ballando
si contendevano le loro donne.
Di lontano avanzavano verso di lui due figure, girando
senza sosta al ritmo della vals musette: lui aveva una mano nella
tasca e l’altra attorno alla vita della donna che stringeva. Lei lo

241
guardava intensamente negli occhi. Archetipi dell’amore
impossibile, Serge Reggiani e Casque d’Or, gli venivano
incontro roteando. Lui alzò gli occhi verso la consolle, voleva
capire il perché di quanto stava accadendo, ma Aurora non c’era
più. Al suo posto l’uomo della milonga, quello che aveva ballato
con Anne, lo stava guardando fissamente, malevolmente.
Si svegliò con la sensazione di aver vissuto un sogno che
conteneva un messaggio importante, ma incomprensibile.
Ricordare il Caffè Procope, dove aveva mosso i primi passi di
tango, gli aveva lasciato una forte emozione, perché quella
milonga era ormai entrata nel mito. Chiusa da anni, ma ancora
presente nella mente di tutti coloro che vi avevano ballato, e non
solo italiani. C’erano state nel sogno alcune immagini che ora, a
mente fredda, lo impaurivano: perché la presenza di quell’uomo
sulla consolle? Una semplice trasposizione mentale tra la
milonga di Nimes e l’amato Caffè Procope? Un’altra, raggelante
nella sua proiezione, era quella che gli aveva fatto rivivere una
scena del film “Casque d'or”.
Perché il suo inconscio aveva associato Serge Reggiani e
Simone Signoret, che lui aveva amato molto, con il tango? Un
brivido gli corse lungo la nuca e chiuse gli occhi per scacciare
l’immagine che gli si era appena presentata. Nel finale del film
Manda, l’apache interpretato da Reggiani veniva ghigliottinato.

Quel mattino, Anne lo lasciò in Place Crillon perché


doveva incontrare un agente immobiliare: aveva deciso di
vendere il grande alloggio che possedeva ad Avignone e doveva
mostrarlo a due probabili clienti. Nel lasciarlo gli disse che gli
avrebbe inviato un messaggio prima di passare a riprenderlo,
dopo due o tre ore al massimo. La giornata era ancora molto

242
calda per il mese di settembre, ed il solito bar aveva ampliato il
numero dei tavolini esposti al sole. Dopo aver ordinato un caffè,
estrasse la nuova penna dalla borsa. Improvvisamente ricordò
che non l’aveva ancora mostrata ad Anne; si sentiva forse
inconsciamente in colpa, per le avance che gli aveva fatto la
donna del Centro?
Bastarono le prime righe sulla pagina, a fargli provare
ancora una volta il piacere dello scorrere dell’inchiostro sui
fogli; aveva la bizzarra impressione che la penna scrivesse da
sola. Lavorava da una buona mezzora, quando fu distratto dal
rumore delle gambe metalliche di una sedia che strisciavano sul
pavimento. Alzò lo sguardo e vide, nel tavolo accanto, un uomo
attempato e molto elegante che stava sedendosi. Nel sentirsi
osservato, l’uomo gli rivolse un cenno con il capo e sorrise;
portava un bianco e anacronistico cappello in paglia che,
insieme alla folta barba molto curata, lo faceva assomigliare a
Monet. La carnagione rosa, i vividi occhi azzurri ed il modo in
cui sorrideva, lo rendevano subito molto gradevole e Marco
sorrise a sua volta.
«Può essere che siate italiano?» domandò il vecchio ed al suo
assenso, gli domandò ancora da quale città italiana provenisse e
se era in Provenza per lavoro. Nell’udire che stava scrivendo
proprio sulla Regione e che veniva da Torino, gli chiese
gentilmente se potesse sedersi accanto a lui. Marco accettò la
proposta. Il vecchio sembrava un tipo molto interessante, e
chissà che non gli avrebbe dato lo spunto per un personaggio del
suo romanzo. Con un’agilità che non denunciava i suoi anni,
l’anziano si alzò, prese la borsa in cuoio che aveva con sé e si
sedette nella sedia accanto alla sua. Posò sul tavolo il cellulare,
una corposa agenda un poco deformata dall’uso e iniziò a
parlare in un italiano fluente.
«Prima di tutto mi consenta di presentarmi. Mi chiamo Pierre
Brosses ed ho voluto disturbarla, perché gradirei parlare un

243
poco con lei di Torino, una città nella quale in passato ho
vissuto. Mi dicono che negli ultimi anni si è trasformata
divenendo, se possibile, ancora più bella, vero?»
Marco si trovò d’accordo con lui e gli descrisse i profondi
cambiamenti culturali e architettonici della sua città. Chiese poi
al vecchio dove abitava, quando viveva a Torino.
«In una piazza magnifica, una delle più belle e forse la più
grande d’Europa: Piazza Vittorio. Nel mio stesso palazzo
abitava un amico carissimo, che gradirei molto mi salutasse,
quando ritornerà a Torino. È uno studioso d’esoterismo e uno
dei più grandi storici di Alchimia a livello mondiale. Inoltre,
conosce la Cabbalah come a pochi è dato di sapere. Le sarebbe
d’incomodo?»
Nel sentire quelle parole Marco si chiese quanto fosse casuale
quell’incontro e chi fosse veramente la persona che stava di
fronte a lui. Se era El Alcuflin lo studioso che lui avrebbe
dovuto salutare, questa era un’occasione unica per verificare la
sua ipotesi sulla vera identità dell’arabo. Fissando l’uomo negli
occhi, gli chiese a bruciapelo:
«Sarebbe un vero piacere per me poterle salutare il signor
Fulcanelli, ma pochi giorni fa è sparito senza lasciare tracce.
Conosce qualche altro suo recapito forse?»
Nell’udire quel nome, l’uomo fece uno strano e rapido gesto con
la mano, quasi volesse disperdere nell’aria le vibrazioni, che
quella parola poteva aver provocato. Nel frattempo, impallidì
visibilmente, e fissò Marco con un’espressione di forte
incredulità: a fatica staccò poi i suoi occhi da lui per guardarsi
velocemente intorno, come se temesse qualcosa. Sempre senza
guardarlo mosse impercettibilmente le labbra per chiedergli:
«Quindi voi sapete molto di più di quanto credevamo. Siete
proprio certo che il Maestro sia fuggito? Nel rispondermi non
muovete le labbra, ci sono persone esperte che potrebbero
decifrare le vostre parole. Anzi, fingete di leggere i vostri

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appunti mentre mi parlate. Io farò altrettanto.»
Adattandosi al comportamento del vecchio, Marco rispose
cercando di parlare con le labbra immobili e senza guardarlo in
viso.
«Ne sono più che certo. L’alloggio che occupava è
completamente vuoto, ed i vicini non ricordano niente di lui. Il
giorno prima ci eravamo incontrati ed avevamo avuto una lunga
conversazione sull’omicidio di Nostradamus. Lui mi aveva letto
un lungo documento sugli Eletti.» dovette interrompersi perché
parlare in quel modo era faticoso e provocava una forte
salivazione.
«Che cosa si addice allo zaffiro?» ancora quella domanda, che
era divenuta nel tempo la parola d’ordine dei Compagnons.
«La luce dell’alba.»
Il vecchio lo guardò di sfuggita e ristette per un poco in silenzio.
Si capiva che era indeciso sul da farsi, e che la notizia
dell’ennesima sparizione di Fulcanelli, l’aveva sconvolto.
Imprevedibilmente il suo viso si distese al sorriso e mormorò:
«Il Maestro ci ha lasciati per la sua nuova purificazione, ma
tornerà più forte e deciso che mai.»
Seguì una lunga pausa di silenzio, che Marco avrebbe voluto
interrompere con mille domande; quell'uomo era, con tutta
evidenza, un Compagnon e poteva spiegargli molte cose. Si
trattenne, perché voleva lasciare al vecchio il tempo di
riprendersi da quanto gli aveva detto.
«Mi rendo conto che lei si è trovato fortunosamente, nella
confluenza di più correnti di cui nulla sapeva sino a poco tempo
fa.» riprese l’uomo con una voce accorata «senza volerlo ha
compiuto un cammino iniziatico che altri hanno impiegato anni
a percorrere ed ora si trova in una situazione estremamente
pericolosa.»
«Dunque l’aggressione che ho subito a Torino non era casuale!»
«Senta Signor Fabiani, continuare a parlare è molto rischioso:

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lei stava scrivendo poco fa, dunque continui a scrivere e mi
faccia un resoconto, di tutto quello che ha fatto, dall’incontro
con il Maestro ad oggi. Io farò lo stesso per lei e a chi ci
osserva, sembrerà che siamo intenti alle nostre consuete
occupazioni.»
Dopo aver assentito con il capo, Marco descrisse per sommi
capi quanto gli era stato richiesto, includendo questa volta anche
Anne; se lei si era messa contro la setta, era necessario che i
Compagnons lo sapessero. Avrebbero potuto proteggerla. Con la
coda dell’occhio vide che il vecchio, scrivendo rapidamente,
aveva riempito in breve tempo di fitti caratteri due pagine.
Sospesa la scrittura, piegò i fogli in quattro parti e li ripose, così
parve a Marco, nella tasca interna della giacca. Subito dopo, e
con voce normale, gli chiese cosa stesse scrivendo sulla
Provenza, facendo nel frattempo il gesto di porgere le mani per
prendere il suo blocco di appunti. Lui glielo sporse ed il vecchio
iniziò a leggere, interrompendosi a tratti per commentare, con
parole come interessante, o notevole. Una volta finito, gli
restituì il blocco e riprese ancora a scrivere, riempiendo un altro
foglio che piegò e rimise in tasca.
Tutto questo armeggiare, invece di sembrargli ridicolo lo
impauriva; si guardò attorno per vedere se qualcuno li stava
spiando, ma tutto pareva identico alle altre mattine. Un uomo
con l’immancabile baguette infilata sotto il braccio, una signora
con cagnolino, ed una strana coppia, formata da una
biondissima francese e da un ragazzo con i capelli rasta. Mentre
li osservava, sentì che qualcosa gli veniva infilato nella tasca
sinistra della giacca, quella che stava a lato del vecchio. Subito
dopo lo sentì mormorare:
«Ora vada in bagno e legga attentamente quanto le ho scritto.
Distrugga poi i fogli, mi raccomando e li butti nello sciacquone.
Io l’aspetterò qui fuori per darle altre indicazioni.»

246

Il Sommo Eletto aveva sentito abbastanza. Compose sul


cellulare il numero di chiamata veloce, relativo all’esecutore che
stava sulla Place Crillon e, con voce pressante, diede l’ordine:
“Supprimez le”. L’idea di donare all’italiano la penna del
Centro, aveva finalmente dato un risultato. Faceva parte della
dotazione degli agenti CIA ed era costata una fortuna, perché
conteneva una trasmittente miniaturizzata, che non poteva
essere rilevata in alcun modo. Dopo molti giorni di ascolto,
delle inutili scempiaggini che lui e la donna si scambiavano, ora
aveva la conferma definitiva. Il Maledetto, il secondo Giano, era
sino a pochi giorni prima a Torino e lo avevano mancato ancora
una volta; qualcuno avrebbe pagato per questo. Lo scrittore poi
sapeva molto, forse troppo. Quell’italiano, che si muoveva come
una biglia inconsapevole sballottata in un bigliardino, sembrava
avere l’incredibile capacità di attirare tutte le persone a loro
ostili. Anche il suo incontro con il traditore Brosses era stato
sicuramente voluto da quest’ultimo. Con ogni evidenza i
Compagnons lo sorvegliavano, oppure sorvegliavano la donna.
Per il momento, la cosa più importante era togliere di mezzo
Brosses; aveva già dato loro troppi fastidi. Nel suo ultimo
viaggio in Messico si era avvicinato pericolosamente alla clinica
del Progetto Staminali e, come se non bastasse, aveva convinto
un missionario italiano ad indagare con lui sulle sparizioni nelle
favelas, degli ultimi due anni.
Avrebbe voluto essere al posto del sicario incaricato di
eliminarlo, ma non l’avrebbe fatto nel solito modo rapido ed
efficiente. Stringendo le mani sui braccioli della poltrona,
immaginò di avere sotto di sé quell’uomo che aveva scelto di
tradire, che aveva scelto il cerchio di luce nera ... che aveva
osato sfidare gli Eletti e lui stesso ... Meritava molto di più del
veleno, meritava una di quelle morti lente e atroci che aveva

247
dispensato nei giorni gloriosi delle SS. Un innesto osseo senza
anestesia, una vivisezione ... Per un poco si trastullò con questi
pensieri, poi si riscosse: attendeva la conferma che il suo ordine
fosse stato eseguito. L’italiano poteva aspettare, gli avrebbe
concesso ancora del tempo e questo pensiero gli piacque; lo fece
sentire onnipotente, un dispensatore di tempo. Lui che di tempo
ne voleva molto, lui che lo voleva tutto. Per sempre.

Nel frattempo, Marco si era avviato verso il caffè, aveva


pagato il conto e dopo aver percorso tutto il locale, era arrivato
al bagno. La porta aveva purtroppo il chiavistello guasto, quindi
dovette appoggiarsi contro per chiuderla. Estratto dalla tasca
quanto il vecchio furtivamente gli aveva infilato in tasca, si rese
conto che oltre al suo resoconto, c’erano altri tre fogli che
riportavano la calligrafia fitta e minuta, di chi è uso a scrivere
ancora molto a mano:
- Caro Signor Fabiani, mentre lei redige il suo resoconto,
io le farò una confessione. La teniamo d’occhio da tempo, dal
giorno in cui ha incontrato a Torino il Maestro, ma non
sapevamo della sua aggressione, altrimenti l’avremmo protetta.
Quello che a noi è sfuggito, era fortunatamente noto a colui che
è in procinto di purificarsi; aveva preso le sue precauzioni,
allontanandosi da Torino. Potrei dirle che in un castello,
appartenente a qualche nobile che ci è amico, si sta svolgendo in
questi giorni la Grande Opera, che la Trasmutazione è vicina e
che San Germano ritornerà, ancora una volta a trionfare sulla
morte. Ma quel che mi preme ora è metterla in guardia dagli
Eletti. Lei è stato scelto dal fato, per penetrare segreti millenari
che molti uomini hanno cercato invano di ottenere. Da tutto

248
questo, non ne ha tratto vantaggi economici scrivendo articoli,
oppure sceneggiature televisive, come altri avrebbero fatto. Noi
pensiamo che questo sia dovuto sicuramente alla sua correttezza
morale, ma sospettiamo pure che ci sia un altro motivo che la
spinge ad attendere, a capire: la signora Anne Vicelli. È evidente
a chiunque vi osservi che vi amate, e sapendo quanto io so su
quella donna, sono certo che lei debba avere un fascino notevole
per averla conquistata. Capirà meglio quanto dico, più avanti
nella lettura.
Veda Signor Fabiani, sotto e sopra la superfice terrestre,
opposte forze endogene ed esogene sono perennemente al
lavoro. Allo stesso modo in cui le sottili rocce sedimentarie
subiscono un continuo processo di disintegrazione, al di sotto
del quale infuria il nucleo infuocato, così in superficie infuria il
conflitto tra noi e gli Eletti. Lug ci aveva lasciato la Conoscenza
e la Gloria, ma gli anni, la stanchezza e la sete di potere, ci
hanno divisi tra coloro che cercano il miglioramento spirituale e
coloro che vogliono sempre di più. L’ultima opportunità per noi
fu l’apparire del grande iniziato Nostradamus che, applicando la
dottrina di Lug, fu in grado di arrivare alle Grotte e alla
Trasmutazione. Seguendo i suoi insegnamenti, avremmo potuto
prepararci ad accedere a quei misteri, come lui aveva fatto
precedentemente. Noi tutti siamo certi che se gli Eletti, avessero
adottato la sua filosofia sull’ordine cosmico, lui ci avrebbe
rivelato il segreto delle Grotte.
Purtroppo, una buona parte di loro mirava solo al potere e
all’immortalità, agognata solo per prolungare per sempre questo
potere. Il segreto della modificazione cellulare, acquisita nelle
Sorgenti Sacre e nelle Grotte, doveva servire il genere umano,
non predominare su di esso. La loro concezione del tempo a
spirale era contraria a tutti gli insegnamenti di Lug, che ci aveva
donato il simbolo del Triskell per significarci il Passato, il
Presente e l’Avvenire. Riuniti tutti in un unico grande ed eterno

249
ciclo, chiamato Continuo Infinito Presente, in cui tutto esiste
nello stesso tempo. Quando il Grande Maestro venne ucciso -
attraverso i nostri informatori ne venimmo subito a conoscenza
– decidemmo di creare una confraternita parallela alla setta, che
tenesse vivi gli insegnamenti di Lug. Era formata da quelli che
conoscevano i segreti delle correnti telluriche e delle “Onde di
Forma” (che sono alla base della costruzione magica) e
applicavano i canoni della Sezione Aurea. Facevano parte della
gilda dei Compagnons ed erano molto uniti tra loro.
Negli altri paesi europei avvenne la stessa cosa: i fedeli al
Maestro si unirono ai Fratelli Muratori, dai quali nacque in
seguito la massoneria. Purtroppo, all’interno della massoneria si
infiltrarono i nostri avversari, sotto in nome di copertura degli
Illuminati e iniziarono la scalata al potere in molte delle sue
logge. Più tardi fece la sua comparsa un altro iniziato. Sorgeva
dalle correnti del tempo in modo misterioso e non rimaneva mai
troppo nello stesso luogo. Diceva di essere giunto alla
Trasmutazione attraverso la Pietra Filosofale, dopo una fatica di
anni e anni, ma non trasmise a nessuno i suoi segreti. Sosteneva
che ognuno doveva arrivare alla meta attraverso il proprio
infaticabile lavoro. Per propria natura fu subito dalla nostra
parte, ma in modo diverso da Nostradamus. Non si scontrò mai
con le triadi, preferendo le tattiche di guerriglia, colpire e
fuggire per poi riapparire. È stata sempre la nostra guida, sia che
si chiamasse San Germano o Fulcanelli o El Alcuflin.
Ora però le debbo parlarle di una cosa che la riguarda da
vicino. Si prepari dunque a farsi forza, perché quanto le dirò non
le piacerà.
La signora Anne è un’adepta. Forse lei lo aveva sospettato
oppure, pur avendolo pensato, lo ha rimosso, ma è così. Lo è da
quando, ancora diciottenne, superò con un punteggio molto alto
un test per la misura del quoziente intellettivo. Il test era
organizzato con un pretesto dalla triade, che si avvale anche di

250
questi mezzi per reclutare gli adepti dei livelli intermedi. Fu
scelta e iniziata alla Radiestesia a Glanum, e le fu imposto
anche il corso di studi in geofisica, che affrontò con successo.
La sua vita procedette quindi su due binari: la studiosa che si
sposa, mette al mondo due figlie e vive serena, e l’adepta che
continua le ricerche sul magnetismo terrestre.
Era però destino che quella donna patisse nella sua carne,
un crimine del quale la triade è la sola responsabile: uno dei
tanti omicidi che, partendo da Nostradamus, arrivano sino ai
giorni nostri. La sua primogenita Madelene, una donna
meravigliosa, le fu strappata in nome della segretezza della
setta. Laureata a Tolosa in fisica quantistica, vi si era stabilita ed
aveva intrapreso ricerche sugli studi che il Dott. Hartmann
elaborò negli anni Cinquanta, sulle “ Onde di forma “. Analizzò
a fondo la sua teoria secondo la quale la Terra è avvolta da una
rete di origine elettromagnetica, le cui linee di forza si
incrociano in determinati punti detti “Nodi”. Verificò che le
radiazioni provenienti dagli strati più profondi del sottosuolo
terrestre, hanno origine dai fiumi sotterranei e modificano le
linee di forza del campo magnetico del pianeta. Madelene, che
non conosceva l’appartenenza di sua madre alla confraternita,
non la mise mai al corrente dei suoi studi, che si stavano
avvicinando pericolosamente al segreto delle correnti telluriche.
Altrimenti questa l’avrebbe fermata.
Proseguì invece sempre più addentro, perfezionò il
magnetometro a saturazione e il radio misuratore e con questi
strumenti scoprì che la Rete di Hartmann era servita
nell’architettura sacra delle Cattedrali. Esse erano costruite dove
era possibile convogliare le energie cosmiche che scaturiscono
dal sottosuolo, per dare modo agli esseri umani di innalzarsi
verso il cielo. Non appena la sua prima pubblicazione scientifica
fece il giro dei centri di ricerca, la signora Anne fu contattata da
un emissario del Supremo Eletto, un uomo che le auguro di non

251
incontrare mai. Se è mai esistita su questa terra la quintessenza
del male, lui la rappresenta molto bene.
Si dice che fosse a capo di un centro studi segretissimo sul
prolungamento della vita umana, nel castello delle SS di
Wewelsberg. Le cavie di questi esperimenti erano bambini
ebrei. Potrei dirle molto di più su di lui, ma temo che non mi
crederebbe oppure non crederebbe alle sue orecchie.
L’emissario censurò aspramente il fatto che Anne non fosse al
corrente della direzione degli studi di sua figlia e gli intimò di
fare in modo che quelle indagini cessassero subito. Lei andò a
Tolosa, indagò indirettamente sullo stato dell’arte delle ricerche
della figlia e scoprì che era troppo tardi, erano già molto
avanzate e finanziate dal governo, che cercava la conferma della
pericolosità dei campi elettromagnetici sugli esseri umani.
Sfruttando i fondi governativi, Madelene aveva creato due filoni
di ricerca paralleli; uno studiava la pericolosità di impianti e
apparecchiature, che possono generare campi magnetici, l’altro
guidato direttamente da lei, indagava invece sugli effetti
benefici dei campi stessi.
Non sappiamo se fu il destino a portarla a scoprire la
relazione di Nostradamus con le acque delle Sorgenti Sacre.
Quando infine le due donne si trovarono faccia a faccia, Anne
scongiurò sua figlia di desistere da quelle ricerche, ma non
potendole spiegare il motivo, fu poco convincente. Stava ancora
pensando a come fermarla, quando Madelene decise una
campagna di prospezioni magnetiche nella zona tra Salon e
Glanum. Partì da sola sulla sua piccola Peugeot, caricata di tutti
i suoi strumenti e la madre non la rivide più viva. Le telefonò la
polizia stradale per dirle che era precipitata, forse per un malore,
da un ripido tornante delle Alpilles.
Da allora la signora Vicelli non visse più.
La colpa di aver causato la morte della sua adorata figlia la
tormentò giorno e notte. Non poteva neppure denunciare gli

252
assassini, perché le fecero sapere che se avesse parlato, la stessa
sorte sarebbe toccata ad Amelie, la sua secondogenita che vive a
Parigi. In seguito, arrivò lei signor Fabiani, e la vedemmo
trasformarsi a poco a poco. Se lei non fosse incappato nella
setta, sarebbe soltanto un italiano innamorato di una bella
signora provenzale e io avrei potuto augurare a tutti e due un
futuro sereno. Ma purtroppo non è così. Ora leggerò i suoi
appunti e in base a quanto sa, le darò istruzioni in merito. A
dopo. –
Marco aveva letto i due fogli di un fiato, senza pause. Ora
la verità, tutta intera, si trovava davanti a lui; in quelle poche
righe scritte a mano da un vecchio che pareva uscito dalla belle
epoque. Avrebbe dato un anno di vita per tornare indietro a
pochi minuti prima, a quando non sapeva che Anne fosse
un’adepta, che le avevano assassinato una figlia e che la
tenevano sotto la minaccia costante di ucciderle anche l’altra.
Ma che tipo di uomini poteva fare questo? Sinora aveva letto dei
delitti della setta come si può leggere un romanzo criminale, nel
quale tutto è finzione e non ci tocca. Ma ora si trovava dentro
alla storia, nell’elenco dei personaggi e interpreti che
comparivano sui cartelloni della dramma che si stava
rappresentando. Restava solo da capire qual’era, accanto al suo
nome, il ruolo che lo sceneggiatore gli aveva attribuito. Con un
brivido ritornò a quella notte sotto la Mole, e si rese conto per la
prima volta, che la morte lo aveva davvero sfiorato: risentì
l’urlo del sicario, perché ora lo sapeva, non era altro che un
sicario. “Tu es foutu.” Non restava che leggere l’ultimo foglio,
quello che il vecchio aveva scritto dopo aver letto il suo
resoconto. Fortunatamente nessuno aveva cercato di entrare in
bagno, anche se era dentro da dieci minuti. Riprese la lettura
chiedendosi che cos’altro di terribile lo attendeva.
- Signor Fabiani, mi rendo ora conto che lei sa molto, fin
troppo, per non aver attirato l’attenzione della triade. La sua

253
aggressione di Torino mi pare sempre meno casuale e il fatto
che non sia più stato molestato può dipendere da due fattori, uno
dei quali, non le piacerà, credo. La setta non sa che lei ha
trovato la pergamena, ne ignorava sicuramente l’esistenza e lei
ha attirato la loro attenzione soltanto per il genere di libri che ha
richiesto nella Biblioteca Nazionale. Potrebbe essere per loro
solo uno dei tanti che scrivono su Nostradamus. Non sa che lei
ha incontrato il Maestro, sanno solo che usciva da uno dei molti
palazzi che sorvegliano. Non dimentichi che un tempo vi
abitavo io. Il secondo fattore è che lei si trova sotto la costante
sorveglianza della signora Anne.
Posso immaginarmi la sua reazione alla parola
“sorveglianza”; lei ama quella donna e può esserle inconcepibile
pensare che la tradisca, ma deve mettere in conto anche questo.
Ci sono altrettante probabilità che la triade le abbia rivelato i
suoi movimenti, quante ve ne sono che non l’abbia fatto.
Sarebbe nello spirito della loro logica perversa. Deve sapere che
alcuni di loro facevano parte della SD di Reinhard Heidrich, il
servizio segreto delle SS naziste. A questo punto si sarà chiesto
se la triade è composta da più che ottuagenari, dato che ho citato
per due volte il nazismo. No, signor Fabiani non hanno creato la
Grande Opera, se è questo a cui sta pensando. Alcuni tra gli
Eletti sono predisposti geneticamente a recepire meglio di altri,
la modificazione cellulare creata dall’azione congiunta delle
correnti telluriche e delle Fonti di Luce. Questo li porta ad
acquisire un prolungamento della vita; ecco perché il Supremo
Eletto dimostra appena cinquant’anni.
Ma c’è un fatto nuovo che ha sconvolto qualche anno fa la
triade: le Fonti di Luce stanno subendo un inquinamento che
non è solo chimico, ma anche magnetico. Il campo magnetico
terrestre, secondo alcuni - e Anne è tra questi - sta subendo una
forte trasformazione. Questo lo porterà tra breve ad invertirsi.
Se nel presente questo fatto ha solo causato la perdita graduale

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delle proprietà delle acque, è possibile che più avanti porti forse
alla scomparsa, di una parte del genere umano. Noi
Compagnons non lo temiamo, anzi lo aneliamo: abbiamo da
tempo costruito rifugi nelle grotte più profonde delle Alpilles e
grazie a questo, pensiamo di poter sopravvivere. Crediamo
fermamente in quanto predisse Nostradamus: quel cataclisma
porterà ad un nuoco ciclo e ad una trasformazione benefica
dell’uomo.
Gli Eletti hanno costruito anche loro rifugi nelle montagne
svizzere, ma a loro sopravvivere non basta. Da anni investono
cifre colossali nello studio segreto delle cellule staminali, con
un solo scopo. Il raggiungimento dell’immortalità. Nel mio
ultimo viaggio in Messico sono stato a Cuernavaca ed ho potuto
vedere la clinica segreta, che porta avanti il Progetto Staminali.
Un bunker super moderno in cui lavorano alcuni tra i migliori
scienziati del mondo. Purtroppo, non mi è stato possibile sapere
di più sulle loro ricerche, ma un missionario comboniano, che si
trova laggiù da anni, quando ha saputo che facevo domande
sulla clinica ha voluto incontrarmi. L’orrore di quanto mi ha
rivelato, supera qualsiasi immaginazione, supera persino i
racconti dei sopravvissuti agli esperimenti nazisti nei lager.
Insospettito dall’aumento del numero di bimbi scomparsi negli
ultimi due anni, il missionario aveva iniziato ad indagare,
pensando ai circuiti di film pedopornografici. Le famiglie dei
bambini, dalla data della scomparsa in poi, improvvisamente
acquistavano automobili, televisori di grandi dimensioni,
eccetera, pur vivendo nelle baraccopoli.
Abbiamo iniziato ad indagare insieme partendo dalle madri
le quali, finito il denaro, erano le prime a pentirsi di quanto
avevano fatto. Nei loro racconti si parla di incaricati molto
affettuosi con i bambini, che girano tra le baracche prospettando
ai genitori adozioni in famiglie americane o europee. Tutto fatto
segretamente, per bypassare le lungaggini burocratiche. Il

255
pensiero che i loro figli abbiano un futuro migliore di quello
toccato a loro, smorza il dolore della perdita, incrementando in
questo modo il traffico infantile. Perché signor Fabiani, da anni
spariscono bambini in Messico, in Brasile e nel Nord Africa,
senza che nessuno si muova. Ultimamente però, si sono
aggiunte nuove voci, molto più orrende della pedofilia, voci su
fatti che potrebbero appartenere ad un mondo dominato da
vampiri più che da esseri umani.
Sepolture affrettate, negligenze nell’occultamento di
piccoli cadaveri, hanno messo in luce una realtà inconcepibile.
Tutti i corpi dei bambini erano sventrati, ed erano state asportate
loro tutte le ghiandole. Corsi e ricorsi diceva il vostro
Giambattista Vico, ma qui ci troviamo di fronte al ricorso
dell’orrore: da Dachau a Cuernavaca, da Auschwitz a Lione. Si
signor Fabiani, ha letto bene, perché a Lione, città del National
Institute of Health and Medical Research, città all’avanguardia
nella ricerca medica, è stata creata dalla triade un’altra clinica
dell’orrore. La clinica del Progetto Staminali 2.
Il denaro può tutto, può pagare il silenzio dei medici e la
complicità dei politici. In quella clinica arrivano i bambini dei
campi libici che raccolgono gente da tutti i paesi africani.
Attraversano il Mediterraneo su motoscafi superveloci e
vengono raccolti a Marsiglia. Sospettiamo, anzi siamo ormai
certi, che le ghiandole prelevate vengano trattate in qualche
modo, prima di essere trapiantate nel corpo di un ricevente;
l’obiettivo è quello di prolungarne enormemente la vita, sino al
prossimo trapianto.
La triade ha fretta, gli anni dell’inversione magnetica sono
vicini e loro vogliono un sistema per divenire immortali prima
del cataclisma. Sopravvivere dunque, ma da immortali; per
divenire i capi supremi di quelli che resteranno. Annullando in
questo modo la profezia che parla di un nuovo ciclo di
trasformazione dell’umanità e perpetuando, con l’immortalità, il

256
loro errore per l'eternità. Dopo l’inversione nessuno può
prevedere se esisteranno ancora cliniche e scienziati per
proseguire la ricerca. Ecco, dunque, il perché della loro follia,
ecco il perché hanno scelto, con la stessa inumana indifferenza
dei nazisti, la soluzione più veloce. Cosa vuole che conti
qualche centinaio di bimbi sventrati, per chi ha ucciso sei
milioni di ebrei? Non ci risulta che sinora abbiano avuto
successo, ma questo potrebbe avvenire da un giorno all’altro e
ci troveremmo in circolazione dei mostri, che si aggirano tra noi
come animali predatori dalla vita eterna. Che Lug li maledica,
perché hanno insozzato la sua dottrina e reso blasfemo il segno
del Triskell. Questo è quanto lascio alla sua considerazione: ne
faccia l’uso che la sua natura le detterà, decida lei se e come
denunciare ai mass media la cospirazione, ma consideri che la
setta ha assassini che possono raggiungerla ovunque. Buona
fortuna. –
Per un istante nella sua mente ci fu il vuoto assoluto: gli
pareva di non essere più lui a tenere chiusa la porta del bagno,
ma che fosse questa a sorreggerlo. Se tutto quanto aveva letto
era vero, non si trattava più di una cospirazione a fini politico-
economici, ma di una serie di omicidi pianificati e portati a
termine da persone complici e insospettabili. Mentre faceva a
piccoli pezzi i fogli, il raccapriccio per quanto aveva appreso si
faceva strada lentamente nella sua mente; sentì in bocca uno
sgradevole sapore metallico, il sapore della paura. Se quella era
la realtà che lo circondava, si trovava ben oltre ogni domanda
che potesse fare. Al di là di ogni risposta, che potesse
comprendere.
Uscendo dal bagno con le gambe malferme, tutto gli
pareva diverso. Ogni persona che lo guardava sembrava
scrutarlo, per avvertire dal più piccolo segnale che lui sapeva.
Persino il sottofondo di chiacchiere da bar appariva come
un’orrenda cacofonia che lo circondava. Il sole alto nel cielo di

257
Provenza dava luce e calore, anche a chi in quello stesso
momento e probabilmente non molto lontano, stava
organizzando l’uccisione di decine e decine di bambini senza
alcuna garanzia di successo, e soltanto con la fievole speranza di
poter vivere per sempre.
Chi aveva detto “dov’era Dio mentre i camini di
Auschwitz fumavano”? Si pensava che esistesse un prima e un
dopo Auschwitz, che non sarebbe accaduto ancora: e invece
c’erano stati il Bangladesh, i Balcani, il Rwanda, il Darfur ed
oggi c’era questo. Fuori del bar la scena era la stessa di pochi
minuti prima, ma era lui a non essere più lo stesso. Non sarebbe
stato più lo stesso uomo, dopo quella mattina. Ora aveva una
nuova compagna che non l’avrebbe più lasciato. La paura.
Quella che in quel momento gli stava impedendo di respirare,
obbligandolo a spalancare la bocca in cerca d’aria, con il cuore
che pareva volesse uscirgli dal petto.
Tornò al suo tavolo e vide che l’anziano si era appisolato,
il capo reclinato in avanti ed il cappello sugli occhi. Si sedette e
lo chiamò piano per non spaventarlo. Non ci fu nessuna
reazione. Lo chiamò ancora e vedendo che non si muoveva, gli
toccò la mano che aveva abbandonato sulla gamba. Nonostante
fosse esposta al sole, la sentì orribilmente fredda, la mano di un
manichino appena estratto da un frigorifero. Nel momento in cui
il cappello di paglia, cadendo, scoprì gli occhi del vecchio -
vuoti, senza vita e sbarrati sul nulla - seppe che il rombo che
sentiva crescere lentamente nelle orecchie, non era altro che il
suono del suo battito cardiaco, amplificato dal terrore.
Istintivamente ebbe la certezza che il vecchio fosse morto
e con un gesto automatico gli rimise il cappello; si muoveva
come un automa, facendo seguire il movimento al pensiero, ma
senza una reale coscienza di quanto gli stava accadendo.
Guardandosi attorno, si accorse che il tavolino di Brosses era
vuoto, il cellulare e l’agenda spariti. Chiedendosi cosa dovesse

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fare, si alzò e si guardò intorno. Sull’angolo di un portone
spalancato sulla piazza, immobile nella sua rilassata arroganza,
guardandolo fissamente, stava l’uomo della milonga, Forse era
l’incidenza della luce - che contrastava la penombra del portone
- a fargli credere che la sua bocca sorridente s’increspasse in un
ghigno di una malvagità assoluta. Forse era la sua suggestione,
ad immaginare che con la mano sinistra gli rivolgesse un cenno,
muovendo le dita verso di sé come se lo invitasse a
raggiungerlo. Ciò che era invece innegabilmente chiaro, nella
sua spaventosa evidenza, era il fatto che nell’altra mano, l’uomo
teneva un ombrello ripiegato strettamente. In quella
meravigliosa giornata di sole, la presenza di un ombrello era
molto più che assurda, era terrificante.
Significava una sola cosa: assassinio.
Il conto era già pagato, il cameriere non avrebbe avuto
ragioni per fermarlo; dunque, poteva andarsene, e di corsa. Si
voltò, afferrò la sua borsa e si diresse dalla parte opposta a
quella dove stava l’uomo, nella stessa direzione del luogo
dell’appuntamento con Anne. Volgendosi indietro di tanto in
tanto, per vedere se l’uomo lo seguiva, vi giunse infine trafelato
ed in ritardo.
Lei era già arrivata, lo aspettava in seconda fila e quando
lui salì nell’auto esclamò:
«Finalmente Marco! Un vigile è passato due minuti fa e mi ha
chiesto di spostarmi, meno male che sei qui.»
Impegnata nell’uscire da quel parcheggio improvvisato,
fortunatamente lo sfiorò soltanto con lo sguardo, senza
accorgersi del suo stato; per l’effetto dell’adrenalina, la gamba
destra era scossa da un forte tremito, stentava a respirare e solo
a fatica riuscì a non vomitare. Quando lei gli chiese - sempre
guardando la strada - com’era andata la mattinata, dovette fare
uno sforzo atroce per non urlarle addosso tutto quel che gli era
accaduto. Senza rendersene conto, e con una voce che non gli

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parve nemmeno la sua tanto era penosa, le disse che sì, era
andato tutto bene. Lei distolse per un attimo gli occhi dalla
guida e lo guardò in viso:
«Cosa c’è caro, ti senti male ? Sei pallidissimo!»
Per un istante, pensò che questa fosse l’occasione buona per
parlare, per dirle tutto e liberarsi di quel peso; nel contempo,
considerò che se lei sapeva e ne era complice, raccontandole
tutto si sarebbe messo completamente nelle loro mani.
D’impulso, dopo aver pescato dalle sue risorse più nascoste uno
stentato sorriso, le rispose che il solito caffè, quella mattina gli
aveva fatto venire la nausea. Fissando il suo profilo, dopo un
poco le chiese :
«Sai, ho conosciuto un uomo molto interessante questa mattina,
un certo signor Pierre Brosses che ha vissuto per molti anni a
Torino.»
Se lui le avesse confidato che quella mattina c’era il sole, lei
avrebbe espresso maggior meraviglia di quella che dimostrò in
quel momento. Sorridendo gli disse:
«Che bello! Sono contenta che tu abbia trovato qualcuno con
cui parlare della tua città: sai, a volte mi sento un poco in colpa
per tutto questo tempo che passi da solo a causa dei miei
impegni. Vorrei farti più compagnia, ma in compenso ho una
bella notizia per te: avevamo programmato che tu tornassi in
Italia la prossima settimana, perché io dovevo ripartire per
lavoro, ma ho annullato tutto. Non parto più e puoi restare da
me sin quando vuoi. Sei d’accordo?»
Possibile che lei - anche se era un’adepta di grado intermedio -
non conoscesse Brosses? Quella che stava guidando ora verso
Villeneuve, era una grande attrice oppure era la sua Anne,
iniziata ma nello stesso tempo vittima di una setta, che le aveva
ucciso la figlia molto amata?
Sentiva che il suo rapporto con Anne stava divenendo
sempre più schizofrenico; ogni risposta aveva sempre due facce,

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esattamente come Giano bifronte, e questo continuo dualismo,
lo faceva impazzire. Non riusciva a credere che nello stesso
momento in cui aveva trovato la donna della sua vita, fosse
finito in un girone infernale, nel quale omicidi e bambini rapiti e
squartati, erano la normalità. Ogni qualvolta aveva deciso di
ignorare tutto e di pensare solo a lei, qualcosa o qualcuno era
venuto a cercarlo, mettendogli davanti fatti sempre più orribili.
Se poco prima di incontrare Brosses, poteva pensare che si
trattasse solo di una serie di coincidenze che si erano incrociate
con personaggi bizzarri e stralunati, la morte del vecchio
riportava tutto su un piano di realtà anche troppo concreta. Per
gran parte della sua vita, aveva vissuto come in un sogno;
persino nel momento delle decisioni più importanti, gli era
sembrato di assistere alle sue scelte come se fosse estraniato su
un binario parallelo, come se non lo riguardassero. Si chiese se
per tutti fosse così, se la realtà irrompesse nella loro vita,
soltanto quando si trovavano davanti a qualcosa di
ineluttabilmente drammatico, e improrogabile. Un medico che
dava loro solo pochi mesi di vita, oppure un vecchio che
rivelava un’orrenda macchinazione in cui lui, Marco, avrebbe
potuto perdere la vita.
Ora lei gli stava chiedendo se fosse contento di restarle
accanto per un tempo indefinito e lui non sapeva nemmeno se
l’annullamento del suo viaggio, fosse dovuto alla triade che le
aveva imposto una sorveglianza ancora più stretta, oppure al
piacere che provava nello stare con lui. In qualche modo riuscì
ad esprimerle la sua gioia, non sapendo se congratularsi con sé
stesso per l’abilità acquisita nel mentirle, o sentirsi in colpa per
il fatto di farlo continuamente. Nello stesso istante, un’altra
paura si fece strada nella sua mente, una cosa a cui non aveva
ancora avuto tempo di pensare. Il mal di testa, che da qualche
minuto si era annunciato come un lontano preavviso,

261
s’impossessò della sua tempia destra iniziando a pulsare con
forza.
Il cameriere del caffè! Lo aveva visto parlare con il
vecchio? Poteva sperare in una cosa sola, nell’efficienza della
triade e questo pensiero gli sembrò enormemente grottesco. Se
il vecchio era stato ucciso con la lama dell’ombrello animato, e
lui ormai ne era più che convinto, sapeva che i veleni usati su
quell’arma non lasciavano tracce. I sintomi e l’aspetto del
cadavere sarebbero stati quelli di un uomo morto per una crisi
cardiaca. Per contro non poteva andare lui dalla polizia per
denunciare l’assassino: strappando i fogli nei quali Brosses
denunciava i crimini della triade, aveva perduto ogni prova.
Erano ormai giunti a casa di Anne, e solo allora lui ricordò
di essere a digiuno dal mattino. Il solo pensiero del cibo gli fece
tornare la nausea. Sentiva il bisogno di pensare, il bisogno di
restare un poco da solo per pensare; a cosa avrebbe potuto fare
per precedere gli avvenimenti, anziché subirli, come gli era
accaduto sinora.

16

Alle nove del mattino, il satellitare emise il suono che


identificava come chiamante la clinica di Cuernavaca: quello
squillo sarebbe rimasto impresso per sempre, nella mente
dell’uomo che rispose alla chiamata con il solito “sono io.”
Il dottor Gutierrez gli comunicava in codice, che “la talea
aveva attecchito”, e che ormai da tre giorni non vi erano sintomi
di degenerazione cellulare. La fredda risposta “bene procedete“,
non rispecchiava minimamente ciò che in quel momento il
Sommo Eletto stava provando.

262
Alla fine, il cerchio di luce nera sarebbe stato sconfitto per
sempre. Assaporò quella parola facendola penetrare nella sua
carne, nei suoi muscoli, nelle sue ossa, sentendosi vivo,
onnipotente e immortale come non lo era mai stato. Per un
attimo, la sua mente riandò a molti anni addietro, quando il
cerchio di luce nera aveva quasi avuto la meglio su di lui, ferito
gravemente in un letto dell’ospedale da campo di Smolesk. La
rapidissima e trionfale avanzata dell’armata del Nuovo Ordine,
durante l’operazione Barbarossa, li aveva portati a Kovno e
Dvinsk, dove avevano continuato ad “epurare” la zona da ebrei
e da commissari del popolo russi per tutta l’estate. In autunno
però, la situazione era cambiata. A causa delle piogge, la loro
mobilità si era ridotta drammaticamente, nonostante
disponessero dei Tigre, i carri armati delle Waffen-SS.
Nemmeno il potente motore Porsche riusciva a vincere l’enorme
massa di fango, che li aveva sommersi. Rivide la steppa russa
trasformata in un immenso acquitrino dalle piogge autunnali,
rivide le SS del suo Sonderkommando accerchiare un villaggio
di isbe, in cui gli informatori davano per certa la presenza di
partigiani comunisti.
Risentì, con la stessa forza con cui l’aveva colpito quel
mattino, la premonizione della pallottola che da qualche parte,
davanti a lui, lo stava cercando. Nella sua visione era apparso il
proiettile che avanzava con lentezza esasperante, ma tutto il
resto era opaco, immerso in una nebbia lattiginosa che
nascondeva chi lo stava prendendo di mira. Durante tutta la
campagna, le sue premonizioni li avevano salvati più volte dalle
imboscate e lui si era fatto la fama di ufficiale invincibile.
Purtroppo, le sue visioni erano spesso confuse e non erano
scandite da un conteggio temporale che le collocasse con
precisione nel tempo. Poteva arrivare al massimo a due o tre ore
in avanti, ma non conosceva esattamente quando sarebbe
successo ciò che intravedeva. Per tutta la mattina la visione

263
l’aveva ossessionato, quindi aveva deciso di rimanere al coperto
nel panzer, sino alla fine del massacro. Questa volta aveva dato
l’ordine di sopprimere tutti, e non solo gli ebrei e i commissari
politici, perché non sapeva chi impugnasse l’arma che gli
avrebbe sparato. Attraverso la feritoia del carro vide l’ultima
donna cadere, continuando a scagliare contro di loro lunghe
maledizioni in quella lingua barbara, che poco aveva di umano.
Decise di uscire dal carro e si guardò intorno.
Un cielo tetro, freddo ed opprimente, ricopriva una
monotona pianura che si estendeva a perdita d’occhio. Una
ventina di capanne di paglia e fango, costituivano quello che i
selvaggi che abitavano quelle lande, chiamavano villaggio.
Davanti a lui, una lunga trincea conteneva più di duecento
cadaveri, ed alcuni ufficiali si muovevano tra i corpi per dare il
colpo di grazia. Erano lontani i giorni in cui Himmler si era
preoccupato della salute mentale dei propri uomini, che
operavano in queste “missioni”. In uno dei suoi ultimi discorsi
aveva detto “I più di voi sanno cosa significa trovarsi davanti a
cento cadaveri, a cinquecento o a mille. Aver provveduto a tutto
questo e, a parte le eccezioni costituite da alcuni episodi di
umana debolezza, essere rimasti ugualmente corretti, ecco cosa
ci ha resi duri”. Il suo luogotenente si stava avvicinando per fare
rapporto e in quel momento tutto fu orribilmente chiaro.
Un’immagine nitida e dettagliata si sovrappose a quanto stava
avvenendo intorno a lui. Un uomo ferito, rimasto nascosto in un
fienile e sfuggito per questo alle perquisizioni, lo stava
prendendo di mira con un fucile da cecchino. Troppo tardi cercò
di spostarsi di lato, la pallottola si muoveva con la forza
impressale dal destino.
Si risvegliò molto più tardi, riemergendo dal buio che
aveva tentato di inghiottirlo. Nel momento stesso in cui riprese
conoscenza, nacque in lui l’ossessione per la ricerca di un
mezzo, che scacciasse il cerchio di luce nera che aveva visto

264
stringersi intorno al suo letto. Reale, quasi tangibile nella sua
orrenda concretezza. Attraverso la setta seppe che nel castello
segreto di Wewelsberg erano in corso ricerche, sul
prolungamento della vita umana e si fece assegnare a quel
ristretto gruppo di ricercatori. In breve tempo lo
soprannominarono “Der blonde Engel” l’angelo biondo della
morte. Solo una volta, in due anni, un vecchio rabbino russo gli
aveva dato l’impressione di leggergli dentro perché,
guardandolo fissamente, aveva gridato “usgas, usgas, demon”! I
suoi occhi erano spalancati dal terrore e lui si era poi sempre
chiesto cosa avesse visto. Più tardi gli avevano spiegato che
quelle parole russe significavano “orrore, orrore, un demone”.

Poco dopo le dieci, Anne uscì per uno dei suoi impegni e
Marco si trovò solo come aveva desiderato sin dal giorno prima.
Durante la notte aveva dormito ben poco, cercando di capire in
quale direzione dovesse agire. Immobile nel letto per non
svegliarla, aveva elencato tutte le persone a cui avrebbe potuto
rivolgersi per denunciare quanto sapeva della setta. Purtroppo, il
suo elenco era molto scarno e non conteneva un amico che fosse
in una posizione così influente da poter agire contro di loro.
L’unica possibilità era operare attraverso la stampa, ma doveva
essere una firma libera da condizionamenti; un free-lance con
molta autorevolezza.
Ricordò che in occasione della pubblicazione del suo
saggio su Nostradamus, era stato intervistato da un giornalista
che collaborava con una rivista scientifica molto diffusa.
Quell’uomo gli era parso molto competente perché, invece di
fargli perdere tempo con domande sulle previsioni della fine del
mondo, lo aveva interrogato a fondo sugli anni in cui il
veggente aveva scritto le centurie più importanti, al ritorno da

265
Torino. Più ci pensava, e più gli pareva che quel giornalista
fosse la persona giusta per diffondere rapidamente l’allarme sui
misfatti della triade. Cercò febbrilmente nell’agenda del
portatile, se ci fosse un richiamo a quell’incontro e dopo aver
spulciato diverse pagine, lo trovò: si chiamava Sergio Accorsi e
fortunatamente aveva preso nota anche della sua mail. Scrisse
lentamente tutta la storia, utilizzando anche gli appunti che
aveva preso a Torino e man mano che procedeva, era chiaro
anche a lui che agli occhi di un estraneo tutto sarebbe parso più
come il risultato di una mente confusa, che come una serie di
fatti reali. C’era però la pergamena, e c’erano i rapimenti di
bambini, tutte cose più che reali. Anche la morte di Brosses era
reale, come scoprì ascoltando il notiziario regionale. Nel
notiziario non si parlava di lui, quindi almeno su quel fronte
poteva sentirsi tranquillo. Alle tre del pomeriggio potè inviare al
giornalista la sua relazione; nella prefazione aveva inserito
anche il numero del suo cellulare, chiedendogli di chiamarlo
entro le diciotto. Dopo quell’ora, non sarebbe stato più
reperibile.
Anne arrivò molto più tardi del previsto; erano quasi le
otto, quando sentì il rumore della chiave nella serratura.
Richiusa la porta dietro di sé, si voltò e a lui parve subito strana,
con un solco sulla fronte e la bocca contratta. Al suo sguardo
interrogativo rispose con un borbottio sulla “journèe de merde”
che aveva avuto e sparì al piano di sopra per una buona
mezzora. Dopo aver mangiucchiato qualcosa, passarono quella
serata sul divano. Lui senza il coraggio di chiedere, per paura
delle risposte che poteva ricevere, lei assorta, come se scavasse
e scavasse dentro di sé, senza trovare una soluzione. Quando
allungò la mano per versargli il tè, Marco ebbe l’impressione
che tremasse. L’odore dolce della sua pelle ed i capelli raccolti
sulla nuca, gli diedero un tale sentimento di tenerezza da
stordirlo. Dietro il diaframma che li separava, tutto quanto non

266
sapeva di lei stava montando come un rumore di fondo sempre
più forte, un brontolio lontano che stava prendendo il
sopravvento su loro. Tutta la forza che aveva sempre attribuito
all’amore, gli pareva ora un’arma spuntata contro le angosce
che li assalivano; perché anche lei era angosciata e si vedeva. Si
ripeteva nella mente che si amavano, che il resto non aveva
importanza, che contavano solo loro due, ma gli pareva che
quelle parole avessero perso la loro magia; c’era qualcosa di
oscuro, di malvagio, che cercava di insinuarsi tra loro, che
cercava di dividerli.
Più tardi lei si riprese un poco e lo guardò in modo
diverso; con il capo rovesciato all’indietro, respirava
affannosamente, con eccitazione. Iniziò a sbottonargli la camicia
e infilò la mano sotto, accarezzandolo. Portò l’altra mano dietro
la schiena per slacciarsi il reggiseno, mentre la camicetta si
apriva completamente, dandogli la visione improvvisa e inattesa
di un seno bianco colmo, stranamente eretto. Fecero l’amore,
ma non era il loro modo abituale di farlo, sapeva più di ultimi
giorni di Pompei, che di progetti per il futuro. Sembravano due
partigiani che si accoppiassero con l’incubo del rumore degli
stivali nazisti su per le scale. In lei c’era poca tenerezza e molto
possesso, anche se la sua disponibilità, la sua mancanza di tabù
erano totali. In un breve sprazzo di lucidità pensò che la sua idea
di felicità, come costante beatitudine, era sbagliata. Spesso è più
simile alla passione, cioè alla sofferenza.
Il mattino dopo, quando si svegliò erano le nove e lei si era
già alzata: non era né in bagno né nel suo studio, quindi doveva
essere di sotto. Stava per scendere il primo gradino della scala a
chiocciola, quando la sentì parlare al telefono, concitata. Non
riusciva a comprendere le parole perché lei discutendo, si
muoveva avanti e indietro nel salone, ma in un momento in cui
si trovò più vicina, comprese che non era francese, quello che
lei stava parlando. Ancora una volta quello strano miscuglio

267
d’argot, provenzale e occitano che aveva già udito prima.
Quando riattaccò ristette per un attimo immobile, le belle spalle
nude rese rigide dall’estrema tensione che l’agitava. Scendendo
la scala, si trovò davanti al suo sguardo penetrante, concentrato,
come se stesse pensando intensamente a qualcosa che lo
concerneva. Di colpo, si avvicinò a lui, lo abbracciò e gli disse:
«Marco ti prego non mi fare domande. Vestiti, prepara la valigia
e seguimi con la tua macchina. Dobbiamo andare subito, prima
che cambino idea.»
Ebbe appena il tempo di dire “dove, perché” e lei lo afferrò per
un braccio, lo baciò sulla bocca con una violenza mai vista,
come se volesse trasmettergli in quel modo tutto quanto non
poteva o non voleva dirgli. Lo spinse verso il bagno e lui si
preparò, fece la valigia e scollegò il portatile come in sogno.
Ancora una volta, come altre, come troppe volte, si sentiva
staccato, a lato di ciò che gli stava accadendo, come se tutto
questo non lo riguardasse, e si maledì per quella sua accidia.
La seguì di sotto, salì in macchina e si accodò a lei, che
guidava in modo isterico con brusche accelerazioni e frenate
improvvise, sempre al limite della velocità consentita. Uscirono
da Villeneuve e si avviarono verso i luoghi dei ricordi di pochi
giorni addietro, verso le Alpilles, verso St. Remy, in un percorso
a ritroso che gli scavava dentro solchi di dolore. Si fermarono
infine sulla strada che portava ad Elapse. Era l’ora di pranzo di
un giorno feriale, quindi la strada era deserta.
Anne scese dall’auto, si avvicinò al suo finestrino e gli
ordinò “aiutami”, poi si diresse verso una macchia ai bordi della
strada. Facendosi dare una mano da lui, scostò due grossi
cespugli che nascondevano, una cancellata in legno chiusa da un
grosso lucchetto, lo aprì, ne spalancò i battenti e gli fece segno
di seguirla. Appena oltrepassato lo steccato lei scese ancora
dall’auto, rimise a posto i cespugli e richiuse il cancello. Dalla
strada non erano visibili né il recinto, né la strada in terra battuta

268
che proseguiva nei campi. Ripartirono e attraverso un lungo
giro, arrivarono di fronte ad un tipico Mas provenzale in pietra
chiara. Di lontano tra gli alberi si scorgeva la rocca d’Elapse.
Anne prese dalla borsa un grosso mazzo di chiavi e dopo aver
cercato quella che gli serviva, aprì la porta in legno di un
piccolo locale che fungeva da garage. Gli fece cenno di andare
dentro e mentre lui faceva manovra, lei aprì una grande porta di
legno massiccio ed entrò nel Mas. Evidentemente si aspettava di
essere seguita.
Solo in quel momento, realizzò che Anne non aveva
portato nulla con sé. Probabilmente quella era la sua casa
vacanza e c’era tutto quanto potesse servirle. Prese la sua
valigia, il portatile e seguì il rumore dei suoi passi al piano
superiore. La scala addossata al muro era in pietra come le
pareti e, in un’altra occasione, il posto gli sarebbe parso molto
romantico. In fondo al corridoio, in una delle stanze da letto,
c’era Anne finalmente immobile, finalmente di fronte a lui.
«Vuoi spiegarmi ora, perché siamo qui?»
«Niente domande ti avevo chiesto. Non c’è tempo per lunghi
discorsi, perché sicuramente mi avranno seguito ed il mio
stratagemma della strada nascosta può funzionare solo se
ricompaio presto su una delle strade che portano ad Avignon.
Devi rimanere qui per sei, sette giorni. Ti chiamerò io quando le
acque si saranno calmate; non usare carte di credito o il
cellulare. Ti lascio mille euro per ogni evenienza, ma non devi
assolutamente uscire dal Mas, per nessuna ragione. Qui puoi
trovare tutto quel che ti serve, la dispensa è piena e il freezer
pure. Quando tutto sarà più sicuro, potrai tornare in Italia, ma
non subito a Torino. Mi hai detto che hai amici a Milano, vai da
loro e restaci un mese o due. Deve prima calmarsi tutto qui,
devo riuscire a calmarli.»
Mentre parlava si muoveva a scatti lungo la stanza,
guardandolo solo di sfuggita e pronunciando le ultime parole

269
come una preghiera. Lui riuscì solo ad emettere un suono rauco
che gli parve più un rantolo che una protesta:
«Ma tu chi sei veramente?» In quella domanda, c’erano giorni e
giorni di dubbi, paure e illusioni. «Come puoi far parte di quella
banda di assassini? Come puoi essere dei loro, sapendo ciò che
fanno ai bambini?»
«Che dici, quali bambini? Quali bambini?»
«Quelli che strappano ai genitori nelle bidonville, quelli che
rapiscono, per poi sventrarli! So tutto ormai, Brosses mi ha
svelato tutti i vostri spaventosi segreti! So che asportano le loro
ghiandole, le trattano con cellule staminali - in modo che non
invecchino più - e le impiantano negli Eletti per renderli
immortali! Sei anche tu nella lista d’attesa, oppure non sei
abbastanza importante?»
Lo sconcerto, il dolore, che leggeva ora sul suo viso, non
potevano essere simulati. Possibile che lei veramente non
sapesse niente di tutto questo?
«Ti giuro, credimi, io non so niente di quanto dici, mi sono
sempre occupata di correnti telluriche e magnetismo…»
«E quello che hanno fatto a tua figlia allora?»
Lei si arrestò come fulminata dalle sue parole, e Marco si pentì
d’averle pronunciate, nello stesso istante in cui gli uscivano
dalla bocca. Con una voce rotta dal pianto, lei gli urlò quasi:
«Mio dio, mio dio, mio dio… se tu sapessi! Mi hai chiesto chi
sono? Sono stata una giovane brillante geologa che credeva di
fare ricerche per il bene dell’umanità, che voleva regalare agli
uomini i benefici delle Fonti di Luce. Ah, che pazza sono stata e
quanto mi sbagliavo! Stavo lavorando per loro senza saperlo!
Anche quando iniziai a sospettare che la triade mirasse solo al
dominio, non feci nulla; ero già intossicata dal potere che il
denaro concede agli idealisti come me. Le migliori chances,
viaggi pagati, laboratori attrezzati, entrature ai più alti livelli.
Chi sono io? Sono quella che ha fatto fuggire il marito in Africa

270
per non farlo uccidere dalla triade, ed ora lui è sull’orlo del
suicidio, perché muore di nostalgia per la Francia. Sono quella
che non è riuscita ad impedire agli assassini di arrivare a
Madelene … quella che dopo un anno di dolore cupo, sordo, nel
quale ho pensato di uccidermi, ti ha visto arrivare ed ha
ricominciato a vivere, a credere nell’amore…ed ora non vuole
che arrivino a te. Ecco chi sono.»
«E noi? Che sarà di noi?»
È finita Marco, è la fine. Se vuoi vivere devi fare come ti ho
detto. In un altro tempo, in un altro luogo, avremmo potuto
vivere il nostro sogno, ma qui no.»
«Ma io ti amo!»
«Merde,vuoi vivere o vuoi morire? Non c’è un’altra scelta. Se
farai come ti ho detto, non mi cerchi, dimentichi tutto quanto sai
e ritorni in Italia, vivrai. Continua a fare domande, continua a
cercare risposte, cercami e morirai. Entendu? Ti sto salvando la
vita se non l’hai capito, testone di un italiano...»
Un singhiozzo le spezzò la voce, ma reagì subito. Pescò nella
borsa il portafoglio, estrasse un mazzo di banconote e le posò
sul tavolo, insieme alle chiavi. La mano le tremava visibilmente
e lui non resisté più, si buttò su di lei e la strinse a sé. Si
aggrapparono uno all’altro e mentre lei gli si premeva contro,
lui continuava a dirle che l’amava.

17

Il rumore della sua auto che si allontanava, fu l’unico


suono che per molto tempo fu in grado di ricordare; la casa era
così vuota da far paura. Cercò di fermare un suono qualsiasi,
che potesse testimoniare che lui fosse ancora vivo, ma non gli
riuscì. L’unico segnale dentro di sé, era il rombo che sentiva

271
pulsare nelle orecchie, la dilatazione del battito cardiaco del suo
cuore, che sembrava impazzito. Ogni respiro era una fatica
immane e dovette stendersi sul letto.
L’ho persa - si disse - l’ho persa per sempre e finalmente si
sentì dentro a ciò che stava accadendo, sentì il dolore forte,
straziante, che partiva dallo stomaco per salire fino alla gola e
chiuderla. Iniziò a piangere piano, come se stesse provando i
suoi condotti lacrimali, poche lacrime che si asciugarono subito,
seguite dal primo singulto doloroso che scosse le sue spalle, e
da una serie di singhiozzi lancinanti. Dentro di sé rivedeva e
rivedeva l’ultima scena, come farebbe un montatore impazzito
con una pellicola ribelle. Restò disteso sino al pomeriggio
inoltrato, quando si riscosse per andare in bagno. Si chiese se
d’ora in avanti lo aspettasse solo un’interminabile attesa,
durante la quale sarebbe rimasto consapevole, ma impotente.
Come quelle prede invischiate nella ragnatela e paralizzate dal
veleno, in attesa che il ragno deponga le sue uova dentro di loro.
Immobilizzato, ma cosciente. Passò i quattro giorni seguenti a
scrivere agli amici, che rispondevano dapprima felici di
leggerlo, poi sempre più impensieriti dal non riuscire a parlargli;
aveva silenziato il cellulare e ad ogni vibrazione, si limitava a
leggere se sul display apparisse il nome di Anne. Scrisse a tutti
di non preoccuparsi, era molto preso dalle sue ricerche, ma si
sarebbero rivisti presto.
Avvolto dal silenzio della casa, nella quale non penetrava
nemmeno il canto mattutino degli uccelli, si muoveva solo per
aprire il frigorifero, prendere del formaggio, una galletta, una
brocca d’acqua e ritornare alla finestra. Incredibilmente, tutto
era rimasto come sempre; il cielo bellissimo della Provenza era
solcato da veloci e sfilacciate nuvole, sospinte dai venti
meridionali. Passando davanti allo specchio nel corridoio, per
poco non gli cadde tutto di mano: di fronte a lui stava un uomo
scarmigliato, con la barba lunga ed un sottile, acido, odore di

272
traspirazione. Non poteva essere lui, non poteva essersi
trasformato così in poco tempo. Il quinto giorno pioveva, una
pioggia biblica, paurosa, da si salvi chi può. Nessuna voce
amica o altolocata, che fornisse un manuale di istruzioni per la
costruzione di un’arca “fai da te”. Il vetro della finestra era
appannato, lunghi rivoli di pioggia scorrevano sul lato esposto
al diluvio; con la punta del dito, vi descrisse piccoli cerchi
concentrici, una spirale che portava verso il niente assoluto.
Piò volte invocò Anne. Sapeva per certo che nessuno
l’avesse mai amata così tanto e nessuno, lo sentiva con tutto sé
stesso, l’avrebbe amata in quel modo. Si appoggiò al vetro
freddo e inerte e inizio a piangere di lei. Voleva piangere sino a
struggersi come la pioggia fuori, scorrere in un rivolo verso il
fiume per cercarla, per congiungersi a lei. Acqua con acqua. Per
sempre. Seppe, con una certezza che raramente aveva provato
prima, che nell’ultimo giorno, quando l’ultimo barlume di
pensiero cosciente si sarebbe affacciato alla sua mente,
l’avrebbe amata ancora.
Plaisir d’amour ne dure qu’un moment,
Chagrin d’amour dure toute la vie.


Il decimo giorno lei non aveva ancora chiamato e Marco
sentiva che stava lentamente impazzendo: con le ultime forze
che gli rimanevano, andò sotto la doccia e si ripulì di tutte
quelle notti insonni, di tutti quei giorni senza senso. Mentre si
radeva, i suoi occhi cerchiati di un alone rosso gli parlavano di
sofferenza e di vuoto. Tutto quanto aveva vissuto negli ultimi
due mesi pareva appartenere ad un altro, tutto poteva non essere
mai stato oppure esistito solo nel “tempo del sogno” costruito
dalla sua mente.
Il vibrare del cellulare messo in carica, esplose nel silenzio

273
come una bomba, accendendogli dentro un barlume di assurda
speranza. Prima di scoprire che il display indicava il nome di
Sergio Accorsi, rispose.
«Signor Fabiani buongiorno, la chiamo un poco in ritardo
perché solo ieri ho letto la sua mail. Non le nascondo che mi ha
sbalordito, perché va a chiarire diverse e frammentarie notizie
che sto raccogliendo da tempo. Lei non parli, potrebbe essere
pericoloso. Io ora riattacco, e tra qualche minuto la richiamerò.
Dopo pochi minuti, riattaccherò ancora. È l’unico modo per
evitare intercettazioni.»
Se ricordava bene erano passati undici giorni da quando aveva
inviato la sua mail al giornalista, ed ora lui si faceva vivo
all’improvviso e nel momento più inatteso. Doveva essere un
esperto d’intercettazioni, perché sapeva come evitare orecchie
indiscrete, ma si sa i giornalisti, quelli veri, che vanno a caccia
di notizie e non solo di gossip, lo sono. Dopo pochi minuti, il
cellulare riprese a vibrare e Sergio Accorsi fu ancora con lui.
«Dicevo che ho letto la sua mail, e venendo a sapere che era ad
Avignon, sono partito ieri sera da Milano per essere questa
mattina da lei. Mi dica dove possiamo vederci perché ho un
monte di cose da chiederle.»
«Ma io non sono ad Avignon. Dieci giorni fa mi sono spostato
qui ad Elapse, vicino a St. Remy. Se lei parte subito da Avignon
potremo trovarci... » sentì di nuovo l’interruzione della linea,
evidentemente il giornalista aveva riattaccato.
Cercò di riacquistare la lucidità che tutti quei giorni, in cui si era
soltanto lasciato vivere, gli avevano sottratto: doveva trovare un
luogo in cui fosse possibile arrivare senza essere visto. Rivisse
mentalmente la planimetria del villaggio che aveva percorso con
Anne e ricordò che, rispetto a dove si trovava, il piccolo
cimitero era forse il posto più vicino e più sicuro. Quando il
giornalista ritornò a chiamarlo, proseguì il dialogo da dove era
stato interrotto.

274
«Le stavo dicendo che potremmo trovarci al cimitero di Elapse.
Quando lei sarà arrivato, mi faccia suonare tre volte il cellulare
ed io la raggiungerò. Le sta bene?»
«D’accordo ci vedremo lì, più o meno fra un’ora.»
Si vestì velocemente e quando fu pronto, sentì il bisogno di
respirare aria pura affacciandosi al balcone che dava sul
bastione roccioso di Elapse. Com’erano diversi - ora che sapeva
- gli stessi panorami che soltanto pochi giorni prima, aveva visto
insieme a lei. Come pareva minaccioso persino il villaggio,
dietro la facciata di incantevole luogo turistico. Solo ora poteva
comprendere quanto avesse potuto agire, sulla mente sovra
eccitata di Vincent, l’influsso del respiro sotterraneo, la possente
e tumultuosa corrente che erompe da buie caverne, sfidando il
tempo e le epoche. Che si succedono, indifferenti, una dopo
l’altra. Il suo vagare forsennato con tele, colori e cavalletto per
le strade della Provenza, alla ricerca della “luce perfetta”, non
era forse il tentativo di sfuggire al rombo sotterraneo che lui Van
Gogh, unico tra tutti, poteva avvertire sotto di sé? Il cielo che
acquista i vortici di un uragano, i cipressi fiammeggianti che si
innalzano verso l’alto nei suoi quadri, non sono forse la
denuncia di quanto non riusciva ad esprimere?
Quando, un’ora dopo, il terzo squillo gli disse che il
giornalista era arrivato, salì in auto e cercando di orientarsi nelle
strade in terra battuta che circondavano il Mas, riuscì finalmente
ad arrivare sulla strada che portava al cimitero.
Il temporale del giorno prima aveva lasciato un cielo scuro
e burrascoso, nel quale grosse, grigie, nuvole cariche di pioggia
si rincorrevano, indecise su dove rovesciare tutta l’acqua che si
portavano appresso. Il sole, che doveva essere ormai molto alto,
era completamente oscurato e tutto era sommerso da una strana
penombra violacea, carica di elettricità statica e d’aspettativa.
Nonostante in alto scorressero venti impetuosi, l’aria era densa,
pesante, quasi tangibile nella sua completa immobilità. Pareva

275
che da un istante all’altro tutto potesse accadere in quello
scenario, che sembrava preparato per una rappresentazione della
fine dei tempi; un attimo dopo l’apertura dell’ultimo sigillo e un
attimo prima della comparsa dei quattro cavalieri.
Quando fu in vista del muro di cinta, si stupì che nel
parcheggio non vi fossero auto. Probabilmente il giornalista lo
aveva chiamato già mentre stava entrando in Elapse e quindi
sarebbe arrivato tra breve. Cercò di nascondere la sua auto
dietro due cipressi affiancati e ristette un poco, in attesa; di
fronte a lui, più avanti, c’era il vecchio cancello in ferro battuto
e, appena più lontana, gorgogliava l’acqua della piccola
fontanella usata per i fiori che ornavano le tombe.
Tutto intorno era immobile e deserto, come se per anni
fosse rimasto in attesa del suo ritorno e delle sue domande
inespresse. Si sentiva pesante, gli pareva che aprire la portiera,
ruotare su sé stesso e uscire dall’auto, sarebbe stata una fatica
ardua, insormontabile. A quell’ora tutti gli altri, tutte le persone
che vivevano serene, all’oscuro delle orrende macchinazioni che
si celavano dietro all’apparenza, erano a casa, in famiglia e
intorno al tavolo per il pranzo.
Forse, anche dietro a quel cancello consunto e arrugginito,
oltre il quale Anne non gli aveva consentito di proseguire, si
celava un segreto. Che cosa custodiva, dietro alle volute liberty
ornate da foglie e rami, che portavano ancora i segni del fuoco e
del martello da cui erano nati?
Sentì l’irresistibile impulso di sapere, di cercare -
nell’attesa dell’arrivo del giornalista - quanto Anne non aveva
voluto che lui vedesse, quel giorno di mille anni prima. Uscì
dall’auto nel silenzio rotto solo dal frinire delle cicale, che ora
gli sembrava assordante; milioni e milioni di lamine che
vibravano su bruni addomi verdastri e rivoltanti, con il solo
scopo di richiamare femmine con le quali accoppiarsi. La sola
idea che da ogni parte intorno a lui, il terreno brulicasse di

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aliene forme striscianti, gli provocò un forte attacco di nausea, e
dovette appoggiarsi al cancello. Il freddo contatto con il metallo
arrugginito, che pareva aver accumulato all’interno l’umidità di
tutte le piogge e le brume di centinaia d’inverni, gli diede
un’insopportabile sensazione. Si ritrasse disgustato e avanzò
oltre quella linea, che tracciava il confine tra il mondo dei vivi e
quello dei morti, tra il mondo reale e quello che, dal giorno del
ritrovamento della pergamena, costituiva per lui, il Lato Oscuro
della vita. L’altro lato dello specchio.
La ghiaia che ricopriva il viale rifletteva il cupo grigiore
del cielo minaccioso e i pochi e stretti sentieri che ne
prendevano origine, a loro volta s’intersecavano con altri,
apparentemente all’infinito. Gli alti cipressi, scure sagome
frastagliate sullo sfondo di nubi verdognole e compatte, furono
scossi da una folata improvvisa e dietro di lui, il lento e stridulo
cigolio del cancello, troppo pesante per essere smosso solo dal
vento, gli fece aggricciare la pelle.
Inaspettato, un lampo basso all’orizzonte squarciò il cielo,
cangiando per un istante il grigio plumbeo, in improvvise
sfumature d’arancio. Com’era possibile che l’altra volta, tutto
quanto lo circondava gli fosse sembrato soltanto un quieto ed
inoffensivo cimitero di campagna, come molti altri?
Sulla tomba di fronte alla quale venne infine a trovarsi,
guidato da un senso che non gli apparteneva, c’era il ritratto in
ceramica di una donna, che pareva guardarlo con una sorta di
tenero smarrimento. La stessa donna l’aveva guardato dalla
fotografia che aveva scoperto nel portaritratti di Anne.
Nel marmo bianco aurora del frontale, un poco scurito dal
tempo, era scolpito un nome: “Madelene”. Pù in basso, alcuni
brani di una poesia di Prevert e pochi versi di commiato;
accanto, e quasi nascosta, la firma di coloro che l’avevano
condannata a giacere prematuramente, e per sempre, in quel
luogo. Tre spirali inscritte in un cerchio, i cui vortici lo

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fissavano minacciosi.
Nel momento in cui si sentì sprofondare ancora una volta,
nell’illusione ipnotica di quel segno antico più dell’uomo,
qualcosa attirò la sua attenzione: due ombre rapidissime erano
scivolate dietro ad un monumento funebre, con un duro rumore
di ghiaia calpestata.
Improvvisamente sentì la bocca riempirsi di un intenso
sapore metallico ed ebbe paura, una paura cieca, devastante. Si
voltò rapidamente e con le gambe malferme, ripercorse quasi di
corsa i sentieri da cui era arrivato. Udiva dietro di sé il rumore
di passi, ma non aveva né la forza né il coraggio di voltarsi per
vedere se qualcuno lo seguisse. In quell’intrico di sentieri, il
vialetto che portava all’uscita sembrava introvabile, mentre alle
sue spalle il rumore s’ingrandiva, avvicinandosi sempre più.
Scivolando di continuo con le suole di cuoio sulla ghiaia, che
ora pareva più spessa, quasi priva di quel minimo d’attrito che
gli consentisse di avanzare senza essere continuamente
trattenuto, arrivò in vista del cancello. Si mise a correre, con il
cuore che gli batteva all’impazzata dentro le orecchie, coprendo
finalmente l’orribile suono del calpestio dietro di lui.
Superato il cancello, fu fuori nel parcheggio e quasi alla
cieca raggiunse l’auto e vi entrò, pronto ad abbassare la chiusura
delle porte. Dietro di lui percepì un rapido movimento, ma non
ebbe nemmeno il tempo di voltarsi. Un tampone imbevuto di
una sostanza acre e nauseante gli chiuse bocca e le narici,
mentre due braccia lo tenevano fermo, con una forza brutale.
Scivolando lentamente nell’incoscienza causata dal veleno,
ancora una volta sentendosi estraneo a quanto gli accadeva, vide
intorno alla sua auto il giornalista Sergio Accorsi e l’uomo della
milonga, che sorrideva con una sguaiata insolenza. Appena un
poco discosta c’era Anne, la sua Anne, bella come non mai, che
lo guardava morire.
Comprese che in quel modo, lei stava barattando la sua

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vita con quella di Amelie, l’ultima figlia che le rimanesse. Nello
sforzo estremo di fissare lo sguardo nel violetto dei suoi occhi,
si sentì quasi felice di lasciarle quest’ultimo dono.

FINE

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