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Università degli Studi del Molise.
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262 Giustinani, «Perché d’amor in me forza novella»
Io canterò l’aurora
Che ’l tenebroso mondo raserena
E il ciel di sé inamora. 5
Sopra quante fur mai lucente e bella,
L’aurora, che oggi cusì lieta nasce,
Ogni intellecto di dolceza pasce.
Che inusitata e nova luce è questa
Che, le tenebre antique al mondo tolte, 10
Lieto il rende et sereno?
Il ciel, ben tutte le sue luci acolte
Havendo in picol seno,
Tanto lume oggi al mondo manifesta,
Che i<n> vivo raggio di sì chiara luce 15
Ne la profunda, eterna nocte luce.
Et ben certo dinanzi al divin sole
Men chiara aurora andar non convenìa,
Ché ad incarnar Iesù
Bisogno prima fu nascer Maria; 20
Maria, che senza exempio al mondo fu,
Ché in terra tanto lume esser non suole.
Ma chi da poi dal cielo in lei discesse
D’ogni gratia li fu largo e cortese.
Ah, questa cusì chiara luce viva 25
Più che non suol divora l’alma mia!
Humidi gli occhi volgie
E in un suspir tutto quel che disia
Timidetta raccolgie,
Et dice in voce che al ciel forse ariva: 30
«Per te, donna che ’l cielo et terra honora,
A Iesù solo io viva, a Iesù mora!».
Già le tue basse mal ordite rime,
Canzon mia, non rispondeno al subiecto;
Ma più alto non va nostro intellecto. 35
264 Giustinani, «Perché d’amor in me forza novella»
Note
largo e cortese / amor, con large spese»). Il concetto, però, è anche interno al
Fiore (cfr. son. 137).
25. L’ispirazione è certo petrarchesca: «or con sì chiara luce» (RVF 204,
9).
27-32. L’anima del poeta, commossa dal chiarore della luce, si rivolge di-
rettamente alla Vergine esclamando che grazie a Lei può trovare vita e morte
in Gesù Cristo.
29. Per Dante (Purg. III, 21) e Boccaccio (Comm. ninf. fior. XIV, 7) timi-
dette sono le pecorelle. Con questo raffinatissimo riferimento, l’autore sem-
bra voler attribuire alla propria anima connotati di obbedienza, in relazione
al campo semantico – celebre nella cristianità – del pastore che guida le pe-
core.
31. «Per te, donna» è tessera boccacciana (Filostrato I, 55), mentre il se-
condo emistichio del verso certamente risente di «ch’oggi il cielo honora»
(RVF 343, 1).
32. L’anafora di «a Iesù» all’interno di un unico verso rafforza
l’andamento liturgico e ripetitivo del testo di cui già si accennava, e che qua-
si prelude a una qualche gestualità fisica del lettore, accompagnata ad una
lettura ad alta voce della canzone.
33. Le rime sono basse, specie in relazione alla preghiera che l’anima del
poeta è riuscita come a urlare in modo che potesse arrivare forse fino allo
stesso cielo. Il poeta sottolinea magistralmente il contrasto tra quanto in alto
vorrebbe andare l’intelletto, spinto dall’esempio divino, e quanto poco pos-
sano le umane parole, in questo caso poste in versi.
34. «Canzon mia» è formula di congedo petrarchesca (cfr. RVF 207, 268 e
325).
35. «Nostro intelletto» è espressione evidentemente petrarchesca (RVF
264, 8).