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CRITICA

LETTERARIA
192-193

DANTE
1321-2021

NICOLA LONGO

La poesia di Malebolge: Inferno XXI-XXII

PAOLOLOFFREDO EDITORE - NAPOLI


NICOLA LONGO

La poesia di Malebolge: Inferno XXI-XXII

La ricerca intende evidenziare la poesia di due canti infernali, dedicati ai barat-


tieri, pubblici ufficiali che, abusando del loro potere, hanno venduto favori. Il
loro valore stilistico, linguistico, retorico è in grado di attribuire a un testo una
forte coerenza, attraverso l’uso di un linguaggio popolare, e di un lessico talvol-
ta anche scurrile. Lo studio è introdotto dall’analisi del personaggio di Gerione,
strumento essenziale per passare dal settimo all’ottavo cerchio. Altro punto af-
frontato è quello della datazione del viaggio dantesco.

The present study aims to highlight the poetry of two cantos from the Inferno,
dedicated to barrators, i.e. officials that, taking advantage of their power, sell
favours. Their stylistic, linguistic and rhetorical value is able to lend the text a
strong coherence through the use of a popular language and a sometimes scur-
rilous lexis. The study is introduced by an analysis of the character of Geryon,
an essential instrument for moving from the seventh to the eight circle. Another
question addressed is that of the dating of Dante’s journey.

Keywords: Malebolge; barattieri; Gerione; lessico scurrile; datazione viaggio


dantesco ♦ Malebolge; barrators; Geryon; scurrilous language; date of Dante’s
journey

1. Premessa

Scrive Croce ne La poesia di Dante del 1921:


Dante […] si gloriò del “bello stile”, e assai gioia ebbe dalla parola,
dalla parola appropriata, calzante, sensuosa, che è il pensiero stesso
che genera a sé, con divino fremito di creazione, il proprio corpo vi-
vente. Ci furono dunque nel suo animo molto più varî sentimenti, e
soprattutto molto più lietezza che non si pensi generalmente; sebbene

Nicola Longo: Università degli Studi di Roma Tor Vergata; nilo.longo08@


gmail.com
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anche quei sentimenti e quella lietezza s’inquadrassero pur sempre nel


suo abito austero e fossero in esso temperati e intonati1.

Mi sembra che un tale puntuale giudizio si adatti bene alla scrittu-


ra dei canti di Malebolge. In questi versi la gioia della parola appro-
priata genera, forse più che altrove, la bellezza della poesia.
Non a caso la critica da sempre li ha collegati con la lezione delle
rime petrose e delle rime della tenzone con Forese Donati. Anche in
questo registro Dante dimostra di essere capace di costruire una gran-
de poesia, sulla scorta di quella tradizione medievale di matrice popo-
lare, specialmente teatrale, che ha rielaborato i tratti carnevaleschi dei
saturnali latini.
Non a caso, proprio la dimensione teatrale dei due canti di cui si
discorrerà in questo scritto, costituisce una loro peculiarità, determi-
nata dalla frequenza dei colloqui, più o meno sarcastici, fra i dannati e
i diavoli che li custodiscono e li perseguitano e dallo stesso dialogo dei
diavoli fra loro e con i due pellegrini, in un continuo e movimentatis-
simo cambiamento di scena.
Sottraendosi alla sterile diatriba intorno alla presenza della com-
ponente comica in questi canti, l’impronta stilistica che sottolinea la
felicità della creazione dantesca di questa zona dell’Inferno è data dal-
la dimensione sostanzialmente anticlassica e plebea che qui si adopera
nell’accezione in grado di individuare, dopo Dante, quell’ininterrotto
filone letterario che, da Cecco Angiolieri e dai poeti all’opera nel Quat-
trocento (Burchiello), Cinquecento (Berni, Grazzini), Seicento (Lippi,
Tassoni) e Settecento (Baretti, Minzoni), arriva fino ai nostri giorni2.
Tale caratteristica, indispensabile per la costruzione poetica alme-
no dei canti che qui vogliamo leggere (i primi esempi sono ricavati dal
canto XXI), consiste nella scelta di vocaboli del gergo popolare, specie
in posizione forte o con variazione semantica: ristoppa, poppa, rintoppa,
duro, furo, coperchio, soverchio, graffi, raffi, accaffi. E poi ancora: groppone,
accocchi, se ne sciorina, pane (per pànie), scheggio, tane, digrignan, lessi,

1
  Benedetto Croce, Carattere e unità della poesia di Dante, in La poesia di Dante,
Bari, Laterza, 1921, pp. 155-163. La cit. è ricavata da B. Croce, La letteratura italiana,
a cura di M. Sansone, I, Bari, Laterza, 1963, p. 64.
2
  A conferma di quanto s’è indicato sopra, mi sembrano utili due precisi giudi-
zi relativi ai comica verba della Commedia: «il gusto “petroso” delle perifrasi ardue e
dotte è onnipresente»; «lo sfruttamento di motivi e forme comico-realistiche è mol-
to più ampio di quanto possano documentare i pochi testi arrivati a noi con la fir-
ma di Dante». Giorgio Inglese, Comica verba, in Id., Dante: guida alla Divina Com-
media, Roma, Carocci, 20122, pp. 116 e 117.
[ 3 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 513

trombetta. Vocaboli che hanno come corrispondenti i nomi dei diavoli:


Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia,
Libicano, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante.

2. Con Gerione verso l’ottavo cerchio


Con i canti XXI e XXII siamo dentro all’ottavo cerchio che contiene
i peccatori di frode contro chi non si fida («La frode, ond’ogni coscïen-
za è morsa, / può l’omo usare in colui che ’n lui fida / e in quel che
fidanza non imborsa» If XI, 54-55).
Fra il XVII e il XVIII canto, avviene il passaggio dal cerchio settimo
dei violenti al cerchio ottavo dei fraudolenti della prima distinzione,
grazie a un volo straordinario della fantasia del poeta che adopera il
personaggio di Gerione quale strumento della volontà di Dio per por-
tare Virgilio e Dante sul piano di Malebolge.
Gerione è il simbolo della frode, peccato diffuso su tutta la terra e,
secondo Dante, terza delle partizioni infernali dopo l’incontinenza e la
violenza.
Il mostro mitologico figlio di Crisaore e Calliro, dominus crudelissi-
mo dell’isola di Erizia, posta nell’estremo occidente, composto, dalla
cintura in su, di tre corpi, è ucciso da Ercole per portargli via tutti i
magnifici buoi dal manto rosso, nutriti con carne umana. Per raggiun-
gere l’isola, il figlio di Giove arriva fino alla fine del mondo nella città
fenicia di Tartesso3 e qui, fra il monte Calpe a nord e il monte Abila a
sud, innalza le invalicabili Colonne eponime. Virgilio colloca Gerione
nel vestibolo dell’Ade, con i Centauri, la Chimera, l’Idra, le Gorgoni,
le Arpie, Briareo4. La multiforme natura del mostro, così come era tra-
mandata dai mitografi, lo rendeva adatto, per Dante, a rappresentare
le diverse e insidiose modalità con cui si esercitano gli inganni. Sape-
gno (nota a If XVII, 1) ricorda come una traccia di questa tradizione
rimanga nel Boccaccio delle Genealogiae deorum, lì dove si legge che
«Gerione accoglieva gli ospiti con volto benigno, con dolci parole e

3
  Pochissime notizie intorno a questa città si trovano in Nicola Longo, Il can-
to dell’intelligenza, in Id., Studi danteschi, Roma, Studium, 2013, p. 69, n. 9.
4
  Aeneidos, VI, 289: «forma tricorporis umbrae»; (forma di ombra di triplice
corpo); Aeneidos, VIII, 202: «tergeminus Geryon»; (Gerione trigemino). Questo per-
sonaggio lo si ritrova anche nei versi di Orazio (Carmina, II, xiv, 7-8: «[…] ter am-
plum / Geryonen»; Gerione grande tre volte un uomo); e di Ovidio (Eroides, IX,
91-92: «Geryones, quamvis in tribus unus erat; prodigium triplex […] / in tribus
unus»; Gerione era un triplice prodigio, sebbene fosse uno era in tre corpi»).
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con ogni cortesia, e poi, dopo averli addormentati con queste blandi-
zie, li uccideva» (I, 21).
Nei versi di Dante il mostro appare triplice nella natura del suo
corpo, ha il volto d’uomo giusto, il busto e le zampe di leone e il resto
del corpo di serpente dalla coda biforcuta come lo scorpione. Fra le
fonti possibili di questa immagine fantastica, la critica indica anche
l’Apocalisse, IX 7, 11 («facies earum sicut facies hominum […] habebant
caudas similes scorpionum»; le loro erano facce simili a facce di uomi-
ni […] avevano code simili alle code degli scorpioni).
Ma è anche vero che la zoologia fantastica di cui è piena l’arte figu-
rativa, pittorica e scultoria del Medio evo, aveva offerto al poeta ele-
menti sufficienti per elaborare la propria immagine di Gerione.
Né va trascurato quanto il mostro sia segnato, fin dalla sua antici-
pazione nel XVII canto, da un grande mistero: prima non si sa chi stia
arrivando, poi Virgilio induce il mostro alla missione di trasportarli
nel cerchio inferiore attraverso un dialogo a cui Dante non assiste e
che rimane avvolto nell’ignoto; il viaggio di discesa, simile solo a un
incredibile volo, è molto lento, secondo l’esortazione virgiliana («lo
scender sia poco»); mentre alla fine Gerione sparisce con la rapidità di
una freccia.
Nell’Inferno, Gerione sembra un uomo giusto («La faccia sua era fac-
cia d’uom giusto» XVII, 10) ed è questo, secondo Getto, (citato da Bosco
alla nota dei vv. 10-12) che nasconde l’umanità degradata in un corpo
che non è più immagine del Creatore. Così egli cela l’inganno, oltre che
nel suo aspetto orribile, nel veleno di cui è fornita la coda biforcuta.
Ricordo che il proverbio che recita in cauda venenum è di origine
medievale e certamente rinvia alla pericolosità dello scorpione:
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
(If XVII, 7-18)

L’esperienza del volo di e con Gerione è paragonata a quella di


[ 5 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 515

Fetonte che lascia le redini del carro del Sole e precipita; quindi a quel-
la del volo di Icaro che, avvicinandosi troppo al sole, precipita per lo
sciogliersi della cera delle sue ali e, in fine, al volo del falcone che,
senza motivo, torna dal suo padrone.
Nel canto XVII i pellegrini procedono svoltando sulla destra inve-
ce che a sinistra, il che, sul piano simbolico, indica come la strada che
conduce alla frode non sia rettilinea.
In questo canto Virgilio fa cenno a Gerione di avvicinarsi e gli sale
in groppa mentre Dante contempla gli stemmi delle borse degli usurai
condannati in quel cerchio (riconoscendo due fiorentini e Reginaldo
degli Scrovegni patavino). Dopo che anch’egli si pone sulla schiena
del mostro davanti a Virgilio, per essere al riparo dal pericolo rappre-
sentato dalla coda avvelenata, i due vengono depositati sull’orlo del
precipizio dell’ottavo cerchio, mentre la «velenosa forca» (XVII, 26)
non poggia per terra ma pende nel vuoto dell’«alto burrato» (XVI,
114), la voragine che si trova al centro dei cerchi infernali5.
Qui mi sembra utile il discorso di De Sanctis che, alla luce della sua
estetica idealistica e romantica, spiega come il brutto possa trasfor-
marsi nel bello dell’arte grazie all’evidenza dell’anima che esprime
l’autenticità del proprio sentimento6. In questo caso non è Gerione che
manifesta un’anima segnata dalla volontà di ingannare, quanto l’in-
sieme di coloro che il pellegrino incontra nelle dieci bolge e che, con la
forza della consapevolezza del proprio peccato, fanno di questi canti
l’espressione di originalissima poesia.

3. Descrizione dell’ottavo cerchio


L’ottavo cerchio è diviso in dieci bolge (la parola significa borsa). Di
queste il canto XVIII ci mostra la prima in cui sono uniti insieme i se-
duttori e i ruffiani e la seconda in cui sono gli adulatori. Invece, per
narrare dei peccatori delle altre otto bolge, il poeta avrà bisogno di ben
dodici canti. Forse il significato della differenza sta nel disprezzo che
Dante prova verso queste tre specie di inganno, disprezzo che, come
al solito, si manifesta nella sua scarsa considerazione. È per tale moti-

5
  Nei primi cerchi si scendeva dall’uno all’altro con relativa facilità; negli ulti-
mi tre cerchi, invece, la discesa è resa assai più difficile per indicare simbolicamen-
te come, a mano a mano, ci si stia avvicinando al fondo dove si trova il Male asso-
luto.
6
  Francesco De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Torino, Einaudi, 1955, pp.
150-158.
516 NICOLA LONGO [ 6 ]

vo che, per due volte, nella prima e nella seconda bolgia, Virgilio esor-
ta Dante a procedere, senza soffermarsi ulteriormente.
Nella prima parte del canto appena citato, Dante ci offre una visio-
ne d’insieme del cerchio, descrivendolo come un piano circolare («cin-
ghio»), inclinato verso il centro del profondo «pozzo», alla base del qua-
le si trova il lago gelato di Cocito del nono cerchio. Il piano, a sua
volta è diviso in dieci balze concentriche, le valli o i fossi (simili ai fos-
sati che circondano i castelli), separate fra loro da mura divisorie (gli
argini) e attraversate, al di sopra del loro piano, da ponti a schiena
d’asino che partono a raggiera, in forma di scogli, dal muro di cinta
del cerchio (la ripa) e arrivano fino al pozzo, congiungendo fra loro,
trasversalmente, i singoli argini; il muro, essendo confine del cerchio,
si trova solo nella prima bolgia, sicché nei canti seguenti anche gli ar-
gini potranno essere definiti ripe:
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui ‘suo loco’ dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli7.
(If XVIII, 1-18)

I poeti, talvolta, vedono le anime dall’alto di questi passaggi (dagli


argini o dai ponti che poggiano sugli argini), a volte dalle scarpate
degli argini.
L’altro dato caratteristico di questo ambiente è offerto dal colore
ferrigno della pietra di cui il cerchio è composto. Secondo Landino
questo materiale, così fortemente messo in evidenza dal poeta, indica

7
  I corsivi sono di chi scrive. Fra apici è l’ablativo assoluto, corsivo nel testo.
[ 7 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 517

come il fraudolento «ha duro cuore e vacuo d’ogni carità» mentre il


color ferrigno significa che il peccatore «è armato di crudeltà»8. Da qui
la conclusione che «l’architettura fisica [del cerchio VIII] avrebbe una
significazione simbolica»9. Così sembra che i modi stilistici e retorici
con cui è costruita l’intera ambientazione dei canti di Malebolge (a
partire dagli elementi lessicali già messi in evidenza) corrispondano
perfettamente alla «sostanza etico-religiosa»10 che presiede alla loro
invenzione poetica.
Quanto all’ordine della successione dei peccati puniti nell’ottavo
cerchio, l’unica norma individuata dalla critica è quella che Bosco
chiama di «opportunità narrativa»11; così si spiega questa successione
dei peccati, evidentemente priva di un criterio morale, che è la se-
guente: seduttori e adulatori, simoniaci, maghi e indovini, barattieri,
ipocriti, ladri, consiglieri di frode, seminatori di discordie e di scismi,
falsari.
Inoltre, dei quasi cinquanta dannati nominati nei quattordici canti
(compreso il XXXI dedicato al pozzo dei giganti) del cerchio ottavo,
solo alcuni restano impressi nella memoria del lettore. Oltre al più fa-
moso Ulisse e al suo compagno di avventure Diomede, Niccolò III
Orsini, Maometto con Alì e il celebre conte Ugolino. Fra i giganti che,
simili a torri, emergono dal bordo del pozzo profondo col busto dalla
vita in su, è Nembrot12 (responsabile della costruzione della torre di
Babele) che si rivolge loro in una lingua incomprensibile. Quindi An-
teo (il gigante che non aveva partecipato all’assalto al cielo degli altri
giganti e perciò non è incatenato) viene lusingato da Virgilio affinché
trasporti i due poeti nel fondo dell’Inferno, sul piano del Cocito ghiac-
ciato (prendendo in braccio Virgilio a cui s’aggrappa Dante).

4. Condizione dei barattieri


Dante s’affaccia dall’alto del ponte sul fondo della quinta valle e lo
vede pieno di pece bollente, motivo per cui l’aria sembra «mirabil-

8
  La citazione è in Pietro Mazzamuto, Malebolge, in Enciclopedia dantesca (in
seguito E. D.), Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1975, ad vocem.
9
  Ibidem.
10
  Ibidem.
11
  Umberto Bosco, Introduzione al canto XX.
12
  Sulla figura di Nembrot mi permetto di rinviare a N. Longo, L’exemplum fra
retorica medievale e testo biblico nel Purgatorio, in Id., Letture e ricognizioni dantesche,
Roma, UniversItalia, 2014, pp. 223, nn. 17 e 18.
518 NICOLA LONGO [ 8 ]

mente oscura» (v. 6). Le anime di quest’«altra fessura» (v. 4), gli spiriti
dei barattieri a cui il poeta dedica due canti, sono immerse in quella
pece mentre dei diavoli neri impediscono loro di uscirne.
La baratteria è il reato di chi, approfittando della propria funzione
pubblica, ne trae un vantaggio economico. Si tratta della concussione.
Certo questi dannati, forse più di qualsiasi altro peccatore dell’Infer-
no, rinviano a un’esperienza personale di Dante. Egli si trovava sulla
via del ritorno dall’ambasceria presso Bonifacio VIII, quando lo rag-
giunge la notizia di essere stato condannato al confino per baratteria il
27 gennaio 1302, con sentenza del podestà Cante Gabrielli da Gubbio.
Sicché decide di non tornare a Firenze e non vi tornerà mai più né vivo
né morto. Attraverso la via francigena, si dirige a Siena e poi ad Arez-
zo. Nel marzo successivo la pena diventa la morte sul rogo.
Il paragone della pece bollente della bolgia con quella dell’arsenale
di Venezia ha fatto pensare a una presenza del poeta in laguna ma,
come al solito, nessun documento attesta la veridicità dell’ipotesi. Mi
sembra molto più interessante notare come in nove versi Dante sia
stato in grado di riassumere tutto il vario lavoro che si svolge in un
cantiere navale: «rimpalmare i legni […]; ristoppare le coste […] ribat-
tere da proda e da poppa […] fare remi […] volgere sarte […]; terzuolo
e artimon rintoppare» (vv. 7-15). Il tutto per poter giustificare l’effetto
di oscurità dell’ambiente. Senza sottovalutare l’anticipazione del mo-
vimento scenico a cui assisteremo nei due canti, richiamato qui dal
lavoro frenetico che si svolge nei cantieri veneziani. A parte la scelta
precisa della terminologia dell’arte che si esercita nell’arsenale (spesso
con scelte di sonorità plebee), ciò che conta è proprio la straordinaria
precisione con cui quei termini vengono inseriti entro la misura del
verso e della terzina. È di ciò che ogni volta si meraviglia il lettore
della Commedia.

5. L’apparizione del diavolo e i peccatori


Quindi, Virgilio attira l’attenzione e insieme suscita la preoccupa-
zione di Dante mostrandogli l’apparire di «un diavol nero» (v. 30) che,
correndo, «con l’ali aperte e sovra i piè leggero» (v. 33), sta salendo sul
ponte dove sono loro due.
Ancora una volta il ritmo di sei battute dell’endecasillabo
còn / l’à / li a / pèr / te e / sò / vra i / piè / leg / gé / ro

corrisponde bene alla modalità della corsa che vuole rappresentare. Il


tutto giustifica a sufficienza lo spavento di Dante davanti alla crudeltà
[ 9 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 519

dell’immagine di questo essere che, per di più, sulle spalle porta un


peccatore, uncinato con le unghie al nervo dei piedi. Subito, giunto a
tiro di voce, apostrofando con il collettivo «Malebranche» (v. 37) i suoi
soci nella gestione del giudizio di Dio, chiama e rende identificabile
l’anima appena conquistata sulla terra come «un degli anzïan di Santa
Zita» (v. 38).
Questa per Dante è l’occasione per accusare i maggiorenti di Lucca
(gli Anziani erano l’istituzione che comandava la città insieme al Pri-
ore), guelfi neri, di essere dediti alla baratteria. Infatti, nell’affidare
agli altri guardiani l’anima appena arrivata, colui che la porta dice di
voler tornare da dove è venuto per prenderne altri perché «quella ter-
ra è ben fornita» (v. 40) di simili peccatori i quali, per denaro (approfit-
tando delle loro cariche politiche) sono pronti a far diventare si un no.
Gli antichi commentatori (Guido da Pisa, prima, e Francesco da
Buti13 poi) hanno riconosciuto in lui Martin Bottaio, morto il 9 aprile
1300, nella notte fra il venerdì e il sabato santo. Tale identificazione
consentirebbe a Dante di assistere all’arrivo nell’Inferno, della sua ani-
ma, appena separata dal corpo14.
Il riferimento perifrastico all’Anziano lucchese è un modo per far-
ne l’esponente di un’intera classe dominante del partito dei Neri, a
detta di Dante, completamente corrotta.
Mi sembra del tutto rilevante notare come il discorso dantesco sul-
la baratteria sia pervaso da un tono polemico che si manifesta attra-
verso i mezzi linguistici, stilistici e retorici dell’ironia, del sarcasmo,
dello scherno, dell’atteggiamento plebeo e della stessa volgarità, a se-
gnare tutto il disprezzo e l’indignato animo con cui il poeta considera
quei colpevoli giustamente puniti di una colpa indegna di qualsiasi
componente del consesso civile e soprattutto di chi ne dovrebbe eser-
citare la guida e perciò rappresentare un modello di comportamento
etico.
Difficile pensare che tutto il tono con cui Dante affronta il tema

13
  Guido da Pisa, frate carmelitano che commentò in latino l’Inferno, prima del
1350), nell’interpretare il passo, dice che l’anima appena arrivata nella bolgia, è
quella di Martino Bottaio. In Francesco da Buti così si legge: «Et è qui da sapere che
costui che non è nominato, altri voglion dire che fosse Martino bottaio il quale
morì nel mccc, l’anno che l’autor finge che avesse questa fantasia, il venerdì santo
la notte sopra il sabbato (sic) santo […]». Ricavo la citazione di Buti dal commento
di Giovanni Andrea Scartazzini - Giuseppe Vandelli ai vv. 22-57 del canto.
14
  P. Mazzamuto, Anziano di Santa Zita, in E. D., ad vocem, spiega come Fran-
cesco Paolo Luiso, documenti alla mano, abbia dimostrato tutto ciò, in uno stu-
dio della Miscellanea Bongi del 1927.
520 NICOLA LONGO [ 10 ]

della baratteria non sia stato condizionato dalla sua esperienza. Persi-
no le forme a cui si accennava, il terribile “gioco”, con cui le anime in
pena cercano refrigerio fuori della pece di nascosto dai diavoli e come
questi usino gli arpioni per dilaniarli e spingerli di nuovo nel nero
magma bollente, sono un riflesso della pena vergognosa a cui viene
sottoposto il barattiere: «trascinato per le vie cittadine, legato alla coda
di un asino per essere poi giustiziato»15.
È altrettanto vero che il tono complessivo della sezione dei barat-
tieri tratta l’argomento con levità inconsueta e pressoché priva di in-
tenti di rivalsa rispetto alle due sentenze subite dal poeta. Era ben
noto come l’accusa di baratteria colpiva sempre coloro che alternati-
vamente perdevano il potere nei comuni dilaniati dalle consorterie.

6. I peccatori
Le anime punite in questo canto sono quelle di coloro che hanno
esercitato la concussione a danno del proprio comune, abusando dei
poteri loro concessi per la gestione della cosa pubblica; e qui Lucca è
al centro del discorso con le anime di Martin Bottaio e di Bonturo Da-
ti16 il cui nome è fortemente colorato di sarcasmo. Diverso è il peccato
dei barattieri che Dante nominerà nel canto seguente.
L’Anziano di Lucca, scaraventato nella pece dal diavolo che l’ave-
va sulla spalla, subito dopo cerca di emergere ripiegato su se stesso
come colui che è in preghiera, ma subito i diavoli guardiani, afferran-
dolo con i loro uncini lo sprofondano di nuovo nella pece bollente,
urlandogli che nel posto in cui si trova ora non hanno valore le invo-
cazioni al Crocifisso bizantino della Basilica lucchese di San Martino
(«Il Santo Volto» v. 48), qui è necessario stare sempre immersi nella
nera mota e, se mai, per sottrarsi momentaneamente alla pena, imbro-
gliare i guardiani di nascosto (sottinteso: come di nascosto hanno ap-
profittato del loro potere per rubare).
Anche questo episodio, svolto con il tono del divertito sarcasmo
dei diavoli che giocano a tormentare l’anima appena giunta, ignara di
tutto, è segnato da scelte stilistiche fortemente connotate di un lin-
guaggio popolare se non plebeo, che sopra s’è notato.

15
  P. Mazzamuto, Barattiere, in E. D., ad vocem.
16
  La sua anima non è ancora all’inferno ma, come scrive il Lana, citato da
molti commentatori, egli era ritenuto «il maggior barattiere di palagio che mai
fosse o che si sappia in quella città».
[ 11 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 521

7. La mediazione di Virgilio e l’inganno di Malacoda


A questo punto Virgilio esorta Dante a trovare un posto riparato e
procede sul ponte in direzione della sesta bolgia, sicuro dell’esperien-
za della sua precedente discesa nell’Inferno («perché altra volta fui a
tal baratta» v. 63)17. I due viaggi di Virgilio nell’al di là sono esemplati
su luoghi della tradizione classica. Come la Sibilla, nell’accompagnare
Enea nella sua catabasi infernale narrata da Virgilio, lo rassicura d’a-
ver già percorso tutto l’Ade essendo consacrata ad Ecate, prima che la
dea dell’oltretomba la incaricasse di sorvegliare il bosco dell’Averno18
e come Eritòne, maga tessala, aveva indotto Virgilio a scendere nell’A-
de per riportare nel suo corpo l’anima del figlio di Pompeo, Sesto, af-
finché questi predicesse al padre la sconfitta di Farsalo19; così anche la
guida dantesca deve aver compiuto un viaggio precedente, rispetto a
quello qui narrato.
Di fatto, appena Virgilio arriva sul sesto argine, viene circondato
dai diavoli armati dei loro «runcigli» (v. 71) ed egli riesce a trattenerli
chiedendo di parlamentare con uno di loro. Si fa avanti Malacoda e il
cantore latino lo mette a conoscenza che il viaggio suo e di Dante è
determinato da Dio stesso: «nel cielo è voluto» (v. 83).
Non si può trascurare come questo discorso suasorio di Virgilio ha
lasciato lo stile plebeo del canto per assumere la forma attenta ai ri-
svolti oratori che possano essere in grado di convincere l’interlocuto-
re. A cominciare dal giro iniziale della domanda retorica: credi tu forse
che io sia arrivato fin qui, attraversando tutto l’inferno, senza avere la
protezione della volontà di Dio e senza avere il favore del fato? Lascia-
ci andare perché il Cielo vuole che io mostri questo itinerario selvag-
gio a un’altra persona.

8. Un’altra scena infernale


A questo punto, solo in grazie delle virgiliane parole «conte» (If X,
39), l’interlocutore ferma l’operazione avversa dei suoi sottoposti
mentre la guida fa uscire Dante dal suo rifugio che, tuttavia, all’avvi-
cinarsi curioso dei guardiani infernali, teme che tradiscano l’ordine

17
  Anche in If IX, 22 e XII, 34 Virgilio ricorda, quasi con le stesse parole, il suo
primo viaggio nell’al di là.
18
  Publio Virgilio Marone, Aneidos libri, VI, 564-565.
19
  A questo episodio fa riferimento Virgilio in If IX, 22-24. La fonte è Marco
Anneo Lucano, De bello civili, VI, 507-827.
522 NICOLA LONGO [ 12 ]

ricevuto («la sembianza lor ch’era non buona» v. 99), sicché istintiva-
mente s’accosta a Virgilio, come fa un bambino spaventato che si rifu-
gi vicino alla mamma. A questo episodio si collega il ricordo della
presa del castello di Caprona (in Valdarno, vicino Pisa) a cui partecipa
il poeta nell’agosto del 1289, come conseguenza della battaglia di
Campaldino in Casentino, quando gli abitanti ghibellini sconfitti scen-
dono a patti lasciando la piazzaforte e sono costretti a passare fra due
ali di nemici, temendone un gesto proditorio.
Malacoda, confermando il suo ordine, impone a Scarmiglione di
non usare l’uncino contro i due viandanti, come lo incitavano i suoi
compagni. Poi avverte Virgilio che più avanti il ponte è interrotto a
causa del terremoto prodotto dalla morte di Cristo. Ciò che non dice è
che tutti i ponti sono franati e qui è il coerente inganno del custode dei
fraudolenti. Perciò, secondo il suo consiglio, solo con la protezione di
una schiera di diavoli, conviene proseguire il cammino lungo l’argine
(indicato col temine scoglio) per raggiungere il ponte successivo. La
spiegazione dell’interruzione del ponte è uno dei segnali dello svolgi-
mento del tempo nella Commedia.

9. Intermezzo. Il tempo del viaggio dantesco

I versi 112-114 del canto sono uno dei luoghi della Commedia in cui
si precisa la data d’inizio del viaggio dantesco.
Nel canto XX si trova un altro brano in cui viene espresso, con rela-
tiva chiarezza, il tempo in cui si svolge il viaggio. Si tratta dei versi
seguenti:
«Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, che non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
(If XX, 124-129)

Ma vieni ormai; perché la luna, qui indicata con «Caino e le spine»


(v. 26)20, tocca l’orizzonte al confine fra i due emisferi e tramonta nel

20
  Secondo la leggenda che voleva Caino relegato sulla luna a portare sulle
spalle un fascio di spine o a raccogliere spine, come gli uomini lo vedevano nelle
macchie lunari. La leggenda è richiamata anche in Pd II, 51.
[ 13 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 523

mare vicino Siviglia; e già ieri notte la luna era piena: te lo devi ricor-
dare perché ti fu d’aiuto nella selva oscura. Si tratta del primo plenilu-
nio dopo l’equinozio di primavera: ancora oggi la domenica seguente
a tale fenomeno è quella della Pasqua di Resurrezione21. Si noti che nel
primo canto, quando, secondo queste parole di Virgilio, il plenilunio
avrebbe dovuto giovare al pellegrino Dante, solo nella selva oscura,
non si fa alcun riferimento alla luna piena. Tuttavia, con il commento
di Giorgio Inglese al verso 129, possiamo ritenere che
l’indubbio significato allegorico di questa illuminazione lunare non
può non presupporre l’equivalenza fra sole e Dio: Dante, dunque, s’era
aiutato col riflesso, col barlume di grazia divina che non gli era stato
mai tolto […].

Ancora un riferimento al tempo della Commedia è in questo XXI


canto in cui si legge:
Ier, più oltre cinq’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
(If XXI, 112-114)

Ieri, cinque ore dopo questa, si compirono mille duecento sessanta


sei anni da quando qui la via fu interrotta dal terremoto conseguente
alla morte di Cristo22. Di conseguenza il momento a cui si riferisce
Malacoda è sabato santo 9 aprile 1300 alle ore 7 di mattina. Poiché
Dante, come dice nel Convivio23, pone il tempo della morte di Cristo
nel suo trentaquattresimo anno e, seguendo il Vangelo di Luca (xxiii,
44), ritiene che Egli sia spirato al mezzogiorno (e non alle quindici
come tramandano gli altri Evangelisti) qui è indicata l’ora in cui avvie-
ne il dialogo con Malacoda: le sette del mattino, un’ora dopo l’uscita
dalla quarta bolgia a conclusione del canto precedente. Ancora una
volta il rinvio al tempo pasquale non è arbitrario ma avvalorato da più
luoghi della Commedia. Il giorno di Pasqua dell’anno 1300 cadeva il 10
di aprile, quindi è necessario non spostare l’anno del viaggio sulla
scorta dell’errore indotto dai seguenti versi:

21
  Levitico, 23, 1-6; Esodo, 12, 1 e seg.; Giovanni, 13, 1 e 19, 14. Concilio di Nicea
del 325.
22
  Virgilio, in If XII, 36, ricorda come, durante il suo primo viaggio nell’Inferno,
«questa roccia non era ancora cascata».
23
  «Cristo volle morire nel trentaquattresimo anno della sua etate» (Convivio,
IV, xxiii, 10).
524 NICOLA LONGO [ 14 ]

Lo bel pianeta che d’amar conforta


faceva tutto rider l’orïente,
velando i pesci ch’erano in sua scorta24.

La situazione astronomica qui descritta dal poeta corrisponde a


quella dell’aprile del 1301, mentre nell’aprile del 1300 (e questa data è
dichiarata esplicitamente nei versi appena citati del canto XXI oltre
che dai trentacinque anni danteschi del primo verso della Commedia e
da due versi del Purgatorio25) il pianeta Venere sorgeva dopo il sole,
congiunta col toro e non con i pesci, quindi visibile la sera non il mat-
tino. Credo che l’unica soluzione alla contraddizione è lasciare libero
il poeta di procedere secondo le necessità del racconto. Per il resto la
data del 7-8 aprile 1300 consente di non perdere i valori complessivi
della scrittura della Commedia, sempre assai vincolanti sul piano sim-
bolico: l’anno del giubileo, la primavera, l’alba, la luna piena del gio-
vedì precedente, la condizione di peccato alla partenza nella notte del
venerdì di Passione, l’arrivo sulla spiaggia del Purgatorio la mattina
della Resurrezione26.

24
  Pg I, 19-21.
25
  «[…] veramente da tre mesi elli ha tolto /chi ha voluto intrar, con tutta pace»
(II, 98-99). Cioè da tre mesi, l’angelo nocchiero, con tranquillità, ha preso sulla sua
barca chi ha voluto entrarvi, per portarlo sulla spiaggia del monte purgatoriale.
Tre mesi prima aveva avuto inizio il perdono legato all’indizione del primo anno
giubilare. È vero che l’indulgenza decorre dal 25 dicembre precedente ma l’indi-
zione risale al 20 febbraio del ’300 sicché le anime morte non potevano sapere
della retroattività dell’indulgenza, e, quindi, Dante con l’espressione «da tre me-
si», intende riferirsi, in maniera approssimativa, all’inizio dell’anno giubilare. Del
resto è noto che la bolla non prevedeva indulgenza alcuna per le anime dei defun-
ti. Questa viene concessa solo nel 1457.
26
  Questo paragrafo è stato composto per la necessità di esprimere, con grande
umiltà, il dissenso per la scelta del 25 marzo come data di celebrazione del giorno
di Dante (giorno della creazione di Adamo, dell’Annunciazione e del capodanno
fiorentino), perdendo così gli ampi significati simbolici inerenti ai riti pasquali che
sono distribuiti lungo le tre cantiche. Per tutto questo mi sia sufficiente rinviare al
magnifico ed esauriente intervento di Bruno Basile contenuto nella voce Viaggio
che si legge nell’E. D.; oltre che al fondamentale studio di Edward Moore, Studies
in Dante, III, (Londra, 1895) Oxford, Clarendon press, 1968. Altrettanto importante
mi sembra l’ampio e articolato ragionamento che si legge in Corrado Gizzi, La
data del mistico Viaggio, in Id., L’astronomia nel Poema Sacro, II, Napoli, Loffredo,
1974, pp. 40-59. Sono inoltre da consultare Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Bari,
Laterza, 19903 e, per i luoghi citati, i seguenti commenti danteschi: Tommaso Casi-
ni - Silvio Adrasto Barbi; G. A. Scartazzini - G. Vandelli; Attilio Momiglia-
no; U. Bosco - Giovanni Reggio; Anna Maria Chiavacci Leonardi; intorno a
questo punto, mi sembra contraddittorio (fra introduzione e commento) il lavoro,
[ 15 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 525

10. Appello della decina di scorta e continuazione del viaggio


Quindi, nominandoli a uno a uno, Malacoda ordina a Barbariccia
di guidare il drappello di altri nove diavoli nel controllare che
nessun’anima esca fuori dalla pece e, contemporaneamente, di fare da
scorta ai due poeti, proteggendoli fino al prossimo ponte, garantendo
la loro incolumità.
Dante, evidentemente spaventato e non fidandosi della scorta
(«[…] digrignan li denti / e con le ciglia ne minaccian duoli» vv. 131-
132), chiede a Virgilio di proseguire da soli, dal momento che, poco
prima, egli ha detto di conoscere il cammino. Invece la guida lo rassi-
cura che le minacce sono rivolte ai dannati e non a loro. Intanto i dia-
voli si preparano a ripetere con un versaccio l’atto quanto mai volgare
con cui Malacoda darà l’avvio alla missione dei suoi sottoposti.
In quest’ultimo movimento del canto è chiaro l’intento parodistico
del poeta che vuole riprodurre l’uso guerresco di cominciare un’im-
presa al suono di tromba. Ma non siamo che al sipario della prima
scena.

11. Commento al segnale di Barbariccia XXII, 1-12


Il secondo canto della quinta bolgia vede puniti altri barattieri che
hanno abusato del potere politico loro affidato, a danno dell’autorità
monarchica. L’avvio si modella sull’uso dell’exemplum e richiama di
nuovo un’esperienza militare del poeta che, pur avendo assistito a
diversi movimenti iniziali di truppe o di singoli combattenti, in guer-
ra o in tornei, avviati dal segnale di diversi strumenti (trombe, campa-
ne, tamburi, richiamo da castello a castello) mai ha visto cavalieri o
fanti o navi che si muovessero ad un suono tanto strano quanto inde-
cente. Ciò conferma come l’universo dei diavoli di Malebolge si mo-
della sul mondo militare, nel linguaggio e nel comportamento, sem-
pre in chiave sarcastica, anche attraverso l’uso di termini di origine
germanica.

del resto assai benemerito per tutti gli altri aspetti, di Emilio Pasquini - Antonio
Quaglio. Per la tradizione contraria sono da consultare: Giovanni Agnelli, Topo-
Cronografia del viaggio dantesco, Milano, Hoepli, 1891; Filippo Angelitti, Sulla data
del viaggio dantesco, Napoli, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 27 (1897); altri stu-
diosi all’opera fra Ottocento e Novecento; il commento di Natalino Sapegno,
quello di Giuseppe Giacalone che fa riferimento allo studio di Paolo Pecoraro
(Le stelle di Dante, Roma, Bulzoni, 1987) e quello recentissimo di G. Inglese che il-
lustra entrambe le tesi.
526 NICOLA LONGO [ 16 ]

12. Partenza dei pellegrini con la scorta diabolica


A dimostrazione dell’uso “basso” del linguaggio27 che caratterizza
i canti di Malebolge, una terzina è costruita facendo leva su di un det-
to popolare: per i due viandanti, la compagnia dei demoni è consona
al luogo in cui si trovano: «[…] nella chiesa / coi santi, e in taverna coi
ghiottoni» (vv. 14-15). Durante il cammino l’attenzione di Dante è ri-
volta al lago di pece per comprendere la condizione della bolgia e del-
le anime che essa contiene.
Come i delfini quando sta arrivando una burrasca si avvicinano
alla nave e avvertono i marinai, così un’anima emergeva con la schie-
na per alleviare la sua pena ma subito si immergeva di nuovo. Ugual-
mente le rane emergono dallo stagno solo col muso, come le anime si
fanno vedere nascondendo il resto del corpo finché non s’avvicina
Barbariccia. Quando un’anima indugia a star fuori della pece, Graffia-
cane «li arruncigliò le ’mpegolate chiome / e trassel su, che mi parve
una lontra» (vv. 35-36). Siano sufficienti queste poche parole per avva-
lorare quanto s’è già detto circa la scelta linguistica di questi canti: il
tono ironico, di presa in giro, la mancanza di pietà (propria della se-
conda parte dell’Inferno), il rinvio al mondo animale, sono segni chiari
di conferma del diverso modo con cui si costruisce tutto il discorso
poetico di Malebolge. Alla vista dell’anima uncinata per i capelli gli
altri diavoli esortano Rubicante anche a scuoiarla, mentre Dante chie-
de alla sua guida di informarsi circa l’identità del dannato.

13. Altri due barattieri


Si tratta di Ciampolo che, al servizio del re di Navarra aveva abu-
sato a proprio vantaggio del suo potere di cortigiano. Quando il dia-
volo gli fa sentire come la zanna che aveva in bocca gli strappava le
carni, il commento del poeta è: «Tra male gatte era venuto ’l sorco» (v.
58). quindi Virgilio chiede a Ciampolo se nella pece ci sia «alcun che

27
  Provo qui a segnalare anche di questo secondo canto dei barattieri, i lemmi
caratteristici di una scelta linguistica “popolare” almeno nell’uso se non nella ma-
trice: ghiottoni, incesa, grosso, raccapriccia, spiccia, unghioni, scuoi, arruncigliò, impego-
late, sdruscìa, sorco, ’sorco, ’nforco, disfaccia, runciglio, piglio (in rima equivoca), rappa-
ciati, decurio (latinismo in uso grottesco), digrigna, tigna, proposto (comandante, in
senso ironico), stralunava, suffolerò (arcaismo), lacciuoli, rintoppo, gualoppo, s’attuffa,
artigli, grifagno, raffi, impaniati, cotti, impacciati. Di seguito l’elenco degli animali
presenti nel canto: dalfini, ranocchi, rana, lontra, porco, gatte, sorco, uccello, anitra, fal-
cone.
[ 17 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 527

sia latino» (v. 67). La risposta contiene il nome di Frate Gomìta di Gal-
lura28 (territorio sotto la giurisdizione di Pisa) che, per denaro, liberò i
nemici prigionieri del suo signore, Nino Visconti, giudice pisano (che
Dante incontra in Pg VIII, 53).
Insieme a lui si trova Michele Zanche, reggente del giudicato di
Logodoro per conto di re Enzo. Anche in questo caso la corruzione
viene esercitata a danno di un Signore. Egli apparteneva al partito filo
genovese, sua figlia Caterina (forse nata da un legame con la moglie di
Enzo, Adelasia, aveva sposato Branca Doria, la cui anima il poeta col-
loca nella Tolomea prima ancora della sua morte, per aver ucciso, alla
fine di un banchetto allestito per lui, il suocero Michele Zanche e il suo
seguito.
Ciampolo, temendo che, come dice, Farfarello è pronto a «grattar-
mi la tigna» (v. 93), nonostante la tregua imposta dal capo Barbariccia,
viene a patto con i suoi persecutori promettendogli, se si metteranno
da parte e non lo colpiranno, di far emergere, con un fischio, altri spi-
riti «Toschi o Lombardi» (v. 99), sottolineando la propria capacità di
ordire inganni e di trarne soddisfazione anche a spese dei suoi colle-
ghi ingannatori.
A questo punto Alichino promette di seguirlo a volo fino alla su-
perficie della pece e poi suggerisce di sorprendere gli altri dannati che
emergeranno, nascondendosi dietro all’argine dalla parte della sesta
bolgia.

14. Nuovo ludo


Avvertito il lettore29 di stare per assistere a una giostra mai vista
prima, si narra come Ciampolo colga l’attimo di distrazione dei guar-
diani che si stanno appostando dietro l’argine e, con un salto, sparisce

28
  Quando la Sardegna, prima del XII secolo si rende indipendente da Bisan-
zio, si trova divisa in quattro giudicati: Logudoro (o Torres) Caluri (o Cagliari)
Galluri e Arborea. Fra il 1115 e il 1116 i Pisani e i Genovesi allontanarono dall’isola
il pericolo delle scorrerie saracene avviando un processo di dominio commerciale
sui suoi prodotti. Nella prima metà del ’200 la Gallura è sottoposta alla famiglia
pisana dei Visconti mentre nella seconda metà del secolo la stessa Pisa governa
anche politicamente il giudicato di Cagliari. Il Logudoro vide l’alternarsi del pote-
re pisano e genovese fino al 1241 quando Federico II dette al figlio Enzo, marito
della giudicessa di Torres Adelasia, il titolo di re di Sardegna.
29
  Con tale meccanismo, secondo Spitzer, Dante neutralizza «l’urto del pubbli-
co con la volgarità» (Leo Spitzer, Studi italiani, Milano, Vita e pensiero, 1976, p.
218).
528 NICOLA LONGO [ 18 ]

nella pece. La contemporaneità delle sue tre azioni è segnata dall’uso


dei passati remoti in posizione forte, due all’inizio di verso e uno alla
fine: colse, fermò, saltò.
Di conseguenza i diavoli ci restano male, soprattutto Alichino che
aveva sfidato il Navarrese e, non rassegnato, tenta di colpire a volo il
dannato ma fa appena in tempo a risalire senza toccare la pece. Subito
Calcabrina vola contro il suo collega sperando che l’anima riesca
nell’intento di salvarsi dai loro uncini per poter scontrarsi in duello
con il responsabile della beffa subita. Quindi Alichino e Calcabrina si
ghermiscono e si artigliano reciprocamente col risultato di cadere en-
trambi nel «bogliente stagno» (v. 141).
Il calore della pece li separa immediatamente ma non hanno più la
possibilità di levarsi in volo sicché Barbariccia ordina a quattro di loro
di andare sull’altra sponda per porgere gli uncini ai due «impaniati, /
ch’eran già cotti dentro da la crosta» (vv. 149-150).
«E noi lasciammo lor così impacciati» (v. 151).

Nicola Longo
DANTE:

ISSN 0390-0142
1321-2021
a cura di Raffaele Giglio
A questo fascicolo doppio, dedicato al settecentenario della morte di Dante Alighieri,
hanno collaborato:
Aversano M., Banella L., Barucci G., Boaglio M., Boggione W., Bosisio M.,
Capaci B., Carapezza S., Cerbo A., Cimini M., Cofano D., Corrado M., Cristaldi S.,
De Liso D., De Ventura P., Gibellini P., Gigliucci R., Granese A., Grimaldi E.,
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M., Pegorari D. M., Pierangeli F., Pilan F., Ricco R., Saccone A., Spera F., Tateo F.,
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Questo fascicolo è stato stampato il 20 luglio 2021.

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