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LETTERARIA
192-193
DANTE
1321-2021
NICOLA LONGO
The present study aims to highlight the poetry of two cantos from the Inferno,
dedicated to barrators, i.e. officials that, taking advantage of their power, sell
favours. Their stylistic, linguistic and rhetorical value is able to lend the text a
strong coherence through the use of a popular language and a sometimes scur-
rilous lexis. The study is introduced by an analysis of the character of Geryon,
an essential instrument for moving from the seventh to the eight circle. Another
question addressed is that of the dating of Dante’s journey.
1. Premessa
1
Benedetto Croce, Carattere e unità della poesia di Dante, in La poesia di Dante,
Bari, Laterza, 1921, pp. 155-163. La cit. è ricavata da B. Croce, La letteratura italiana,
a cura di M. Sansone, I, Bari, Laterza, 1963, p. 64.
2
A conferma di quanto s’è indicato sopra, mi sembrano utili due precisi giudi-
zi relativi ai comica verba della Commedia: «il gusto “petroso” delle perifrasi ardue e
dotte è onnipresente»; «lo sfruttamento di motivi e forme comico-realistiche è mol-
to più ampio di quanto possano documentare i pochi testi arrivati a noi con la fir-
ma di Dante». Giorgio Inglese, Comica verba, in Id., Dante: guida alla Divina Com-
media, Roma, Carocci, 20122, pp. 116 e 117.
[ 3 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 513
3
Pochissime notizie intorno a questa città si trovano in Nicola Longo, Il can-
to dell’intelligenza, in Id., Studi danteschi, Roma, Studium, 2013, p. 69, n. 9.
4
Aeneidos, VI, 289: «forma tricorporis umbrae»; (forma di ombra di triplice
corpo); Aeneidos, VIII, 202: «tergeminus Geryon»; (Gerione trigemino). Questo per-
sonaggio lo si ritrova anche nei versi di Orazio (Carmina, II, xiv, 7-8: «[…] ter am-
plum / Geryonen»; Gerione grande tre volte un uomo); e di Ovidio (Eroides, IX,
91-92: «Geryones, quamvis in tribus unus erat; prodigium triplex […] / in tribus
unus»; Gerione era un triplice prodigio, sebbene fosse uno era in tre corpi»).
514 NICOLA LONGO [ 4 ]
con ogni cortesia, e poi, dopo averli addormentati con queste blandi-
zie, li uccideva» (I, 21).
Nei versi di Dante il mostro appare triplice nella natura del suo
corpo, ha il volto d’uomo giusto, il busto e le zampe di leone e il resto
del corpo di serpente dalla coda biforcuta come lo scorpione. Fra le
fonti possibili di questa immagine fantastica, la critica indica anche
l’Apocalisse, IX 7, 11 («facies earum sicut facies hominum […] habebant
caudas similes scorpionum»; le loro erano facce simili a facce di uomi-
ni […] avevano code simili alle code degli scorpioni).
Ma è anche vero che la zoologia fantastica di cui è piena l’arte figu-
rativa, pittorica e scultoria del Medio evo, aveva offerto al poeta ele-
menti sufficienti per elaborare la propria immagine di Gerione.
Né va trascurato quanto il mostro sia segnato, fin dalla sua antici-
pazione nel XVII canto, da un grande mistero: prima non si sa chi stia
arrivando, poi Virgilio induce il mostro alla missione di trasportarli
nel cerchio inferiore attraverso un dialogo a cui Dante non assiste e
che rimane avvolto nell’ignoto; il viaggio di discesa, simile solo a un
incredibile volo, è molto lento, secondo l’esortazione virgiliana («lo
scender sia poco»); mentre alla fine Gerione sparisce con la rapidità di
una freccia.
Nell’Inferno, Gerione sembra un uomo giusto («La faccia sua era fac-
cia d’uom giusto» XVII, 10) ed è questo, secondo Getto, (citato da Bosco
alla nota dei vv. 10-12) che nasconde l’umanità degradata in un corpo
che non è più immagine del Creatore. Così egli cela l’inganno, oltre che
nel suo aspetto orribile, nel veleno di cui è fornita la coda biforcuta.
Ricordo che il proverbio che recita in cauda venenum è di origine
medievale e certamente rinvia alla pericolosità dello scorpione:
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
(If XVII, 7-18)
Fetonte che lascia le redini del carro del Sole e precipita; quindi a quel-
la del volo di Icaro che, avvicinandosi troppo al sole, precipita per lo
sciogliersi della cera delle sue ali e, in fine, al volo del falcone che,
senza motivo, torna dal suo padrone.
Nel canto XVII i pellegrini procedono svoltando sulla destra inve-
ce che a sinistra, il che, sul piano simbolico, indica come la strada che
conduce alla frode non sia rettilinea.
In questo canto Virgilio fa cenno a Gerione di avvicinarsi e gli sale
in groppa mentre Dante contempla gli stemmi delle borse degli usurai
condannati in quel cerchio (riconoscendo due fiorentini e Reginaldo
degli Scrovegni patavino). Dopo che anch’egli si pone sulla schiena
del mostro davanti a Virgilio, per essere al riparo dal pericolo rappre-
sentato dalla coda avvelenata, i due vengono depositati sull’orlo del
precipizio dell’ottavo cerchio, mentre la «velenosa forca» (XVII, 26)
non poggia per terra ma pende nel vuoto dell’«alto burrato» (XVI,
114), la voragine che si trova al centro dei cerchi infernali5.
Qui mi sembra utile il discorso di De Sanctis che, alla luce della sua
estetica idealistica e romantica, spiega come il brutto possa trasfor-
marsi nel bello dell’arte grazie all’evidenza dell’anima che esprime
l’autenticità del proprio sentimento6. In questo caso non è Gerione che
manifesta un’anima segnata dalla volontà di ingannare, quanto l’in-
sieme di coloro che il pellegrino incontra nelle dieci bolge e che, con la
forza della consapevolezza del proprio peccato, fanno di questi canti
l’espressione di originalissima poesia.
5
Nei primi cerchi si scendeva dall’uno all’altro con relativa facilità; negli ulti-
mi tre cerchi, invece, la discesa è resa assai più difficile per indicare simbolicamen-
te come, a mano a mano, ci si stia avvicinando al fondo dove si trova il Male asso-
luto.
6
Francesco De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Torino, Einaudi, 1955, pp.
150-158.
516 NICOLA LONGO [ 6 ]
vo che, per due volte, nella prima e nella seconda bolgia, Virgilio esor-
ta Dante a procedere, senza soffermarsi ulteriormente.
Nella prima parte del canto appena citato, Dante ci offre una visio-
ne d’insieme del cerchio, descrivendolo come un piano circolare («cin-
ghio»), inclinato verso il centro del profondo «pozzo», alla base del qua-
le si trova il lago gelato di Cocito del nono cerchio. Il piano, a sua
volta è diviso in dieci balze concentriche, le valli o i fossi (simili ai fos-
sati che circondano i castelli), separate fra loro da mura divisorie (gli
argini) e attraversate, al di sopra del loro piano, da ponti a schiena
d’asino che partono a raggiera, in forma di scogli, dal muro di cinta
del cerchio (la ripa) e arrivano fino al pozzo, congiungendo fra loro,
trasversalmente, i singoli argini; il muro, essendo confine del cerchio,
si trova solo nella prima bolgia, sicché nei canti seguenti anche gli ar-
gini potranno essere definiti ripe:
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui ‘suo loco’ dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli7.
(If XVIII, 1-18)
7
I corsivi sono di chi scrive. Fra apici è l’ablativo assoluto, corsivo nel testo.
[ 7 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 517
8
La citazione è in Pietro Mazzamuto, Malebolge, in Enciclopedia dantesca (in
seguito E. D.), Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1975, ad vocem.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Umberto Bosco, Introduzione al canto XX.
12
Sulla figura di Nembrot mi permetto di rinviare a N. Longo, L’exemplum fra
retorica medievale e testo biblico nel Purgatorio, in Id., Letture e ricognizioni dantesche,
Roma, UniversItalia, 2014, pp. 223, nn. 17 e 18.
518 NICOLA LONGO [ 8 ]
mente oscura» (v. 6). Le anime di quest’«altra fessura» (v. 4), gli spiriti
dei barattieri a cui il poeta dedica due canti, sono immerse in quella
pece mentre dei diavoli neri impediscono loro di uscirne.
La baratteria è il reato di chi, approfittando della propria funzione
pubblica, ne trae un vantaggio economico. Si tratta della concussione.
Certo questi dannati, forse più di qualsiasi altro peccatore dell’Infer-
no, rinviano a un’esperienza personale di Dante. Egli si trovava sulla
via del ritorno dall’ambasceria presso Bonifacio VIII, quando lo rag-
giunge la notizia di essere stato condannato al confino per baratteria il
27 gennaio 1302, con sentenza del podestà Cante Gabrielli da Gubbio.
Sicché decide di non tornare a Firenze e non vi tornerà mai più né vivo
né morto. Attraverso la via francigena, si dirige a Siena e poi ad Arez-
zo. Nel marzo successivo la pena diventa la morte sul rogo.
Il paragone della pece bollente della bolgia con quella dell’arsenale
di Venezia ha fatto pensare a una presenza del poeta in laguna ma,
come al solito, nessun documento attesta la veridicità dell’ipotesi. Mi
sembra molto più interessante notare come in nove versi Dante sia
stato in grado di riassumere tutto il vario lavoro che si svolge in un
cantiere navale: «rimpalmare i legni […]; ristoppare le coste […] ribat-
tere da proda e da poppa […] fare remi […] volgere sarte […]; terzuolo
e artimon rintoppare» (vv. 7-15). Il tutto per poter giustificare l’effetto
di oscurità dell’ambiente. Senza sottovalutare l’anticipazione del mo-
vimento scenico a cui assisteremo nei due canti, richiamato qui dal
lavoro frenetico che si svolge nei cantieri veneziani. A parte la scelta
precisa della terminologia dell’arte che si esercita nell’arsenale (spesso
con scelte di sonorità plebee), ciò che conta è proprio la straordinaria
precisione con cui quei termini vengono inseriti entro la misura del
verso e della terzina. È di ciò che ogni volta si meraviglia il lettore
della Commedia.
13
Guido da Pisa, frate carmelitano che commentò in latino l’Inferno, prima del
1350), nell’interpretare il passo, dice che l’anima appena arrivata nella bolgia, è
quella di Martino Bottaio. In Francesco da Buti così si legge: «Et è qui da sapere che
costui che non è nominato, altri voglion dire che fosse Martino bottaio il quale
morì nel mccc, l’anno che l’autor finge che avesse questa fantasia, il venerdì santo
la notte sopra il sabbato (sic) santo […]». Ricavo la citazione di Buti dal commento
di Giovanni Andrea Scartazzini - Giuseppe Vandelli ai vv. 22-57 del canto.
14
P. Mazzamuto, Anziano di Santa Zita, in E. D., ad vocem, spiega come Fran-
cesco Paolo Luiso, documenti alla mano, abbia dimostrato tutto ciò, in uno stu-
dio della Miscellanea Bongi del 1927.
520 NICOLA LONGO [ 10 ]
della baratteria non sia stato condizionato dalla sua esperienza. Persi-
no le forme a cui si accennava, il terribile “gioco”, con cui le anime in
pena cercano refrigerio fuori della pece di nascosto dai diavoli e come
questi usino gli arpioni per dilaniarli e spingerli di nuovo nel nero
magma bollente, sono un riflesso della pena vergognosa a cui viene
sottoposto il barattiere: «trascinato per le vie cittadine, legato alla coda
di un asino per essere poi giustiziato»15.
È altrettanto vero che il tono complessivo della sezione dei barat-
tieri tratta l’argomento con levità inconsueta e pressoché priva di in-
tenti di rivalsa rispetto alle due sentenze subite dal poeta. Era ben
noto come l’accusa di baratteria colpiva sempre coloro che alternati-
vamente perdevano il potere nei comuni dilaniati dalle consorterie.
6. I peccatori
Le anime punite in questo canto sono quelle di coloro che hanno
esercitato la concussione a danno del proprio comune, abusando dei
poteri loro concessi per la gestione della cosa pubblica; e qui Lucca è
al centro del discorso con le anime di Martin Bottaio e di Bonturo Da-
ti16 il cui nome è fortemente colorato di sarcasmo. Diverso è il peccato
dei barattieri che Dante nominerà nel canto seguente.
L’Anziano di Lucca, scaraventato nella pece dal diavolo che l’ave-
va sulla spalla, subito dopo cerca di emergere ripiegato su se stesso
come colui che è in preghiera, ma subito i diavoli guardiani, afferran-
dolo con i loro uncini lo sprofondano di nuovo nella pece bollente,
urlandogli che nel posto in cui si trova ora non hanno valore le invo-
cazioni al Crocifisso bizantino della Basilica lucchese di San Martino
(«Il Santo Volto» v. 48), qui è necessario stare sempre immersi nella
nera mota e, se mai, per sottrarsi momentaneamente alla pena, imbro-
gliare i guardiani di nascosto (sottinteso: come di nascosto hanno ap-
profittato del loro potere per rubare).
Anche questo episodio, svolto con il tono del divertito sarcasmo
dei diavoli che giocano a tormentare l’anima appena giunta, ignara di
tutto, è segnato da scelte stilistiche fortemente connotate di un lin-
guaggio popolare se non plebeo, che sopra s’è notato.
15
P. Mazzamuto, Barattiere, in E. D., ad vocem.
16
La sua anima non è ancora all’inferno ma, come scrive il Lana, citato da
molti commentatori, egli era ritenuto «il maggior barattiere di palagio che mai
fosse o che si sappia in quella città».
[ 11 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 521
17
Anche in If IX, 22 e XII, 34 Virgilio ricorda, quasi con le stesse parole, il suo
primo viaggio nell’al di là.
18
Publio Virgilio Marone, Aneidos libri, VI, 564-565.
19
A questo episodio fa riferimento Virgilio in If IX, 22-24. La fonte è Marco
Anneo Lucano, De bello civili, VI, 507-827.
522 NICOLA LONGO [ 12 ]
ricevuto («la sembianza lor ch’era non buona» v. 99), sicché istintiva-
mente s’accosta a Virgilio, come fa un bambino spaventato che si rifu-
gi vicino alla mamma. A questo episodio si collega il ricordo della
presa del castello di Caprona (in Valdarno, vicino Pisa) a cui partecipa
il poeta nell’agosto del 1289, come conseguenza della battaglia di
Campaldino in Casentino, quando gli abitanti ghibellini sconfitti scen-
dono a patti lasciando la piazzaforte e sono costretti a passare fra due
ali di nemici, temendone un gesto proditorio.
Malacoda, confermando il suo ordine, impone a Scarmiglione di
non usare l’uncino contro i due viandanti, come lo incitavano i suoi
compagni. Poi avverte Virgilio che più avanti il ponte è interrotto a
causa del terremoto prodotto dalla morte di Cristo. Ciò che non dice è
che tutti i ponti sono franati e qui è il coerente inganno del custode dei
fraudolenti. Perciò, secondo il suo consiglio, solo con la protezione di
una schiera di diavoli, conviene proseguire il cammino lungo l’argine
(indicato col temine scoglio) per raggiungere il ponte successivo. La
spiegazione dell’interruzione del ponte è uno dei segnali dello svolgi-
mento del tempo nella Commedia.
I versi 112-114 del canto sono uno dei luoghi della Commedia in cui
si precisa la data d’inizio del viaggio dantesco.
Nel canto XX si trova un altro brano in cui viene espresso, con rela-
tiva chiarezza, il tempo in cui si svolge il viaggio. Si tratta dei versi
seguenti:
«Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, che non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
(If XX, 124-129)
20
Secondo la leggenda che voleva Caino relegato sulla luna a portare sulle
spalle un fascio di spine o a raccogliere spine, come gli uomini lo vedevano nelle
macchie lunari. La leggenda è richiamata anche in Pd II, 51.
[ 13 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 523
mare vicino Siviglia; e già ieri notte la luna era piena: te lo devi ricor-
dare perché ti fu d’aiuto nella selva oscura. Si tratta del primo plenilu-
nio dopo l’equinozio di primavera: ancora oggi la domenica seguente
a tale fenomeno è quella della Pasqua di Resurrezione21. Si noti che nel
primo canto, quando, secondo queste parole di Virgilio, il plenilunio
avrebbe dovuto giovare al pellegrino Dante, solo nella selva oscura,
non si fa alcun riferimento alla luna piena. Tuttavia, con il commento
di Giorgio Inglese al verso 129, possiamo ritenere che
l’indubbio significato allegorico di questa illuminazione lunare non
può non presupporre l’equivalenza fra sole e Dio: Dante, dunque, s’era
aiutato col riflesso, col barlume di grazia divina che non gli era stato
mai tolto […].
21
Levitico, 23, 1-6; Esodo, 12, 1 e seg.; Giovanni, 13, 1 e 19, 14. Concilio di Nicea
del 325.
22
Virgilio, in If XII, 36, ricorda come, durante il suo primo viaggio nell’Inferno,
«questa roccia non era ancora cascata».
23
«Cristo volle morire nel trentaquattresimo anno della sua etate» (Convivio,
IV, xxiii, 10).
524 NICOLA LONGO [ 14 ]
24
Pg I, 19-21.
25
«[…] veramente da tre mesi elli ha tolto /chi ha voluto intrar, con tutta pace»
(II, 98-99). Cioè da tre mesi, l’angelo nocchiero, con tranquillità, ha preso sulla sua
barca chi ha voluto entrarvi, per portarlo sulla spiaggia del monte purgatoriale.
Tre mesi prima aveva avuto inizio il perdono legato all’indizione del primo anno
giubilare. È vero che l’indulgenza decorre dal 25 dicembre precedente ma l’indi-
zione risale al 20 febbraio del ’300 sicché le anime morte non potevano sapere
della retroattività dell’indulgenza, e, quindi, Dante con l’espressione «da tre me-
si», intende riferirsi, in maniera approssimativa, all’inizio dell’anno giubilare. Del
resto è noto che la bolla non prevedeva indulgenza alcuna per le anime dei defun-
ti. Questa viene concessa solo nel 1457.
26
Questo paragrafo è stato composto per la necessità di esprimere, con grande
umiltà, il dissenso per la scelta del 25 marzo come data di celebrazione del giorno
di Dante (giorno della creazione di Adamo, dell’Annunciazione e del capodanno
fiorentino), perdendo così gli ampi significati simbolici inerenti ai riti pasquali che
sono distribuiti lungo le tre cantiche. Per tutto questo mi sia sufficiente rinviare al
magnifico ed esauriente intervento di Bruno Basile contenuto nella voce Viaggio
che si legge nell’E. D.; oltre che al fondamentale studio di Edward Moore, Studies
in Dante, III, (Londra, 1895) Oxford, Clarendon press, 1968. Altrettanto importante
mi sembra l’ampio e articolato ragionamento che si legge in Corrado Gizzi, La
data del mistico Viaggio, in Id., L’astronomia nel Poema Sacro, II, Napoli, Loffredo,
1974, pp. 40-59. Sono inoltre da consultare Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Bari,
Laterza, 19903 e, per i luoghi citati, i seguenti commenti danteschi: Tommaso Casi-
ni - Silvio Adrasto Barbi; G. A. Scartazzini - G. Vandelli; Attilio Momiglia-
no; U. Bosco - Giovanni Reggio; Anna Maria Chiavacci Leonardi; intorno a
questo punto, mi sembra contraddittorio (fra introduzione e commento) il lavoro,
[ 15 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 525
del resto assai benemerito per tutti gli altri aspetti, di Emilio Pasquini - Antonio
Quaglio. Per la tradizione contraria sono da consultare: Giovanni Agnelli, Topo-
Cronografia del viaggio dantesco, Milano, Hoepli, 1891; Filippo Angelitti, Sulla data
del viaggio dantesco, Napoli, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 27 (1897); altri stu-
diosi all’opera fra Ottocento e Novecento; il commento di Natalino Sapegno,
quello di Giuseppe Giacalone che fa riferimento allo studio di Paolo Pecoraro
(Le stelle di Dante, Roma, Bulzoni, 1987) e quello recentissimo di G. Inglese che il-
lustra entrambe le tesi.
526 NICOLA LONGO [ 16 ]
27
Provo qui a segnalare anche di questo secondo canto dei barattieri, i lemmi
caratteristici di una scelta linguistica “popolare” almeno nell’uso se non nella ma-
trice: ghiottoni, incesa, grosso, raccapriccia, spiccia, unghioni, scuoi, arruncigliò, impego-
late, sdruscìa, sorco, ’sorco, ’nforco, disfaccia, runciglio, piglio (in rima equivoca), rappa-
ciati, decurio (latinismo in uso grottesco), digrigna, tigna, proposto (comandante, in
senso ironico), stralunava, suffolerò (arcaismo), lacciuoli, rintoppo, gualoppo, s’attuffa,
artigli, grifagno, raffi, impaniati, cotti, impacciati. Di seguito l’elenco degli animali
presenti nel canto: dalfini, ranocchi, rana, lontra, porco, gatte, sorco, uccello, anitra, fal-
cone.
[ 17 ] LA POESIA DI MALEBOLGE: INFERNO XXI-XXII 527
sia latino» (v. 67). La risposta contiene il nome di Frate Gomìta di Gal-
lura28 (territorio sotto la giurisdizione di Pisa) che, per denaro, liberò i
nemici prigionieri del suo signore, Nino Visconti, giudice pisano (che
Dante incontra in Pg VIII, 53).
Insieme a lui si trova Michele Zanche, reggente del giudicato di
Logodoro per conto di re Enzo. Anche in questo caso la corruzione
viene esercitata a danno di un Signore. Egli apparteneva al partito filo
genovese, sua figlia Caterina (forse nata da un legame con la moglie di
Enzo, Adelasia, aveva sposato Branca Doria, la cui anima il poeta col-
loca nella Tolomea prima ancora della sua morte, per aver ucciso, alla
fine di un banchetto allestito per lui, il suocero Michele Zanche e il suo
seguito.
Ciampolo, temendo che, come dice, Farfarello è pronto a «grattar-
mi la tigna» (v. 93), nonostante la tregua imposta dal capo Barbariccia,
viene a patto con i suoi persecutori promettendogli, se si metteranno
da parte e non lo colpiranno, di far emergere, con un fischio, altri spi-
riti «Toschi o Lombardi» (v. 99), sottolineando la propria capacità di
ordire inganni e di trarne soddisfazione anche a spese dei suoi colle-
ghi ingannatori.
A questo punto Alichino promette di seguirlo a volo fino alla su-
perficie della pece e poi suggerisce di sorprendere gli altri dannati che
emergeranno, nascondendosi dietro all’argine dalla parte della sesta
bolgia.
28
Quando la Sardegna, prima del XII secolo si rende indipendente da Bisan-
zio, si trova divisa in quattro giudicati: Logudoro (o Torres) Caluri (o Cagliari)
Galluri e Arborea. Fra il 1115 e il 1116 i Pisani e i Genovesi allontanarono dall’isola
il pericolo delle scorrerie saracene avviando un processo di dominio commerciale
sui suoi prodotti. Nella prima metà del ’200 la Gallura è sottoposta alla famiglia
pisana dei Visconti mentre nella seconda metà del secolo la stessa Pisa governa
anche politicamente il giudicato di Cagliari. Il Logudoro vide l’alternarsi del pote-
re pisano e genovese fino al 1241 quando Federico II dette al figlio Enzo, marito
della giudicessa di Torres Adelasia, il titolo di re di Sardegna.
29
Con tale meccanismo, secondo Spitzer, Dante neutralizza «l’urto del pubbli-
co con la volgarità» (Leo Spitzer, Studi italiani, Milano, Vita e pensiero, 1976, p.
218).
528 NICOLA LONGO [ 18 ]
Nicola Longo
DANTE:
ISSN 0390-0142
1321-2021
a cura di Raffaele Giglio
A questo fascicolo doppio, dedicato al settecentenario della morte di Dante Alighieri,
hanno collaborato:
Aversano M., Banella L., Barucci G., Boaglio M., Boggione W., Bosisio M.,
Capaci B., Carapezza S., Cerbo A., Cimini M., Cofano D., Corrado M., Cristaldi S.,
De Liso D., De Ventura P., Gibellini P., Gigliucci R., Granese A., Grimaldi E.,
Guaragnella P., Imbriani M. T., Longo N., Marseglia L., Morace A. M., Palumbo
M., Pegorari D. M., Pierangeli F., Pilan F., Ricco R., Saccone A., Spera F., Tateo F.,
Tellini G., Tuscano F., Tuscano P., Valerio S.
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