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Purgatorio XVII

La pace come cerchio e centro

Al canto XVII del Purgatorio Silvio Pasquazi ha dedicato una ‘lectura’ per molti
versi espressiva del suo amore prolungato per il ‘volume’ e il suo Autore, ma anche
esemplificativa del suo metodo esegetico e della sua tensione euristica. O, come altri
affettuosamente e nitidamente hanno già rilevato, della sua ‘avventura anagogica’ di
grande dantista1.
Ciononostante, il canto non è riuscito finora a scrollarsi di dosso una sorta di
malintesa marginalità estetica, per dir così - appunto, superficialmente - perché privo
di prosopopee rilevabili e rilevanti. Un canto brutto, insomma, senza poesia. Ne è
valsa l’ormai affermata revisione del paradigma di ‘poesia e struttura’ (dal grande
Croce sobriamente asserito, da vari epigoni più piccoli espanso a norma
incontrovertibile per tutta la prima metà del Novecento) che avrebbe potuto già per
tempo restituire il canto a una più giustificata valutazione e a una più promettente
valorizzazione2.
Se, come dice Freccero, il nesso più appropriato per la Commedia sembra essere
quello tra ‘poetica’ e ‘tematica’, allora si può ri-partire dalla configurazione
strutturale del canto XVII del Purgatorio, dalla sua posizione nel “poema sacro”, per
attingere nuove e davvero impensate aggiunte di senso3.
Occorre, in tale direzione, riguadagnare il meglio di una dantologia tardottocentesca e
primonovecentesca, a torto isolata come inutilizzabile erudizione positivistica o,
peggio, arbitraria teorizzazione magico-misterica. Pur con tutti gli eccessi esibiti e

1
Cfr., passim, i presenti Atti. Di SILVIO PASQUAZI si segnalano il volume All'eterno dal tempo.
Studi danteschi (Firenze 1966; seconda edizione accresciuta, ibid. 1972 e terza edizione Roma,
Bulzoni, 1985) così come Il Canto dell'avventura anagogica «L'Alighieri» XIII (1972); gli
Aggiornamenti di critica dantesca, Firenze, Le Monnier 1972 e, in particolare, la ‘lectura’ di
Purgatorio XVII «Nuove letture II», IV, Roma 1970, pp. 221-250. Cfr., inoltre, ID., Dante e altri
studi di letteratura italiana, a cura di Gianni Oliva e Giancarlo Rati,
Roma, Bulzoni 1992.
2
BENEDETTO CROCE, La poesia di Dante, Bari 1921.
3
JOHN FRECCERO, Dante. La poetica della conversione, introduzione e traduzione a c. di C.
Calenda, Bologna, il Mulino, 1989, p. 192.
riscontrati, si possono riprendere oggi con più sereno vaglio storico-ermeneutico le
illuminazioni pascoliane a ciò che si cela ‘sotto ‘l velame’ (non escluse perfino le
estensioni argomentative di Pietrobono e Valli), come premessa funzionale e
cooperante all’intelligenza più complessiva e comprensiva del canto (più) ‘centrale’
della Commedia4.
Si deve a Charles Southward Singleton l’autorevole riabilitazione dell’approccio
numerologico alla Commedia, inteso non come mera tecnologia strutturale ma
ricompresa nel più generale disegno esegetico e ermeneutico proprio del dantista
nordamericano. Del resto, per Singleton, andare verso l’opera significa fare
l’esperienza nuova e inattesa di una scoperta, dichiarata quasi con candore: “Non so
perché tutto questo non l’abbiamo mai visto prima” e, a proposito dell’osservazione
numerologica sui canti centrali della Commedia, su cui si basa l’intero saggio Il
numero del poeta al centro, il critico invita a non avere troppi rimpianti retrospettivi
di tipo filologico o storiografico sulla trascorsa incomprensione: “[…] l’importante è
che la vediamo ora”5.
Ma la centralità del canto XVII del Purgatorio acquista significato molteplice se,
partendo dal dato numerologico che esalta al massimo il valore numerico, si traggono
tutte le conseguenti inferenze. E, appunto come si è già accennato, con qualche
sorpresa euristica.
4
Opere dantesche di GIOVANNI PASCOLI: Minerva oscura. Prolegomeni: la costruzione morale
del poema di D., Livorno 1898; Sotto il velame. Abbozzo di una storia della D.C., Messina 1900;
La mirabile visione, ibid. 1902; Conferenze e studi danteschi, a cura di Maria Pascoli, Bologna
1914; Scritti danteschi, a c. di A. Vicinelli, vol. II delle Prose, Milano 1952 L. VALLI, L'allegoria
di D. secondo G.P., ibid. 1922; ID., Dante nella poesia di Giovanni Pascoli, nel volume
miscellaneo Studi pascoliani, ibid. 1929, 15-34; ID., «Giornale dantesco» XXV (1922) 11, in part.
pp.158-159; L.PIETROBONO, Per l'allegoria di Giovanni Pascoli, «Giornale dantesco» XXI
(1913) e ID., « La Tribuna Illustrata » 20 giugno 1900.
5
CHARLES S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1978,p. 454
(ma, prima, ID., The Poet’s number at the Center , «Modern Language Notes», LXXXV, 1965, pp.
1-10). Ma, sulla numerologia dantesca cfr., ancora utilmente, GIAN ROBERTO SAROLLI, s.v.
Numero «Enciclopedia Dantesca», vol. II, Roma 1973, pp. 87-96 e MANFRED HARDT, I numeri
nella poetica di Dante «Studi danteschi», LXI, 1989, pp. 1-27. Sula più complessiva disamina della
critica dantesca nordamericana, singletoniana e non, si veda, in particolare, TEODOLINDA
BAROLINI, The Undivine Comedy: Detheologizing Dante, Princeton, Princeton University Press
1992 e, ancora utilmente, forse, RINO CAPUTO, Il pane orzato. Saggi di lettura intorno all’opera
di Dante Alighieri, Roma, Euroma 2003.
È stato notato più volte, nella pregressa pluriennale esegesi, che la tematica
presentata dal pellegrino poeta nel corso di Pg 17 giunge al culmine di
un’argomentazione rilevante esposta nel canto precedente e foriera di esiti altrettanto
decisivi nel prosieguo del cammino. Insomma, sembra confermata l’impressione
pressoché visiva di Singleton che pone Pg 17 al centro di una serie di canne
d’organo, per così dire, simmetriche e corrispondenti (i canti 14-16 e 18-20, nella
loro realtà quantitativa e qualitativa). Ma il centro è altresì compiutamente tematico
sia perché, a stretto ridosso, nel canto sedicesimo, Marco Lombardo svolge la
trattazione esplicita e definitiva della libertà umana come libero arbitrio debitamente
santo e santificante, sia perché la cornice e la relativa ‘beatitudine’ sembrano
incastonate per esaltare il polisenso del dettato evangelico così come delle inferenze
dello ‘scriba dei’. Se, come osserva Mercuri, il vero e proprio Purgatorio, come
omologo simmetrico della concavità infernale, è quello delle cornici e dell’angelo che
allevia i segni (le insegne) dei peccati capitali dalla fronte del peccatore viandante,
allora la cornice rappresentata e narrata in Pg 17 e la sua beatitudine hanno bisogno
non solo della costatazione della loro centralità ma anche di una più efficace e, forse,
più audace, interpretazione6.
Il ritmo ascensionale dell’alleggerimento dei gravami del pellegrino è associato a ben
determinate ‘beatitudini’ che, per Dante narratore teologicamente attrezzato, ben si
adattano ai corrispondenti peccati che si purgano nelle varie cornici. E, così, allora,
agostinianamente e, insieme tomisticamente, realizzando una sintesi forse
imprevedibile, il timore di Dio, in Pg XII, 110, riguarda la beatitudine dei “poveri di
spirito"; il senno “ i misericordiosi" (Pg. XV, 38), nel collegamento della pietà con “i
miti”; la scienza “quelli che piangono" (Pg. XIX, 50), la fortezza "quelli che hanno

6
Cfr. ROBERTO MERCURI, «Comedìa» di Dante Alighieri, «Letteratura Italiana Einaudi. Le
Opere», a cura di A.Asor Rosa, Torino Einaudi, 1992, pp. 9-14, in part. p. 12, con registrazione in
nota (p. 9) di ulteriori riscontri di contributi relativi alla questione numerologica testé trattata.
fame e sete di giustizia" (Pg. XXIV, 154; XXII, 6), l'intelletto i "puri di cuore (Pg.
XXVII, 8), e infine, ma con pregnante inserzione tra le une e le altre, la saggezza i
"pacifici" (Pg. XVII, 68-69)7 .
I versi centrali del canto centrale della Commedia posso essere considerati, quindi:

Così disse il mio duca, e io con lui

volgemmo i nostri passi ad una scala;

e tosto ch'io al primo grado fui,

senti'mi presso quasi un muover d'ala

e ventarmi nel viso e dir: 'Beati

pacifici, che son sanz' ira mala!'.

Già eran sovra noi tanto levati

li ultimi raggi che la notte segue,

che le stelle apparivan da più lati.

'O virtù mia, perché sì ti dilegue?',

fra me stesso dicea, ché mi sentiva

la possa de le gambe posta in triegue.

(vv. 64-75)

Ora, al centro del centro del canto, della cantica e della Commedia, Dante pone i
pacifici ovvero, come può precisare una buona traduzione dal latino, fedelmente
rispettosa del termine composto, i ‘costruttori della pace’, i realizzatori di una
dimensione, la pace, che sembra costituire agli occhi del poeta una condizione
importante e preliminare, per così dire, a molti esiti.

Già nella Monarchia è possibile riscontrare una esplicita caratterizzazione della pace
come qualità propria del genere umano. E con significativa allusione alla tematica
introdotta, dispiegata e esaltata dal canto ‘centrale’ del poema:
7
Cfr. A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Le beatitudini e la struttura poetica del Purgatorio,
«Giornale storico della letteratura italiana » 1984, in part. pp. 7 e 9.
Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, et in homine particulari contingit
quod sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ipse perficitur, patet quod genus
humanum in quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere
divinum est iuxta illud “minuisti eum paulo minus ab angelis”, liberrime atque
facillime se habet (Mon. I, iv, 2)

Secondo il trattatista, dunque, la pace è una sorta di precondizione di benessere (di


ben essere) per l’uomo, nella sua generalità (“genus humanum”) come nella sua
specificità di creatura (il “whicheveryman” singletoniano, l’individuo Dante che fa
l’esperienza oltremondana come “persona viva” rappresentativa di tutti quelli come
lui ovvero il genere umano peccatore redimibile). Agire la pace, essere in pace
significa, peraltro, avere il giusto impegno nella vita terrena, un coinvolgimento di
energie positive, per così dire, che canalizzano verso il bene individuale e collettivo
la naturale aggressività umana (i pacifici sono, appunto, “sanz’ira mala”).

Appare quindi molto più perspicuo l’accostamento delle tematiche embricate nei
canti contigui: il libero arbitrio è la dimensione precipua dell’uomo in società che
vuol essere (buon) cristiano. Ma per essere (buon) cristiano occorre che ogni
appartenente al genere umano viva in operosa pace. La pace in terra tra gli uomini di
buona volontà, tra gli uomini, cioè, che conducono a buon fine il loro libero arbitrio,
è la condizione preliminare, ma Dante sembra ritenerla ineludibile, per meritare la
vita eterna. Il cammino salvifico del pellegrino poeta acquista, una volta di più, ma in
modo, ora, ‘anagogicamente’ significativo, il suo senso più compiuto.

La perfetta centralità strutturale del canto XVII del Purgatorio è perciò funzionale
alla perfezionata ‘tematica’ del poema e non esclude, proprio per la sua intensità
espressiva, perfino momenti emozionali elevati e pressoché inediti di quella che, per
altri versi, è definibile come ‘poesia’. Si pensi al bellissimo attacco del canto, alla
delineazione di un’atmosfera letteralmente fisica e allegoricamente spirituale che,
attraverso un inaspettato ‘invito al lettore’, si fa preparazione di un dichiarazione di
poetica necessaria per dispiegare tutte le inferenze degli argomenti che si stanno per
proferire:
Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,

come, quando i vapori umidi e spessi


a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;

e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com'io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.

Sì, pareggiando i miei co' passi fidi
del mio maestro, usci' fuor di tal nube
ai raggi morti già ne' bassi lidi.

O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube,

chi move te, se 'l senso non ti porge?


Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
(vv. 1-18)

Il movimento del “lume” permette la circolazione della volontà divina. È in tal senso
che il centro e il cerchio del mondo (e di quel libro che, come la Bibbia, è specchio
del mondo, il “poema sacro”) si armonizzano. Il centro raccoglie il cerchio e il
cerchio di-spiega il centro, come sarà chiarito in appresso:
Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
secondo ch’è percosso fuori o dentro. (Pd
XIV, vv. 1-3)

Anche senza voler troppo indugiare sulle corrispondenze numerologiche, è perciò


che il canto XVII del Purgatorio si può correlare coerentemente con il canto XI
dell’Inferno, per le evidenti corrispondenze sia strutturali sia tematiche: Virgilio
illustra la configurazione non puramente fisico-geografica della cavità infernale in If
11, vv. 16-66 e della montagna purgatoriale in Pg 17, vv. 91-139. Allo stesso modo
per cui, prima e all’inizio, la questione è quella delle tre forme di peccato, ora,
purgatorialmente, si tratta del “triforme amor” (già verificato nell’esperienza del
viaggio e nella sua interpretazione) e dell’“amor ch’ad esso troppo s’abbandona” che
“non fa l’uom felice” (v. 133).
Ma la felicità in terra, pur secondaria rispetto a quella eterna, giova alla libertà
dell’uomo di scegliere il bene. E la scelta di volere e fare il bene giova alla felicità
dell’uomo come persona consociata con le altre persone.
A metà del viaggio, quando ormai è più chiaro il senso del “fatal andare”, Dante si
sofferma a guardare indietro e, insieme, a lanciare davanti a sé il senso acquisito;
ancora una volta confermando, come avevano intuito Singleton e, ancor prima,
Auerbach, che il futuro è prefigurato nel passato comprensibile con sguardo visuale
retrospettivo8.
Il cammino può dunque riprendere e, davvero in literis oltre che in spiritu, finalmente
pacificato.
Ed è ancora bellissima la contrazione narrativa (in sé superiore a ogni illazione
narratologica dei nostri tempi) che accompagna la Spannung tematica delle passioni dell’uomo e del
genere umano.

8
ERICH AUERBACH, Studi su Dante, prefazione di Dante Della Terza, Milano, Feltrinelli 1988;
CH.S.SINGLETON, La visuale retrospettiva «Atti del Congresso internazionale di Studi
danteschi», Firenze, Sansoni 1965, pp. 279-304, poi in ID., La poesia della Divina Commedia, cit.,
pp. 463-494.
Resta, se dividendo bene stimo,
che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.

E' chi, per esser suo vicin soppresso,


spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;

è chi podere, grazia, onore e fama


teme di perder perch'altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama;

ed è chi per ingiuria par ch'aonti,


sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che 'l male altrui impronti.

Questo triforme amor qua giù di sotto


si piange; or vo' che tu de l'altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.

Ciascun confusamente un bene apprende


nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.

Se lento amore a lui veder vi tira


o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.

Altro ben è che non fa l'uom felice;


non è felicità, non è la buona
essenza, d'ogne ben frutto e radice.

L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona,


di sovr'a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,

tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».


 

È nella pace che tutto in terra si riassume, si comprende e si attua. Senza la pace
interiore e esteriore, individuale e sociale, non c’è vita.
Come (ci) ricorda un allievo, spesso involontario - ma acutissimo - di Dante, con
accenti troppo ingiustamente definiti retorici, ma a preziosa conferma di una
Weltanschauung che, in varie guise, attende ancora - e soprattutto - oggi, di essere
realizzata : “I’ vo gridando: “Pace, pace, pace”9.
C XI rime in ende
Beati pacifici
Amore
Imaginativa fantasmi e petrarca
Accidia e tedium e vo gridando pace pace pace…

« Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché erediteranno la terra.

9
Cfr. FRANCESCO PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta CXXVIII, 122.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta

di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la

vostra ricompensa nei cieli » (Mt 5,3-12)

.È noto che, ogni volta che il pellegrino sta per lasciare una cornice, l'angelo
guardiano della cornice intona una particolare "beatitudine". Per la precisione, al
passaggio di Dante risuonano sei beatitudini evangeliche: non vengono infatti
nominate né l'ottava, tradizionalmente considerata come implicita nelle precedenti
(ST I-II.69.3), né la seconda ("Beati i miti"), associata da S. Agostino, nel commento
al "discorso della montagna" (DM I.55), a "Beati i misericordiosi"; invece la quarta
("Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia") viene pronunciata, divisa in due
parti, dall'angelo del quinto girone e da quello del sesto girone. Come sostiene con
vigore A.M. Chiavacci Leonardi, la presenza delle beatitudini non può essere ritenuta
un mero "abbellimento": le beatitudini pronunciate nel discorso della montagna
costituiscono "il manifesto, se così si può dire, del mondo cristiano di fronte
all'antico", per cui "sono la vera ossatura portante del secondo regno dantesco" ("Le
beatitudini e la struttura poetica del Purgatorio", Giornale storico della letteratura
italiana, 1984, pp. 7, 9). Nel discorso della montagna è riassunta -- come spesso
affermano S. Agostino e S. Tommaso -- la Legge Nuova, la legge dell'Amore, la
quale viene realizzata grazie all'ascesa del Purgatorio. Muovendosi sulle tracce di E.
Moore (Studies in Dante, Oxford, Clarendon Press, II, 1899, pp. 152-208; 246-68), la
studiosa individua quali probabili fonti dantesche due opere rispettivamente di Ugo e
Riccardo di S. Vittore, teologi del sec. XII. In tali opere si notano alcuni notevoli
riscontri con il testo dantesco, tuttavia ci pare più utile risalire direttamente a S.
Agostino, il cui approccio fu poi ripreso e rielaborato da S. Tommaso.Bisogna subito
porre in evidenza il fatto che Agostino in più luoghi connette le beatitudini ai doni
dello Spirito Santo, i quali, nell'ordine "ascendente" da lui adottato, sono: timore di
Dio, pietà, scienza, fortezza, consiglio, intelletto e saggezza. Il collegamento fra doni
e beatitudini, spiegato dettagliatamente in DM I.11, si articola nel modo seguente: il
timore di Dio è associato a "Beati i poveri di spirito" (cfr. Purg. XII.110), la pietà a
"Beati i miti", la scienza a "Beati quelli che piangono" (cfr. Purg. XIX.50), la
fortezza a "Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia" (cfr. Purg. XXIV.154;
XXII.6), il consiglio a "Beati i misericordiosi" (cfr. Purg. XV.38), l'intelletto a "Beati
i puri di cuore (cfr. Purg. XXVII.8), ed infine la saggezza a "Beati i pacifici" (cfr.
Purg. XVII.68-69).

Purgatorio: XVII Canto


Parafrasi.
Cerca di ricordare, o lettore, se mai fosti sorpreso in montagna dalla nebbia,
attraverso la quale tu vedessi come vede la talpa attraverso la membrana che vela i
suoi occhi (per pelle: era opinione comune nel Medioevo, come già nell'antichità, che
la talpa fosse completamente cieca), come, allorché i vapori umidi e densi della
nebbia cominciano a diradarsi, la luce del sole penetra attraverso di essi debolmente:
e allora la tua immaginazione ti aiuterà agevolmente ad arrivare a percepire in che
modo io (uscendo dal fumo) in un primo momento rividi il sole, che già era vicino a
tramontare. Così, andando di pari passo col mio fidato maestro uscii fuori da quella
nube, alla vista dei raggi solari ormai scomparsi daIle parti basse della montagna. O
fantasia che talvolta ci sottrai a tal punto alle impressioni esteriori, che non ci si
accorge anche se intorno a noi squillano mille trombe, che cosa mai ti stimola ad
operare, se le percezioni dei sensi non ti offrono le immagini? Certo ti muove una
luce che prende forma, in cielo, per forza propria o per volontà di Dio che guida tale
luce sulla terra. Nella mia fantasia apparve l'immagine dell'atto empio di Progne, che
mutò la sua forma umana in quella dell'uccello che più di tutti si diletta nel canto:be
su questa visione la mia mente a tal punto si concentrò in sé, che dalla realtà esteriore
non giungeva impressione alcuna che fosse da lei accolta. Poi nella mia fantasia
ormai sublimata apparve l'immagine di un uomo, crocifisso, sdegnoso e fiero
nell'aspetto, e in quell'atteggiamento lo vedevo morire:battorno a lui stavano il grande
Assuero, la sua sposa Ester e il giusto Mardocheo, che fu così onesto nelle parole e
nelle opere. E non appena questa visione si dissolse da sé, come si dissolve una bolla
d'aria quando si rompe il velo d'acqua entro il quale si è formata,sorse nella mia
fantasia la visione di una fanciulla che piangeva disperatamente, e diceva: « O regina,
perché per un impeto d'ira hai voluto annientarti? Ti sei uccisa per non perdere la tua
Lavinia: ora mi hai perduta davvero! Sono proprio io ora che piango, o madre, per la
tua morte prima che per quella di Turno ». Come si rompe il sonno, quando
d'improvviso una luce nuova percuote gli occhi chiusi, il quale però, sebbene
interrotto, persiste un poco prima di dileguarsi del tutto, allo stesso modo la mia
visione disparve non appena colpì il mio volto una luce, assai più intensa di quella (la
luce del sole) che siamo abituati a vedere. Io mi guardavo attorno per vedere dove
fossi, quando una voce disse: « Si sale da questa parte », la quale distolse la mia
mente da ogni altro pensiero, e rese il mio desiderio tanto impaziente di vedere chi
era colui che aveva parlato, che non si sarebbe placato, se non venendo di fronte a ciò
che desiderava. Ma come accade di fronte al sole che abbaglia l'occhio umano e che
per l'eccesso della sua luce si rende invisibile, non diversamente la mia capacità
visiva era li vinta (dallo splendore dell'angelo). «Questo è un angelo, che senza essere
pregato ci indirizza per la via che sale, e si nasconde nella propria luce. Si comporta
con noi con la stessa prontezza con cui l'uomo soddisferebbe i suoi desideri; perché
chi vede la necessità e aspetta di essere pregato, si dispone già con malignità a
rifiutare l'aiuto. Ora accordiamo i nostri passi a un cosi autorevole invito: cerchiamo
di salire prima che diventi buio, perché poi non sarebbe più possibile, finché non
ritorna la luce del giorno (secondo la legge del purgatorio: cfr. canto VII, versi 43-
60). » Così disse la mia guida, ed insieme ci dirigemmo verso una scala; e appena fui
sul primo gradino, sentii vicino a me come il muoversi di un'ala e sul mio viso un
soffio di vento e udii dire: « Beati i pacifici, che sotto privi dell'ira irragionevole! ».
Gli ultimi raggi del sole ai quali succede la notte, si erano già tanto ritirati sopra di
noi (il sole, cioè, è già sceso sotto l'orizzonte), che da più parti apparivano le stelle.
Ed io, sentendo che mi era venuta a mancare temporaneamente la forza delle gambe,
andavo dicendo fra me: « O mio vigore, perché ti dilegui così? Noi eravamo giunti
alla sommità della scala, ed eravamo immobili, proprio come una nave che giunge a
riva. Stetti un poco in ascolto, se mai udissi qualcosa nel nuovo girone; quindi mi
volsi al mio maestro, e dissi: «Dolce padre, dimmi, che peccato si sconta qui nel
girone dove ci troviamo? Anche se i piedi devono restare immobili, non s'arresti il
tuo parlare» Ed egli mi rispose: « Proprio qui si ripara l'accidia, che è amore del bene
inferiore a quello che dovrebbe essere; qui si batte con maggior lena il remo che era
stato mosso con dannosa lentezza (il mal tardato remo: si ripara con la sollecitudine
la tiepidezza con cui in vita si agì nei confronti dei beni spirituali). Ma perché tu
intenda ancora più chiaramente, volgi a me la tua attenzione, e raccoglierai qualche
buon frutto da questa nostra sosta ». Cominciò: « Figliolo, né il Creatore né alcuna
creatura furono mai senza amore, o istintivo, o per libera scelta; e tu lo sai bene.
L'amore istintivo è sempre esente da errore, ma l'altro può errare o perché si volge a
un oggetto cattivo oppure (quando si volge a un oggetto buono) perché vi tende con
vigore superiore a quello giusto o con vigore troppo scarso. Finché l'amore d'elezione
si dirige a Dio, primo Bene, e verso i beni creati si mantiene nei giusti limiti, non può
essere causa di un piacere colpevole; ma quando si volge al male, o corre al bene
creato con vigore maggiore o minore del giusto, allora la creatura opera contro il suo
Fattore. Da qui puoi comprendere come in voi uomini necessariamente l'amore sia il
germe di ogni opera virtuosa e di ogni opera che merita punizione. Ora, siccome
l'amore non può mai distogliere lo sguardo dal bene di colui che è il soggetto
dell'amore stesso (cioè ogni creatura non può che volere il proprio bene), ne segue
che tutti gli esseri sono immuni dall'odio contro se stessi; e poiché nessun essere può
venire concepito per sé stante e diviso da Dio, Essere primo, ne segue che ogni
creatura è distolta dall'odiare l'Essere primo. Se ragionando per distinzioni giudico
rettamente, resta che quando si ama un male, questo è il male del prossimo; e questo
amore del male può nascere in tre modi nella vostra natura impastata. di fango. Vi è il
superbo che spera di eccellere per il fatto che il suo prossimo è umiliato, e solo per
questo brama che il prossimo sia abbattuto dalla sua grandezza: c'è poi l'invidioso che
teme di perdere potenza, favori, onore e gloria per il fatto che altri lo superi, e per
questo si rattrista tanto da desiderare che gli altri subiscano il contrario; e c'è
l'iracondo che per l'ingiuria ricevuta appare adirarsi, tanto da diventare avido di
vendetta, e divenuto tale è indotto necessariamente a preparare il male agli altri.
Queste tre forme di amore del male sono scontate nei gironi inferiori: ora voglio che
tu conosca l'altro amore che si rivolge al bene in modo disordinato. Ogni uomo
vagheggia in modo confuso e desidera un bene sommo nel quale l'animo trovi la sua
pace; per questo ciascuno di sforza di raggiungerlo. Se à conoscere o a conseguire
questo sommo bene (che é Dio stesso) vi spinge un amore debole, questa cornice,
dopo il dovuto pentimento, vi darà la pena adeguata. Vi sono altri beni (quelli terreni
e perciò limitati) che non rendono l'uomo felice; essi non sono la felicità, non sono il
bene per essenza, il quale è compimento e principio d'ogni bene. L'amore che si
abbandona con troppo vigore a questi beni, viene espiato nei tre cerchi superiori; ma
come questo amore si può dividere mediante il ragionamento in tre specie; tralascio
di dirtelo, affinché tu lo ricerchi da te stesso ».

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