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Scaligero e il Graal


di Orao


Scaligero scrive Graal. Saggio sul mistero del sacro amore tra il giugno ed il
settembre 1969. Ossia scrive e pubblica questo libro nell'arco di soli tre mesi. Chi è
pratico di editoria sa che cosa significhi occuparsi contemporaneamente di scrivere,
copiare a macchina, seguire i lavori redazionali e tipografici - erano ancora in uso i
piombi - correggere le prime e le seconde bozze. Questo a non voler considerare
l'aspetto più impegnativo, e non meno faticoso, dell'elaborazione concettuale dei
pensieri.

La novità per lui non era l'argomento del libro - ne aveva già trattato, seppure in
modo non così sistematico -, ma l'urgenza di vergarlo e renderlo noto.

Accade, talvolta, che l'assolutezza dell'esperienza interiore intessa il destino di un
asceta nel più vasto destino di un popolo e di un tempo. Accade talvolta che
l'esperienza di un asceta sia forzata, nell'intensità e nella direzione, dall'àmbito in
cui egli opera, dalle resistenze che tale àmbito oppone a ciò che vuole generare dal
nulla, ossia a ciò che deve nascere a nuovo perché proprio ciò di cui esso è privo.
L'asceta si trova allora posto nella condizione di dover assumere una responsabilità
maggiore di quanta gliene toccherebbe se l'àmbito in cui egli opera fosse più
pronto, o meno recalcitrante, al compito che ha pur liberamente scelto. Come in
quella sensibile, anche nell'economia invisibile governa una legge che impone ad
alcuni i pesi rifiutati da altri.

I pesi sono invero responsabilità assunte in assenza di specifiche forze: il «di più»
rispetto al quale suscitare, o invocare, o inventare la forza che non si possiede.
Una volta entrata in campo, una tale forza non è immediatamente vittoriosa,
poiché il campo in cui entra le è naturalmente ostile: anzi, talvolta accade che
l'ostilità provocata sia misura e prova della sua autenticità. Se la forza fosse
accolta senza sforzo da quanto non può non esserne la contraddizione, non
sarebbe in realtà compresa: sarebbe subito commisurata alle forze che si
possiedono ed alle conoscenze che si detengono; depotenziata nel circuito della
mentalità; asservita ad un grado morale diverso da quello da cui essa nasce.

Quello del Graal è un tema delicatissimo, poiché la «forza» di cui è in esso
questione è un Mistero sconosciuto che, a partire dal presente, riguarda qualcosa
che deve ancora trovare compiuta realizzazione. La sua delicatezza risiede nel fatto
che, essendo sconosciuto, si pensa di poterlo conoscere per quel tanto che se ne
può comprendere, o supporre di ritrovare nella propria esperienza. In realtà è
anche così, ma ad un esame approfondito risulta che generalmente quel che se ne
è compreso, o sperimentato, corrisponde ad una rappresentazione precostituita:
qualcosa che si recava già in sé, iscritto nel proprio retaggio mentale. Di qui la
facile, ma drammatica, confusione tra l'aspirazione al Graal e la vera via che ad
esso conduce.

È diverso, se l'aspirazione si affranca dal mondo fallace delle rappresentazioni per
nutrirsi unicamente della dedizione al simbolo. Diventa allora essa stessa
introduzione alla via e quindi strumento di autoconoscenza. Una «aspirazione» di
questo tipo non può patire delusioni, né venir meno di fronte all'impossibilità di
conseguire la meta, poiché la meta si rinnova nell'anima a grado a grado che essa
si dona a ciò verso cui è tesa. Ogni cosa si mostra all'anima come il passaggio da
un luogo all'altro della coscienza, ed il simbolo cui essa aspira, come una realtà
attuale che sempre la trae in alto, qualunque sia l'impossibilità del suo destino o
l'imperfezione dell'esser suo.

Il Graal ha sempre accompagnato il cammino della coscienza e dell'anima: da
quando il suo Mistero ha eclissato quegli antichi, che del suo erano stati tuttavia i
preparatori. Una delle sue peculiarità, fin dall'istituzione, è stata infatti il carattere
oggettivo della sua Iniziazione. Per questo non poteva non essere il cuore segreto
del Mistero cristiano: non il cammino solitario dell'anima verso la perfezione, non il
suo algido distacco dalle neglette cose terrene, non la soggettiva progressione
attraverso prove assunte a segno della sua elevazione. Il primo gradino, cui si
arrestano anche i migliori, essendo proprio la deposizione della soggettività.

Gradino difficilissimo, che già di per sé conferisce senso ad una vita e
qualificazione iniziatica ad un'ascesi: lo si incontra, ad un dato momento, quando
sembra di esserselo lasciato alle spalle, come disposizione già faticosamente
acquisita durante una indeterminabile fase preparatoria. Lo si riconosce perché in
esso pare condensarsi - neppure è così - la massima presa dell'umano nell'anima.
Ma la presa diventa realmente tale, ossia palesa il massimo dell'intensità, quando
nell'orizzonte della vicenda interiore/esteriore sorge qualcosa di inatteso ed
inaspettato, per la cui nascita si era tuttavia lavorato con dedizione sacrificale,
rinuncia a se stessi, serietà di applicazione. Ciò che nasce è un potere di vita quale
non è dato conoscere entro la realtà corporea: risuonando nel corporeo, suo
malgrado esso diventa presa nell'anima, perché il corpo - secondo una sommersa
inclinazione - vorrebbe immediatamente farlo suo. Tentativo impossibile perché,
afferrato, esso cessa di nascere secondo la sua emergente realtà.

La difficoltà è riconoscere l'Autore di questa vita. Non essendo l'anima a tutta
prima pronta ad offrirgli ospitalità, cerca di adattare l'Ospite a se stessa, piuttosto
che se stessa a Lui. È per l'anima l'inizio di una vera via, poiché ad ogni passo le è
possibile verificare la spagiria dei suoi movimenti, delle sue operazioni
simultaneamente autoconoscitive, trasmutative, elevative. Le è possibile
continuamente confrontare nel pensiero il piano della vita con quello delle
rappresentazioni rese soggettive dalla presa corporea: le è quindi finalmente
possibile scegliere, con cognizione di causa, di donarsi allo spirito da una
condizione di libertà che santifica e rende sacro ciò che un tempo richiedeva
mortificazione e sacrificio. Suo compito è ora sorvegliare che libertà e vita,
coincidendo, ispirino il piano morale: divengano veste del Principio, cui affidare la
direzionalità precedentemente demandata alla funzione di princìpi irrogati dagli
antichi principi interiori.

E per l'anima, e la relativa coscienza, il passaggio da Lucifero a Cristo. Possibilità,
questa - anche storicamente riconoscibile nel confronto tra il prima ed il poi della
coscienza rispetto agli eventi del Golgotha - ritualmente immessa nell'anima
umana, nel rapporto tra anima ed anima e soprattutto tra donna e uomo, nei Tre
Anni che precedono l'epilogo della Croce e nei Trenta che precedono questi. Onde
si può dire che ogni impulso ad eludere tale passaggio confermi la coscienza nel
suo essere di «prima», conseguentemente costringendo l'anima a rimanere se
stessa dietro la facies progressiva dei suoi moti. Per quanto grande, nobile, devota,
l'anima permane legata ad un modo di essere voluto per lei da un altro, al quale è
sottoposta come il prigioniero ai carceriere.

Già ai Padri della Chiesa è noto come il Cristo abbia mutato l'ordinamento dei
Lumi, ossia come abbia inserito nelle orbite celesti determinanti i destini umani il
nuovo principio solare di cui Egli è il portatore. Al destino di Lucifero, alla
collocazione dell'anima entro un ordinamento reso immutabile da cause in essa
implicite, subentra il libero destino di cui è Signore il Cristo: da volere, tuttavia,
con una decisione che nel corso delle vite umane segni il passaggio definitivo dal
prima al poi dell'anima. Questa sceglie di lasciarsi mostrare dal Cristo il segreto
che la riguarda, di lasciarsi fecondare da Lui dell'Io che in essa vorrebbe nascere,
di generare per l'altro, vera figura del Cristo, l'Io che egli attende. Sceglie di essere
anima secondo la superiore identità inverata dalla Vergine fin dal Concepimento e
da Lei congiunta alla fattura umana dal Giordano in poi.

Scaligero ha trattato di questo passaggio principalmente in due opere
fondamentali: in Dell'amore immortale (1963), soprattutto nel capitolo dedicato
alla «Resurrezione del sentire»; in Iside-Sophia. la dea ignota (1980), soprattutto
nel capitolo «Androginia dell'anima». Queste due opere, che anche temporalmente
si collocano prima e dopo il suo Graal, formano con quest'ultimo un unico
inscindibile: una trilogia del Sacro Amore. Al medesimo argomento è del pari
dedicato il nucleo più riservato dell'insegnamento di Rudolf Steiner, in una forma
tale da non risultare immediatamente riconoscibile, ma da divenirlo per coloro che
decidano, scelgano - qualunque sia il punto di partenza - di consacrarsi ad
un'impresa in cui la fedeltà al trascendente, appresa dall'atto cosciente del
pensare, sostituisca l'istinto a conservare qualcosa di sé nel progresso della via,
qualcosa per sé nel disgelarsi di una direzione libera nel destino. Soprattutto nel
ciclo Cristo e l'anima umana, in Verso i mondi spirituali nel retroscena
immaginativo del Quinto Vangelo, ma anche nei Drammi Mistero e in talune
conferenze a commento di questi, Steiner connette liberazione e resurrezione
dell'anima a sottili processi sperimentabili nei pressi della Soglia.

Egli tratta del tema dell'Amore e dell'Androgine in alcune fondamentali pagine della
Scienza occulta e della Cronaca dell'Akasha e comunque senza mai collegarlo
direttamente con il Graal, argomento al quale dedica, da altro punto di vista,
numerose conferenze. Una omissione, questa - dice Scaligero - troppo importante
per non essere significativa. In realtà tutto l'insegnamento e la rivelazione dello
Steiner ruotano intorno a questo Mistero, di cui la natura è tale dover essere
custodita dagli infiniti fraintendimenti, equivoci, adattamenti insorgenti intorno a
qualcosa che si presenta come l’unico punto in cui sulla Terra si dia una tangenza
tra sensibile e sovrasensibile, effimero ed eterno, celeste ed umano.

Bisogna riconoscere a Scaligero il coraggio di essere stato il primo ad indicare
pubblicamente la connessione tra il Graal ed il destino dell'Androgine e di aver
scolpito, con la sua stessa esperienza, i gradini iniziali per un'ascensione mai
tentata. Egli lo fa muovendo dal retroterra della sua peculiare ascesi, però
dirigendosi con risolutezza verso la novità cristiana, di cui il Graal, malgrado ogni
interpretazione paganeggiante, orientaleggiante o dogmatica che qui e là ne è
stata data, è il simbolo iscritto nel progrediente futuro delle coscienze.

Egli traccia una via all'interno della via, in ciò assistito dagli asceti più qualificati
del suo gruppo. La percorre egli stesso, fin dove gli è consentito dal destino ed
ancor più dall'àmbito interiore offerto dalla libera adesione delle coscienze: ciò in
quanto quella del Graal non è una via solitaria, benché eccezionalmente
individuale. La si percorre - com'è detto in Giovanni – in due e più di due uniti nel
Suo nome: nasce da una esclusività che diviene man mano inclusiva. Rafforzandosi
tale esclusività, si apprende il rarissimo movimento di esclusione di sé dai processi
cognitivi, affettivi, volitivi, per l'inclusione del Suo nome, recato dall'altro, secondo
un impulso di cui le vicende dell'altro, il suo destino, sono il veicolo che attende
essere riconosciuto, affrancato e redento. Destino, qui, come inconsapevole ricerca
iniziata illo tempore ed in questo tempo posta nella cura di deità aiutatrici, che tale
impulso hanno preparato nelle menti e nei cuori votati all'impresa, ai puri pensieri
mostrando il senso perenne dei rapporti tra il Cielo e la Terra, svelando nessi e
compiti, soavemente infiammando l'anime per imminenti pentecosti.

La tenue sostanza del ricordo - il suo movimento, prima che le immagini - del
tempo in cui gli dèi operavano nell'essere indiviso dell'uomo, poi di quello in cui
essi lo dirigevano ed infine di questo, iniziatosi con l'esser suo divenuto individuo e
chiamato a compiere, nella coscienza di sé, ciò che gli dèi un giorno compirono per
lui: ecco quanto si ricapitola nell'altro, questi divenendo il termine dell'agire
cosciente in cui, a sua volta, è rifuso l'amore che mosse le sovrumane Gerarchie. 

Si comprende allora perché Scaligero, altrimenti attento e rigoroso fino al dettaglio
nel presentare le discipline ascetiche, riguardo al Graal offra più che altro dei
quadri meditativi o delle considerazioni intenzionalmente esoteriche, lasciando alla
libertà individuale di scegliere la propria via, accogliere impulsi, assumere
decisioni, determinare prassi: quella libertà essendo il risultato della strenua
applicazione nella correlazione dell'Io all'atto del pensare. Salvo rare eccezioni, egli
dunque non indica tecniche specifiche, ma rinvia continuamente a sottili processi di
liberazione del sentire e del volere, poiché unicamente da questi possono farsi
scaturire, in accordo alla pratica alchemica della Operatio Solis, le acque superiori
dell'anima, e quindi proiettare allo stato luminoso di aria, tutto ciò che nel sangue,
nel cuore, nel respiro e un giorno anche nelle ossa, si presenta come il coagulo del
rattenimento egoico e della relativa visione del mondo.

L'anima è il vero Campo - della Morte, della Vita - in cui l'asceta che si accosta al
Graal deve misurarsi. Campo mai abbastanza frequentato: indagabile unicamente
grazie alla dedizione all'impulso michaelita del pensare.


***

«Di alcune questioni - diceva Scaligero - è meglio parlare il meno possibile».
Perché anche il solo parlarne assume nel mentale la forma che gli è propria: la
forma inevitabilmente prescrittiva in cui l'umano adegua a sé ciò che lo trascende.
Tutta la vasta area interiore cui ci si riferisce con il nome di «mentalità», e che
comprende la stratificazione archeologica di un individuo, il suo passato spirituale,
psichico e fisico, ove non liberata dalla costante elevazione al pensiero michaelita e
dalla conseguente, iniziale immagine dell'Io-Logos, tenterà di ridurre a sé ciò verso
cui si rifiuta di andare: le regole, i modelli, gli archetipi, saranno tutti chiamati in
campo per giustificare gli eccessi e i difetti dell'anima, recalcitrante al pungolo
della trascendenza e disposta a venerare unicamente il divino a lei già noto.

Ad un'anima non libera non può tracciarsi una via delicata come quella del Graal,
in cui nulla può essere previsto e tutto è demandato alla capacità di inventare una
moralità sconosciuta al mondo: non possono esserle suggerite tecniche, modelli,
archetipi che non siano quelli atti a favorire la sua liberazione. Continuamente
Scaligero, nelle sue opere specifiche, mostra come non vi possa essere una tecnica
per il Graal che non sia quella prevista per l'ascesi: se ve ne è una ulteriore,
questa deve essere intuita dall'asceta in relazione a ciò che gli viene incontro per
dono o per destino, mai dandosi due casi uguali per i quali possa valere la
medesima regola. Ma tra le immagini, le indicazioni che Scaligero porge
sull'argomento, se ne può desumere una preziosissima che, seppur non così
formulata, risulta nella sua opera sottintesa: «Per incontrare il Graal bisogna
averlo già fedelmente servito».

Prima dell'incontro, infatti, l'averlo già perseguito ne ha preparato l'immagine:
trattandosi di una realtà posta oltre la sfera sensibile, occorre venga amata prima
di esser conosciuta, perché è l'amore così voluto e donato a renderla riconoscibile
nel mondo dei sensi. Di qui far derivare la speciale atmosfera che deve avvolgere
l'impresa: non da un complesso di regole, ma dall'assiduo allenamento all'amare,
ossia all'abnegazione di sé condotta però secondo il moto puro e cosciente del
volere, in cui l'Io, il più possibile affidato al senso occulto del suo destino, operi la
continua combustione di sé. Onde il conoscibile sia infine conosciuto e riveli dell'Io
il vero nome.

Il risveglio dell'Io è in relazione al risveglio del pensiero; per converso, il sonno del
pensare è il sonno dell'Io. Da un punto di vista pratico, un pensiero si può dire che
dorma quando poggia su di una rivelazione, su di un documento, su di un fatto,
perfino su di un'esperienza – quando questa sia soltanto rammentata e non
riprodotta. Quando rivelazione, documento, fatto ed esperienza, secondo la
rappresentazione tanto del realismo primitivo quanto di quello metafisico vengono
trattenuti al di fuori del pensiero e della percezione e presi a sostegno della
coscienza e dell'anima, divenendo quest'ultimi il surrogato dell'Io. Un tale Io non
può amare, perché ha poco da offrire: perde se stesso perché cerca, o
presuppone, fuori di sé quel che invece deve donare. Donandosi, con movimento
appreso dal pensare, con lo stesso asoggettivo interesse, egli si rafforza,
simultaneamente risvegliando lo spirito nel mondo dei sensi, ossia recando in esso
ciò che vi giace sopito.

Il suo àmbito - dell'Io, dell'Amore - è dunque quello del pensiero vivente, talmente
vero ed in sé consistente da donare vita a tutto ciò su cui si posa. E invertita la
logica naturale che impone all'anima di essere consumatrice di vita, poiché essa ne
diviene la continua creatrice.

Essendo quello della vita del pensare un clima rarefatto e rarefacente, ogni minima
deflessione dell'anima nel sensualismo corporeo ha effetti immediati su di esso.
L'anima ne viene espulsa e deve chiedere al dolore la purificazione noetica
dell'immaginare, per venir reintegrata nella condizione momentaneamente
smarrita. Si comprende per questo perché Scaligero attribuisca speciale
importanza alla conversione della sensazione in percezione, mediante essa
venendo recata nell'anima la presenza ordinatrice e purificatrice dell'Io. Speciale
importanza soprattutto alla sfera immaginativa, la cui indipendenza dai processi
affettivi, del sentire distratto dal corporeo, consente l'esperienza del volere colto
prima del suo farsi atto. Per queste particolari caratteristiche è stato detto che la
via indicata da Scaligero nella sua opera sul Graal è una via essenzialmente
maschile, di questi soprattutto essendo stata considerata l'interiore costituzione, il
mondo delle rappresentazioni, il modo in cui queste si formano, la via per cui
possono liberarsi dalla radicale soggezione alla brama.

Le numerose pagine che Scaligero dedica alla sfera istintiva - all'eros, al
razionalismo astratto, al sentimentalismo, ecc. - pur avendo valore indifferenziato,
sembrano potersi più efficacemente riferire alla polarità maschile dell'essere
umano, ossia alla sua affinità con la sfera concettuale ed alla necessità che la luce
di questa, per non morire nelle sue determinazioni, venga di continuo vivificata
dall'immaginare puro, che consegue alla scoperta del «cuore» quale sede e motore
dello spirito: organo della comprensione, in cui la devozione, la fedeltà, l'amore,
prosciugato il loro portato psichico ed emotivo, diventano le «intelligenze»
attraverso le quali l'essere maschile viene reintegrato nell'unità di uno stato
originario, di cui egli altrimenti permane l'incompleta emanazione.

Dell'essere femminile, o dell'aspetto femminile dell'essere, Scaligero indica
l'archetipo già compiuto - «la donna è virtualmente pronta» - non la via per cui ella
diviene pronta, ma la sua realtà all'apice della realizzazione. Della purificazione
dell'immaginare femminile, della sua difficoltà ad ordinarsi nella stabilità dei
concetti ed al conseguente, continuo rischio di sperdersi nell'effimero e nel
fantastico, o di concentrarsi unilateralmente nella naturalezza dell'istinto materno,
Scaligero chiede si occupino i suoi continuatori, il modus operandi essendo stato -
ciò che più conta - comunque da lui tracciato nel suo ultimo libro.

Parimenti, non risulta che Scaligero si sia mai occupato della omosessualità
maschile e femminile. È da dirsi tuttavia che la conoscenza della formazione
dell'essere umano, retroscena cosmico del Mistero del Graal, e la pedagogia
dell'amore indicata nelle sue opere specifiche, anche in questo caso offrono
l'occasione per la distinzione del piano sessuale da quello dell'individuale
invenimento delle pure forze sottese al pensare e all'immaginare, in cui l'essere
umano, qualunque sia la condizione del suo destino, può trovare unità e
completezza.

Scaligero ha trattato della necessità del reincontro delle due polarità, altrimenti
definendolo riunione «della luce del pensare con la vita del sentire», attribuendo
alla Iniziazione femminile una funzione di celeste accoglimento e «veicolamento»
verso l'alto (Janua Coeli) che richiede la sua specifica messa a punto. Chiede
all'essere femminile l'organamento conoscitivo di tale funzione e all'essere
maschile la rarefazione dello stereotipo ordinario di lei, in cui è in realtà da
ravvisarsi la sua paura di conoscere ciò che a lui si presenta radicalmente diverso.
Di norma, egli è infatti disposto a riconoscere unicamente ciò che gli è noto:
qualcosa di elevato e di nobilmente ideale e/o la sua mera forma esteriore,
comunque qualcosa che abbia già collocazione entro la sua mentalità. Del pari, lei
respinge ciò che non coincide, nella sua intimità immaginativa, con il sogno da
sempre amato e talvolta perseguito con l'ostinazione delle illusioni che non
riescono a tradursi in realtà. Moltissimo del dolore del mondo ha origine in questa
dicotomia: ugualmente, tutti i limiti imposti alla conoscenza - se si guarda bene -
nascono da essa: dall'impossibilità per l'immagine ed il concetto di unificarsi nella
concezione di un essere e di una eticità nuovi.

Nei suoi ultimi anni Scaligero dedicò speciale attenzione al tema dell'androginia,
collegandolo all'esperienza della trascendenza del pensiero prima, a quello della
sua immanenza poi, nella praticabilità dei due moti scorgendo il principio della
riconciliazione conoscitiva, nel singolo individuo, di quanto, in un preciso momento
dell'evoluzione cosmica, fu separato in vista della futura possibilità per l'uomo e la
donna di procreare il proprio simile e di elaborare autonomamente dal Cielo e
dall'altro la propria peculiare identità. Con ciò egli voleva indicare come l'impresa
del Graal dovesse essere preceduta e accompagnata, sia nell'asceta maschile sia
nell'asceta femminile, dall'autonoma elaborazione della controparte conoscitiva
assente dalle rispettive costituzioni: l'immagine di lei essendo virtualmente aperta
al trascendente, il concetto di lui attratto dall'immanente. Non vale l'obiezione che
vi sono eccezioni a questa distinzione, in quanto essa è espressione di linee di
tendenza, di modi di essere universali, la cui inversione o confusione è di per se
sufficiente a spiegare la grave crisi della civiltà.

Se la via del pensiero ben condotta - così come Scaligero l'ha esplorata in ogni sua
premessa gnoseologica, prassi e finalità - contiene già il germe dell'androginia, il
passo ulteriore - che non è automatico, come forse si ritiene - consiste nel fissare il
movimento appreso dal pensare, dall'asessualità del pensare, nella costituzione
inversamente sessuata del corpo vitale. Il risultato di tale operazione si renderà
evidente nella trasformazione della sfera morale, che sarà resa libera dal conio che
il corpo fisico imprime al mentale, onde all'asceta - nome giustamente di genere
neutro - sarà possibile generare lo «spirito» proprio dalla congiunzione con la parte
di sé che si avviva al di là della propria natura. In quell'«oltre» può essergli dato di
ricevere l'adombramento di un Io di ordine superiore, i cui tratti semantici sono
finalmente indipendenti dalla identificazione riduttiva con la costituzione corporea e
soprattutto con la personalità che intorno ad essa - non vista - si è andata
progressivamente formando, secondo la necessità del destino e però della natura.

Questa operazione non può essere condotta muovendo direttamente dall'anima,
perché la tensione delle sue forze, quand'anche positiva, non riesce a perforare la
circonferenza della personalità. Se lo potesse, l'Iniziazione sarebbe in fondo solo il
risultato di una «buona educazione» su di un'indole già buona. La questione infatti
non è quella di perfezionare la personalità - affinare le qualità, correggere i difetti
-, ma far intervenire in essa una forza che, trascendendola, la trasformi. L'unica
forza morale in grado di frantumare il limite soggettivo della personalità e l'Amore,
ma perché questo non sia rapito dalla natura e dimensionato nel calco della
mentalità, occorre diventi spirituale: occorre ossia che l'anima apprenda dal
pensare l'arte di sciogliersi dall'oggetto, di unificarsi alla trascendenza, di restituirsi
- trasformata - all'immanenza. Sacro, dunque, perché attraverso questo processo,
l'Amore non viene espropriato all'Io-Logos, di cui è invariabilmente la
manifestazione, ma rende possibile all'anima che lo accolga l'attraversamento degli
«abissi» e dei «campi della morte» disseminati lungo il pellegrinaggio che la
condurrà al definitivo incontro con se stessa.


***

Tutto questo, per rapidi cenni, costituisce per Scaligero l'impresa del Graal ed è
significativo che egli più efficacemente l'abbia perseguita nei dodici anni che
separano l'uscita del libro ad essa dedicato da quella dell’lside-Sophia, nel periodo
della sua vita in cui le circostanze esteriori, come nel mito di Orfeo ed Euridice, più
volevano impedirla. In quei dodici anni egli indaga e sperimenta il Mistero cristiano
con una intensità assoluta, che lo porta a cancellare dalla vita ogni minimo atto
non essenziale alla sua ascesi. Senza tregua egli trasforma, mediante conoscenza,
il dolore in immaginare d'amore e di questo sostanzia i colloqui, gli incontri, i
seminari. La sua purissima noesi si arricchisce delle testimonianze di santi e asceti
cristiani, le cui biografie egli chiede agli amici di procurargli - fra i tanti apprezzò
particolarmente Caterina da Siena, Antonio da Padova, Francesco di Paola,
Giuseppe da Copertino, Giovanna d'Arco, Filippo Neri, Maitre Philippe de Lyon, il
Cottolengo, Giovanni Bosco, Madre Teresa. A tal riguardo si può pensare che egli
volesse verificare il passaggio dell'Impulso-Cristo nell'anima senziente, nell'anima
razionale e come questo infine potesse transustanziarsi nel calice dell'anima
cosciente. In sostanza, si può dire che egli indagasse sulla relazione tra Amore e
Conoscenza e sul modo in cui la loro sintesi potesse, in questo tempo, divenire
pentecoste di sovrumana volontà.

Scorrendo i titoli dei libri che Scaligero scrive tra il 1969 ed il 1980 - per esempio
Rivoluzione. Discorso ai giovani (1969), Psicoterapia (1974), Guarire con il
pensiero (1975), Meditazione e miracolo (1977) - ma soprattutto verificandone il
contenuto, ci si avvede come la sua attenzione volgesse insistentemente al dolore
e all'oscurità del mondo: per recarvi conforto, per illuminarli con il risultato dei suoi
trascendimenti, per immettervi l'essere delle sue vittorie.

Anche nella Letteratura cercò le tracce del Graal: oltre che a quella medievale, di
cui fu interprete attento, soprattutto di Dante e degli Stilnovisti, egli guardò alla
Letteratura moderna, trovandovi simboli e climi che annunciavano l'avvento di quel
rinnovato impulso. Così, per esempio, in Balzac di Seraphita, nel libretto del
Parsifal di Wagner, in Meyrink della Faccia verde, in Charles Morgan della Fontana,
in Ernst Wieckert di Missa sine nomine e La vita semplice, nelle poesie di Arturo
Onofri.
La sua impresa del Graal diveniva l'impresa del mondo.

Attraverso ciò che essa suscitava in lui, egli si sentiva immesso a pieno titolo nel
gioco delle forze in lotta per il possesso o la liberazione dell' uomo. Condivisione,
corresponsabilità, compassione sollecitavano la penetrazione conoscitiva del
destino umano e, mediante progressive identificazioni con le esperienze misteriche
del Golgotha - di cui qualcosa lasciava trapelare ai discepoli - egli incrementava la
forza propulsiva dell'Impulso-Cristo. Processo, questo, che in lui si rendeva tanto
più evidente per l'assenza di qualsiasi connotazione religiosa o mistica. Egli
verificava infatti la novità di quell'Impulso con l'asciuttezza e la freschezza di chi
mai l'aveva conosciuto in precedenza.

L'immagine d'amore si può dire abbia per lui dapprima svolto una funzione
beatriciana e poi, in seguito all'allontanarsi della controparte sensibile di essa,
quale premio ad una fedeltà mai tanto consapevolmente perseguita, sia stata da
lui rinvenuta in ogni ente o essere, fino a manifestarglisi nella sua veste
archetipica di Anima del Mondo. A tal proposito, egli diceva di essere infinitamente
riconoscente alla disciplina del puro percepire, che aveva il lui predisposto l'organo
per la visione di una sostanza di vita estremamente affine a quella divenuta
soggetto culminante della sua esperienza.

La sua solitaria ricerca lo aveva condotto a rinvenire in sé ciò che aveva amato al
di fuori di sé: a quel «Non io, ma il Cristo in me», senso e compimento dell'anima
divenuta cosciente della sua affinità con la Vergine Sophia.

Se l'anelito al Sacro Amore, in gioventù, aveva in lui rivestito le più alte forme
dell'idealità precristiana - ve n'è traccia nella prima produzione - e nella maturità
aveva ripercorso la più pura esperienza d'Oriente e dell'alchimia occidentale, in
seguito, e fino alla morte, esso si era progressivamente innalzato al significato
cristiano, ossia alla percezione di una forza estrasoggettiva attingente sangue e
cuore, di cui il Calice affidato a Giuseppe d'Arimatea è molto più del simbolo. Ma
quel che appare evidente a questa prima osservazione della sua vita, è che essa si
presenta interamente permeata dalla direzione del Graal: fu la sua vocazione, non
disgiunta da quella alla Conoscenza. E non v'è dubbio che. se avesse potuto, egli
l'avrebbe coltivata fino al compimento previsto per i tempi avvenire: ciò si
intravede dal tenore dei suoi anni estremi, durante i quali egli intensificò l'indagine
sulla figura-chiave del retroscena sovrasensibile dell'Impresa.

Il complesso di forze pervadenti dall'interno l'anima umana, cui la tradizione
giudeo-cristiana dà il nome di «Lucifero», cominciò a mostrarsi come l'autentico
impedimento al riconoscimento del Sacro Amore e quindi anche alla sua
conduzione. Nel libro Graal ne viene indicata la cosmica ragione; successivamente,
nella figura della Immacolata Concezione Scaligero comincia a contemplarne la
radicale conversione, in una misura di gran lunga maggiore a quanto sia dato ad
un asceta non impegnato nella medesima impresa. A questi, infatti, Lucifero
risparmia la più potente delle sue tentazioni, in definitiva riconducibile alla magia
della dualità, della temporalità, della spazialità, in ciò giovandosi del concorso
dell'altro Ostacolatore cui si deve l'incantesimo della finitezza sensibile e
dell’identificazione al corporeo.

Tale retroscena, che gli era noto sul piano puramente conoscitivo, è ora da lui
affrontato sul piano, assai più arduo perché involvente processi di profondità
collegati al destino del sentire-volere, della ricomposizione androginica dell'essere.
Ciò gli dette modo di vedere il gioco ulteriore delle forze avverse al Graal, anche se
non gli fu sempre possibile evitarne gli affondi, soprattutto quando di questi altri
divenivano l'inconsapevole tramite. Risultò chiaro che l'opposizione al Graal,
allorché la sua ricerca sia dia nella forma autentica prevista per l'anima cosciente,
fosse «metafisicamente» inevitabile - componente essenziale dell'impresa
medesima. Risultò altresì chiaro come tale opposizione si servisse della incapacità
ascetica, anche nei più provveduti, di superare il limite conoscitivo proprio anche al
più lavorato mentale. Egli chiamò tale limite: «immane potenza del convenzionale»
- fino all'ultimo dovette confrontarvisi.

E’ ora evidente che l'opposizione al Graal privilegi il vacillìo del sentire esteso al
capo, o viceversa la debolezza del pensare contagiata al sentire, entrambi i
movimenti innescati a protezione da un'esperienza interiore che si sa doversi
compiere oltre il livello abituale della coscienza e del suo riflettersi nelle
prospettive esistenziali. Opposizione incerta, a tratti concedente un'adesione
incerta: se Scaligero non ne fu aiutato, sicuramente non ne fu offeso come da
quella «cosciente». È propria a questa, infatti, la volontà di far valere, sul piano del
pensiero, il dato dei fatti, però assunto non con l'illimitata capacità del pensiero di
comprenderlo ma utilizzato per dimostrare l'inesistenza e l'invalidità di ciò che in
realtà si teme per sé. Si tratta di un retroscena cui Scaligero guardò con silenziosa
compassione, consapevole che esso mascherasse un'opposizione «spirituale» allo
Spirito, che avrebbe per questo anche potuto rivestire le forme estreme
dell'avversione. Egli custodì il fiore della sua esperienza con una volontà poetica e
noetica di fedeltà non umana, continuamente trasferita ad ogni essere da lui
incontrato: fiducia magica accordata al punto di luce - o Sé superiore - albeggiante
in ognuno: vera Therapeia, da lui praticata, con risultati da molti testimoniabili,
sulla moltitudine di ricercatori che a lui si rivolse. Vi aggiunse, infine, la completa
visione di quanto resiste a quel punto di luce, ed anche questo egli convertì in
dolorosa ma vittoriosa occasione di conoscenza: intuì come il centro direttivo della
vita interiore fosse da custodirsi rispetto ad opposizioni e resistenze e come a
queste non dovesse concedersi di esercitare la loro azione distruttiva. Azione che,
nell'asceta e nella concordia tra asceti, rischia di velare la priorità della presenza
del Signore su tutto ciò che è secondario rispetto ad essa: non solo le aspettative
personali, non solo la sacra intimità dell'anima, ma perfino l'ascesi stessa. Per
questo egli concluse l'esperienza sensibile della sua vita e del Sacro Amore con la
parola risolutrice «Non io, ma il Cristo in me», che dei Misteri del Graal costituisce
la luminosa soglia, come «Conosci te stesso» lo era stata dei Misteri delfici.

Quell'affermazione conclude dunque la sua vita e illumina quel che d'imperfetto è
necessariamente connesso ad un destino umano, per quanto grande esso sia.
Riepiloga e sostanzia la disciplina della Conoscenza e dell'Amore ed affida un
compito inequivocabile ai suoi successori: rendere ancor più vero e reale quanto da
lui conquistato con lo sforzo ed il coraggio di un pioniere, cui riuscì di stabilire un
ponte fra l'Io ed il pensare e di gettarlo al di sopra delle macerie spiritualistiche
che impolveravano il suo tempo. Su quel ponte consentì al Cristo di transitare,
secondo l'impulso uno e trino di cui Egli è il portatore, come Logos «che era presso
il Padre», come Logos d'Amore, come Logos di Pentecoste.

In realtà, al di fuori della coscienza del Cristo in sé, tutto è illusione.


Nel 1969 Scaligero è immerso nella stesura del suo Graal, a ciò indotto dal
coincidere della forte vicenda personale con il confuso destino di una generazione
nata tra le rovine di una guerra che, per il modo in cui era stata condotta e
conclusa, aveva allontanato per la civiltà europea il compimento della missione per
essa previsto: la ricomposizione di spirito ed anima, di immagine e concetto, di
capo e cuore. Una generazione che cercava, convulsamente e scompostamente,
quel che Massimo Scaligero, con inconsueta urgenza, andava trascrivendo: la
testimonianza di una fedeltà cosciente, più forte dell'apparire perché intessuta del
pensiero originario che rende vero anche ciò che gli si oppone; la testimonianza del
potere dell'Amore, quale intelletto e silenzioso sentire, di risorgere da ciò in cui
esso è negato o muore; la testimonianza di una prospettiva per cui l'agire umano
potesse collaborare con il Cielo alla realizzazione di un nuovo patto, in cui alla
gloria dell'Alto cominciasse a corrispondere vera pace sulla Terra.

La testimonianza, quindi, che origine, tramite e fine potessero trovare il
completamento previsto per questo tempo italiano ed europeo.

(Pubblicato sulla rivista “Graal”)

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