Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
a cura di
Immacolata Tempesta e Massimo Vedovelli
BULZONI EDITORE
Volume pubblicato con il contributo
dell’Università del Salento
Dipartimento di Studi Umanistici
e del Monte dei Paschi di Siena.
ISBN 978-88-7870-899-0
Gli scambi (internazionali) sono vitali per la ricerca. E la ricerca è uno dei
fattori chiave per la crescita di un determinato territorio sia in termini di pro-
gresso “tecnologico” sia in termini di sviluppo economico, attraverso l’applica-
zione organizzata dei risultati ottenuti dalla comunità scientifica di quel determi-
nato territorio. Attraverso lo scambio questo potenziale di crescita territoriale si
allarga ad altri territori, altre nazioni, altri continenti, che possono usufruire di
quei risultati. Per le Università, luoghi preposti alla ricerca di qualità, gli scambi
internazionali rappresentano un fattore strategico per il loro sviluppo sia in ter-
mini di condivisione di esperienze sia in termini di riconoscimento internazionale
dello stesso Ateneo. Se ne accorsero anni fa i legislatori europei quando immagi-
narono i programmi Erasmus, Socrates, Leonardo, etc., che avevano proprio lo
scopo di favorire soggiorni all’estero di studenti e ricercatori in tutta Europa.
L’Università del Salento guarda sempre con grande attenzione alle opportu-
nità di scambi con colleghi di altre nazioni, perché portano linfa nuova e opportu-
nità di condivisione/confronto su tematiche di comune interesse. Ed è per noi
motivo di vanto annoverare collaborazioni ultradecennali con prestigiosi colleghi,
come Norbert Dittmar, già professore ordinario di Sociolinguistica presso la Freie
Universität di Berlino, diverse volte nostro ospite per conferenze e progetti co-
muni.
La continua collaborazione del prof. Norbert Dittmar con la nostra Univer-
sità ha portato un notevole contributo all’evoluzione della ricerca e degli studi nel
campo della Sociolinguistica, alla formazione dei nostri studenti, con lo svolgi-
mento di importanti attività didattiche, seminariali e congressuali, non ultima la
partecipazione al seminario di alta formazione tenuto proprio presso l’Università
del Salento nell’aprile del 2013. Ringrazio, dunque, i Colleghi Immacolata Tem-
pesta dell’Università del Salento e Massimo Vedovelli, Rettore dell’Università
per stranieri di Siena, curatori del presente volume per aver voluto lasciare traccia
tangibile di un patrimonio di esperienze, che altrimenti sarebbe andato perduto
nell’oblio del tempo.
Pochi, pochissimi, studiosi delle scienze del linguaggio hanno incarnato la fi-
gura dello scienziato attento agli usi della lingua nei suoi contesti sociali come Nor-
bert Dittmar, e pochi hanno riscosso tante simpatie, amicizie, collaborazioni come
ne ha avute Norbert in Italia. Questo volume ne è una testimonianza, e si unisce a
quello edito nel 2008 da B. Ahrenholz, U. Bredel, W. Klein, M. Rost-Roth, R.
Skiba (Empirische Forschung und Theoriebildung. Beiträge aus Soziolinguistik,
Gesprochene-Sprache- und Zweitspracherwerbforschung. Festschrift für Norbert
Dittmar zum 65. Geburtstag, Frankfurt am Main, Peter Lang,), pubblicato per fe-
steggiare i suoi 65 anni.
Norbert è studioso la cui attenzione è stata sempre centrata sulla lingua nella
sua vita sociale, e proprio questa apertura alla complessità delle relazioni fra gruppi
e individui come attori sociali è la ragione della profonda simpatia, unita alla pari
stima, con cui la sua opera e la sua persona sono considerate dalla ricerca scientifica
italiana di linguistica. Il suo manuale di sociolinguistica, del 1975, è stato tradotto
quasi subito in italiano, nel 1978, e ha rappresentato un punto di riferimento per
tutti gli studiosi italiani in un momento in cui proprio gli approcci sociolinguistici
offrivano importanti strumenti per interpretare i profondi cambiamenti che investi-
vano gli assetti linguistici italiani.
Lo scrivente ha avuto la fortuna, molti anni or sono, di vivere un’esperienza di
ricerca accanto a Norbert Dittmar, che allora dirigeva un gruppo di ricerca presso
l’Università di Heidelberg. L’oggetto era costituito dalle questioni linguistiche
dell’emigrazione italiana in Germania, e l’attenzione teoretica di Norbert era soste-
nuta da una vera, profonda, umana conoscenza dei nostri emigrati in un momento di
svolta della condizione italiana come paese di migrazioni. Anche questo colpiva chi
collaborava con lui, oltre alle sue qualità di scienziato.
Così, gli scenari teorici e metodologici percorsi o aperti da Norbert rappresen-
tano modelli per i lavori di coloro che sono attenti a una realtà così fortemente di-
namica qual è quella linguistica italiana, dove le forme e le strutture, gli assetti
idiomatici e i contatti fra lingue sono il frutto e insieme il motore della complessa
relazione sociale. La lezione di rigore e di creatività, di profondità analitica e di vi-
sione strategica proposta da Norbert emerge quando la materia è costituita dagli in-
trecci fitti e mobili delle lingue e dei linguaggi nella vita dei loro utenti, come, in
modo elettivo, accade in Italia.
Coloro che presentano i propri contributi in questo volume intendono dare, per-
ciò, una testimonianza di come la presenza di Norbert sia stata costante nella ricerca
12 MASSIMO VEDOVELLI
Questo volume vuol essere un omaggio ‘italiano’ allo studioso che fin dal
1976 è presente sulla scena italiana, scientifica e didattica, della sociolinguistica.
A lui è stato già dedicato, nel 2008, il vol., curato da B. Ahrenholz, U. Bredel,
W. Klein, M. Rost-Roth, R. Skiba, Empirische Forschung und Theoriebildung.
Beiträge aus Soziolinguistik, Gesprochene-Sprache-und Zweitspracherwerbsfor-
schung. Festschrift für Norbert Dittmar zum 65. Geburtstag, edito da Peter Lang,
Frankfurt am Main.
Poiché l’attività scientifica e didattica dello studioso si è svolta, in più occasioni,
in varie sedi universitarie italiane, si è voluto raccogliere e offrire al prof. Dittmar un
vol. che raccogliesse i saggi di un gruppo di amici e colleghi che hanno avuto il prof.
Dittmar come compagno di viaggio in percorsi di ricerca o di didattica, in Italia. La
produzione scientifica di Norbert Dittmar, come si può rilevare dalla bibliografia che
chiude il vol., è molto ampia e variata ed ha rappresentato una fonte di spunti e di co-
noscenze su più temi linguistici e sociolinguistici. Certamente molti altri colleghi
hanno avuto modo di collaborare con lo studioso nel suo lungo contatto con
l’università italiana. In questo quadro di forte e duratura incidenza della lezione di
Dittmar nel quadro degli studi sulla lingua e sulle sue variazioni, con questo volume i
curatori e gli autori hanno voluto esprimere allo studioso il proprio ringraziamento,
insieme agli auguri per il Settantesimo.
Nella lunga attività di ricerca del Nostro colpisce l’interesse per la ricerca sul
campo, per la raccolta di dati, per le sperimentazioni dirette, in una pratica continua
di osservazione partecipante, di immersione nella realtà oggetto di indagine, in cui
lo studioso si è calato totalmente, senza, però, esserne fagocitato. Uno studioso a
tutto tondo, osservatore sociolinguista a tempo pieno: tutto è stato ed è oggetto di
osservazione, senza che ciò significasse, o significhi, genericità o superficialità,
anzi. I suoi studi sono stati anche approfondimenti su specificità linguistiche e so-
ciolinguistiche.
Uno studioso attento ai vari aspetti del vivere civile, dello studio, della cultura.
Con una insuperata capacità di analisi del rapporto fra lingua e variazione sociale e
una grande umiltà nel rapporto umano.
La collaborazione dello studioso con le Università italiane è più che trentennale: è
passata tanta acqua sotto i ponti, le storie di vita, il volto dell’Università italiana si
sono modificati. La passione per la ricerca e l’impegno didattico hanno rappresentato
i punti di saldatura in un rapporto che ha visto nell’internazionalizzazione, sempre più
importante nel sistema universitario, il suggello di un connubio importante per gli stu-
denti e i docenti. Il Rettore dell’Università del Salento, Prof. Ing. Domenico Laforgia
14 IMMACOLATA TEMPESTA
e il Rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Prof. Massimo Vedovelli, hanno so-
stenuto fin dall’inizio la progettazione di questo volume, testimonianza della validità
dei rapporti internazionali nella ricerca e nella didattica.
L’opera raccoglie, oltre ai saluti introduttivi dei Rettori di Lecce e Siena, sedici
contributi, su temi di grande rilevanza di linguistica e sociolinguistica. Ne viene fuori
un quadro quanto mai aggiornato su vari focus, tutti centrali nella ricerca contempo-
ranea, con una delineazione, da parte degli eminenti studiosi dei temi trattati, delle più
recenti conquiste scientifiche, delle tendenze emergenti nella nuova configurazione
dei repertori linguistici in Italia o all’estero. Alcuni contributi, collocati nella prima
parte del vol., sono trattazioni su temi di carattere più generale, riguardanti aspetti e
problemi che attraversano interi comparti concettuali, se non disciplinari. Alcuni con-
tributi presentano un approfondimento su temi più specifici. In entrambi i casi si tratta
di temi quanto mai interessanti, centrali nella ricerca linguistica e sociolinguistica
contemporanea. Chiudono il volume i contributi dei due curatori, come vogliono le
regole dell’ospitalità editoriale, e la bibliografia di Norbert Dittmar.
Tullio De Mauro, con 1946: presagi di mutamenti nella storia linguistica degli
italiani, apre il vol. con una panoramica, storica e sociolinguistica, sugli anni che
portarono alla svolta istituzionale del 1946, al passaggio a un regime democratico,
ad una trasformazione profonda dell’assetto sociolinguistico della nuova Repub-
blica. Gaetano Berruto, in Punti d’incontro fra sociolinguistica e linguistica for-
male nello studio della variazione. Considerazioni dal punto di vista italo-romanzo,
tratta dell’avvicinamento fra due prospettive di ricerca che nella linguistica della se-
conda metà del Novecento risultavano del tutto separate: la sociolinguistica da un
lato, la linguistica formale di matrice generativista dall’altro. Il luogo empirico
principale della convergenza dei due approcci è la variazione intralinguistica, che
sta nell’interfaccia fra sistema e uso. L’Autore, che pone fra i punti di riflessione la
possibile tripartizione fra “grammatica”, “uso” e “sociale”, contro la semplice bi-
partizione fra “grammatica” da una parte e “uso sociale” dall’altro, si sofferma sulla
specificità della situazione italo-romanza, in cui importanti variabili sintattiche e
morfosintattiche presentano uno spiccato significato sociale. Rosanna Sornicola ri-
sponde alla domanda Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni?, che dà
anche il titolo al contributo, ponendo in evidenza le difficoltà di un approccio
scientifico alla linguistica delle emozioni. Non c’è, in psicologia, un consenso am-
pio su che cosa si debba intendere con “emozione”. I linguisti, fino agli inizi del XX
sec., si interessarono poco delle manifestazioni linguistiche e degli effetti delle
emozioni. Le emozioni e i fattori espressivi sono stati considerati soprattutto in al-
cuni ambiti, come la sintassi e la prosodia. Un importante momento di riflessione
sulle influenze delle emozioni su atteggiamenti e comportamenti linguistici è rap-
presentato dagli anni Sessanta, in particolare con la teoria di Halliday, in cui le
emozioni entrano a far parte della intelaiatura funzionale della grammatica. Parti-
colare attenzione è dedicata al tema delle emozioni negli studi sul multilinguismo.
Testimonianze preziose delle componenti emotive del linguaggio si ritrovano nelle
raffinate descrizioni di alcuni scrittori. L’Autrice evidenzia la lunga strada da fare
DI LINGUISTICA E DI SOCIOLINGUISTICA 15
per trovare un ponte tra linguistica e psicologia per lo studio dell’interazione tra
fattori emotivi e strutture linguistiche, anche se una linguistica delle emozioni sa-
rebbe quanto mai auspicabile per conoscere meglio il funzionamento delle lingue e
le abilità dei parlanti, per definire meglio le politiche linguistiche, i problemi di
identità e di appartenenza nelle società contemporanee. Federico Albano Leoni, in
Delle parti e del tutto: Jakobson, Husserl e la fonologia, considera alcuni aspetti del
pensiero fonologico di Jakobson e del rapporto con la fenomenologia husserliana.
L’Autore si sofferma, in particolare, sul saggio di Jakobson sulla struttura del fo-
nema e su un articolo riguardante il rapporto fra il tutto e le parti in linguistica. Da
un’attenta analisi delle contraddizioni e delle incertezze del binarismo e della teoria
dei tratti, risulta che la questione della natura asemantica del fonema continua ad
essere una questione irrisolta, anche perché l’adesione di Jakobson alla fenomeno-
logia husserliana sembra più di superficie che di sostanza. Emanuele Banfi, con
Semantizzazione della nozione di ‘città’: un confronto storico-linguistico tra am-
bienti indo-europeo e cinese, tocca un argomento tra i più appassionanti delle
scienze umane, quello relativo alla nozione di ‘città’. Anche se esistono elementi
comuni e ricorrenti, in ambienti diversi, di questa nozione, è interessante notare che
le difficoltà di definire il concetto vanno al di là del rapporto fra nozioni generali,
comuni, e contenuti variabili da civiltà a civiltà. L’analisi riguarda le modalità di
semantizzazione della nozione ‘città’ nell’ambiente indoeuropeo e in quello cinese:
in entrambi la città risulta un luogo di assembramento per scopi diversi, per scambi
commerciali o per difesa, ma in ambiente cinese con un modello più accentratore, la
città è, soprattutto, il luogo in cui si soddisfano i bisogni alimentari o il luogo depu-
tato alla gestione del potere amministrativo. Giuliano Bernini, in Il plurilinguismo
emergente nell’istruzione superiore italiana, partendo dalle Sette tesi per una poli-
tica linguistica democratica, in particolare dalla Quinta, dedicata al plurilinguismo
degli individui inteso come valore da tutelare e promuovere, tratta del plurilingui-
smo emergente nell’istruzione superiore italiana. Ne studia il valore, le politiche
linguistiche, con l’auspicio di una convergenza verso l’uso di una lingua pubblica e
ufficiale che garantisca il mantenimento della vitalità delle lingue nazionali. Marina
Chini, Scelte di lingua e reti amicali di ragazzi di origine immigrata nel Pavese,
mette a confronto i dati sulla presenza e gli usi dell’italiano con quelli delle lingue
di origine degli immigrati. I dati si riferiscono ad un’indagine condotta nel 2002 nel
Nord-Ovest italiano, con 171 adulti e 414 minori immigrati in Lombardia e in Pie-
monte, e a quelli ottenuti con la replica dell’indagine nel 2012, con 556 soggetti im-
migrati fra i 9 e i 17 anni, in provincia di Pavia. L’analisi si sofferma su alcuni dati
sociolinguisticamente rilevanti: sulla composizione delle reti amicali degli alunni
intervistati, sulle frequentazioni extrascolastiche, sui luoghi di incontro degli amici
italiani e di quelli connazionali, quindi, per i minori interpellati nel 2012, sulle lin-
gue parlate in famiglia, nelle reti amicali non italiane. Oltre ai dati raccolti con la
somministrazione del questionario si analizzano dei case study, basandosi su inter-
viste familiari. Patrizia Cordin, “With our best future in mind”. Lo sviluppo bilin-
gue di bambini con L1 minoritaria, ritorna sul tema del bilinguismo, ponendo come
16 IMMACOLATA TEMPESTA
oggetto del suo intervento l’evidenziazione dei collegamenti tra i vari aspetti dello
sviluppo linguistico dei bambini di famiglie migranti. Dopo aver presentato alcuni
dati quantitativi sulla presenza di bambini immigrati nella scuola italiana, l’Autrice
presenta i tre fattori che sembrano caratterizzare lo sviluppo linguistico: la
conservazione della L1 in famiglia, i comportamenti e gli atteggiamenti linguistici
della famiglia, l’alfabetizzazione. Propone, quindi, alcune strategie di intervento per
valorizzare il bilinguismo e rimuovere gli svantaggi. Lo studio assume come riferi-
mento un progetto canadese per l’istruzione dei bambini, a cui si riferisce la prima
parte del titolo del contributo. Traute Taeschner, Sara Poliani, Sabine Pirchio, con
Saper narrare a due anni, affrontano il tema della diagnosi del ritardo nel linguag-
gio dei bambini piccoli e degli interventi terapeutici e preventivi che si possono
progettare, basandosi su una ricerca empirica teoricamente fondata. Le sedi privile-
giate per gli interventi sono la famiglia e il nido, il modello di insegnamento lingui-
stico adottato è quello del Format narrativo. I materiali didattici utilizzati hanno
come base la narrazione e servono a creare un teatro mimico corale, in cui tutti i
bambini siano coinvolti. Nella ricerca condotta con 35 bambini di 24-36 mesi, nella
periferia nord di Roma, il confronto delle abilità linguistiche e narrative dei bambini
con sviluppo tipico e di bambini parlanti tardivi porta a verificare l’efficacia del
Format narrativo. Miriam Voghera, con Tipi di ‘tipo’ nel parlato e nello scritto,
sottolinea la sovrapposizione di ampie zone del lessico e della morfosintassi nel
parlato, la cui variazione può essere di tipo diamesico, ma anche diafasico e diato-
pico. I diversi usi linguistici vengono percepiti e attribuiti a diverse varietà non solo
a seconda delle caratteristiche formali e funzionali, ma anche sulla base dell’intera
organizzazione discorsiva. L’Autrice esamina quindi gli usi non nominali di ‘tipo’,
molto diffusi nell’italiano contemporaneo. Per ‘tipo’ si registra una progressiva tra-
sformazione da testa di SN a segnale discorsivo: gli usi nello scritto e nel parlato
non sono eguali e quindi il percorso di grammaticalizzazione può essere colto solo
tenendo conto delle due varietà diamesiche. Il contributo di Claudia Caffi, Stile e
temperatura dell’interazione: il caso del principe Myškin, si colloca in un’area di ri-
cerca di pragmatica interpersonale e riguarda, in particolare, le scelte stilistiche in-
tese come indici di monitoraggio delle distanze emotive tra gli interlocutori.
L’analisi concerne lo stile comunicativo del principe Myškin in una serata trascorsa
in casa degli Epančin, descritta nella parte quarta dell’Idiota di Dostoevskij. Il Prin-
cipe, nelle interazioni considerate, non pratica operazioni attenuative per salvaguar-
dare la faccia propria e altrui, ma nella ricerca della verità, rinuncia a tutte le sterili
convenzioni sociali. Caffi formula delle ipotesi generali sul funzionamento del si-
stema interattivo: l’interazione, in generale, tende all’omeostasi; il coinvolgimento
emotivo è regolato da un termostato controllato da entrambi gli interlocutori; vi può
essere un rapporto conflittuale tra faccia ed emotività. Del Principe si evidenziano
la violazione delle massime di Quantità e Qualità griceane, il tono e la temperatura
rovente del discorso. Giovanna Alfonzetti, Il “vizio dell’esotismo” nel varietà della
paleo-televisione, tratta del varietà, genere misto della paleo-televisione (1954-
1976). Si prendono in considerazione due varietà: 123 e Studio uno. Oltre a nume-
DI LINGUISTICA E DI SOCIOLINGUISTICA 17
rosi elementi delle varietà diastratiche e diafasiche alte, i due varietà presentano vari
forestierismi, che testimoniano il ricorso alle lingue straniere in contesti e con -
funzioni diverse. Gabriella B. Klein, Sergio Pasquandrea, in Multimodalità nella
comunicazione interculturale in contesti istituzionali: la mitigazione dei tecnicismi,
dopo aver sottolineato il fatto che l’uso del burocratese crea problemi non solo nei
testi scritti, ma anche nelle interazioni verbali, soprattutto con parlanti non nativi di
una lingua, analizzano 4 casi di interazioni burocratiche istituzionali in cui uno de-
gli interlocutori non è nativo. Si mostra come l’uso di diverse modalità semiotiche,
il gesto, lo sguardo, la manipolazione di oggetti, la postura, possono agevolare la
comprensione, soprattutto dei tecnicismi burocratici. I due Autori definiscono dieci
raccomandazioni dalle quali si possono trarre buone pratiche nell’uso di tutti i li-
velli della comunicazione, verbale, paraverbale, non verbale, visiva, tese a facilitare
la comprensione e l’interazione fra nativi e non nativi. Per Karl Gerhard Hempel,
Multilinguismo nella comunicazione scientifica. Il punto di vista degli archeologi
classici statunitensi, il multilinguismo è considerato il presupposto per una proficua
attività di ricerca in diversi ambiti di ricerca. Hempel tratta in particolare la situa-
zione in archeologia classica per quanto riguarda il tedesco, l’italiano e l’inglese. Si
esamina, da una parte, il prestigio attribuito all’uso delle diverse lingue in alcune di-
scipline, dall’altra la consapevolezza del carattere multilingue delle varie discipline.
I questionari si riferiscono a 28 studiosi di archeologia classica negli Stati Uniti
d’America, tutti madrelingua inglese. In sintonia con quanto già rilevato dall’Auto-
re in precedenti ricerche, gli archeologi classici statunitensi non sono particolar-
mente favorevoli al monolinguismo, anche se risulta che la letteratura archeologica
in inglese è più letta da ricercatori e studenti, il multilinguismo appare ancora in
buone condizioni di vita. Massimo Vedovelli, Lingua e emigrazione italiana nel
mondo: per uno spazio linguistico italiano globale, mette in evidenza che la consi-
derazione dell’emigrazione come fenomeno da rimuovere si può facilmente definire
a partire dalla scarsa rilevanza data a questo importante aspetto della storia e della
realtà italiana nelle manifestazioni celebrative del 150ennio di storia italiana unita-
ria. Vedovelli sottolinea i punti deboli di una politica, anche linguistica, che non ha
saputo valorizzare i movimenti migratori di cui l’Italia è stata protagonista, prima
come zona di fuga, poi come terra d’arrivo. La mobilità delle persone, non più emi-
granti o immigrate, ma semplicemente migranti, porta ad una sempre crescente in-
dustria delle lingue, nonostante la crisi. Partendo dal quadro storico dell’emigra-
zione italiana che ha visto vari processi di cambiamento degli usi dell’italiano fra le
diverse generazioni di emigranti, l’Autore assume il concetto di spazio linguistico
come centrale, e introduce il concetto di spazio linguistico italiano globale. Il primo
asse di questo spazio comprende i poli del contatto dell’italiano con le altre lingue,
con il dialetto e con la lingua del paese ospite, il secondo asse si basa sulle funzioni
dell’idioma selezionato, con i poli della lingua etnica, identitaria, nazionale, il terzo
asse è quello dei canali della comunicazione. Nello spazio linguistico sono
importanti anche i locutori e le funzioni che vengono assegnate allo spazio stesso.
Chiude il vol. il contributo di Immacolata Tempesta: I registri e la rete. Vaghezza
18 IMMACOLATA TEMPESTA
Immacolata Tempesta
TULLIO DE MAURO
(Sapienza Università di Roma)
1
Una prima discussione ho svolto in Per la storia linguistica dell’Italia repubblicana, in Mi-
glietta Annarita (a cura di), Varietà e variazioni: prospettive sull’italiano. In onore di Alberto A.
Sobrero, Galatina, Congedo, 2012, pp. 17-26.
20 TULLIO DE MAURO
suo linguaggio aulico, i suoi arcaismi lessicali e morfologici2, i suoi riferimenti sto-
rici non sempre chiari, è restato definitivamente e provvisoriamente l’inno nazio-
nale della nuova Italia democratica, Bisogna però dire che la scelta del governo
aveva un antefatto e ricostruirlo aiuta a capire come mai parole invecchiate e anti-
che memorie potessero assumere una risonanza nuova, un nuovo sapore.
“Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta”: con la sua robusta voce e con queste con-
suete parole iniziali dell’inno ottocentesco la mattina del 22 agosto 1943 Giuseppe
Di Vittorio, nell’adolescenza bracciante pugliese e poi in età adulta riconosciuto
capo sindacale e dal fascismo condannato al confino, dopo essersi arrampicato su
un muretto del porticciolo dell’isola di Ventotene, intonò il canto e subito fu seguito
da un improvvisato coro di altri ormai ex confinati e dagli isolani. Questi erano ve-
nuti a dare un saluto apertamente solidale agli antifascisti che, caduto un mese
prima il regime fascista, erano ormai liberi. Al molo era pronta un’imbarcazione di
fortuna, un vecchio veliero, che era stato preparato per l’occasione in sostituzione
della nave di linea affondata alcuni mesi prima da sottomarini inglesi. Con quel ve-
liero gli ex confinati poterono lasciare l’isola e navigare liberi verso la terraferma.
Poche ore dopo, all’arrivo del battello a Gaeta, il canto risuonò di nuovo. Lo intona-
rono inizialmente solo alcuni degli ex confinati, il gruppo dei comunisti, secondo la
testimonianza autorevole di Altiero Spinelli, ma, poi, dopo qualche esitazione, si
2
Tale il participio forte del non comunissimo verbo destarsi: a una bimbetta siciliana di que-
gli anni postbellici la cosa non appariva chiara, secondo la testimonianza di Rosa Calò, e il verso
era stato reinterpretato come l’Italia sedesta e sedesta come terza persona presente di un verbo
*sedestare “muoversi, agitarsi”. In riferimento a quegli anni sono parecchie le testimonianze e
memorie adulte di quiproquo infantili scaturenti dall’impatto tra la sopralingua aulica
dell’innologia ufficiale e la realtà linguistica di bambini immersi in un ambiente dialettale. Vittorio
Sermonti ha raccontato che per lui due versi dell’inno Fischia il sasso, il nome squilla detto Inno
del Balilla, suonavano così: Ma il balilla fu d’acciaio/ e la Patria di berò. Se un comune balilla
(con b minuscola) poteva essere d’acciaio, il *berò, di cui era fatta nientemeno che la Patria, do-
veva essere sì un metallo, ma assai più duro, tagliente, lucente dell’acciaio. Nell’Inno degli Arditi
un bravo giornalista, Marco Cesarini Sforza, raccontò una volta che leggeva un caso di sacrificio
eroico degno di Muzio Scevola davanti a Porsenna: il passo Avanti Ardito/ la fiamma nera/è nostro
simbolo/nostra bandiera lui se lo cantava, contaminandolo col suo dialetto romanesco, come
Avanti ar dito/la fiamma nera ecc. e immaginando che l’eroismo richiesto contemplasse
l’accensione di una fiamma nera da far bruciare all’estremità del dito. Altri ha raccontato di avere
supposto l’esistenza di un verbo *perbenire “lodare” o, forse, “arrivare felicemente” tratto dalla
reinterpretazione E perbenito Mussolini/eia eia alalà di Giovinezza. Ma soprattutto Luigi Mene-
ghello in Libera nos a malo ha offerto gli esempi più esilaranti, evocati con tutta la sua sapienza
letteraria e ironia, tra cui eccelle la complessa invenzione dei Vibralani, categoria o gruppo di sa-
lienti virtù eroiche cui ambivano i fanciulli canori di Malo e Vicenzai: Vibralani! Mane al petto/si
defonda di vertù./Freni Italia al gagliardetto/ e nei freni ti sei tu. In nota Meneghello ebbe la bontà
di dare il testo di partenza: Vibra l’anima nel petto/sitibonda di virtù:/ freme, o Italia, il gagliar-
detto/e nei fremiti sei tu.
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 21
unirono tutti, di tutte le varie tendenze presenti tra gli ex confinati antifascisti. E al
coro si unirono anche i marinai delle navi militari in sosta nel porto.
La ripresa del canto risorgimentale non era banale. L’inno era stato messo da
parte nelle cerimonie ufficiali dopo l’Unità e nel periodo fascista. Alla politica del
Regno neonato davano ombra gli accenti antiaustriaci e antitedeschi e infastidiva il
mazzinianesimo. Il fascismo gradiva poco gli affioramenti democratici presenti nel
testo. Tuttavia la scelta di prelevare di là il nome proprio di Balilla e attribuirlo ai
ragazzi delle organizzazioni giovanili fascistiche fece sì che in queste, diversamente
dall’ufficialità adulta, l’inno non fosse messo da parte, ma fosse spesso intonato e,
almeno per questa via, potesse restare nella memoria popolare. Certo è che dopo
l’episodio di Ventotene fu ripreso più volte anche altrove mentre ancora il conflitto
durava e tornò così a risuonare nelle zone d’Italia a mano a mano liberate mentre la
guerra volgeva al termine e il paese si andava aprendo un varco verso la democrazia.
Ebbe dunque la strada spianata il primo governo ordinario dello stato democratico
nello scegliere il canto come definitivamente provvisorio inno nazionale.
A Ventotene e Gaeta nell’agosto 1943 le vecchie parole del canto non volevano
né potevano servire a esprimere una retorica a cui era stato tolto ogni spazio dalla ca-
tastrofe militare e dalla brusca, fulminea dissoluzione del regime fascista col suo ar-
mamentario di canti e frasi famose. Altro poteva esprimersi nell’improvvisato uni-
sono. Forse c’era implicita anche l’idea che Italia non fosse solo un nome geografico
o l’etichetta d’uno stato, ma indicasse qualcosa di reale e durevole, e che il qualcosa
ora si destava dal sonno. Più esplicite e più certamente presenti erano l’idea e il pro-
posito di un affratellamento e la speranza d’un risveglio e di un nuovo inizio.
È quest’ultima l’idea e la speranza, questo il sentimento che trascorre in quegli
anni. Pochi mesi dopo il risuonare dell’inno a Ventotene e Gaeta, il 14 ottobre 1943
un grande storico, Adolfo Omodeo, appena nominato rettore, così diceva ai pochi
studenti raccolti per inaugurare l’anno accademico dell’Università di Napoli:
«Verrà giorno che molti di voi si ricorderanno di questa malinconica riunione
nell’atrio devastato come del grigio albore di una luminosa giornata»3. Ritroviamo
questo stesso sentimento di speranza e affratellamento nelle parole che l’anno se-
guente, nel settembre, in Roma appena liberata dal giugno, una valorosa scrittrice,
Alba de Cespedes, scrisse all’inizio della Premessa di «Mercurio», una rivista tanto
povera d’aspetto quanto all’epoca rilevante per la sua straordinaria ricchezza intel-
lettuale e lo spessore delle analisi politiche: «Usciamo come da una vita subacquea
(…). Ma ci sembra venuto, adesso, il momento di ritrovarsi, unirsi, riaffacciarsi in-
sieme a un balcone sul mondo, sorretti da quella solidarietà di patimento che è an-
cora stimolo di conoscenza, d’esperienza, di sopravvivenza». In quegli stessi mesi,
3
L’Acropoli ad Adolfo Omodeo, Napoli, Gaetano Macchiaroli editore, s.a. (ma 1947), p.
LVII: fascicolo di “commiato” della rivista (1945-47) promossa e diretta da Omodeo (Palermo
1889-Napoli 1946): l’inaugurazione dell’anno accademico è rievocata particolarmente da Giovanni
Malquori, Il Rettore, pp. LVII-LXIII.
22 TULLIO DE MAURO
sempre a Roma, simili sentimenti e propositi animavano gli amici e le amiche che
un’altra scrittrice, Maria Bellonci, accoglieva le domeniche pomeriggio nella sua
casa a discutere di libri e a ideare un modo che di libri facesse parlare e libri facesse
leggere il più largamente possibile4.
Certo in quegli anni la vita era non facile. Le truppe degli Alleati vincitori, an-
che finita la guerra, occupavano ancora il paese, esercitavano un pieno controllo
sulle regioni del Nord e battevano moneta, le am-lire. La allied military lire fu in-
trodotta nel 1943 nell’Italia liberata (o “occupata”, secondo il punto di vista della
parte di popolazione di persistenti sentimenti fascisti) e fu stampata fino al 1946. La
parola è ormai dimenticata, così come marginalizzate sono parole e cose allora po-
polarissime: il corned beef, il macinato di manzo compresso in lunghe scatole di
latta a sezione quadrata in uso tra le truppe americane e distribuito alle popolazioni
affamate; la peasoup, un verdognolo passato di farina di piselli altamente nutritivo
per chi accettava di nutrirsene. La fame era ancora tanta nelle grandi città e alle on-
date di entusiasmo popolare all’arrivo dei liberatori, come erano detti i militari al-
leati, accadeva che succedessero apprezzamenti più scettici, per esempio quello che,
fiorendo sui muraglioni del Tevere e altre mura della città, investì il governatore
degli Alleati a Roma: Colonnello Charles Poletti/ meno chiacchiere e più spaghetti.
Altre parole invece, pur testimoni di quel tempo in cui nacquero o si diffusero, sono
restate più saldamente nell’uso come carovita o camionetta (nome di quelle della
polizia dette jeep e di quelle che surrogavano i distrutti trasporti pubblici), agit-prop
o blitz (un accorciamento inglese e tedesco del tedesco Blitzkrieg, la guerra lampo
programmata e inizialmente realizzata da Hitler), sfollamento e sfollato o bughi-bu-
ghi, adattamento ironico di boogie woogie, il ballo american che fa impazzire,
come diceva Na vota che sì, na vota che no, una canzonetta semidialettale molisana
dell’epoca. Le città erano piene di cumuli di macerie. Ma nella pace che si annun-
ziava e fu ritrovata le speranze prevalevano e non solo tra quanti avevano fatto la
4
Annotava in un suo quaderno Maria Bellonci: «Cominciarono, nell’inverno e nella prima-
vera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella
partecipazione di un tempo doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno [libera-
zione di Roma] finito l’incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi
untiti per far fronte alla disperazione e alla dispersione. Prendiamo tutti coraggio da questo sentirci
insieme. Spero che sarà per ognuno un vivido affettuoso ricordo.». Nel 1946 gli Amici della Do-
menica, oltre 150, col sostegno finanziario dell’industriale Guido Alberti, avviarono il Premio
Strega, come ha rievocato la stessa Maria Bellonci in Come un racconto gli anni del Premio
Strega, Milano, Club del libro, 1970: «Uno spirito festoso e immune da ogni inibizione critica mi
spinse a mettere un fiore nei libri premiati. Ma io già da tempo cominciavo a pensare ad un nostro
premio, un premio che nessuno ancora avesse mai immaginato. L’idea di una giuria vasta e
democratica che comprendesse tutti i nostri amici mi sembrava tornar bene per ogni verso: dava
significato espressivo anche al gruppo che avrebbe manifestato così le sue opinioni e le sue
tendenze, anzi le avrebbe rivelate per mezzo di paragoni e discussioni: confermava il nuovo
acquisto della democrazia, ed era intonato al nostro stato d’animo».
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 23
5
Espressioni divenute quasi proverbiali della forse più famosa canzone partigiana il cui testo
fu scritto nell’autunno 1943 da un giovane, eroico medico chirurgo partigiano, Felice Cascione
nome di battaglia U mègu, “Il medico” (Porto Maurizio [poi Imperia], 2 maggio 1918-Val Penna-
vaira, 27 gennaio 1944). La musica riprendeva quella della russa Katjuša, originariamente canzone
scritta poco prima del conflitto mondiale da Matvei Blanter e Michail Isakovskij e diventata popo-
lare oltre fronti e frontiere (come del resto la tedesca Lili Marleen o, anche, comunemente, Mar-
lene). La canzone diventò immediatamente popolare tra le brigate partigiane del Nord (Battaglia
Roberto, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1970, p. 470). E come ogni testo popo-
lare si è arricchito di parecchie varianti diffuse e talora predominanti a cominciare dall’incipit (Sof-
fia il vento invece dell’originale Fischia).
6
Galante Garrone Alessandro, Calamandrei, Milano, Garzanti, 1987, p. 232.
24 TULLIO DE MAURO
7
Espressione di paternità contestata. È stata diffusamente attribuita a Ennio Flaiano, di recente
anche da Raffaele La Capria nel convegno capitolino (6 marzo 2010) per il centenario della nascita
dello scrittore, e da Tommaso Russo Cardona, Le peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento
discorsivo, Cosenza, Meltemi editore, 2010, p. 101. Ma è attribuita anche (altresì dallo stesso Raffaele
La Capria, Napolitan Graffiti. Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1992, p. 205) al grande amico di
Flaiano, disegnatore e satirico, Mino Maccari. Maccari la dà per propria in Con irriverenza parlando
(Bologna, Il Mulino 1993, p. 33). Decisivo è che a lui, a Maccari, la abbia attribuita lo stesso Ennio
Flaiano nel 1972, cfr. Satira è vita. I disegni del fondo Flaiano della Biblioteca Cantonale d Lugano,
con cinquanta brevi testi di E,F., a cura di Ruesch Diana, Milano, Hoepli, 2002, p. 40. Dunque, stando
alle carte, si deve attribuire l’espressione a Maccari..Per scrupolo di memoria devo dire che nei primi
anni cinquanta ho sentito più volte Carlo Antoni, storico della filosofia e filosofo, uomo probo non
sospettabile di sciocche vanità, attribuire la trovata dell’espressione a se stesso: Antoni, come Maccari
e Flaiano, era autorevolissimo assiduo collaboratore del “Mondo” di Pannunzio nel cui ambiente,
vicino all’azionismo, l’espressione comunque è certamente nata.
8
Alle donne si è talora attribuito in generale un ruolo di freno al mutare delle condizioni lin-
guistiche, la capacità, dunque, di un ruolo inerziale. Tra gli aspetti salienti e nuovi dell’Italia
linguistica nell’età della Repubblica c’è il profilarsi di contributi linguistici innovativi della parte
femminile della popolazione. Ad esempio, di fronte a un uso del dialetto avvertito come “virile”, ai
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 25
fini della diffusione dell’italiano parlato specie tra le generazioni poù giovani è stata decisiva la
precoce preferenza femminile per l’uso dell’italiano, accompagnata da una maggiore abitudine alla
lettura, e l’adesione allo standard: cfr. De Mauro Tullio, La cultura, in AA.VV., Come siamo,
come eravamo, Bari-Roma, Laterza, 1978, rist. in L’Italia delle Italie, 3a ed., Roma, Editori Riu-
niti, 1992, pp. 17-68, Marcato Gianna (a cura di), Donne e linguaggio, Padova, Cleup. 1995, in
particolare Cortelazzo Michele A., La componente dialettale nella lingua delle giovani e dei gio-
vani, pp. 581-586.
9
Ufficio comunicazione istituzionale del Senato, Le donne nell’Assemblea Costituente e nel
Senato della Repubblica, Roma, Senato della Repubblica, 2010.
10
Se ne faceva eco una fortunata canzonetta romanesca di quegli anni, Vecchia Roma, che
delle donne diceva: «Senza comprimenti/ nei caffè le senti/ de politica parlà./ Vanno a ‘gni comi-
zio/ chiedeno er divorzio/ mentre a casa se sta a diggiunà» (Borgna Gianni, Storia della canzone
italiana, Bari-Roma, Laterza, 1985, pp. 115-17).
26 TULLIO DE MAURO
Per l’Italia il 1946, insomma, segnò certo una svolta istituzionale. Ma il pas-
saggio alla forma statale repubblicana e a un regime democratico e parlamentare fu
preceduto e accompagnato dalla nascita di una diffusa volontà e nuova possibilità di
partecipazione alla vita sociale pubblica, sindacale e politica. Una volontà e una
possibilità tali erano state concesse per l’innanzi, e non soltanto nel ventennio fasci-
sta o nei decenni dello stato unitario ma nei secoli, solo a quelle minoranze esigue
che dalla piazza avevano potuto accostarsi alla vita del palazzo, per riprendere la
metafora o, meglio, la realistica immagine di Guicciardini rinverdita poi da Paso-
lini11. Già allora vi fu chi, come Adolfo Omodeo o l’allora giovanissimo Luigi
Meneghello12, ritenne di scorgere e temette che quella volontà e possibilità avreb-
bero stentato a realizzarsi appieno. E tuttavia non si può dimenticare che
quell’erompere di discussioni e quel coinvolgimento così attivo e largo di tanti e
tante nelle scelte costituzionali e politiche non avevano precedenti nella lunga storia
dell’intero insieme delle popolazioni italiane. Al complesso delle popolazioni vis-
sute nei secoli tra le Alpi e Lampedusa nessuno aveva detto, come disse la Costitu-
zione con la sua consapevole scelta di un linguaggio semplice e netto: «la sovranità
appartiene al popolo» (Cost. art.1, c.2), istruiti e ignoranti, gente ricca e povera
11
Francesco Guicciardini, Ricordi, Serie seconda 141, in Opere, a cura di Emanuella Sca-
rano Lugnani, vol.I, p.768: «…spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta, o uno muro sì
grosso, che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi go-
verna, o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India, e però si empie facilmente
el mondo di opinione erronee e vane». Pier Paolo Pasolini, Fuori del Palazzo, “Corsera”, 1° agosto
1975, poi in Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976: «Fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta
milioni di abitanti sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo
con la sua prima vera unificazione): mutazione che per ora lo degrada e lo deturpa. Tra le due
realtà, la separazione è netta, e al suo interno agisce il “Nuovo Potere”, che, con la sua “funzione
edonistica” riesce a compiere “anticipatamente” i suoi genocidi».
12
Adolfo Omodeo fin dall’inverno 1945 osservava nella sua rivista «Acropoli» (Preludio, I,
1, p. 7): «Tende a formarsi una saldatura tra un’amara conclusione scettica dell’avventura fascistica
e il discredito della vita politica ad arte diffuso dal fascismo». Luigi Meneghello, Il dispatrio, Mi-
lano, Rizzoli, 1993, rievocando gli anni 1946-48, scrive: «In Italia le cose si erano messe male. Si
veniva instaurando un regime che consideravo nefasto, e il panorama culturale mi sembrava parti-
colarmente deprimente. Si sentiva nell’aria l’arretratezza della nostra cultura tradizionale, comune
matrice degli indirizzi più palesemente retrivi a cui si appoggiava il nuovo regime, e di quelli vel-
leitari e in parte spuri che cercavano di contrastarlo. E lì in mezzo si distingueva appena il nucleo
striminzito delle idee e delle cose che approvavo: parzialmente, santo ai miei occhi, ma striminzito.
Ero convinto invece che “fuori” ci fosse un mondo migliore, migliore non solo di qualche grado,
ma incomparabilmente. E la chiave era la cultura dell’Europa moderna» La “saldatura” di Omodeo
e l’”aria” di Meneghello si tradussero anche nella grande fortuna dell’Uq (vedi sopra) e documento
ne resta anche, ancora una volta, la gran fortuna di una canzone: la scrissero in dialetto napoletano
Edoardo Nicolardi e E.A.Mario, e divulgò espressioni diventate proverbiali in tutto il paese: «Basta
ca ce sta ‘o sole/ ca c’è rimasto ‘o mare (…) / Chi ha avuto ha avuto ha avuto/chi ha dato ha dato
ha dato./ Scurdammoce ‘o passato/ simme ‘e Napule paisà».
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 27
gente, maschi e femmine. E il popolo cercò e a più riprese, più d’una volta, ha con-
tinuato a cercare di rispondere all’invito. Avevano buone ragioni quelli che vissero
quegli anni sperando che fossero l’inizio di una novella istoria13.
13
Lo fu davvero? La risposta dipende in parte dallo strato o gruppo sociale e da quale delle
diverse Italie allora in gioco si assumono a riferimento, come ha mostrato Mario Isnenghi nelle sue
Dieci lezioni sull’Italia contemporanea. Da quando non eravamo ancora nazione… a quando fac-
ciamo fatica a rimanerlo, Roma, Donzelli, 2010, in particolare p. 240 sgg. Tuttavia anche se si
guarda alla sola Italia delle istituzioni pubbliche la risposta non è lineare. Dopo il 1946 gli eventi
politici e politico-amministrativi accentuarono il grado di continuità tra gli apparati del vecchio
Stato monarchico e fascista e il nuovo Stato o, diciamo meglio, la Repubblica che nasceva, magi-
stratura, amministrazione, la stessa scuola rimasero a lungo con il personale e con pratiche e nor-
mazioni di età monarchica e fascista. Ha scritto Sabino Cassese (Lo Stato fascista, Bologna, Il Mu-
lino, 2010, p. 24): «Il Ventennio fascista lascia all’Italia del secondo dopoguerra (…) una sfera
pubblica di grandi proporzioni; uno stato produttore di servizi e di beni, con un ruolo sociale do-
minante, i cui interessi vanno ad intrecciarsi con quasi ogni aspetto della vita civile del Paese;
un’amministrazione pubblica che legifera, giudica, amministra, esegue, negozia tutto insieme.
L’idea del fascismo come parentesi, di una cesura netta tra periodo fascista e Italia repubblicana,
dunque, è errata. O, meglio, corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una di-
stanza tra il fascismo e se stessi, che alla realtà dei fatti». Il proposito di un taglio netto con il pas-
sato oligarchico e fascistico ispirò la Costituzione, anche linguisticamente innovativa per il ricorso
a periodi lineari e di marcata brevità media (meno di 20 parole per frase) e il ricorso molto largo,
straordinario in testi giuridici, ma anche nel giornalismo, al vocabolario di base. Elaborata tra 1946
e 1947 dall’Assemblea Costituente e in vigore dal 1o gennaio 1948 la Costituzione restò a lungo
“congelata”, come ha altresì detto Sabino Cassese Qualche esempio: la Corte costituzionale, che,
prevista dalla Costituzione (artt.134-37), poteva operare per depurare dal corpo delle leggi le norme
repugnanti con i principi costituzionali del regime democratico, si insediò solo nel 1955; solo nel
1970 furono istituite le Regioni previste anch’esse dal 1948 (artt.114-133), ma solo vent’anni dopo,
nel 1977, vi fu un’effettiva devoluzione di competenze dallo stato centrale. E, per venire ad aspetti
più immediatamente vicini alla realtà linguistica, solo nel 1962 fu istituita la unitaria scuola media
dell’obbligo, ma nonostante ciò ancora negli anni settanta metà delle leve giovani non completava
gli otto anni di scuola che la Costituzione (art. 34) voleva obbligatori. Solo nel 1999, con cinquan-
tuno anni di ritardo, il Parlamento provvide a varare una legge di tutela delle minoranze linguisti-
che come richiesto dall’art.6 della Costituzione. Gli elementi di continuità nelle strutture e nelle
forme dello Stato erano e restarono insomma assai forti. Solo con grande lentezza e tra negligenze
e contrasti si è andato attuando in parte quell’articolo 3, comma secondo della Costituzione che as-
segnava all’intera articolazione delle strutture pubbliche il «compito» di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la parità effettiva di cittadine e cittadini in ogni materia, anche nella lingua. Per il lin-
guaggio, se si sceglie l’ottica istituzionalmente prevalente nell’ordinamento universitario e
nell’organizzazione delle corporazioni, cioè l’ottica della “storia della lingua”, può sembrare che
sia successo ben poco, l’arrivo di un po’ di neologismi, qualche stilema colloquiale che si affaccia,
accresciute influenze inglesi (cfr. Renzi Lorenzo, Come cambia la lingua, Bologna, Il Mulino,
2012), tutte cose che, con altre interne, relative all’inventario di forme e strutture dell’italiano,
meritano certo ricognizione e attenzione sistematiche. Se però si adotta l’ottica della “storia lingui-
stica” delle popolazioni, e dall’inventario delle forme si sposta l’attenzione al loro uso e al loro va-
28 TULLIO DE MAURO
Non è separabile da ciò, come in parte già si è accennato, quel che è avvenuto
nell’ambito del linguaggio. Un assetto sociolinguistico secolare, che nel 1946 an-
cora durava, è stato scosso e profondamente trasformato dai mutamenti innescatisi
nell’età della Repubblica.
riare statistico, alla storia di come e perché la popolazione italiana ha parlato, scritto, capito e non
capito grazie al complesso sia dei repertori di cui disponeva (italiano letterario e non, dialetti muni-
cipali e non, varietà regionali e varietà sociali, diastratiche, lingue di minoranza e lingue straniere)
sia delle competenze per accedervi (alfabetizzazione primaria, conservazione o perdita adulta delle
capacità alfabetiche, varia esposizione all’intreccio di tradizioni linguistiche, dal latino alle lingue
straniere, ai diversi dialetti ecc.) il 1946 rappresenta l’avvio di una svolta che, senza nessuna enfasi,
si può definire epocale.
GAETANO BERRUTO
(Università di Torino)
1. INTRODUZIONE
Il nuovo secolo ha visto un fruttifero inizio di avvicinamento e cooperazione
fra due anime o prospettive di ricerca che nella linguistica della seconda metà del
Novecento tendevano a presentarsi come ambiti delle scienze del linguaggio fra
loro agli antipodi se non del tutto incompatibili: la sociolinguistica da un lato e la
linguistica formale di matrice generativista dall’altro. L’approccio sociolinguistico
si è ovviamente contrassegnato in primo luogo per la sua presa in considerazione
dei fattori sociali interagenti con l’uso della lingua (o la lingua in uso) come ingre-
diente essenziale dell’analisi e della spiegazione, mentre altrettanto ovviamente la
linguistica generativa per la sua stessa natura ha escluso del tutto, motivatamente e
programmaticamente, la sfera dei correlati sociali dei fatti linguistici dal proprio
raggio d’azione, assumendo come unico proprio oggetto d’analisi e spiegazione la
competenza interiorizzata del sistema formale della lingua (la cosiddetta Lingua-I).
Pareva che tra queste due anime fosse destinata a permanere totale incomuni-
cabilità; ma da qualche tempo le cose sono cambiate1. Un avvicinamento tra le due
direzioni è stato evidente in ambito internazionale, nella stessa linguistica teorica
anglosassone nella quale la divisione fra le anime pareva particolarmente netta; ed è
avvenuto, nel suo piccolo, ma con particolare vigore, anche nella linguistica prati-
cata in Italia. La convergenza di interessi fra sociolinguisti e linguisti formali e il
senso dell’avvicinamento in atto sono per es. ben esplicitati da Benincà, Damonte
(2009, p. 185), che, partendo dall’ovvia, ma importante, assunzione che «approcci
formali e sociolinguistici alla variazione linguistica non si escludono a vicenda, ma
spiegano aspetti diversi dello stesso fenomeno», auspicano che
1
Una quindicina d’anni fa Wilson, Henry (1998, p. 19) notavano che «the history of the
theoretical and practical relationship between sociolinguistics and core linguistics has not always
been a happy one. Each approach has been seen as alternative to the other» e che lo svilupparsi
della teoria dei parametri nella linguistica generativa offriva per lo meno un’opportunità di discus-
sione su un terreno comune. Hasty (in stampa, p. 19) può ora constatare che «the study of syntactic
variation must of necessity unite the efforts of theoretical syntacticians and variationist sociolin-
guists if it is to allow us to fully understand and model the variation apparent in syntax».
30 GAETANO BERRUTO
questo approccio ‘integrativo’ […] possa da una parte offrire alla linguistica formale
modelli sociolinguistici che permettano di comprendere meglio le dinamiche della va-
riazione […], dall’altra fornire alla sociolinguistica fenomeni linguistici analizzati in
modo preciso per essere utilizzati nella rilevazione dei correlati sociolinguistici della
variazione (p. 192)2.
2. VARIAZIONE E GRAMMATICHE
Il crescente interesse mostrato dalla linguistica formale verso la variazione ha
naturalmente avuto il suo fulcro nello studio della variazione in sintassi, campo
elettivo di lavoro della linguistica generativa. Una tappa importante nella consape-
volezza teorica dei rapporti fra sintassi formale e analisi della variazione sociolin-
guistica (cfr. sul tema generale Berruto, 2009b) è rappresentata dai lavori raccolti in
Cornips, Corrigan (2005), in cui si fronteggiano diverse prospettive di matrice for-
male, a vivace testimonianza della diversità di vedute sul fenomeno che permea lo
stesso campo generativista. Il problema fondamentale in questa prospettiva è così
formulato da Adger, Smith (2005, p. 149): «how is the mental grammar (the I-lan-
guage of Chomsky 1986) organized so that such variation arises?»; compito del ge-
nerativista è spiegare come le varianti semanticamente equivalenti siano derivate
dal sistema sintattico «in a principled way». Gli stessi autori riassumono, dal punto
di vista della linguistica formale, fondamentalmente tre approcci per rispondere a
questa domanda (Adger, Smith, 2005, p. 162): a) il ricorso a regole variabili; b) il
ricorso a grammatiche multiple o all’«intra-language parameter setting»; c) il ri-
corso a codificazioni diverse delle proprietà morfosintattiche degli items lessicali
(tipico del modello minimalista).
2
Analogamente, dal versante dei sociolinguisti, Cheshire (2005, p. 101): «a new alliance be-
tween variationists and generativists might lead to generative linguistics becoming more interested
in externalized, performed language-not simply in order to find new data against which to test the
theory but also to apply the rigour of the generative approach to discovering the structure of spoken
language».
3
«La variazione […] è […] un carattere rilevante della lingua, attivato quando si attua la su-
tura, per così dire, fra il sistema linguistico, l’uso e la società» (Berruto, 2009a, p. 14).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 31
Nello stesso Cornips, Corrigan (2005) sono peraltro rappresentati anche altri
approcci formali circa l’interazione fra teoria sintattica e teoria variazionista. Per
es., per Henry (2005, p. 120) si imporrebbe anche un ritorno al concetto di regola,
reintroducendo la possibilità delle regole di variare non solo in base a tratti lingui-
stici ma anche in base a caratteri extralinguistici; Barbiers (2005, p. 258) pratica in-
vece un approccio in cui «optionality […] is considered to be an inherent property
of the grammatical system»; e in una prospettiva un po’ diversa è stata proposta
come approccio particolarmente utile per l’analisi della variazione la teoria
dell’ottimalità (cfr. Guy, 2007, pp. 21-22; Green, 2007, pp. 25-27). Le prospettive
avanzate e discusse in Cornips, Corrigan (2005) sono state riprese, ampliate e arric-
chite in un fascicolo monografico di «Lingua», annata 120 (2010), in cui gli autori,
appoggiandosi anche su approfondite analisi empiriche di fenomeni nello spazio di
variazione morfosintattica dell’inglese, aggiornano il panorama delle posizioni rap-
presentate nel campo formalista circa la trattazione della variazione.
Ampliando un po’ il discorso, si potrebbe riassumere come nello schema 1 il
rapporto fra modelli grammaticali e variazione (intralinguistica) così come si è svi-
luppato nel decorso cinquantennio.
SCHEMA 1
l’apparente opzionalità delle regole della grammatica […] deriva dal fatto che il par-
lante ha una scelta lessicale (che Kroch suppone sia regolata da fattori sociolinguistici);
ma una volta scelta una forma, la regola si applica senza eccezione. Questo modo di
trattare la variabilità sintattica dà un contenuto teorico specifico alla nozione di ‘due di-
verse grammatiche’: sarebbero rappresentate nella mente del parlante come scelte lessi-
4
Vale a dire di come individuare fatti diversi tra loro interdipendenti, che costituiscano un
cluster, raggruppamento o «conglomerato di fenomeni»: «il concetto di parametro, una proprietà
astratta della grammatica, porta ad aspettarci, sia in sintassi che in fonologia, che insiemi di feno-
meni superficiali siano solidali nel confronto interlinguistico, perché sono il risultato di un com-
plesso di proprietà unificate da una proprietà di livello più astratto» (Benincà,Tortora, 2011, p.
239). Tortora (in stampa, p. 4) sottolinea che «one of the goals of the theory of parameters is to ac-
count for syntactic phenomena that are linked to one another».
5
Fra i cinque problemi rilevanti in un approccio formalista alla variazione sintattica elencati da
Haddicon, Plunkett (2010, p. 1058), tre coincidono con quelli qui isolati o vi sono grosso modo
riconducibili: «What is the relationship between intra-speaker and inter-speaker variation in syntax?
What formal and syntactic mechanisms best explain the existence of intra-speaker variation? Are
frequencies of variants (partially) predictable from the formal properties (e. g. features) involved?».
Gli altri due riguardano l’importanza rispettiva della variabilità nei bambini e della variazione negli
adulti per innescare il mutamento, e il ruolo dei parametri nella intra-speaker variation.
34 GAETANO BERRUTO
cali che, una volta fatte, hanno conseguenze grammaticali e producono risultati distinti
(Benincà, Tortora, 2011, pp. 238-239).
differenze di frequenza delle varianti nei vari contesti d’uso potrebbero essere al-
meno parzialmente predicibili in base ai tratti coinvolti nel paradigma che le genera,
a loro volta sensibili alle restrizioni sociali sulla variazione.
In particolare, viene trattato il caso dell’accordo verbo-soggetto nel passato di
to be nella varietà di inglese parlata nella cittadina di Buckie (Scozia nord-orien-
tale), sulla base di un corpus ricavato da trentotto parlanti e comprendente anche
giudizi dei medesimi, da cui risulta il seguente paradigma: I was, You was/were,
He/she/it was, We was/were, You (ones) was/were, They were. A questi dati empi-
rici viene applicato un apposito algoritmo di Seek Maximal Generalization, che,
operando sui tre tratti assunti come rilevanti per la specificazione dell’accordo sul
verbo in inglese [± singolare], [± partecipante], [±autore], ed evitando l’opzionalità
e la sinonimia, genera per es. per la seconda persona singolare il seguente pool di
varianti, ammesso fra le sei uscite lessicali (a-f) possibili: [+ singolare, + partecipante,
-autore]: (a) was (c) was (d) were. Semplificando molto6, una “funzione di scelta” U
seleziona un elemento all’interno di questo pool. «If U applies to the pool of variants x
times, then the surface form of the variant will be was 0.66x times and were 0.33x
times» (Adger, Smith, 2010, p. 1112): e nel corpus considerato in effetti la percen-
tuale di was con il pronome di seconda singolare è del 69% (su 161 casi). La propor-
zione di due terzi circa di forme was prevista dalla grammatica trova quindi ottima ri-
spondenza nei dati osservati, la concreta percentuale risultante dal corpus. Analoghe
corrispondenze si dànno nel caso delle varianti nella marcatura verbale di terza per-
sona del presente, con –s o senza –s (Adger, Smith, 2010, p. 1125).
Hudson (2007) però critica dal punto di vista statistico l’analisi fornita, osser-
vando che, se si vanno a disaggregare i dati all’interno del corpus di Buckie, si nota
che l’età e il sesso dei parlanti hanno influenza sulle percentuali di realizzazione, e
che solo in alcuni sottogruppi di parlanti si trovano rapporti all’incirca di 2:1 per
was su were. In realtà, tuttavia, a mio avviso va riconosciuto come nella prospettiva
formalista il rapporto debba essere calcolato sull’interezza del corpus, giacché, ri-
guardando l’insieme delle lessicalizzazioni di un fascio di tratti, deve dar conto
della totalità dei dati per la comunità parlante, e non della dispersione delle singole
realizzazioni fatte in situazioni soggette a condizionamenti extralinguistici:
in any particular utterance situation, various factors will impact on the selection of one
of the members of the pool of variants, so that […] the sociolinguistic status of the vari-
ant, its recency, etc., might all in principle have an effect on which variant is chosen
(Adger, Smith, 2010, p. 1112).
6
Anche, purtroppo, in ragione della scarsa padronanza che dei dettagli tecnici dei modelli
generativisti ha chi scrive queste note.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 37
the valued application probabilities for variable Impoverishment rules are located in a us-
age module distinct from grammar, where they can be freely influenced by myriad social,
volitional, frequency and recency of use, and other language-external factors (p. 1156),
affermando in conclusione che «we are unsure whether models of grammar should
explicitly attempt to predict exact usage frequencies at all».
È comunque molto significativo che nel dibattito dei formalisti sulla variazione
sia oggi ben presente la rivisitazione di un vecchio problema, per decenni molto di-
battuto e caro ai sociolinguistici specie variazionisti, vale a dire appunto «the question
of how/whether probabilistic constraints in production data should be understood in
formal terms» (Haddicon, Plunkett, 2010, p. 1059). Il fatto che si cerchi di generare la
probabilità nella grammatica è però un assunto molto forte, che, oltre a ritrovarsi di
fronte problemi già appunto discussi, e senza arrivare a conclusioni non dico defini-
tive ma anche solo convincenti, negli anni Settanta dai variazionisti7, implica che non
esistano in effetti regole opzionali. Occorre però aggiungere che nel campo generati-
vista si fronteggiano vedute assai diverse circa questo punto: per es., «contra current
minimalist views», come si è già accennato nel § 2, Barbiers (2005, p. 258), ritor-
nando ai primordi della teoria generativa (cfr. Haddicon, Plunkett, 2010, p. 1058),
considera l’opzionalità «an inherent property of the grammatical system. The system
allows a number of syntactically equivalent structures». Diametralmente opposta è in-
vece la posizione di Manzini, Savoia (2005, p. 29):
all’interno di una grammatica minimalista, in cui l’opzionalità interna ad uno stesso si-
stema linguistico è chiaramente esclusa da considerazioni di economia, ogni apparente
opzionalità deve essere costruita nei termini della coesistenza di più lingue.
7
Fra cui essenzialmente il problema di come, e secondo quali vie, la probabilità di occor-
renza, e quindi di realizzazione di una variante invece che di un’altra, si possa considerare far parte
delle conoscenze implicite della lingua-I, vale a dire la competenza in senso chomskyano, del sin-
golo parlante.
38 GAETANO BERRUTO
la grammatica di alcuni parlanti ma non quella di altri dispone di una particella ǫ dotata
di proprietà lessicali specializzate per l’incassamento del participio; inoltre alcune
grammatiche dispongono di clitici specializzati per il dominio del verbo matrice, altre
di clitici specializzati per quello del verbo;
8
Che peraltro riprende e sviluppa la posizione di Chomsky (1995), che colloca la variazione
(interlinguistica) essenzialmente a livello morfologico, come dipendente dalla scelta delle parti di
una “computazione” che vengono realizzate con materiale di superficie: una lingua ha «un lessico
comprendente basi lessicali e formativi funzionali che lessicalizzano un particolare insieme di in-
formazioni morfosintattiche, dalle cui differenze dipende la variazione parametrica» (Savoia, Man-
zini, 2007, p. 93). Manzini, Savoia (2011, p. 263) chiariscono come segue la versione del modello
minimalista adottata: «our analysis depends on a representational version of minimalism […]. In
such a model, notions of, say, transitivity and voice […] can be stated directly in terms of LF [logi-
cal form, G.B.] primitives. Crucially, the LF primitives we employ […] are independently availa-
ble within a minimalist grammar as defined by Chomsky (1995) - with which the approach we take
is in this sense compatible».
9
Già molto chiaramente Manzini, Savoia (2007, p. 76): «optionality must be treated as an in-
stance of (micro-)bilingualism» («i.e. as the coexistence of several I-languages», Loporcaro, 2007,
p. 333; che critica severamente l’inaccettabile moltiplicazione di grammatiche che così deriverebbe
dalla combinazione di valori dei tratti opzionali, in cui ciascuna diversa combinazione vuol dire
un’altra grammatica).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 39
none of our findings implies that the distinction between lexical and functional catego-
ries has any import for variation. Thus all syntactic structures can be projected from
lexical terminals, and there is neither a specialized morphological component, nor spe-
cialized lexicalization principles applying to abstract functional nodes. The mechanisms
that determine variation in so-called functional categories […] are the same responsible
for variation in the substantive lexicon; […] since the lexical/functional divide is not
necessary, it can be dispensed with (Manzini, Savoia, 2011, p. 262).
Sviluppando questo loro approccio, gli stessi autori approdano a una decisa ri-
valutazione teorica, dal punto di vista della linguistica formale, della posizione della
variazione nel sistema linguistico:
The relation of the syntax [..] to interpretation […] is crucial in our view to under-
standing the role of language variation in the overall economy of the faculty of lan-
guage. If our construal of syntax and its relation to interpretation is correct, the syntax
restricts interpretation, but does not ‘contain’ it […]. Thus the boundary between syntax
and interpretation is a loose one, allowing for a number of different matchings of syn-
tactic form to (inferentially determined) meaning. […] Lexical items are at the core of
language variation simply because they represent the core unit of this loose interface
between syntax and interpretation. In this sense variation is not an accidental property
of the faculty of language (Manzini, Savoia, 2011, p. 263).
10
Nel senso che Manzini, Savoia (2011, p. 262) così specificano: «it is evident that to the ex-
tent that the primitives of variation are macrocategories like transitivity or voice, we could equally
describe our approach as macroparametric - though the fact that the unit of variation can be as
small as single lexical item qualifies it as microparametric».
40 GAETANO BERRUTO
What is clear is that the empirical evidence at our disposal appears to be entirely in-
compatible with macroparameters […] i.e. structural parameters with cascading effects
over much of grammar. If there is a tendency for certain parameter values to cluster to-
gether, its explanation appears to essentially external to linguistics, in the sense in
which typological or functional explanations are.
11
Ringrazio l’autrice di avermi gentilmente messo a disposizione, attraverso Paola Benincà,
il testo dell’articolo in stampa.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 41
Sarebbe comunque del tutto da compiere un confronto specifico fra le istanze del
clustering in grammatica generativa, basato su fattori interni della lingua, e quelle
della solidarietà e co-occorrenza fra le varianti di una variabile teorizzate dai sociolin-
guisti per definire una varietà di lingua, basate sull’osservazione dei dati e del loro si-
gnificato sociale. È un confronto in un campo sinora ben poco esplorato (ma cfr.
Auer, 1997), e che forse porterebbe a enucleare novità interessanti per i sociolinguisti
in termini di motivazioni strutturali interne a fatti constatati esternamente.
6. IL SOCIALE E IL LINGUISTICO
Un punto cruciale aperto, di fondamentale rilevanza per il sociolinguista, ri-
guarda naturalmente l’interazione effettiva fra il sociale e il linguistico, e quindi
l’accoglimento, e la trattazione, del lato o versante “sociale” dei fenomeni, che co-
stituisce assieme al versante linguistico la biplanarità inscindibile dei fatti sociolin-
guistici, dunque anche delle varianti di variabili (Berruto, 1998). Da questo punto di
vista, non può anzitutto non essere messo in primo piano il fatto che gli aspetti so-
ciali, il côté propriamente sociale, risultano in genere del tutto assenti, o comunque
messi fra parentesi, nelle trattazioni dei formalisti.
Nei recenti approcci si configura infatti un’analisi della variazione, che questa
sia libera, contestuale o sociolinguisticamente condizionata, priva di ogni correlato
sociale: emblematica è per es. un’affermazione quale «there is no rule within our
model that makes reference to the social meaning of a variant» (Nevins, Parrott,
2010, p. 1138). Le variabili studiate dai formalisti risultano in effetti per lo più, a
prima vista, desolantemente prive di significato sociale rilevante o interessante.
Questo può apparentemente rappresentare una delusione per il sociolinguistica, ma
a ben vedere dal punto di vista epistemologico non può essere che così (anzi, è in
buona misura ovvio e scontato): un metodo formale non può per la sua stessa natura
e i suoi obiettivi dare conto di fatti soggetti all’ermeneutica, all’interpretazione,
rappresentazione e intenzionalità dei soggetti parlanti (Dittmar 1989, pp. 146-153),
che non possono essere compresi e spiegati in base ai modelli nomologici tipici
delle scienze esatte e della natura. Mi pare in effetti ancora pienamente da condivi-
dere la posizione espressa in proposito da Dittmar (1989, p. 153): «sono convinto
che, a lungo andare, non saranno i criteri formali […] a giudicare sull’adeguatezza o
correttezza delle nostre analisi, ma piuttosto la nostra conoscenza dei risultati alla
luce della nostra storica esperienza umana».
Ulteriori riflessioni su questo problema potrebbero indurre a mio avviso a
porre una tripartizione fra “grammatica”, “uso” e “sociale” e non la semplice bipar-
tizione solita fra “grammatica” da una parte e “uso/sociale” dall’altra. L’approccio
formale arriva dalla grammatica all’uso, ma non raggiunge il sociale. In secondo
luogo, è interessante notare che una carenza di “significato sociale” per quel che ri-
guarda proprio la variazione sintattica, che è al centro del dibattito fra formalisti e
variazionisti, viene affermata nello stesso campo variazionista. Meyerhoff (2013, p.
33), infatti, nota a proposito della «relationship between social factors and syntactic
42 GAETANO BERRUTO
variables» che, a differenza della variazione fonetica, «often there is a complete ab-
sence of social constraint on syntactic variation»; e riporta tale caratteristica
all’essere la sintassi situata a un livello più profondo che non la fonetica: «syntactic
knowledge lies below our levels of conscious awareness» ed è poco soggetta
all’attenzione sociale (p. 34).
Ma a me pare che questa scarsa sensibilità al sociale della variazione sintattica
sia ben lungi dall’essere un fatto veramente acquisito. Si tratta presumibilmente di
una generalizzazione che dipende anche dalla natura e fenomenologia che assume
la variazione in inglese. Non si può infatti non constatare che le indagini formaliste
sulla variazione hanno come oggetto centrale situazioni anglofone, e, prendendo
come paradigmatico il caso dell’inglese, trascurano in genere il fatto che la varia-
zione può assumere connotati ben diversi a seconda delle lingue e delle comunità
linguistiche considerate. Per restare nella situazione italo-romanza, è invece evi-
dente come numerose e importanti variabili sintattiche e morfosintattiche (quali la
costruzione della proposizione relativa, il doppio complementatore, la negazione
doppia/semplice, accordi abnormi, costrutti frasali con tema sospeso, vari fenomeni
riguardanti i pronomi clitici, e via discorrendo)12 manifestino spiccato significato
sociale. La concentrazione sull’inglese e su comunità anglofone può quindi da un
lato facilmente oscurare tipi di fenomeni che semplicemente vi appaiono poco o
non appaiono, e portare a iperinterpretare i tratti caratteristici della dispersione e
della collocazione sociale della variazione tipica di Gran Bretagna e Stati Uniti; e
dall’altro condurre a generalizzazioni assolute basate appunto sull’esame della sola
situazione dell’inglese assunta tacitamente come paradigmatica13. Su questo punto
c’è quindi da concordare perfettamente con quanto osservano Manzini, Savoia
(2011, p. 225):
the view we take is that it is the linguistic situation of, say, Britain that represents a
somehow misleading picture of variation, reflecting not only the internal shaping forces
of language development but also external mechanisms of social and political stand-
ardization.
12
In Cerruti (2009) è trattata la distribuzione sociale di una serie di fenomeni morfosintattici
che si riscontrano nell’italiano di Torino.
13
Un esempio per altri versi di tale distorsione ottica è dato da alcuni dei contributi in Filp-
pula, Klemola, Paulasto (2009), che, sulle orme di Chambers (2004), postulano e trattano di Ver-
nacular Universals (universali delle varietà vernacolari, substandard) unicamente in riferimento
all’inglese, con una palese contraddizione circa il termine “universali”.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 43
negli anni Settanta e primi anni Ottanta fra i sociolinguisti angloamericani, prima di
tutti ovviamente Labov, e poi Bailey, D. Sankoff, Romaine e altri, circa le regole
variabili e la loro integrazione nella grammatica. Vengono infatti rimessi in auge e
riproposti su tutt’altra base e con diverso approccio assunti del dibattito avutosi nel
campo del variazionismo di matrice laboviana sulla realtà grammaticale delle regole
variabili e sul loro fare parte della competenza linguistica (cfr. Berruto, 1995, pp.
173-182). Una differenza sostanziale è però che nel presente le variabili trattate ap-
partengono alla sintassi, mentre negli anni Settanta dominavano le variabili fone-
tico-fonologiche, con qualche excursus nella morfologia.
Da tutto questo fervore di riscoperta vengono indubbiamente guadagni reci-
proci per i formalisti e per i sociolinguisti. Che cosa guadagnano i sociolinguisti da
ciò che fanno i formalisti? Anzitutto, vedono riconosciuta in principio l’importanza
della variazione nel sistema linguistico, non più relegata a epifenomeno di superfi-
cie; ed è indubbiamente un risultato notevole. In secondo luogo, l’interazione fra
teoria sintattica e analisi variazionista fa sì che i sociolinguisti possano avere a di-
sposizione analisi di fenomeni di variazione condotte in maniera dettagliata e raffi-
nata, in termini di linguistica interna, con grande guadagno di precisione e di rigore
nella descrizione, e di approfondimento nella definizione stessa della natura della
variazione. Un aspetto esterno potenzialmente molto interessante per i sociolinguisti
è poi che l’approccio qualitativo dei formalisti rappresenta sicuramente un utile an-
tidoto contro un eccessivo impiego di metodi quantitativi, molto e forse troppo cor-
renti nella sociolinguistica variazionista.
Che cosa guadagnano invece i formalisti da ciò che fanno i sociolinguisti?
Hanno input di dati reali raccolti con cura metodologica adeguata e “interpretati”
anche in termini “sociali”; e con la presa in considerazione della fenomenologia
della variazione sociolinguistica possono migliorare e affinare il loro apparato teo-
rico e descrittivo. Cardinaletti (2011), per es., analizzando la variazione presente in
italiano regionale veneto circa la sintassi del soggetto, che con i verbi transitivi e
intransitivi «può occupare la posizione preverbale anche quando rappresenta il fo-
cus della frase» (p. 262), mostra la necessità di riconsiderare la nettezza della di-
stinzione fra lingue cosiddette pro-drop e lingue non pro-drop introducendo una
terza categoria, le lingue a pro-drop non totale14.
Rimane però fra le due prospettive un certo scollamento presumibilmente in-
sanabile: in virtù del necessariamente scarso peso che hanno le componenti pro-
priamente sociali nel lavoro dei formalisti, non c’è infatti una vera co-azione nel
migliorare e determinare un aumento delle conoscenze delle interrelazioni proprie
fra lingua e società. Non c’è peraltro da stupirsi se gli approcci formali non cercano
il significato sociale nei loro dati, poiché in effetti questo non interessa loro vera-
14
Un raffinamento, quando non un cambiamento, di categorie del modello è proposto anche
in altri apporti italiani della linguistica formale allo studio della variazione, per es. in lavori di P.
Benincà.
44 GAETANO BERRUTO
mente. La innegabile grande novità di questi studi per il campo formalista sta infatti
nello studiare la lingua anche nell’uso, anche, e anzi in primo luogo, in corpora
empirici di produzioni e giudizi linguistici. Sono gli approcci sociolinguistici, ov-
viamente, ad essere per principio interessati al significato sociale e a focalizzarsi su
questo. Col che si torna al punto di partenza, che vede ragionevole in tema di studio
della variazione una corretta divisione di compiti fra linguisti interni e sociolinguisti
in base alla natura degli oggetti da esplorare e spiegare e agli obiettivi della spiega-
zione. La grammatica generativa analizza e spiega delle competenze; la sociolingui-
stica analizza e spiega dei comportamenti. I sociolinguisti non possono essere com-
petitori “interni” nella formulazione di modelli formali della variazione.
Dietro i problemi che abbiamo discusso c’è poi, in ultimo, anche la grande
questione generale che oppone il biologico e il sociale nella lingua, e più ampia-
mente il formalismo e il funzionalismo in linguistica. Mi rendo conto che prendere
una posizione netta in proposito può anche essere il frutto, o presentare aspetti, di
scelta ideologica, o anche di professione di fede, invece che il riconoscimento e
l’accettazione di prove empiriche incontrovertibili o di modelli esplicativi inattac-
cabili. Dal punto di vista qui pertinente, insomma, si porrebbe la domanda seguente:
che il modulo mentale del linguaggio (cioè, tout court, la grammatica) non possa
includere informazione non linguistica è un atto di fede, una posizione ideologica, o
un risultato indiscusso confortato dai dati empirici? In ogni caso, mi paiono però da
condividere gran parte degli argomenti addotti per es. da Newmeyer (2003) per
motivare ancora una volta la separazione fra grammatica e uso. In particolare, per il
problema che ci interessa qui, concordo che «for some purposes […] statistical in-
formation can be extremely valuable», ma che questo non autorizza affatto a dire
che «corpus-derived statistical information is relevant to the nature of the grammar
of any individual speaker» e tanto meno che «grammars should be constructed with
probabilities tied to constructions, constraints, rules, or whatever» (Newmeyer,
2003, p. 695).
Mi sembra invece capziosa una parte degli argomenti avanzati per es. da Lom-
bardi Vallauri (2012) per respingere l’approccio formale a vantaggio di quello fun-
zionale; ma qui il discorso diventerebbe lungo, e non strettamente congruente con il
tema della presente discussione15. Considero comunque la lingua e il comporta-
mento linguistico – e non ho incontrato nei quarantacinque anni dacché frequento
territori della linguistica alcun argomento inconfutabilmente valido contro questa
concezione – un insieme particolarmente complesso di diversi piani e di diversi
fattori, biologici, culturali, sociali, tra loro intimamente fusi e ciascuno meritevole
di attenzione e indagine. C’è posto per tutti, nella divisione compartecipativa del la-
voro che è auspicabile nella linguistica – e tutte le prospettive possono utilmente
15
Una vivace ed equilibrata presentazione di pregi e difetti dei due approcci, formalista vs.
funzionalista, con individuazione dei rispettivi campi elettivi e della conseguente divisione del
lavoro, è in Bertinetto (1998).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 45
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Adger David, Combinatorial variability, «Journal of Linguistics», a. 42, 2006, pp. 503-530.
Adger David, Smith Jennifer, Variation and the minimalist program, in Cornips, Corrigan (a
cura di), 2005, pp. 149-178.
Adger David, Smith Jennifer, Variation in agreement: A lexical feature-based approach,
«Lingua», a. 120, 2010, pp. 1109-1134.
Auer Peter, Co-Occurrence Restrictions between Linguistic Variables. A Case for Social Di-
alectology, Phonological Theory and Variation Studies, in Hinskens Frans, van Hout
Roeland, Wetzels W. Leo (a cura di), Variation, Change and Phonological Theory, Am-
sterdam/Philadelphia, Benjamins, 1997, pp. 69-99.
Barbiers Sjef, Word order variation in three verb-clusters and the division of labour between
generative linguistics and sociolinguistics, in Cornips, Corrigan (a cura di), 2005, pp.
233-264.
Bayley Robert, Lucas Ceil (a cura di), Sociolinguistic Variation. Theories, Methods, and Ap-
plications, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
Benincà Paola, La variazione sintattica. Studi di dialettologia romanza, Bologna, il Mulino,
1994.
Benincà Paola, Damonte Federico, Varianti sintattiche inter- e intra-individuali nelle gram-
matiche dialettali, in Amenta Luisa, Paternostro Giuseppe (a cura di), I parlanti e le loro
storie. Competenze linguistiche, strategie comunicative, livelli di analisi, Palermo, Cen-
tro di studi filologici e linguistici siciliani, 2009, pp. 185-194.
Benincà Paola, Tortora Christina, Grammatica generativa e variazione, «Studi italiani di lin-
guistica teorica e applicata», a. XL, n. 2, 2011, pp. 233-258.
Berruto Gaetano, Fondamenti di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza, 1995.
Berruto Gaetano, Noterelle di teoria della variazione sociolinguistica, in Werner Edeltraud,
Liver Ricarda, Stork Yvonne, Nicklaus Martina (a cura di), et multum et multa. Fes-
tschrift für Peter Wunderli zum 60. Geburtstag, Tübingen, Narr, 1998, pp. 17-29.
Berruto Gaetano, Sul posto della variazione nella teoria linguistica, «Linguistica», a. XLIX,
n. II, 2009a, pp. 9-24.
Berruto Gaetano, Περί συντάξεως. Sintassi e variazione, in Ferrari Angela (a cura di), Sin-
tassi storica e sincronica dell’italiano. Subordinazione, coordinazione, giustapposizione,
3 voll., Firenze, Cesati, 2009b, pp. 21-58.
Bertinetto Pier Marco, ‘Centro’ e ‘periferia’ del linguaggio. Una mappa per orientarsi, in Mag-
gi Daniele, Poli Diego (a cura di), Modelli recenti in linguistica, Roma, Il Calamo, 2003, pp.
157-211 (ristampato in Id., Adeguate imperfezioni, Palermo, Sellerio, 2009, pp. 84-126).
Cardinaletti Anna, La variazione diatopica delle costruzioni con soggetto di nuova informa-
zione, «Studi italiani di linguistica teorica e applicata», a. XL, n. 2, 2011, pp. 259-275.
Cardinaletti Anna, Munaro Nicola (a cura di), Italiano, italiani regionali e dialetti, Milano,
46 GAETANO BERRUTO
FrancoAngeli, 2009.
Cerruti Massimo, Strutture dell’italiano regionale. Morfosintassi di una varietà diatopica in
prospettiva sociolinguistica, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2009.
Chambers Jack R., Dynamic typology and vernacular universals, in Kortmann Bernd (a cura
di), Dialectology Meets Typology: Dialect Grammar from a Cross-Linguistic Perspec-
tives, Berlin-New York, de Gruyter, 2004, pp. 127-145.
Cheshire Jenny, Syntactic variation and spoken language, in Cornips, Corrigan (a cura di),
2005, pp. 81-106.
Chomsky Noam, The Minimalist Program, Cambridge (Mass.), MIT, 1995.
Cornips Leonie, Corrigan Karen P. (a cura di), Syntax and Variation. Reconciling the Biolo-
gical and the Social, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins, 2005.
Dittmar Norbert, Potere descrittivo ed esplicativo delle regole nella sociolinguistica, in
Dittmar Norbert, Variatio delectat. Le basi della sociolinguistica, Galatina, Congedo,
1989, pp. 115-154 (trad. it. di Descriptive and explanatory power of rules in sociolingui-
stics, in Bain Bruce (a cura di), The Sociogenesis of Language and Human Conduct, Lon-
don, Routledge, 1983).
Filppula Marku, Klemola Juhani, Paulasto Heli (a cura di), Vernacular Universals and Lan-
guage Contact. Evidence from Varieties of English and Beyond, London, Routledge, 2009.
Green Lisa, Syntactic variation, in Bayley, Lucas (a cura di), 2007, pp. 24-44.
Guy Gregory, Variation and phonological theory, in Bayley, Lucas (a cura di), 2007, pp. 5-23.
Haddicon Bill, Plunkett Bernadette, Editorial. Formalising syntactic variability: Context and
issues, «Lingua», a. 120, 2010, pp. 1057-1061.
Hasty J. Daniel, We might should be thinking this way: Theoretical and methodological con-
cerns in studies of syntactic variation, in corso di stampa in Zanuttini Raffaella (a cura di),
Microsyntactic variation in North-American English, New York, Oxford University Press.
Henry Alison, Idiolectal variation and syntactic theory, in Cornips, Corrigan (a cura di),
2005, pp. 109-123.
Hudson Richard, Sociolinguistics and the theory of grammar, «Linguistics», a. 24, 1986, pp.
1053-1078.
Hudson Richard, Inherent variability and Minimalism. Comments on Adger’s ‘Combinatorial
variability’, «Journal of Linguistics», 43, 2007, pp. 683-694.
Kayne Richard S., Microparametric Syntax: Some Introductory Remarks, in Black James R.,
Motapanyane Virginia (a cura di), Microparametric Syntax and Dialect Variation, Am-
sterdam/Philadelphia, Benjamins, 1996, pp. ix-xviii.
Klein Wolfgang, Ein Blick zurück auf die Varietätengrammatik, «Sociolinguistica», a. 12,
1998, pp. 22-38.
Kroch Anthony, Morphosyntactic variation, in Beals Katharine, Denton Jeannette, Knippen
Robert (a cura di), Papers from the 30th Regional Meeting of the Chicago Linguistics So-
ciety, vol. 2, Chicago, Chicago University Press, 1994, pp. 180-201.
Labov William, Contraction, deletion, and inherent variability of the English copula, «Lan-
guage», a. 45, 1969, pp. 715-762.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 47
Lombardi Vallauri Edoardo, In che forma il linguaggio non è nel cervello, in Bertinetto Pier
Marco, Bambini Valentina, Ricci Irene & collaboratori (a cura di), Linguaggio e cervello
- Semantica / Language and the brain - Semantics, Atti del XLII Convegno della Società
di Linguistica Italiana (Pisa, Scuola Normale Superiore, 25-27 settembre 2008), Roma,
Bulzoni, volume 2 (CD ROM).
Loporcaro Michele, Italian dialects in a minimalist perspective, «Rivista di Lingui-
stica/Italian Journal of Linguistics», a. 19, n. 2, 2007, pp. 327-366.
Manzini Maria Rita, Savoia Leonardo M., I dialetti italiani. Morfosintassi generativa, 3 voll.,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005.
Manzini Maria Rita, Savoia Leonardo M., A Unification of Morphology and Syntax. Investi-
gation into Romance and Albanian dialects, London/New York, Routledge, 2007.
Manzini Maria Rita, Savoia Leonardo M., (Bio)linguistic variation: have/be alternations in
the present perfect, in Di Sciullo Anna Maria, Boeckx Cedric (a cura di), The Biolingui-
stic Enterprise: New Perspectives on the Evolution and Nature of the Human Language
Faculty, Oxford, Oxford University Press, 2011, pp. 222-265.
Meyerhoff Miriam, Syntactic variation and change. The variationist framework and lan-
guage contact, in Léglise Isabelle, Chamoreau Claudine (a cura di), The Interplay of
Variation and Change in Contact Settings, Amsterdam/Philadelphia, Benjamins, 2013,
pp. 23-51.
Nevins Andrew, Parrott Jeffrey K., Variable rules meet Impoverishment theory: Patterns of
agreement leveling in English varieties, «Lingua», a. 120, 2010, pp. 1135-1159.
Newmeyer Frederick J., Grammar is grammar and usage is usage, «Language», a. 79, n. 4,
2003, pp. 682-707.
Parry Mair, Parluma ‘d Còiri. Sociolinguistica e grammatica del dialetto di Cairo Monte-
notte, Savona, Editrice Liguria, 2005.
Savoia Leonardo M., Micro-variazione nella morfosintassi del sintagma nominale arbëresh,
in Savoia Leonardo M., Studi sulle varietà arbëreshe, Università della Calabria, Diparti-
mento di Linguistica, 2008, pp. 63-109.
Savoia Leonardo M., Manzini Maria Rita, Variazione sintattica nel costrutto ausiliare ar-
bëresh. La variazione come problema teorico, in Consani Carlo, Desideri Paola (a cura
di), Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori, Roma, Carocci, 2007, pp.
85-102.
Tortora Christina, Addressing the problem of intra-speaker variation for parametric theory,
in corso di stampa in Zanuttini Raffaella (a cura di), Microsyntactic variation in North-
American English, New York, Oxford University Press.
Wilson John, Henry Alison, Parameter setting within a socially realistic linguistics, «Lan-
guage in Society», a. 27, 1998, pp. 1-21.
ROSANNA SORNICOLA
(Università Federico II-Napoli)
1
Rinvio, al riguardo, alla voce “emozione” dell’Enciclopedia Treccani.
50 ROSANNA SORNICOLA
dall’importante lavoro dello psicologo olandese Frijda, secondo cui l’emozione può
essere rappresentata come una modifica della prontezza all’azione, che ha per fine
la modifica della relazione tra l’individuo e l’ambiente. Queste alterazioni sono in
rapporto a cambiamenti degli stati di motivazione e di comportamento, a loro volta
associati ad eventi esterni di diverso grado di desiderabilità per l’individuo, che agi-
scono in maniera positiva o negativa sul soddisfacimento dei suoi interessi e sono
più o meno congruenti con i suoi schemi cognitivi e le sue aspettative2.
Ma fino a dove si può avventurare il linguista nell’esame di dinamiche così
complesse e che richiedono ancora esplorazioni da parte degli psicologi? Forse è
destinato a non andare molto lontano ma, quantomeno, attraverso un rapido quadro
delle idee sulle emozioni nel suo campo di indagine può cercare di comprendere
opportunità e limiti del problema su cui ci interroghiamo. Una osservazione però si
impone subito: la domanda sull’opportunità di una linguistica delle emozioni non
può eluderne un’altra: se si concludesse che abbiamo bisogno di una tale lingui-
stica, sarebbe possibile realizzarla? La storia della linguistica, come cercherò di ar-
gomentare tra poco, mostra che non è scontato che entrambe le domande poste ab-
biano una risposta facile, e tantomeno positiva.
2
All’inizio della sua monografia sulle emozioni, Frijda (1986, p. 2) parte da una definizione
del tutto preliminare: «Emotion can be provisionally defined as the inner determinant of non-in-
strumental behaviour and non-instrumental aspects of behaviour… Emotional behaviour can provi-
sionally be defined as that behaviour itself». Tuttavia alla fine del lavoro egli elabora tre definizioni
di livello crescente di restrittività. Per la prima «emotion is action readiness change», per la
seconda «emotion proper is relational action tendency and change in relational action tendency in
general», per la terza «emotion can be defined as action readiness change in response to
emergencies or interruptions and this action readiness change itself might be restricted to
activations and deactivations of actual, overt, response» (Frijda, 1986, p. 474).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 51
Mais ici comme ailleurs, je trouve un certain penchant à tracer des séparations si rigou-
reuses qu’elles ne répondent pas entièrement à la vie concrète de la langue, avec ses
nuances infinies qui, en dernière analyse, reposent sur le fait que les hommes, même en
parlant, sont loin de se montrer rationnels et pleinement conséquents (Jespersen, 1933, p.
113).
3
Jespersen mutua la definizione della linguistica di Saussure come una linguistica “del re-
golo e del compasso” da Meillet (1952-1965, 2, p. 177, p. 222).
4
Esistevano tuttavia differenze tra gli appartenenti al Circolo di Praga, su questo e su altri
aspetti: si veda Sornicola (1995); Vachek, Sornicola (2003).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 53
studi sull’ordine delle parole, e in particolare su quei processi che oggi sono chiamati
di focalizzazione, o alla ricerca sulle particelle enfatizzanti e amplificanti. Per la pro-
sodia si può ricordare lo stretto rapporto tra altezza, intensità, durata e i comporta-
menti espressivi dei parlanti. Ma possono essere influenzati anche ambiti come la
morfologia e il lessico, come è evidenziato dai morfemi diminutivi, dal “grading” ag-
gettivale5 e dagli impieghi di queste strutture nei contesti di uso affettivo.
Non è privo di interesse, inoltre, che al principio di espressività si appelli lo
stesso Meillet, uno studioso che non era certo a sfavore di una linguistica del regolo
e compasso. Nel suo importante articolo sull’evoluzione delle forme grammaticali,
che ha segnato una tappa iniziale importante della moderna teoria della grammati-
calizzazione, tale principio costituisce la chiave esplicativa del processo parallelo di
indebolimento di forma e significato delle parole, che dà luogo alla loro perdita di
valore lessicale e al loro sviluppo in morfemi grammaticali, liberi o legati:
A chaque fois qu’un élément linguistique est employé, sa valeur expressive diminue et
la répétition en devient plus aisée. Un mot n’est ni entendu ni émis deux fois exacte-
ment avec la même intensité de valeur. C’est l’effet ordinaire de l’habitude. Un mot
nouveau frappe vivement la première fois qu’on l’entend; dès qu’il a été répété, il perd
sa force, et bientôt il ne vaut pas plus qu’un élément courant depuis longtemps (Meillet,
1952-1965, 1, p. 135).
Questa spiegazione della dinamica del processo riposa sul principio psicolo-
gico del decadimento dell’espressività nella comunicazione, sia per quanto riguarda
il parlante che l’ascoltatore. Sebbene lo studioso francese menzioni entrambi come
attori in campo, l’ascoltatore sembra giocare implicitamente un ruolo di maggior
importanza nell’indebolimento di espressività. Non si tratta, peraltro, dell’unico
punto alquanto nebuloso. Meillet non definisce con chiarezza che cosa sia
l’espressività. Come si vede dal passo citato, essa sembra sinonimo di ‘valore inten-
sivo’, ma potrebbe essere interpretata anche come una non meglio identificata forza
emotiva dell’emittente che colpisce l’ascoltatore durante la comunicazione. D’altra
parte, l’espressività si potrebbe intendere come un principio opposto a quello della
‘abitudinarietà’, e in tal senso essa si contrapporrebbe alle frasi fatte e ai clichés che
usano la maggior parte dei parlanti e degli scriventi6.
Ma il problema di indeterminatezza della definizione è più generale. In verità,
si deve osservare che le definizioni dei fattori emotivi fornite nello studio descrit-
tivo e teorico di problemi di ambiti e natura così diversi, come quelli precedente-
mente menzionati, soffrono tutte di una notevole mancanza di chiarezza. Talora il
termine “emotivo” è usato in maniera intercambiabile con “affettivo”, talaltra sem-
bra coincidere con “espressivo” (in alcuni esponenti del Circolo di Praga, come
5
Il concetto di “grading” fu elaborato da Sapir: rinvio a Sapir (1949).
6
Si veda Meillet (1952-1965, 1, p. 135).
54 ROSANNA SORNICOLA
7
Si veda Mathesius (1924); per Jakobson rinvio alle osservazioni in Burke (2006, p. 127).
8
Su questo rapporto tra “emotivo” e “affettivo” si veda Burke (2006, p. 127).
9
Per la definizione complessiva di questa nozione si veda Hymes (1972).
10
Si veda Hymes (1974, specialmente pp. 57-58 e p. 62).
11
Per un esame del pensiero di Bally e Mathesius al riguardo rinvio a Sornicola (2001).
12
Sono interessanti le discussioni di questo tema in Lyons (1977, 1, pp. 190-191). Si veda
anche l’esame dei concetti di “modulation” e “attitudinal colouring” condotto dallo studioso in-
glese all’interno del trattamento dei fenomeni paralinguistici (Lyons, 1977, 1, pp. 64-65). Per la
teoria del modo e della modalità di Halliday rinvio ad Halliday (1976). Per un punto di vista più
recente su tutti questi problemi si veda l’importante articolo di Caffi, Janney (1994).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 55
13
Si veda Burke (2006, p. 127).
14
Per un esame di queste tradizioni e della loro importanza per i problemi che stiamo qui di-
scutendo rinvio a Sornicola (2002a); Sornicola (2002b).
56 ROSANNA SORNICOLA
The idea (which can still be found in the public debate about multilingualism today, and
had respectable supporters within linguistics even 50 years ago) that multilingualism is
detrimental to a person’s cognitive and emotional development can be traced back to this
ideology, as can the insistence on ‘pure’ language and ‘pure’, ‘non-mixed’ speech: it goes
back to the purism debate which accompanied the emergence of the European standard
languages, above all in the 17th, 18th, and 19th centuries (Auer, Wei, 2007a, p. 3).
15
Questo tipo di atteggiamento è stato descritto in numerosi studi dialettologici.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 57
Secondo i due studiosi i problemi causati dal multilinguismo «are not ‘natural’
problems which are inherent to multilingualism itself: rather, they arise out of a
certain context in which this multilingualism is seen as a problem, or rather creates
a problem» (Auer, Wei, 2007a, p. 3). Può darsi che, nel tentativo di superare le
ideologie che concepiscono il monolinguismo come una situazione desiderabile,
questo punto di vista ecceda in senso opposto, dando vita ad una sorta di “mistica”
del multilinguismo.
Il multilinguismo è un bene o un male? Posta così la questione, è difficile che
possa trovare risposte scientificamente attendibili. Sembra semplicemente un pro-
blema mal posto. Le tesi secondo cui l’esposizione a più lingue e la pratica in pa-
rallelo di queste provocherebbe danni appaiono ingenue e prive di solidità scienti-
fica, ma una cosa è rigettarle, un’altra negare che il multilinguismo possa indurre
problemi emotivi e cognitivi, oltre che sociali16. Bisogna ammettere con franchezza
che, accanto ad aspetti positivi, il multilinguismo comporta anche non poche diffi-
coltà. Negare che un individuo bilingue (multilingue) e il suo contesto familiare e
sociale siano spesso più esposti a difficoltà emotive e di interazione sociale equivar-
rebbe a chiudere gli occhi su realtà che hanno una forza e una consistenza empiri-
camente verificabili attraverso l’esame di situazioni storiche, geografiche e culturali
diverse. Ciò non vuol dire che tali difficoltà costituiscano di per sé uno svantaggio,
e tanto meno un danno. Come è noto, le tensioni emotive possono innescare nei
soggetti che le vivono positive reazioni dinamiche, che si traducono in prassi van-
taggiose sia sul piano personale che sociale. Una celebrazione acritica e per così
dire “trionfalistica” del multilinguismo dovrebbe essere respinta, non meno dei pre-
giudizi sugli effetti negativi del bilinguismo eletti a generalizzazioni scientifiche.
Bisognerebbe anche evitare, mi sembra, di assegnare a fenomeni come il code-swit-
ching e il code-mixing valori funzionali positivi in assoluto. È innegabile che le ri-
cerche sociolinguistiche condotte sull’arco di vari decenni abbiano dimostrato il ca-
rattere non casuale, ma strutturato, di questi fenomeni. Ed è possibile che essi ab-
biano una funzionalità positiva all’interno degli eventi comunicativi. Lascia però
perplessi la tesi più generale secondo cui in contesto multilingue «code-switching
as a conversational strategy… can frame (contextualise) utterances in the same way
in which monolinguals use prosody or gesture to contextualise what they say»17.
16
Auer e Wei hanno richiamato l’attenzione sull’importanza e la complessità di alcuni
problemi relativi all’educazione scolastica bi- e multilingue (“bi- and multi-literacy”), di cui si dis-
cute in uno dei capitoli dello Handbook: «The crucial question here is whether schooling in the mi-
nority (mother) language only will enable the children to transfer the literacy skills acquired during
this period to the majority language in which they are needed to be successful in the monolingual
school system in the long run, and whether schooling in the majority language only will lead to
‘semilingualism’ in the minority language, which in turn will also negatively influence L2 skills»
(Auer, Wei, 2007a, p. 6).
17
Auer, Wei (2007a, p. 8). I due studiosi esprimono un punto di vista sulla positività del
code-switching come strategia conversazionale che è difeso anche da Gafaranga (2007).
58 ROSANNA SORNICOLA
18
Sembrano ad esempio convincenti le considerazioni problematiche avanzate da Stroud
(2007).
19
Gli studi di Anderson al riguardo furono collegati ad un progetto dell’Institute for Social
Sciences dell’Unesco, con sede a Colonia, che si protrasse dalla fine degli anni ’50 ai primi anni
’60 del secolo scorso.
20
«Throughout the world, wherever languages meet, people are confronted with communica-
tion problems, and these make for tensions» (Anderson, 1969, p. 1).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 59
Compared with other types of social conflict, those concerning language are of a special
order. They are painful and harsh in the most intimate sense. Such an issue touches
people vitally and completely. For the man of learning, language disturbance is far less
serious than for one of little learning. It is the ordinary people who are most hurt if their
language is threatened, and their reactions are likely to be extreme. For the peasant or
the unskilled worker language change is like turning back the clock and beginning the
learning process anew (Anderson, 1969, p. 2).
Per Anderson, le ragioni della fenomenologia descritta risiedono nel fatto che
la lingua è parte fondamentale di quella creazione sociale che è la personalità, anzi
essa è «the most permeating element in all internalized thought and habitual beha-
vior» (Anderson, 1969, p. 2). Il carattere pervasivo dell’esperienza di apprendi-
mento linguistico è paragonato all’“ingresso in una nuova esistenza” (Anderson,
1969, p. 3). Questa profonda interpenetrazione di lingua e personalità, il cui svi-
luppo procede di pari passo, ha delle conseguenze di capitale importanza, che sono
descritte dal sociologo americano con felice incisività e notevole senso psicologico.
Nessun linguista dotato di sensibilità umana, e che abbia avuto lunga espe-
rienza di osservazione e analisi di parlanti esposti a condizioni di diversità lingui-
stica, potrebbe fare a meno di concordare: l’apprendimento di una lingua è il primo
compito difficile con cui ognuno si confronta nella vita e chiedere alle persone di
cambiare lingua comporta necessariamente una sorta di sradicamento da una situa-
zione precedente e una ricollocazione nella nuova. Anderson richiama l’attenzione
su un ampio spettro di importanti dinamiche cognitive, emotive e sociali. Per
quanto riguarda le dinamiche emotive, in particolare, egli ricorda la sofferenza che
può provocare la percezione dell’imperfetto apprendimento e la sensazione di disa-
gio e inadeguatezza nell’uso di una nuova lingua. Altro sentimento che può scattare
è l’orgoglio offeso, quando i parlanti abbiano la sensazione che la loro lingua madre
sia considerata di minore prestigio rispetto ad un’altra che le si oppone in un deter-
minato contesto21.
Sul piano sociale, Anderson sottolinea l’importanza del rapporto tra lingua e
aspetti culturali più ampi, come il folklore e la letteratura orale. Queste forme sim-
boliche in cui una lingua trova espressione in maniera vitale hanno spesso un’alta
valenza affettiva per un intero popolo, che riconosce in esse delle manifestazioni di
memoria e identità collettiva per le quali sente un attaccamento profondo. Tali
aspetti culturali che fanno da collante di una comunità possono avere un ruolo nelle
“sfere della vita e del godimento”, come testimoniano alcuni interessanti casi di
studio discussi da Anderson: l’uso dell’armeno come lingua degli incontri e delle
riunioni di festa delle comunità armene della diaspora, il radicamento del tedesco
nelle minoranze linguistiche della Danimarca, favorito anche dall’attaccamento al
21
Su tutti questi problemi si veda Anderson (1969, p. 3).
60 ROSANNA SORNICOLA
valore simbolico della tradizione musicale tedesca22. Sembrano dunque del tutto
persuasive le conclusioni che «a language is not destroyed merely because it does
not dominate political affairs. It may continue to have a voice in politics… Nor is a
language destroyed merely because it is not the principal medium of communica-
tion in the sphere of work» (Anderson, 1969, p. 10). Specialmente persuasive ap-
paiono le seguenti considerazioni, che assegnano un ruolo fondamentale ai fattori
sentimentali ed espressivi nella sopravvivenza di una lingua, anche in condizioni
socio-politiche svantaggiate, come quelle degli Armeni o della popolazione au-
striaca del Tirolo italiano, tenacemente attaccata alla sua lingua e alla sua cultura:
For any language, the satisfactions that count relate to the enjoyment aspects of living;
fantasy, romance, tall tales that amuse, the ordinary banter that goes on between friends,
the subtle and biking humor that often pervades conversation, the double talk that finds
expression in gossip, the fine art of indirection by which men make their wants known
or by which they reject or accept the advances of others. These skills one learns to dis-
play in the use of language are his to the full when he uses his mother tongue. One
learns them from childhood. They cannot be easily and naturally transferred to a second
language, unless that language too is used in childhood (Anderson, 1969, p. 5).
A parte Anderson, che pure era un sociologo piuttosto che un linguista, sem-
brerebbe che sino a poco tempo fa i linguisti siano stati incapaci di maturare sinto-
nia e consapevolezza profonde per quanto riguarda i fattori emotivi, affettivi ed
espressivi intrecciati a situazioni di bi- e multilinguismo. Se anche questi fattori
sono stati menzionati in vari studi, hanno latitato analisi complessive che rappre-
sentassero adeguatamente l’ampio spettro di casistiche al riguardo e, soprattutto,
che dai risultati traessero tutte le implicazioni possibili per i problemi di pianifica-
zione linguistica. Occupati ad usare il regolo e il compasso sui dati linguistici e a ri-
durre le persone a statistiche, non di rado gli studiosi di multilinguismo hanno
messo in secondo piano dietro i dati gli individui, il loro vissuto emotivo ed imma-
ginativo.
In un certo senso si potrebbe dire che sino a tempi relativamente recenti sono
stati piuttosto alcuni scrittori a produrre raffinate descrizioni della fenomenologia
emotiva ed affettiva dei parlanti multilingui. Ricordo ad esempio i bellissimi passi
de La lingua salvata di Elias Canetti, in cui questa fenomenologia costituisce il ba-
ricentro attorno a cui si dipana la narrazione. Il racconto si può considerare
l’autobiografia linguistica di un ebreo sefardita, vissuto tra mondi e lingue diverse,
che in questa particolare condizione esistenziale ha trovato la cifra unica della sua
personalità e di un destino condiviso con altri ebrei sefarditi: «Delle lingue si di-
scuteva spesso, solo nella nostra città si parlavano sette o otto lingue diverse e tutti
22
Si veda Anderson (1969, pp. 4-5). Ognuno di questi casi è analizzato in maniera articolata
da singoli autori in un capitolo del volume. L’articolo di Anderson anticipa le varie analisi partico-
lari all’interno di una riflessione teorico-metodologica di più ampio respiro.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 61
capivano qualcosa di ciascuna; soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non
sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide. Ognuno enumerava
le lingue che conosceva; era importante padroneggiarne parecchie, con la cono-
scenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui» (Ca-
netti, 1977, p. 45). L’ebraico era la lingua del rito e della tradizione culturale:
Di tutte le favole che mi furono raccontate, mi sono rimaste impresse soltanto quelle dei
lupi mannari e dei vampiri… Le ho ascoltate in bulgaro, ma le conosco in tedesco, e
questa misteriosa trasposizione è forse la cosa più singolare che io possa raccontare
della mia infanzia… le ragazzine che lavoravano in casa parlavano soltanto bulgaro ed
è probabile che questa lingua io l’abbia imparata soprattutto con loro. Ma poiché non
frequentai mai una scuola bulgara e lasciai Rustschuk23 quando avevo solo sei anni, il
bulgaro l’ho ben presto completamente dimenticato. Tutti gli eventi di quei miei primi
anni si svolsero dunque in spagnolo o in bulgaro. In seguito mi si sono in gran parte tra-
dotti in tedesco. Solo eventi particolarmente drammatici, delitti e morti, per intenderci,
nonché i più grandi eventi della mia infanzia, mi sono rimasti impressi nella loro fra-
seologia spagnola, ma in modo estremamente preciso e indistruttibile. Tutto il resto,
vale a dire il più, e specialmente ciò che era bulgaro, come appunto le favole, me le
porto in testa in tedesco (Canetti, 1977, p. 22).
23
Rustschuk è una città portuale sul Danubio, in Bulgaria.
62 ROSANNA SORNICOLA
Avevo dunque i miei buoni motivi per sentirmi escluso quando i miei genitori comin-
ciavano quei discorsi. Quando parlavano così si facevano molto allegri e vivaci e io
collegavo questa trasformazione che percepivo con grande acutezza, al suono della lin-
gua tedesca. Stavo ad ascoltarli con la massima concentrazione e poi domandavo il si-
gnificato di questo e di quello. Loro ridevano e dicevano che era troppo presto, quelle
cose le avrei capite solo più avanti. Era già tanto che mi concedessero la parola “Wien”.
Io pensavo che discorressero di cose meravigliose, che si potevano dire soltanto in
quella lingua. Quando alla fine smettevo di mendicare invano una spiegazione, me ne
scappavo via infuriato, andavo in un’altra stanza che si usava raramente, e lì, cercando
di riprodurre esattamente il tono della loro voce, ripetevo tra me e me le frasi appena
ascoltate, e le pronunciavo come formule magiche esercitandomi più e più volte: tutte le
frasi e anche le singole parole che ero riuscito a captare, non appena ero solo le buttavo
fuori una dopo l’altra, ma talmente in fretta che certo nessuno avrebbe potuto capirmi.
Mi guardavo bene però dal farmi sentire dai miei genitori e, al loro segreto, contrapposi
il mio… Neppure per un attimo pensarono di sospettarmi, ma fra i molti intensi desideri
di quel tempo, il più intenso rimase per me quello di capire la lingua segreta dei miei
genitori. Non riesco a spiegarmi perché non ce l’avessi con mio padre. In compenso co-
vai un profondo rancore nei confronti di mia madre, un rancore che svanì soltanto
quando, alcuni anni più tardi, dopo la morte di lui, fu lei stessa ad insegnarmi il tedesco
(Canetti, 1977, p. 41).
24
Canetti descrive la lingua usata comunemente in famiglia come «uno spagnolo piuttosto anti-
quato che ho udito spesso anche in seguito e non ho mai più dimenticato» (Canetti, 1977, p. 22).
25
Sul racconto di Hoffman ha richiamato l’attenzione anche Dewaele (2007, pp. 111-112).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 63
26
Rinvio a Hoffman (1998, specialmente pp. 106, 115, 121, 146-147, 221, 245).
27
Dati interessanti relativi a biografie di migranti sono stati raccolti da Stavans (2001) e
Kinginger (2004).
28
Si veda Dewaele (2007, p. 102).
29
Si veda Pavlenko (2002) per una presentazione degli studi che seguono l’impostazione
delle autobiografie linguistiche. Tali studi, oggi piuttosto numerosi, hanno ben esplorato i muta-
menti di personalità e di identità associati al contatto e cambiamento di lingua a livello individuale.
64 ROSANNA SORNICOLA
stems are permanently in a state of flux… and that this variation is linked to envi-
ronmental factors as well as affective and emotional factors»30.
Per quanto riguarda la gestione di lingue diverse rispetto alla funzione emotiva,
sembra esistere un ampio consenso sul fatto che i parlanti bi- e multilingui abbiano
una compartimentalizzazione del repertorio, che si manifesta in vario modo. Alle
lingue in contatto sono associati stili emotivi diversi, che chiamano in causa com-
ponenti diverse della personalità31. La seconda lingua di adulti bi- e multilingui è
spesso descritta come più intellettuale, più precisa, più distaccata. Queste dinamiche
non sorprendono: i ricordi sono strutturati attraverso la lingua, che esercita un ruolo
decisivo anche nel processo di archiviazione delle sfumature emotive dell’espe-
rienza32. In base all’auto-osservazione del suo comportamento di bilingue, la stu-
diosa polacca Anna Wierzbicka, che al tema della codifica linguistica e culturale
delle emozioni ha dedicato interessanti lavori, ha rilevato l’incompatibilità della sua
L2, l’inglese, per esprimere il rapporto emotivo con la nipote, rapporto che è sem-
pre collegato al polacco (Wierzbicka, 2004, p. 100). Questa testimonianza trova ri-
scontri in altri risultati di ricerche da cui emerge che molti parlanti hanno notevoli
difficoltà a tradurre le espressioni emotive da una lingua all’altra (si veda Dewaele,
2007, p. 112). Il fattore principale che sembra guidare le scelte compiute per espri-
mere le funzioni emotive è la “lingua dominante”, che nella grande maggioranza
dei casi è la L133.
Tuttavia, per quanto forte sia la correlazione tra lingua dominante ed espres-
sione della emotività sarebbe erroneo ritenere che tale correlazione sia una “legge di
natura”. In particolari condizioni di acquisizione ed uso della L2 in contesto fami-
liare è possibile che le lingue che si sono venute a sovrapporre a quella materna
siano percepite dai parlanti come mezzi di validità uguale o persino superiore alla
L1, ai fini dell’espressione di emozioni. Richiamando l’attenzione su questa circo-
stanza, Pavlenko (2004, p. 200) ha osservato che i genitori bi- e multilingui che di-
chiarano di effettuare con i loro bambini commutazioni di codice in funzione emo-
tiva mostrano di avere repertori linguistici ampi e contesti culturali di scelte lingui-
stiche fluide. Più in generale, come nota Dewaele (2007, p. 122), «the preference
for particular languages to express emotions is linked to a myriad of independent
variables. Among the most important factors are the frequency of use of a language,
and – linked to that – the proficiency in that language». Per quanto riguarda le
scelte di termini con rilevanza emotiva, in particolare, è possibile che la situazione
di bilinguismo comporti un arricchimento delle potenzialità espressive: due mondi
30
Dewaele (2007, p. 109). L’affinità tra le dinamiche dei bi- e multilingui e quelle dei
monolingui è esplicitamente affermata da Dewaele (2007, p. 109).
31
Si veda ad esempio quanto sostiene al riguardo Besemeres (2004).
32
Questa tesi è stata sostenuta da Dewaele (2007, p. 119).
33
Studi condotti con metodi qualitativi e quantitativi integrati, come quelli di Dewaele, Pa-
vlenko (2001) indicano che per il 90% di un campione di circa 400 parlanti bilingui la lingua do-
minante è la L1. Si veda inoltre Dewaele (2004); Pavlenko (2006).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 65
34
Si veda ad esempio Panayiotou (2004).
35
Questi risultati sono discussi da Dewaele (2007, p. 117).
36
Si veda Dewaele (2007, p. 117).
66 ROSANNA SORNICOLA
A questo punto, per quanto mi riguarda, credo di poter dare una risposta affer-
mativa alla domanda: “Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni?” Più
difficile sarebbe affrontare l’altra questione posta inizialmente, ovvero se una lin-
guistica delle emozioni sia possibile. Gli studi sul multilinguismo, e più in generale
gli studi di sociolinguistica, dimostrano che esistono forse strade percorribili, anche
se non agevoli, empiricamente fondate su protocolli di osservazione di casi singoli e
costruzione di corpora di dati. Le ricerche dovrebbero però giustificare il fonda-
mento psicologico delle descrizioni fenomenologiche o delle analisi condotte a par-
tire da auto-osservazioni o auto-dichiarazioni dei parlanti. A livello teorico sarebbe
ancora più complesso trovare un ponte tra linguistica e psicologia per lo studio
dell’interazione tra fattori emotivi e strutture linguistiche. Questo passaggio non è
stato trovato per decenni, e a mio avviso comporta problemi la cui soluzione non
sembra essere a portata di mano.
La risposta alla domanda sull’opportunità di una linguistica delle emozioni, ad
ogni modo, è di per sé insufficiente. Credo che ci si potrebbe porre una terza que-
stione: “Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni, ma con quali obiet-
tivi?” Una prima risposta, ovvia, potrebbe essere che essa ci serve per approfondire
la conoscenza del funzionamento delle lingue e delle abilità dei parlanti. Lo ab-
biamo visto nel rapido esame della bibliografia recente presentato poco fa. Ma c’è
un’altra dimensione di ricerca in cui uno studio del multilinguismo che tenga conto
dei fattori emotivi ed affettivi potrebbe essere particolarmente utile: le politiche lin-
guistiche e i problemi di identità e appartenenza nel mondo globale contemporaneo.
La questione del ruolo dei fattori emotivi ed affettivi associati alle lingue oc-
cupa uno spazio non trascurabile, e in certi casi centrale, nella riflessione contempo-
ranea sugli aspetti linguistici della costruzione degli stati nazionali, dell’integra-
zione europea e dei processi di globalizzazione economica e culturale. Non si tratta
solo di una tendenza recente. Nell’età moderna, in Europa la dimensione del senti-
mento di attaccamento ad una lingua ha fatto parte della definizione dell’identità
nazionale e, in epoche più recenti, ha costituito uno dei possibili criteri per la con-
cessione della cittadinanza. Come ricorda Sue Wright, al criterio di “territorialità”,
formulabile come «you are there, therefore you are x or must become x», che
esprime il principio di cittadinanza di paesi come Francia, Inghilterra e Spagna, si
contrappone il criterio del “sangue e appartenenza”, radicato in paesi come la Ger-
mania e l’Italia: «One is born x, one cannot become x because membership of the
nation can only be inherited» (Wright, 2000, pp. 41 e 47). Il possesso di una cultura
e di una lingua condivisa riveste un ruolo particolarmente importante nelle tradi-
zioni culturali tedesca e italiana, e in qualche modo riflette dei valori emersi nei
processi di formazione dei relativi stati, attraverso complesse dinamiche di defini-
zione dell’identità nazionale. In ambienti di ricerca diversi trova ampi consensi
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 67
l’opinione che assume un concetto di identità multipla e mutevole, intesa come una
costruzione degli individui che può essere non solo vissuta a livello immaginativo
ed emotivo in maniera molto variabile, ma che può essere continuamente manipo-
lata nell’interazione con gli altri, con operazioni di “recita” di valori effettivamente
sentiti o dissimulati o finti37.
Quanto i già di per sé difficili concetti di identità culturale e di identità nazio-
nale siano in corso di ripensamento alla luce delle trasformazioni economiche, so-
ciali e politiche degli ultimi decenni, lo si può vedere nel dibattito sulla crisi educa-
tiva e linguistica che investe da tempo l’Unione Europea. Sembra molto interes-
sante al riguardo il concetto di “identité réflexive” di Pierre Judet de la Combe, una
identità concepita come “pratica” e non come “stato”: «C’est une manière ouverte,
questionnant, de se rapporter aux traditions, et non une appartenance à un ensemble
constitué» (Judet de la Combe, 2007, p. 32). L’identità riflessiva dunque non do-
vrebbe essere concepita come una “sostanza” che si oppone ad altre, ma come «un
intérêt commun, partagé par une culture, pour ce travail réflexif et critique portant
sur l’histoire» (Judet de la Combe, 2007, p. 32).
Un aspetto particolarmente interessante del dibattito sulle politiche linguistiche
in Europa riguarda il rapporto tra una concezione “utilitaristica” o “razionale” delle
lingue, in cui queste sono intese come strumenti delle funzioni denotativa e comu-
nicativa, e una concezione che vede le lingue come mezzi di espressione delle di-
versità culturali (la cui organizzazione profonda riposa, in ultima analisi, proprio
sulle diversità linguistiche) e come veicoli del legame viscerale che i parlanti hanno,
a livello cognitivo ed emotivo, con tali diversità. Questa polarizzazione interseca il
tema della dimensione emotiva ed affettiva del multilinguismo, caricandolo di
nuove implicazioni. Il legame tra le diversità culturali e linguistiche e la sfera dei
“sentimenti” dei parlanti si pone in contrasto con l’apprendimento utilitaristico e
razionale delle lingue, che conduce allo sviluppo di abilità meramente denotative.
All’astratto universalismo, che potrebbe favorire una massificazione culturale e lin-
guistica su scala planetaria, si contrappone la ricchezza delle ragioni storiche, che
sono la linfa vitale di ogni società e la base del tenace permanere delle particolarità
locali. Queste condizioni storiche, in cui rientrano anche i sentimenti dei parlanti,
non sono necessariamente, come alcuni ritengono, dei fattori di conservatorismo
deteriore, ma possono diventare veicolo attivo di soluzioni realistiche ed innovative
di numerosi problemi del mondo contemporaneo, come ad esempio quelli giuridici
e politici sovra-nazionali. Le opinioni diverse devono poter essere confrontate a
partire dalle specificità dei valori culturali e linguistici in cui esse si esprimono in
forma originaria, ovvero attraverso il mezzo di una lingua che sia quella della tradi-
zione storica dei parlanti.
37
Si veda de Swaan (2007, p. 90). Una critica serrata del concetto di identità come una “so-
stanza” è stata condotta dall’antropologo italiano Remotti (si veda Remotti, 2001; Remotti, 2010).
68 ROSANNA SORNICOLA
Con diversa scelta di temi e argomentazioni, tali punti di vista sono stati chia-
ramente formulati dal filologo classico Judet de la Combe e dal romanista e filosofo
del linguaggio Jürgen Trabant, in un recente volume dal titolo Politiques et usages
de la langue en Europe. Nell’indicare i limiti della concezione utilitaristica ed
astrattamente razionale delle lingue, Judet de la Combe sottolinea il carattere sem-
plicistico e conservatore di questo approccio, capace di far interagire le persone solo
su oggetti e problemi già noti, ma non di trovare soluzioni nuove a problemi com-
plessi, che richiedono la non facile elaborazione di norme universali le quali tra-
scendano le differenze culturali senza appiattirle (Judet de la Combe, 2007, p. 38).
Per lo studioso francese la chiave che può permettere di trovare mediazioni «entre
un passé culturel, nécessairement particulier, et un avenir commun possible» (Judet
de la Combe, 2007, p. 38) è una competenza linguistica particolare, che «s’appuie
sur une langue qui ne peut être conçue comme étant seulement fonctionnelle, mais
comme langue de culture, c’est-à-dire historique, constituée par l’ensemble des res-
sources sémantiques qui, au cours de l’histoire se sont déposées en elle et qui peu-
vent servir pour des usages inédits, nouveaux, de la langue» (Judet de la Combe,
2007, p. 39).
Il punto di vista che sottolinea quanto sia stata importante la formazione delle
competenze delle lingue di cultura trova sintonia profonda nel saggio di Trabant, su
cui avremo modo di tornare tra poco. Ma non tutti sono d’accordo. Sempre nella
raccolta di saggi sulle politiche e gli usi delle lingue in Europa, una voce diversa si
è levata con il sociologo olandese Abram de Swaan. In un articolo polemico, a tratti
persino graffiante, questo studioso si esprime contro ciò che viene definito “il sen-
timentalismo delle lingue”. A suo avviso, «il ne convient… pas d’examiner l’aban-
don des langues dans les termes d’une consternation invariable», dal momento che
«par fois cet abandon entraine un soulagement, une liberté et un enrichissement, un
allègement qui profite aux langages» (de Swaan, 2007, p. 83). Per lui linguisti e so-
ciolinguisti che preparano manifesti contro la morte di lingua sono persone che
hanno una falsa coscienza (predicano bene e razzolano male, dal momento che di-
chiarano di battersi per la sopravvivenza di tale o talaltra lingua minoritaria, ma
conducono queste operazioni politiche nelle lingue dominanti, di cui non sapreb-
bero fare a meno), e in maniera indiscreta si arrogano decisioni che non competono
loro, ma alle comunità dei parlanti (de Swaan 2007, pp. 82, 84). In definitiva, le
preoccupazioni e lamentele per le lingue minacciate sarebbero solo manifestazioni
di “sentimentalismo linguistico”, inteso come «un appel exagéré aux sentiments fa-
miliers visant à susciter la traditionnelle réponse de compassion» (de Swaan, 2007,
p. 86), e al pari di tutte le forme di sentimentalismo, sarebbe «fondamentalement
fallacieux» (de Swaan, 2007, p. 94).
Non mancano, nell’articolo ora menzionato, alcune prese di posizione di un
certo interesse, anche se non sempre condivisibili. Si può essere d’accordo con lo
studioso olandese quando critica la mancanza di fondamenti teorici di molte discus-
sioni in difesa delle lingue minacciate, in particolare la diffusa idea secondo cui il
monolinguismo coinciderebbe con l’omogeneità culturale e la diversità linguistica
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 69
con quella culturale (de Swaan, 2007, p. 84), realtà che a suo avviso non sono in
stretto rapporto. Si può essere d’accordo, inoltre, con il fatto che il multiculturali-
smo non sia l’esito obbligato di una condizione di multilinguismo, e sul fatto che
nelle scelte linguistiche i parlanti si orientano verso la lingua che ha maggiore pre-
dominanza (la lingua cioè che permette di comunicare con il maggior numero di
persone) e la maggiore centralità (la lingua cioè che possiede la percentuale più alta
di parlanti multilingui) (de Swaan, 2007, p. 93). Infine, de Swaan non ha tutti i torti
quando osserva che le comunità linguistiche possono anche essere anguste ed asfis-
sianti, anche se questa tesi richiederebbe di essere relativizzata secondo i diversi
contesti storici e sociali38.
Altre opinioni espresse nell’articolo lasciano invece perplessi, come quella se-
condo cui «le multiculturalisme n’est en soi ni désiderable ni détestable. Il s’agit
d’un fait social qui est une partie intégrante de la vie» (de Swaan, 2007, p. 88). Al-
tra opinione che sembra discutibile, in quanto formulata in maniera troppo drastica,
è che le lingue non siano una parte costitutiva dell’identità culturale degli individui
(de Swaan, 2007, p. 90). Lascia perplessi anche l’idea che i caratteri culturali di un
gruppo sociale si possano perfettamente mantenere, anche senza la lingua origina-
riamente associata a quei valori (de Swaan, 2007, p. 89). Può darsi che ciò sia vero,
ma non è così scontato, e quanto meno sarebbero richieste delle distinzioni più sfu-
mate. Del tutto speculativo e privo di fondamento poi è il modello di pianificazione
linguistica secondo cui il francese sarebbe l’alternativa all’inglese nei paesi
dell’Europa meridionale, mentre nell’Europa orientale tale ruolo potrebbe essere as-
sunto dal tedesco (de Swaan, 2007, p. 93). Bisogna notare, infine, che de Swaan di-
fende il punto di vista, comprensibile e sostenuto da altri, ma forse non del tutto in-
controvertibile, secondo cui i valori culturali elaborati dall’Occidente nel corso
della sua storia, dall’Illuminismo ad oggi, ovvero i diritti umani, la libertà di pen-
siero, sentimento ed espressione, siano universali etici assoluti (de Swaan, 2007, p.
88). Egli esprime anche un’altra opinione spesso formulata nel dibattito sulle politi-
che linguistiche europee, quando osserva che la difesa ad oltranza di tutte le diver-
sità si ritorce a boomerang proprio contro chi lamenta l’indebolimento e la perdita
delle lingue minoritarie a vantaggio dell’inglese, considerato con pregiudizio ideo-
logico come la lingua della globalizzazione, dell’imperialismo capitalista e del con-
sumismo39. La difesa ad oltranza della diversità, in effetti, finisce col condurre pro-
prio alla indiscussa affermazione dell’inglese (de Swaan, 2007, pp. 92-94). È una
osservazione realistica, ma da cui non si possono trarre conclusioni di politica lin-
guistica definitive.
38
«La préservation de la langue d’une communauté signifie très souvent l’oppression perma-
nente des femmes, des enfants, des jeunes, des personnes sans ressources, des déviants et des dissi-
dents» (de Swaan, 2007, p. 89). L’esempio principale che viene fornito è quello del bretone.
39
Inutile sottolineare che per de Swaan questa rappresentazione dell’inglese è del tutto di-
storta.
70 ROSANNA SORNICOLA
40
Dei problemi scolastici si occupa anche de Swaan (2007, p. 88), con osservazioni pedagogi-
che non prive di interesse, ma infirmate dal suo approccio di realismo acritico ed estremizzante.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 71
grande studioso tedesco vedeva il dispiegamento del vero “carattere” delle lingue
nelle loro manifestazioni letterarie e colte, manifestazioni da cui una lingua «reçoit
jeunesse et puissance et dont dépend la vie intellectuelle de la nation»41. A partire
da questa concezione, la duplicità di dimensioni delle lingue, la dimensione pratica,
uniformizzante e universalistica e quella culturale e affettiva in rapporto alle diver-
sità linguistiche nazionali e locali, può essere considerata come una “antinomia”
consapevolmente vissuta, come una tensione fonte di difficoltà, ma anche di espe-
rienze individuali e sociali ricche di valore. Il modello del bilinguismo come anti-
nomia da cui ci si deve lasciare attraversare ha trovato una espressione esemplare
nel lavoro di Brigitte Schlieben-Lange42, di cui giustamente Trabant sottolinea la
ricchezza di contenuti e implicazioni. Per Trabant da tale antinomia discende la
necessità del bilinguismo: «Une langue n’est pas plus vraie qu’une autre. Il faut sa-
voir les parler toutes les deux» (Trabant, 2001, p. 9).
Nelle posizioni di Schlieben-Lange e Trabant si può ravvisare un punto di vi-
sta autenticamente europeo sul valore della coesistenza culturale e linguistica. Col-
piscono in esse la conoscenza lucida e profonda della dimensione affettiva, che mi
pare vada ben al di là della semplice emotività. Non è forse un caso che questi con-
tributi vengano da intellettuali di un paese che ha vissuto l’esperienza della “cata-
strofe del nazismo”. Come altri loro connazionali, da questo trauma e dalle sue con-
seguenze politiche e sociali essi hanno imparato a conoscere, nella solitudine della
coscienza, ciò che davvero conta. Trabant è consapevole che la battaglia perché le
lingue nazionali mantengano una posizione universalizzante nei domini referenziali
delle scienze della natura o della tecnologia è persa e che in questi ambiti le lingue
nazionali si stanno riducendo al rango di lingue locali. Ma da uomo di cultura, e da
tedesco che ha vissuto il disagio di vedere scomparire dal dibattito sulle politiche
scolastiche del suo paese termini come “Muttersprache”, “Nationalsprache”, “Lan-
dessprache”, a vantaggio dei più asettici “Verkehrssprache”, “rationale Sprache”,
che negano il ricorso ai valori intimi e affettivi dell’appartenenza ad un paese, egli co-
nosce l’importanza dell’“amore delle lingue”43 e delle pratiche culturali che ad esso si
accompagnano (Trabant, 2007, p. 78). Questo amore è il fattore più importante che
garantisce la possibilità di sopravvivenza delle lingue nazionali: «Tant que les langues
nationales évoqueront chez ceux qui les parlent ce sentiment, elles ne sont pas per-
dues» (Trabant, 2007, p. 78), ma se al contrario «l’amour de la langue abandonne la
langue nationale, la langue nationale est perdue» (Trabant, 2007, p. 79).
L’amore della lingua di cui parla Trabant non è una emozione superficiale ed
effimera, ma un’esperienza che viene da lontano e che fa parte della nostra storia di
europei e dell’Europa delle nazioni. La sua formulazione racchiude un invito a noi
linguisti a tentare di ricomporre in un unico ampio dominio di studio tutte le mani-
41
Trabant (2001, p. 8); si veda inoltre Sornicola (2001, pp. 32-33).
42
Per questa concezione si veda Schlieben-Lange (1996, specialmente pp. 110-111).
43
L’espressione è del letterato ed erudito italiano del XVI secolo Sperone Speroni.
72 ROSANNA SORNICOLA
festazioni della vita emotiva, affettiva e immaginativa dei parlanti e delle lingue. Il
ricordo di Hannah Arendt che, alla domanda su ciò che rimaneva dopo il nazismo,
risponde: “la lingua tedesca”44, tocca una corda profonda in molti europei. Attra-
verso percorsi diversi, che riflettono le storie dei vari paesi, esiste un diffuso sentire
che la lingua nazionale o la lingua locale siano gli strumenti in cui si è autentica-
mente “a casa”, e che in queste è depositato un patrimonio culturale che è a fonda-
mento delle identità. Punto di arrivo da poco raggiunto come bene più ampiamente
condiviso in un paese la cui unità è recente e precaria, come nel caso dell’Italia, o
eredità preziosa di un grande passato, non dispersa da cambiamenti politici che
hanno condotto identità nazionali diverse sotto un unico dominio politico sovraor-
dinato, e per questo ancora più cara, come nel caso del paese catalano, la lingua è la
sede di enormi forze dell’emozione e del sentimento. In essa riposa in alto grado ciò
che si potrebbe definire la “funzione consolatoria della cultura”, che può rimargi-
nare o attutire ferite del passato, e mettere in condizione di affrontare opportunità e
rischi del futuro. Trabant ha ragione, a mio avviso, nel ritenere che la tanto temuta
globalizzazione non sia necessariamente una minaccia, finché sopravviverà
l’attaccamento alle diversità linguistiche e ai contenuti culturali e valori simbolici
che esse esprimono.
Con la concezione dell’antinomia linguistica formulata da Schlieben-Lange e
ripresa da Trabant il cerchio si chiude. Torniamo al fondamento humboldtiano della
linguistica europea, con la sua sintesi attiva e faticosa dell’accettazione delle diver-
sità e il suo modello di coesistenza di particolare e universale nelle lingue e nelle
culture. Quanto sono rilevanti le emozioni e gli affetti nella comunicazione umana?
Io credo che lo siano molto, ma credo anche che la strada per renderli compiuta-
mente un tema degno della massima attenzione scientifica sia difficile e piena di
ostacoli, non solo per le ragioni epistemologiche menzionate nella prima parte di
questo lavoro, ma anche perché molte circostanze del dibattito scientifico e della
vita politica del mondo contemporaneo conducono in altre direzioni. Emozioni, af-
fetti e sentimenti sono anche esperienze umane che attraverso la storia hanno spesso
dimostrato il loro carattere di realtà incandescenti, la loro terribile potenzialità di
trasformazione e manipolazione a scopi politici. È nel senso indicato da Schlieben-
Lange e Trabant che possiamo trovare una risposta a queste difficoltà e alle nostre
domande.
44
Si veda Trabant (2007, p. 78).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 73
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anderson Nels, The Uses and Worth of Language, in Anderson Nels (a cura di), Studies in
Multilingualism, Leiden, Brill, 1969, pp. 1-10.
Auer Peter, Wei Li (2007a), Introduction: Multilingualism as a Problem? Monolingualism as
a Problem?, in Auer Peter, Wei Li (2007b) (a cura di), 2007, pp. 1-12.
Auer Peter, Wei Li (2007b) (a cura di), Handbook of Multilingualism and Multilingual
Communication, Berlino-New York, de Gruyter, 2007.
Bally Charles, Linguistique générale et linguistique française, Parigi, Leroux, 1932.
Besemeres Mary, Language and Emotional Experience: The Voice of Translingual Memoir,
in Pavlenko Aneta (a cura di), Bilingual Minds: Emotional Experience, Expression, and
Representation, Clevedon, Multilingual Matters, 2006, pp. 34-58.
Burke Michael, Emotion: Stylistic Approaches, in Brown Keith (a cura di), Encyclopedia of
Language and Linguistics 2, Amsterdam-New York, Elsevier, 4, 2006, pp. 127-129.
Caffi Claudia, Janney Richard W., Towards a Pragmatics of Emotive Communication, «Jour-
nal of Pragmatics», 22, 1994, pp. 325-373.
Canetti Elias, Die gerettete Zunge. Geschichte einer Jugend, München, Karl Hanser Verlag,
1977, trad. it. Milano, Adelphi, 1996.
Cini Monica, Regis Riccardo (a cura di), Atti del Congresso internazionale Che cosa ne
pensa oggi Chiaffredo Roux. Percorsi della dialettologia percezionale all’alba del nuovo
millennio (Bardonecchia 25-27 maggio 2000), Torino, Edizioni dell’Orso, 2002.
de Swaan Abram, Le sentimentalisme des langues. Les langues menacées et la sociolinguisti-
que, in Werner Michael, 2007, pp. 81-98.
Dewale Jean-Marc, Pavlenko Aneta, Web questionnaire Bilingualism and Emotions, London,
University of London, 2001.
Dewaele Jean-Marc, Perceived Language Dominance and Language Preference for Emotional
Speech: The Implications for Attrition Research, in Schmid Monika S., Köpke Barbara,
Keijzer Merel, Weilemar Lina (a cura di), First Language Attrition: Interdisciplinary Per-
spectives on Methodological Issues, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins, 2004, pp. 81-
104.
Dewaele Jean-Marc, Becoming Bi- or Multi-lingual Later in Life, in Auer Peter, Wei Li
(2007b) (a cura di), 2007, pp. 101-130.
Frijda Nico H., The Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, Parigi, Éditions de la
Maison des Sciences de l’Homme, 1986.
Gafaranga Joseph, Code-switching as a conversational strategy, in Auer Peter, Wei Li
(2007b) (a cura di), 2007, pp. 279-313.
Grassi Corrado, Che cosa ne pensava e che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux. Ovvero:
quale contributo può dare l’esperienza empirica del dialettologo e del geolinguista alla
determinazione dei criteri fondanti di una dialettologia percettiva, in Cini Monica, Regis
Riccardo (a cura di), 2002, pp. 3-21.
Halliday Michael, Modality and Modulation in English, in Kress Gunther (a cura di), Halli-
day: Systems and Function in Language. Selected Papers, Oxford, Oxford University
74 ROSANNA SORNICOLA
1. PREMESSA
Roman Jakobson è un insigne rappresentante della linguistica del Novecento,
trait d’union fra quella europea (dove Jakobson nasce, come linguista, tra Mosca e
Praga) e quella americana, e, in quanto strutturalista, si colloca all’interno di un
universo complesso perché il termine e il concetto di «struttura» attraversano molte
discipline del Novecento1.
Si può dire, semplificando, che il concetto di struttura rinvia all’idea di un in-
sieme ordinato, un tutto che non è la semplice somma o giustapposizione di com-
ponenti, di parti dotate ciascuna di autonoma esistenza propria, ma, al contrario, è
tale che queste non gli preesistono e ciascuna è anzi determinata solo dalle relazioni
con le altre parti.
Detta la questione in questi termini, si vede che il concetto di “struttura”, come per
certi versi quello di “Gestalt”, sono declinazioni diverse del problema del rapporto fra
le parti e il tutto, e appare dunque ovvio un richiamo alle Logische Untersuchungen di
Husserl e in particolare alla terza. Come indica il titolo che ho scelto per questo arti-
colo, vorrei appunto proporre qualche considerazione su alcuni aspetti del pensiero
fonologico di Jakobson e sui suoi rapporti con la fenomenologia.
L’accostamento non è peregrino, non solo perché si sa (Raynaud, 1990, pp.
73-75 e passim; De Palo, 2010 a, b, 2013) che Husserl è presente, direttamente (con
una celebre conferenza a Praga nel 1935, della quale peraltro non si sa molto: cfr.
Raynaud, 1990, p. 74) o indirettamente, nella fase aurorale degli strutturalismi eu-
ropei, a Praga, nei «Travaux», con gli articoli di Bühler (1931, 1936) e di Pos
(1939)2, e a Copenaghen, nel manifesto della rivista «Acta linguistica» (Brøndal,
*
Nel corso della stesura di questo articolo ho avuto la fortuna di poterne discutere con Giu-
seppe Di Salvatore, Lia Formigari e Savina Raynaud dai quali ho ricavato molti suggerimenti e che
qui ringrazio.
1
La bibliografia è sterminata. Per il concetto di struttura mi limiterò a ricordare, oltre al
fondamentale saggio di Piaget (1968), i lavori di Bastide (1962) e Pomian (1981) per l’insieme
delle scienze umane e sociali (e per la biologia); di Cassirer (1946), Eco (1968), Boudon (1968),
Holenstein (1974) e Petitot-Cocorda (1985:19-26, 40-43) per gli aspetti semiotici e filosofici; di
Brøndal (1939), Benveniste (1962, in Bastide), Lepschy (1966) e Ducrot (1968) per lo strutturali-
smo in linguistica. Lepschy (1962) traccia la preistoria del termine struttura dall’organicismo fino
alla linguistica neogrammatica.
2
Pos (1939), rappresenta, a quanto ne so, la prima e più esplicita riflessione sullo strutturali-
78 FEDERICO ALBANO LEONI
1939), ma soprattutto perché esiste una linea interpretativa del pensiero di Jakob-
son, rappresentata da Holenstein (1974), da Petitot-Cocorda (1985) e da Coquet
(2007), secondo la quale nell’opera del linguista russo si ravviserebbe una impor-
tante presenza di Husserl, al punto che si è parlato di uno strutturalismo fenomeno-
logico, anche se, naturalmente, si ricorda che questo accostamento va visto con
cautela (Holenstein, 1974, p. 11).
L’argomento è complesso3, e mi riprometto di approfondirlo in una prossima
occasione, limitandomi qui a qualche osservazione su un paio di punti. Penso infatti
che ci siano elementi che inducono a mettere in discussione la fondatezza di questo
accostamento4. Preciso comunque, in apertura, che il quadro che mi accingo a trac-
ciare riguarda lo Jakobson linguista e fonologo stricto sensu e non, per esempio, lo
Jakobson lettore di letteratura.
Non c’è dubbio che, almeno per quanto riguarda le citazioni esplicite, Husserl è
effettivamente molto presente nell’opera di Jakobson, come appare già a uno spoglio
dei Selected Writings5. Ma è anche vero che in genere queste citazioni sono generiche,
per lo più limitate a menzioni fuggevoli e legate a discussioni sulla storia del pensiero
linguistico più che a questioni di descrizione e interpretazione di fenomeni linguistici.
Ci sono tuttavia due casi, direttamente o indirettamente riferibili alla fonologia,
sui quali mi soffermerò e nei quali il rinvio a Husserl si presta a qualche considera-
zione puntuale. Il primo è un ampio saggio sulla struttura del fonema (Jakobson,
1962 [1939]); il secondo è un breve articolo sul rapporto fra il tutto e le parti in lin-
guistica (Jakobson, 1971 [1963]).
L’entità linguistica non esiste che per la associazione del significante e del significato;
appena si considera uno solo di questi elementi, essa svanisce; invece d’un oggetto con-
creto ci si trova dinanzi una pura astrazione. In ogni momento si rischia di non perce-
pire che una parte soltanto dell’entità credendo di abbracciarla nella sua totalità; è ciò
che accadrebbe, per esempio, se si dividesse la catena parlata in sillabe; la sillaba ha
valore soltanto in fonologia. Una sequenza di suoni è linguistica soltanto se è il sup-
porto di un’idea; presa in se stessa non è altro che materia di uno studio fisiologico
(Saussure, 1962 [1916], p. 125 [144]).
Dieser Weg drohte zu einer trostlosen Verwilderung der Verslehre, und jeder Lautlehre
überhaupt, und zu einer restlosen Ausschaltung der Lautlehre aus der sprachlichen, d.h.
vor allem zeichenartigen, semiotischen Problematik zu führen.
Das abschreckende Bild der chaotischen Vielheit bedurfte des antithetischen Prinzips
der ordnenden Einheit. Zwei geniale Sprachforscher, Baudouin de Courtenay und Fer-
dinand de Saussure, rollten die Frage nach dem Zwecke der Sprachklänge auf, und das
Studium des lautlichen Feldes der Sprache unter dem Gesichtspunkt der sprachlichen
80 FEDERICO ALBANO LEONI
Funktionen wurde von ihren Schülern und Nachfolgern eingeleitet. Die Lautform der
Sprache, die bis dahin ein blosser Gegenstand der Sinnespsychologie und -physiologie
war, wurde endlich der Linguistik im wahren Sinne des Wortes einverleibt, d.h. die
Lautform wurde unter dem Gesichtspunkt ihres Zeichenwertes und vor allem ihrer be-
deutungsverleihenden Funktion [corsivo mio] untersucht. Die massgebliche Frage, das
“wozu” der Sprachlaute, d.h. ihre unmittelbare raison d’être kam endlich zur Geltung
(Jakobson, 1962 [1939], pp. 280-281).
Jakobson menziona la Lautform (cioè quella che in anni più tardi avrebbe chia-
mato sound shape), che è, per restare a Saussure, il signifiant nel suo complesso.
Alla Lautform viene attribuita una bedeutungsverleihende (Funktion), cioè una
«(funzione) che conferisce un senso» ed è qui evidente il riferimento alla termino-
logia di Husserl, sulla quale tornerò tra breve. Tale riferimento è forse plausibile
anche se non se ne vede l’utilità.
Con questa scelta terminologica husserliana Jakobson anticipa il secondo punto
della sua argomentazione che riguarda direttamente non più la Lautform in generale
ma il fonema in senso tecnico che, come certamente egli sa bene, è un’altra cosa.
Così, dopo aver liquidato come sterile la discussione sull’ontologia del fonema (pp.
281-282), Jakobson propone di risolvere il nodo teorico posto dal fatto che il fonema,
pur essendo irrimediabilmente privo di significato, deve essere considerato una entità
linguistica, appropriandosi esplicitamente di una distinzione husserliana e applica al
fonema quello che, evocando Husserl, aveva detto della Lautform:
Auch ein Phonem ist in diesem Sinne doppelseitig, doch das Eigenartige und Seltsame
liegt hier darin, dass dem bestimmten und konstanten lautlichen Unterschied zweier
Phoneme die blosse Tatsache eines potentiellen Bedeutungsunterschiedes, keinesfalls
aber ein bestimmter und konstanter Bedeutungsunterschied entspricht. Um mit Husserl
zu sprechen, ist im Phonem der bedeutungsverleihende Akt, keineswegs aber der be-
deutungserfüllende Akt gegeben (Jakobson, 1962 [1939], p. 292).
E a p. 305 precisa:
Se prendiamo come base questa fondamentale distinzione tra intenzioni significanti in-
tuitivamente vuote e riempite, saranno da distinguere – dopo aver messo da parte gli atti
DELLE PARTI E DEL TUTTO 81
sensibili nei quali si manifesta l’espressione come complesso fonetico – due generi di atti
o di serie di atti; da un lato quelli che sono essenziali all’espressione, in quanto essa è an-
cora espressione, cioè un complesso fonetico animato da un senso. Noi definiamo questi
atti come atti conferitori di senso o anche intenzioni significanti. Dall’altro lato, gli atti che
pur non essendo essenziali all’espressione come tale si trovano con essa in una relazione
logica fondamentale per il fatto che riempiono (confermano, rafforzano, illustrano) con
maggiore o minore adeguatezza la sua intenzione significante, rendendo così attuale il suo
riferirsi all’oggetto. Noi definiamo questi atti […] atti che riempiono il significato.
6
Giuseppe Di Salvatore (comunicazione privata) mi fa osservare che Jakobson non sa (o non
può) coordinare una bedeutungsvolleLautform con un bedeutungslosesPhonem.
82 FEDERICO ALBANO LEONI
L’idea quindi che il fonema (che peraltro non è affatto il «complesso fonetico»
menzionato nel passo citato) possa entrare in questo universo di discorso e dunque
conferire un significato, idea in sé peregrina e che peraltro nessun fonologo ha mai
sostenuto, appare del tutto estranea al pensiero di Husserl.
Quindi l’aporia insita nel voler considerare i fonemi come unità linguistiche,
sembra rimanere irrisolta anche in una prospettiva fenomenologica.
Da quanto vengo dicendo trarrei la conclusione che questo riferimento a Hus-
serl è tanto superficiale da essere improponibile. E infatti in questo stesso articolo
Jakobson abbandona rapidamente lo spunto husserliano e passa ad utilizzare il con-
cetto bühleriano di «Zeichen am Zeichen» sul quale non mi soffermerò qui perché
ci porterebbe verso un altro nodo problematico, e cioè quello dell’uso che Jakobson
fa del pensiero di Bühler.
Il fatto è che Jakobson non si confronta veramente con il grande problema del
rapporto fra il tutto e le parti, ma lo affronta solo superficialmente, come cercherò di
mostrare nel prossimo paragrafo.
3. IL TUTTO E LE PARTI
C’è un secondo caso in cui il riferimento a Husserl è puntuale, ed è rappresen-
tato da un breve articolo del 1963 (Jakobson, 1971 [1963]), dal titolo esplicitamente
husserliano (Parts and Wholes in Language), nel quale Jakobson sembra applicare,
sia pure solo per cenni, principi husserliani a procedure di descrizione di caratteri
generali delle lingue. Jakobson si riferisce alla terza ricerca logica di Husserl (2005
[1922]), dedicata appunto agli interi e alle parti, e a un importante saggio di Ernest
Nagel (1963 [1952], 1979).
L’articolo di Jakobson si apre con una esplicita dichiarazione di fede fenome-
nologica, nella quale lo studioso rimprovera alla linguistica di non aver prestato suf-
ficiente attenzione al problema generale del rapporto fra le parti e il tutto.
In the second part of Edmund Husserl’s Logische Untersuchungen, still one of the most
inspiring contributions to the phenomenology of language, two studies devoted to
“Wholes and Parts” introduce the philosopher’s meditations on “the Idea of Pure Gram-
mar”. In spite of the manifold aspects of interdependence between wholes and parts in
language, linguists have been prone to disregard this mutual relationship (p. 280).
Non sono sicuro che il rimprovero sia del tutto fondato ma, almeno in linea di
principio, non si può non condividere l’esortazione a considerare con attenzione la
relazione tra gli elementi (le parti) che costituiscono una lingua (il tutto) o tra enun-
ciati o testi (il tutto) e gli elementi di cui sono costituiti (le parti). Resta tuttavia da
vedere se lo stesso Jakobson abbia veramente introdotto questa riflessione nel suo
lavoro e se l’abbia sviluppata con conseguenza7.
7
Ci sarebbe da osservare che in questo stesso articolo, Jakobson rimprovera alla linguistica
DELLE PARTI E DEL TUTTO 83
Tuttavia, poiché non è difficile capire che la distanza tra le Logische Unter-
suchungen di Husserl (e la sua idea di una grammatica pura) e una qualsivoglia de-
scrizione, strutturale o di altro orientamento, di un aspetto o meccanismo fonico
delle lingue è molto grande, Jakobson abbandona subito Husserl e passa, nel pro-
sieguo dell’articolo, alla traccia fornitagli da un lavoro di un autorevole epistemo-
logo (Nagel, 1963 [1952]), adattando a possibili fattispecie linguistiche le varie ti-
pologie di relazioni parti/tutto (nella dimensione spaziale o in quella temporale, o
nel rapporto tra insiemi e oggetti che ne fanno parte), che Nagel descrive.
Così, nella relazione tra processo e parti di un processo (che sono a loro volta
processi) Jakobson vede la relazione tra un evento linguistico (il tutto) e i suoi com-
ponenti psicofisici (le parti).
Nella relazione tra un tutto come estensione temporale e parti che ne sono por-
zioni, pure con estensione temporale, vede la stessa relazione che si trova nell’ana-
lisi di un enunciato (il tutto) in costituenti immediati (le parti) del distribuzionali-
smo americano.
Nella relazione tra classi e oggetti che ne fanno parte Jakobson vede analogie
p. es. con le categorie linguistiche (classi) e gli oggetti che vi si raggruppano8 e, in-
fine, nella relazione tra un oggetto (il tutto) e le sue proprietà (le parti) vede la rela-
zione tra un fonema e i suoi tratti.
From the sentence model as a whole we pass to various syntactic patterns of sentences,
on the one hand, and to the grammatical constituents of the sentence, on the other.
When we reach the level of the word, then either word classes or, again the morpho-
logical constituents of the word serve as parts. Gradually we arrive at the ultimate stage
- the analysis of the smallest meaningful units into distinctive features. An important
altre gravi omissioni: infatti egli lamenta che ci sia una «nearly unexplored question of the interre-
lation between message and context» (p. 282), e che «the structural laws of ellipsis have not yet
been subjected to a thorough analysis» (ibid.). Le due affermazioni sono sorprendenti. Infatti, è
molto difficile credere che Jakobson ignorasse le opere di Wegener (1885), Brugmann (1904),
Malinowski (1923), Gardiner (1932), Bühler (1934), tutte centrate proprio sul fatto che il contesto,
la situazione sono parte integrante degli atti linguistici (e non esiterei a definire clamorosa la di-
menticanza di Bühler, al quale Jakobson deve molto più di quanto non riconosca). Lo stesso vale
per la questione dell’ellissi, per la quale Jakobson sembra dimenticare, o ignorare, non solo, e an-
cora una volta, Bühler (che sull’ellissi ha scritto pagine di grande acutezza), ma anche le Philoso-
phische Untersuchungen di Ludwig Wittgenstein (1953). Altrove (Albano Leoni, 2011) ho avuto
modo di osservare che l’atteggiamento di Jakobson nei confronti di Bühler non è del tutto limpido.
Sul tema dell’ellissi e su quello della presenza di Husserl nel pensiero strutturalista si vedano ri-
spettivamente anche Mulligan (2004) e De Palo (2010 a, 2013). Mathesius (1911) poco letto in Eu-
ropa occidentale (ma recentemente riproposto all’attenzione degli studiosi in Raynaud, 2012),
avrebbe potuto invece essere noto a Jakobson.
8
È opportuno segnalare che questa terza relazione presenta una discontinuità rispetto alle
precedenti, perché mentre le relazioni tra le parti e il tutto dei primi due tipi sono in praesentia, la
terza è una relazione in absentia.
84 FEDERICO ALBANO LEONI
structural particularity of language is that at no stage of resolving higher units into their
component parts does one encounter informationally pointless fragments (Jakobson,
1971 [1963], p. 283).
Sorvolo qui sul fatto, sorprendente, che Jakobson qualifichi come meaningful
le unità minime, cioè i fonemi, perché si tratta forse di un lapsus. Osserverò invece
che nel costruire queste analogie Jakobson fa alcune semplificazioni o, meglio,
omette di far emergere il nocciolo problematico e alcune difficoltà molto serie. In-
fatti, se si chiama in causa la mereologia, bisogna rispettarne le regole.
A titolo di esempio mi servirò di una considerazione fatte da Hammond (2001-
2002), in un articolo in cui passa in rassegna alcuni problemi che emergono dai la-
vori di tre grandi studiosi di questi problemi, che sono appunto Nagel (1963 [1952],
1979), Polanyi (1958) e Simons (1987).
La considerazione nasce dalla osservazione di una possibile analisi di un og-
getto concreto, che Hammond illustra con un esempio divertente e provocatorio: un
barattolo di zuppa (un tutto) può essere diviso in porzioni (le parti); ogni porzione
(un tutto) può essere divisa in cucchiaiate (le parti); la zuppa (il tutto) può essere
analizzata nei suoi componenti (le parti), fra cui p. es. una patata; la patata (un tutto)
può essere analizzata nei suoi componenti chimici (le parti), fra cui, p. es. i carboi-
drati; arrivati a questo punto si incontra una questione indecidibile, e cioè se i car-
boidrati siano una parte della patata, o la patata concorra, come parte, a formare
l’insieme dei carboidrati (come classe, cioè come tutto).
La trafila che porta dal barattolo di zuppa ai carboidrati è del tutto analoga a
quella rappresentata da Jakobson nel passo che ho appena citato. Ma, nel suggerire
la sua trafila, Jakobson si ferma ante portas perché il suo è un mero esercizio di
scomposizione meccanica, senza nessun riguardo allo statuto ontologico o fenome-
nologico degli elementi che sono di volta in volta tutto o parti. Infatti è vero che ap-
plicando questo procedimento all’analisi di un enunciato si può arrivare ai tratti, ma
cosa succede quando ci si arriva? Nasce da qui un’altra considerazione.
Prendiamo ad esempio il caso di un’opposizione privativa (Trubeckoj, 1939, p.
89; Belardi, 1970): questa, come si sa, è caratterizzata dal fatto che uno dei due
termini dell’opposizione è privo del tratto presente nell’altro ed è perciò detto ‘non
marcato’. Quindi, la coppia di fonemi italiani /p/-/b/ (presente, per esempio nella
cosiddetta coppia minima it. para/bara) è caratterizzata dal fatto che, nello schema
binario di Jakobson, il termine marcato /b/ è [+sonoro] (realizzato quindi mediante
la presenza di una vibrazione glottidale che genera una oscillazione quasi-periodica
di molecole d’aria), mentre l’altro termine /p/ [-sonoro], non marcato, è privo di
questa vibrazione.
Detto in altre parole, la realizzazione del presunto fonema it. /p/ è un oggetto
fisico con sue proprietà (nella fattispecie [consonantico], [occlusivo], [bilabiale]) e
l’ascoltatore lo percepisce e riconosce per queste sue proprietà; la realizzazione del
presunto fonema it. /b/ è un altro oggetto fisico con sue proprietà (nella fattispecie
[consonantico], [occlusivo], [bilabiale], [sonoro]) e l’ascoltatore lo percepisce e ri-
DELLE PARTI E DEL TUTTO 85
conosce per queste sue proprietà e non perché l’ha confrontato con l’altro termine
della coppia (tranne naturalmente che nei casi, rari o innaturali, in cui all’ascoltatore
venga somministrata la coppia isolata, per esempio nel corso di un test).
Si potrebbe obiettare che, nel momento in cui si ribadisce che la percezione e il
riconoscimento avvengono sulla base di proprietà positive del percetto, si viene a
negare la natura differenziale e oppositiva delle unità linguistiche9. Ma in realtà
quello che si viene a negare è solo che tale natura possa essere attribuita a pezzi di
materia fonica di per sé asemantica e che questi siano percepiti e riconosciuti in
quanto tali solo dopo che si è accertato che essi non sono un’altra cosa10.
Ma, tornando all’interpretazione (husserliana?) del rapporto fra il tutto e le
parti, così come la propone Jakobson, credo che sia lecito domandarsi, sempre ri-
manendo all’esempio qui in discussione, quale sia lo statuto del tratto [-sonoro],
cioè di un tratto che non ha alcun corrispettivo fisico positivo e che trae la sua legit-
timazione solo da una costruzione logica di livello meta-metalinguistico. Infatti non
è facile capire come una parte che non c’è (il tratto [-sonoro] nella rappresentazione
di Jakobson) possa essere parte di un tutto: una opposizione privativa, come quella
qui presa ad esempio, non può avere consistenza sul piano ontologico né, direi, su
quello cognitivo. Né infine si può accettare che alcune delle parti di un tutto (cioè
alcuni dei tratti che concorrerebbero a formare un fonema) godano di proprietà po-
sitive e altre di proprietà solo correlative.
Inoltre, tornando alla fenomenologia, è pur vero che Husserl, nella Terza ri-
cerca, prende in considerazione anche
necessità analitiche come: non vi possono essere padroni, padri se non vi sono sudditi,
servi, figli ecc.
In generale si vuol dire qui che elementi correlativi si postulano reciprocamente: essi non
possono essere pensati -non possono essere- l’uno senza l’altro (Husserl, 2005 [1922],
vol.II, pp. 42-43),
9
Come è noto, si tratta di un principio saussuriano. Si legge infatti nel Corso: «Per classifi-
care questi ultimi [scil. i fonemi, nel senso saussuriano di segmenti di materia fonica], importa as-
sai meno sapere in che consistono e assai più ciò che li distingue gli uni dagli altri. Ora per la clas-
sificazione un fattore negativo può avere più importanza che un fattore positivo» (Saussure, 1968
[1916], pp. 57-58). Ma è bene osservare che Saussure si riferisce qui a un mero criterio di classifi-
cazione descrittiva: «È secondo tale principio che classificheremo i suoni. Si tratta di un semplice
schema di classificazione razionale» (ivi, p. 59). Ancora più netti sono gli appunti degli studenti
(Saussure, 1967-68, fasc. I, 817-818: D67, SM III 104; S. 1.36; J. 59) concordi nel riportare
l’affermazione che ciò è privo di qualsiasi interesse teorico.
10
Ritengo inoltre (Albano Leoni, 2012) che la pertinenza, cioè appunto la proprietà differen-
ziale e oppositiva di una unità linguistica, non sia localizzata esclusivamente in un punto della unità
(cioè in un fonema o in un suo tratto, secondo il punto di vista corrente), ma che essa sia diffusa
sulla intera fisionomia acustica delle parole e che essa agisca sempre in stretta connessione con il
contesto e con la capacità ermeneutica dell’ascoltatore, che vanno ben oltre l’informazione conte-
nuta nel segnale.
86 FEDERICO ALBANO LEONI
ma questa presupposizione reciproca non può in alcun modo essere accostata alla
logica della opposizione privativa, o binaria in generale, non fosse altro che per il
fatto che un ipotetico ‘non padre’ non è uguale a ‘figlio’ (laddove per Jakobson,
almeno in linea di principio, [-sonoro] non può che correlarsi a [+sonoro] e, in ge-
nerale, ogni tratto positivo non può che correlarsi al suo negativo e viceversa).
Si noti per inciso che lo stesso Jakobson (1962 [1939], p. 301), che pure faceva
propria un’affermazione di Pos sulle opposizioni («[…] ein wirkliches Opposition-
sglied kann nicht ohne das andere Glied gedacht werden. L’un implique l’autre,
nach dem treffenden Satz des hervorragenden holländischen Sprachphilosophen H.
J. Pos»), era poi invece molto cauto nell’accettare le conseguenze logiche del prin-
cipio oppositivo binario. Infatti, riprendendo esplicitamente gli esempi di Pos sulle
coppie polari del tipo «bello»/«brutto»11, si esprimeva con cautela a proposito di op-
posizioni fonologiche del tipo /a/ vs /u/, che sono più complesse:
Die mannigfaltigen Oppositionsbegriffe sind in einer Hinsicht gleich: die Begriffe Va-
ter und Mutter, Tag und Nacht, teuer und billig, gross und klein setzen einander voraus.
Bei den Phonemen /u/ und /a/ ist das nicht der Fall. Soll das bedeuten, dass man das
Phonemverhältnis nur ungenau als Opposition bezeichnet, und das man hier mit blossen
Differenzen, dualités contingentes, und keineswegs mit echten Oppositionen zu tun
hätte? Ich lasse einstweilen diese Frage offen (p. 301).
La riflessione che sto proponendo sullo statuto del binarismo e sui tratti con-
trassegnati dal valore negativo induce a manifestare qualche perplessità su quanto
scrive Petitot-Cocorda (1985, p. 38-39), quando cerca di interpretare, a mio avviso
in maniera impropria, i tratti binari di Jakobson come l’applicazione fonologica del
principio husserliano della fondazione.
Scrive Petitot-Cocorda (1985, p. 36):
Quest’ultimo problema [cioè quello delle parti non isolabili da un tutto] cioè quello dei
rapporti di dipendenza (detti anche di fondazione) tra un momento e il tutto di cui esso è
il momento inscindibile, è stato oggetto di indagini approfondite tanto da parte di
Stumpf e di Meinong quanto da parte di Husserl. […] È una questione di grande rilievo
poiché […] essa è all’origine della fonologia jakobsoniana, dove i tratti distintivi sono
dei momenti dipendenti per eccellenza: i fonemi non sono né delle classi di equivalenza
di allofoni, né degli artifici descrittivi, né degli abstracts, ma delle unità formali e rela-
zionali costituite da rapporti di fondazione che sono rapporti reali nel senso di una au-
tonomia ontologica del livello fonologico (p. 36)12.
11
Osserverei che peraltro opposizioni di questo genere hanno il loro fondamento negli usi del
linguaggio ordinario e nel senso comune perché, come si vedrà anche più avanti, dal punto di vista
logico binaristico l’opposto di «bello» non è «brutto» ma è «non bello».
12
Sorvolo qui sul concetto di « autonomia ontologica del livello fonologico », che è
un’aporia se, come presumo, l’Autore usa con cognizione di causa la terminologia della fonologia
DELLE PARTI E DEL TUTTO 87
Mi sembra che questo sia il passo chiave per la sua costruzione di una fonolo-
gia fenomenologica. Esso si basa sull’ipotesi che fra i tratti binari che costituiscono
un fonema sussista un rapporto di fondazione. Ma questo passo richiede qualche
commento.
Innanzi tutto penso che sia bene ricordare cosa intende Husserl (2005 [1922],
vol. II, p. 52) con Fundierung:
Se un α come tale può esistere soltanto in una unità comprensiva che lo connette ad un
µ, noi diciamo che un α come tale ha bisogno di essere fondato [strutturalmente] da un
µ, o anche: un α come tale ha bisogno di essere integrato da un µ. Se percio α e µ sono
casi particolari determinati dai generi puri α e µ, che si realizzano in un unico intero e
che si trovano nel rapporto indicato, noi diciamo che α e fondato [strutturalmente] da µ,
e soltanto da µ, se il bisogno di integrazione di α viene soddisfatto unicamente da µ.
This so-to-speak inner, immanent approach [cioè quello di Bloomfield], which locates
the distinctive features and their bundles within the speech sounds, be it on their motor,
acoustical or auditory level, is the most appropriate premise for phonemic operations,
although it has been repeatedly contested by outer approaches which in different ways
divorce phonemes from concrete sounds13.
classica. Che la materia fonica abbia una sua autonoma consistenza è fuori di dubbio. Ma nel mo-
mento in cui questa materia è formata, appunto nella dimensione fonologica, essa non ha più al-
cuna autonomia perché in quanto forma linguistica esiste solo perché è indissolubilmente intrec-
ciata a un senso.
13
Che si tratti di fasci di tratti è ribadito, p. es., a p. 20: «The distinctive features are aligned
into simultaneous bundles called phonemes».
88 FEDERICO ALBANO LEONI
[…] both alternatives of an inherent feature co-exist in the code as two terms of an op-
position, but do not require a contrasting juxtaposition within one message. Since the
inherent feature is identified only through the comparison of the alternative present in
the given position with the absent alternative, the implementation of an inherent feature
in a given position admits less variability than that of the prosodic features.
Vowels are vocalic and non-consonantal; consonants are consonantal and non-vocalic;
liquids are vocalic and consonantal (with both free passage and obstruction in the oral
cavity and the corresponding acoustical effect); glides are non-vocalic and non-conso-
nantal (p. 29).
14
Questo noto esempio di Husserl era stato ripreso anche da Holenstein (1974, p. 91), là dove
sosteneva l’equivalenza di questa relazione di fondazione con la relazione che sussiste tra i tratti.
DELLE PARTI E DEL TUTTO 89
Il primo è dato dalla difformità nello statuto (onto)logico dei tratti rispetto a
quello di categorie come ‘colore’ e ‘superficie’. L’accostamento, trasferito alla ma-
teria fonica e alle sue proprietà, potrebbe valere solo per la relazione tra frequenza e
ampiezza di una oscillazione (non si può avere e non si può conoscere frequenza
senza ampiezza e viceversa), ma non per i tratti. Infatti ‘colore’ e ‘superficie’ di un
tessuto sono categorie generiche (il colore può essere rosso o verde, la superficie
può essere grande o piccola, triangolare o quadrata) come anche generiche sono le
categorie di frequenza (alta, bassa ecc.) e di ampiezza. I tratti sono invece categorie
specifiche riferite a proprietà che si definiscono solo se misurate (p. es. nell’op-
posizione acuto/grave il rinvio non può essere a una frequenza generica ma deve es-
sere a una frequenza specifica, misurata e confrontata con un’altra).
Il secondo motivo è che l’equiparazione della relazione tra i tratti a quella di
un rapporto di fondazione urta contro una precisazione chiarissima dello stesso
Husserl. Questi, nel § 48 della Sesta ricerca (Caratterizzazione degli atti categoriali
come atti fondati) afferma a questo proposito:
La percezione intende cogliere l’oggetto stesso, e questo suo “afferramento” deve perciò
cogliere in e con l’oggetto intero tutti i suoi elementi costitutivi.
Naturalmente si tratta qui soltanto di elementi costitutivi dell’oggetto, così come si manife-
sta nella percezione e sussiste in essa, e non, ad esempio, di quegli elementi che apparten-
gono all’oggetto in quanto è nella “realtà oggettiva” e che vengono messi in luce solo da
conoscenze e da esperienze successive, dalle scienze (Husserl, 2005 [1922] vol. II, p.
455).
Infatti nessuno dei tratti distintivi può essere colto come elemento costitutivo
dell’oggetto fonema (perché le loro proprietà articolatorie e fisico-acustiche non
sono percepibili analiticamente ma risultano solo da un’analisi strumentale) e dun-
que non rientrano nella categoria degli elementi costitutivi dell’oggetto tra i quali si
stipuli un rapporto fondativo, così come si stipula tra colore e estensione nella per-
cezione dell’oggetto ‘tessuto’. Sarebbe come affermare che tale rapporto esiste tra
gli atomi di idrogeno e gli atomi di ossigeno quando si uniscono a formare una
molecola d’acqua. Che l’acqua sia un composto è un problema chimico ma non
certo un problema fenomenologico o epistemologico e non diversa è la situazione
del fonema.
4. CONCLUSIONI
La prima considerazione da fare è che lo statuto del fonema rimane incerto an-
che rispetto ai tentativi di fornirgli un sostegno fenomenologico. Rimane infatti irri-
solta la questione cruciale della natura asemantica di questa unità, perché il tenta-
tivo di vedere nel fonema non una unità dotata di significato ma un atto che conferi-
sce significato appare poco fondato.
Le seconda considerazione è che lo statuto logico del binarismo e della teoria
90 FEDERICO ALBANO LEONI
dei tratti, pur fortunati e per certi versi eleganti, appare, se osservato da vicino, ricco
di contraddizioni e di incertezze e comunque per quanto interessa qui, inadeguato a
rappresentare il concetto fenomenologico di ‘fondazione’.
La terza considerazione, che verte sul tema principale di questo articolo e che
si riflette nel titolo, è che l’adesione di Jakobson alla fenomenologia sembra più di
superficie che di sostanza, più basata sulla ricerca, o sulla esibizione, di una legitti-
mazione teorica che su una accettazione reale dei suoi presupposti nell’ambito di
una teoria della conoscenza. Ciò appare con evidenza sia nei tentativi, condotti da
esegeti di Jakobson, di individuare nel principio husserliano della fondazione la
base della fonologia binarista, sia in quello condotto dallo stesso Jakobson di tra-
durre in una teoria e una pratica descrittive i principi mereologici così come sono
illustrati nell’opera di Nagel (1963 [1952]).
La causa principale dell’inadeguatezza di questo accostamento è, a mio parere,
da cercare nel fatto, particolarmente evidente a proposito della fonologia, che le ri-
cerche logiche di Husserl ruotano intorno alla questione centrale di riuscire a ren-
dere conto del legame fondativo tra materiale espressivo, espressione e ciò che è
espresso. Esse sono cioè una teoria della conoscenza e del soggetto conoscente e
non i preliminari di una pratica analitica, linguistica o di altro genere.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Albano Leoni Federico, Dei suoni e dei sensi. Il volto fonico delle parole, Bologna, Mulino,
2009.
Albano Leoni Federico, Attualità di Bühler, «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», XXIX,
3, 2011, pp. 121-134.
Albano Leoni Federico, Karl Bühler et la physionomie acoustique des mots. Les occasions man-
quées de la phonologie, «Archivio Glottologico Italiano», XCVII, 1, 2012, pp. 117-134.
Bastide Roger (a cura di), Sens et usages du terme «structure» dans les sciences humaines et
sociales, La Haye, Mouton, 1962.
Belardi Walter, L’opposizione privativa (in appendice: Le occlusive del coreano) «Quaderni
di AION-L», VII, Napoli 1970.
Benveniste Emile, «Structure» en linguistique, in Bastide, 1962 (poi in Emile Benveniste,
Problèmes de linguistique générale, vol. 1, Paris, Gallimard 1966 [trad it., Problemi di
linguistica generale, Milano, il Saggiatore, pp. 111-119]).
Boudon Raymond, A quoi sert la notion de «structure»?, Paris, Gallimard, 1968 (trad., it.,
Strutturalismo e scienze umane, Torino, Einaudi, 1979).
Brøndal Viggo, Linguistique structurale, «Acta Linguistica. Revue internationale de lingui-
stique structurale», I, 1939, pp.2-10.
Brugmann Karl, Die Demonstrativpronomina der indogermanischen Sprachen. Eine bedeu-
tungsgeschichtliche Untersuchung, Leipzig, Teubner, 1904.
Bühler Karl, Phonetik und Phonologie, «TCLP», 4, 1931, pp. 22-53.
Bühler Karl, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Jena, Fischer, 1934 (trad.
DELLE PARTI E DEL TUTTO 91
It. Teoria del linguaggio. La funzione rappresentativa del linguaggio, Roma, Armando,
1983).
Bühler Karl, Das Strukturmodell der Sprache, «TCLP», 6, 1936, pp. 3-12.
Cassirer Ernst, Structuralism in Modern Linguistics, «Word», 1946 (trad. it. Lo strutturali-
smo nella linguistica moderna, Napoli, Guida, 1970, da cui cito).
Coquet Jean-Claude, Phusis et Logos. Une phénoménologie du langage, Paris, PUV, 2007.
De Palo Marina, Le «je», la phénoménologie et le discours: Bühler, Benveniste et Husserl,
«Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft», 20, 2010 a, pp. 55-165.
De Palo Marina, Sujet cognitif et sujet linguistique, «Histoire Epistémologie Langage», t.
XXXII, fasc. 2, 2010 b, pp. 37-55.
De Palo Marina, Vaghezza, strutturalismo e fenomenologia del linguaggio, in Thornton Anna
Maria, Voghera Miriam (a cura di), Per Tullio De Mauro, Roma, Aracne, 2012, pp. 59-79.
De Palo Marina, L’ellipse en contexte, «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», XXXI, 1,
2013, pp. 169-180.
Ducrot Oswald, Qu’est-ce que le structuralisme? 1. Le structuralisme en linguistique, Paris,
Seuil, 1968.
Eco Umberto, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Milano,
Bompiani, 1968 (III ed. 1996, da cui cito).
Gardiner Alan H., The Theory of Speech and Language, Oxford, at the Clarendon Press, 1932.
Gensini Stefano, Jakobson, Gardiner e gli altri: appunti su un puzzle storico-teorico, «Studi
filosofici» XXXIII, 2010, pp. 235-253.
Hammond Percy, Parts and Wholes. Contrasting Epistemologies, «The Polanyi Society Pe-
riodical», XXVIII, 3, 2001-2002, pp. 20-27.
Heilman Luigi, Introduzione, in Jakobson Roman, Saggi di linguistica generale, Milano,
Feltrinelli, 1966.
Holenstein Elmar, Jakobson ou le structuralisme phénoménologique, Paris, Seghers, 1974.
Husserl Edmund, Ricerche logiche, voll.2, Milano, il Saggiatore, 2005 [1922].
Jakobson Roman, Zur Struktur des Phonems, in Selected Writings 1, pp. 280-310, s-Graven-
hage, Mouton, 1962 [1939].
Jakobson Roman, Parts and Wholes in Language, in Selected Writings 2, The Hague-Paris,
Mouton, 1971 [1963], pp. 280-284.
Jakobson Roman, Halle Morris, Phonology and Phonetics, in Iid., Fundamentals of Lan-
guage, The Hague, Mouton, 1956, pp. 1-51.
Lagache Daniel, 1962, Structure en psychologie, in Bastide, 1962, pp. 87-88.
Lepschy Giulio, Osservazioni sul termine Struttura, «Annali della Scuola Normale Superiore
di Pisa», 31, 1962, pp. 173-197 (poi in Id., Mutamenti di prospettiva nella linguistica,
Bologna, il Mulino, 1981, pp. 37-71, da cui cito).
Lepschy Giulio, La linguistica strutturale, Torino, Einaudi, 1966.
Malinowski Bronislaw, Il problema del significato nei linguaggi primitivi, in Ogden C.K. &
Richards I.A., 1923 [1966], Il significato del significato, trad. it., Milano, Garzanti, 1966,
pp. 333-383.
92 FEDERICO ALBANO LEONI
Mathesius, Vilém, Poznámky o tak zvané ellipse a anglických větách neslovesných [Remar-
ques sur ce qu’on appelle les ellipses et sur les énoncés anglais non verbaux], «Sborník
Filologický» 2, 1911, p. 215-234 (Note intorno alla cosiddetta ellissi e alle frasi senza
verbo in inglese, trad. it. di Andrea Trovesi, con un’introduzione di S. Raynaud, «Lingui-
stica e Filologia» [2012, in stampa]).
Mulligan Kevin, L’essence du langage, les maçons de Wittgenstein et les briques de Bühler, in
Friedrich Janette, Samain Didier (a cura di), Karl Bühler. Science du langage et mémoire
européenne, Dossiers d’HEL, n. 2 (supplément électronique à la revue «Histoire Epistémo-
logie Langage»), Paris, SHESL, n.2, 2004 (http://htl.linguist.jussieu.fr/dos-HEL.htm).
Nagel Ernest, Wholes, Sums, and Organic Unities, in Daniel Lerner (a cura di), Parts and
Wholes - The Hayden Colloquium on Scientific Method and Concept, New York, The Free
Press of Glencoe, 1963, pp. 135-155 (ristampa da «Philosophical Studies», III, 2, 1952).
Nagel Ernest, The Structure of Science – Problems in the Logic of Scientific Explanation, In-
dianapolis, Hackett Publishing Company, 1979.
Petitot-Cocorda Jean, Morphogenèse du sens, Paris, PUF, 1985 (trad. it. Morfogenesi del
senso. Per uno schematismo della cultura, Milano, Bompiani, 1990, da cui cito).
Piaget Jean, Le structuralisme, Paris, PUF, 1968 (trad. it. Lo strutturalismo, Milano, il Sag-
giatore, 1968, rist. ivi 1994, da cui cito).
Polanyi Michael, Personal Knowledge – Towards a Post-Critical Philosophy, Chicago, Chi-
cago University Press, 1958.
Pomian Krzysztof, Struttura, in Enciclopedia, vol. 13, Torino, Einaudi, 1981, pp. 723-764.
Pos Hendrik J., Perspectives du structuralisme, «TCLP», IX, 1939, pp. 71-78.
Raynaud Savina, Il Circolo Linguistico di Praga (1926-1939). Radici storiche e apporti teo-
rici, Milano, Vita e Pensiero, 1990.
Raynaud Savina, Porre, comporre, disporre. Dai giudizi tetici agli enunciati tetici, ai temi e
ai loro correlati, in Radimský Jan (a cura di), Perspective fonctionnelle de la phrase-
l’apport du Cercle de Prague, «Echo des études romanes», VIII/1 (volume thématique),
2012, pp. 129-141 (www.eer.cz/files/2012-1/2012-1-10-Raynaud.pdf).
Saussure Ferdinand de, Cours de linguistique générale, Paris, Payot 1962 [1916] (trad. it.
Corso di linguistica generale, Introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro,
Bari, Laterza, 19682, da cui cito).
Saussure Ferdinand de, Cours de linguistique générale. Édition critique établie par Rudolf
Engler, Wiesbaden, Harrassowitz, 1967-1968 (fascic.1-3), 1974 (fascic. 4).
Saussure Ferdinand de, Scritti inediti di linguistica generale, Introduzione, traduzione e
commento di Tullio De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 2005 [2002].
Simons Peter, Parts – A Study in Ontology, Oxford, Oxford University Press, 1987.
Trubeckoj [Trubetzkoi] Nikolaj S., Grundzüge der Phonologie, Prague, 1939 (= TCLP, VII;
trad. it. Fondamenti di fonologia, Torino, Einaudi, 1971).
Wegener Philipp, Untersuchungen über die Grundfragen des Sprachlebens, Halle, Niemeyer,
1885 (rist. Amsterdam‑Philadelphia, Benjamins, 1991).
Wittgenstein Ludwig, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell, 1953 (trad.
it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, rist. 1983).
EMANUELE BANFI
(Università degli Studi di Milano-Bicocca)
* A Norbert Dittmar, che tanto e con tanta passione ha indagato, in lavori mirabili, il farsi delle
dinamiche linguistiche in ambito urbano, non spiacerà -mi auguro- una descrizione dei processi di
semantizzazione della nozione di ‘città’ così come essi si sono realizzati in due ambienti – quello
indo-europeo e quello cinese – nei quali la rete delle città ha contributo, in modo essenziale, a
determinarne i singoli quadri.
È, questo, un mio piccolo omaggio rivolto ad un collega caro e stimato.
Il testo di questo contributo si basa su materiali che sono stati presentati e discussi in occasione
di un Seminario dedicato alla nozione di ‘città’ svoltosi presso l’Università di Napoli ‘L’Orientale’ il
30 novembre 2012.
94 EMANUELE BANFI
cio-economico su ciò che città non è o le lotte per conquistare tale potere’; persino
‘uno stato d’animo’, ossia la convinzione autofondante da parte di coloro che abi-
tano entro uno spazio delimitato di essere diversi, superiori agli altri; ma, anche e
infine, ‘città’ intesa come ‘anomalia del popolamento’ (Braudel 1977, p. 380): una
agglomerazione che rompe la continuità di un territorio e il cui carattere- ‘anomalo’,
appunto- balza immediatamente all’occhio dell’osservatore.
Le difficoltà definitorie vanno al di là del rapporto tra nozioni generali -pur
ammettendo che esse possano avere comunque un valore oggettivo- e contenuti, va-
riabili questi tra civiltà e civiltà. Superati i vecchi problemi definitorii tra urbs ‘città
di pietra’ e civitas ‘città vivente’ -coppia di termini risalenti a letture più o meno
letterali di un celebre passo della Civitas Dei agostiniana, ripreso anche da Isidoro
di Siviglia (VI-VII sec.), poi da Brunetto Latini e perfino da Jean Jacques Rous-
seau; termini sottolineanti il ruolo della comunità cittadina rispetto all’aspetto mate-
riale della città-, occorre concentrare l’attenzione sulle ‘funzioni’ esercitate da una
città, nella consapevolezza, tuttavia, che, anche a tal proposito, non sembra esistere
una funzione propriamente ed esclusivamente ‘urbana’, tale per cui, in presenza di
essa, si possa definire ‘città’ un agglomerato di edifici e di individui: la stessa fun-
zione ‘politica’ -o, meglio, la serie di funzioni (religiosa, militare, giuridico-giudi-
ziaria, amministrativa, economico-finanziaria, ecc.) riassumibili entro l’ampio attri-
buto di ‘politico’- risultano variare nel tempo e nello spazio: moltissimi i casi in cui
il potere ‘politico’, in senso lato, risiede(va) altrove rispetto alla ‘città’: basti pen-
sare ai castelli altomedievali, ai principati territoriali o a diversi momenti delle mo-
narchie inglesi e francese; o, nel mondo islamico, alla funzione ‘politica’ di santuari
religiosi, pur potentissimi, ancorché lontani dal fragore dei centri urbani.
1
Come per altro ben simbolizzato nella forma del geroglifico per ‘città’ propria dell’Egitto
faraonico.
2
Coniugante, cioè, secondo l’insegnamento di grandi maestri della linguistica storica -da Pi-
sani (1975), Zamboni (1976), Belardi (2002)- indagini di tipo fonologico e micro-morfosintattico,
in prospettiva ricostruttiva, con osservazioni di carattere antropologico e storico-culturale.
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 95
risultano sottesi alla loro codificazione, come ben illustrato da Bottéro (1996), da
Schuessler (2007).
Porrò in luce, in alcuni casi, simiglianze tra i processi di semantizzazione do-
cumentati nei due ambienti: il che non significa -sia chiaro- pensare a rapporti di-
retti tra mondi indeuropeo e cinese3 quanto, piuttosto, invita a considerare, nelle due
macro-comunità linguistiche oggetto d’indagine, l’azione di processi di semantizza-
zione ‘paralleli’, interpretabili quali riflesso di probabili ‘universali semantici’, se-
condo la nozione ampia che ne hanno dato tanto Wierzbicka (1992) quanto i cura-
tori del WALS (Haspelmath et al., 2005).
La liceità di un confronto tra dati provenienti dai due ambienti si basa, infine,
su una serie di fattori di natura squisitamente extralinguistica: la profondità crono-
logica delle attestazioni ricorrenti nell’una e nell’altra realtà e i loro ‘caratteri’ so-
cio-culturali ‘originari’ ove il fenomeno ‘città’ ha avuto, da sempre, ruolo e fun-
zione essenziali.
2.1.1. Di seguito segnalo una serie di rubriche relative alla nozione di ‘città’
incentrate su radici proprie dell’ambiente indo-europeo.
˗ Il tipo ‘mercato’ > ‘piazza’ > ‘città’:
3
Rapporti che pure sono esistiti: come hanno opportunamente mostrato Bauer R.S., Sino-Ti-
betan *kolo “wheel”, «Sino-Platonic Papers», XLVII, 1994; Sagart L., The roots of Old Chinese,
Amsterdam, Benjamins, 1999; Pulleyblank E., Early Contact between Indo-Europeans and Chi-
nese, «International Review of Chinese Linguistics», I/1, 1996, pp. 1-24; Schuessler A., Multiple
Origins of the Chinese Lexicon, «Journal of Chinese Linguistics», XXXI/1, 2003, pp. 1-35;
Wiebusch T., Tadmor U., Loanwords in Mandarin Chinese, in Haspelmath M., Tadmor U. (a cura
di), Loanwords in the World’s Languages. A Comparative Handbook, Berlino, De Gruyter
Mouton, 2009, pp. 575-598.
4
In ambiente indo-europeo: gr. κώµη, ἡ; lat. vīcus, got. haims, weihs, a.nord. þorp, byr, lit.
sodžius, lett. sādža ‘insediamento’, lit. kaimas / kiemas ‘corte, fattoria’, a.sl. selo, scr. grāma, av.
vīs/vĭs, ecc.; in ambiente cinese xiāng 鄉 /乡 (d’ora in poi, nella citazione di caratteri cinesi, il ca-
rattere posto a sinistra della sbarra obliqua indica il carattere tradizionale, quello posto a destra
della sbarra obliqua il carattere semplificato).
96 EMANUELE BANFI
˗ *age(i)r- / *ago(i)r- ‘mettere insieme’ > ‘aggregare’ (cfr. gr. ἀγείρειν) >
‘luogo di assembramento’ >‘mercato’ > ‘piazza’: riscontri probabili tra
scr. nagara ‘città’ (e, forse, anche con scr. grāma ‘villaggio’ e agāra-
‘casa’) e gr. ἄγορος, ὁ ‘riunione’, ἄγυρις, ἡ ‘assembramento’ (πανήγυρις,
ἡ ‘riunione generale’ > ‘festa collettiva’), ἀγορά, ἡ ‘mercato, piazza’.
˗ Il tipo ‘città’ come ‘comunità politica’ vs. (semplice) ‘insediamento’:
*pǝ- ‘essere numeroso’ / ‘riempire’ > ‘luogo dove stanno molte persone’ >
‘luogo fortificato’/’fortezza’ > ‘città’: riscontri probabili tra scr. pura- ‘città’ (< pūr-
‘luogo fortificato, fortezza’), lingue baltiche (lit. pilis, lett. pils ‘castello’) e (forse!)
gr. πόλις, ἡ: inizialmente ‘cittadella, fortezza’ (cfr. Th. II, 15), esattamente come in
sanscrito e in ambiente baltico; in greco omerico ricorre anche il doppione πτόλις,
ἡ, il cui etimo è inspiegato (forse un fatto di sostrato), raro nei tragici e però atte-
stato in cipriota (ove ricorre un πτόλιFι ), in tessalico (in forma assimilata, nel com-
posto: ττολίαρχοι), in arcadico (indicante il nome di Mantinea) e in miceneo. Ini-
zialmente πόλις, ἡ indicava la fortezza ove, nel cuore della città, stavano i santuari
(oltre che nel già citato Thuc. II, 15, anche in Thuc.V, 23, 47; in Ar. Lys. 245, ove,
in tutti i luoghi citati πόλις, ἡ = ἀκρόπολις). Ma già in Omero (Il. 6,88; 20,52)
l’acropoli di Troia è chiamata πόλις ἄκρη, contrapposta a πόλις designante in modo
generico ‘città’ intesa in quanto comunità politica e religiosa: dunque, la città-stato;
*wes- ‘essere, stare; abitare’: scr. vás-a-ti ‘rimanere, abitare’ (scr. ved. vástu-
‘residenza’/scr. vāstu ‘luogo di abitazione, casa’), got. wis-an ‘rimanere, essere’,
a.ingl. wes-an ‘rimanere, essere’, (forse) itt. ḫuiš-zi ‘egli vive’, gr. ἄεσα (aor.) ‘id.’,
tok.A waṣt, tok.B ost ‘casa’) e, ovviamente, gr. Fάστυ > ἄστυ, τό. In ambiente ita-
lico è interessante il confronto con il solo messapico vastei (dat.). Quanto a gr.
ἄστυ, la forma con digamma iniziale (Fάστυ) è assicurata, oltre che dal miceno
(watu / wato = Fαστός) e dalla metrica omerica, anche dal beotico Fάστιος (gen.;
attestato in IG VII 3170): ἄστυ, τό indicava ‘città, agglomerazione urbana’, in senso
concreto, contrapposta ad ἀγρός, ὁ ‘campagna’ e, anche, a πόλις, ἡ / ἀκρόπολις, ἡ
indicanti la nozione di ‘città’ in senso politico. Onde, in greco, alcuni interessanti
derivati: ἀστός, ὁ / ἀστή, ἡ ‘abitante (m. e f.) di una città’, ἀστυβοώτης, ὁ ‘araldo
pubblico’, ἀστυνόµος, ὁ ‘capo delle guardie civiche’ (ancora attuale, quest’ultimo,
quale prestito dotto, in neogreco: ἀστυνόµος, ὁ è ‘il poliziotto’!); anche in ambito
onomastico. Uno per tutti: Ἀστυάναξ.
˗ Il tipo ‘luogo recintato’/ ‘escludente’ (per motivi sacrali):
*wer-ǵ- ‘assembrare > comprimere, premere’ (cfr. gr. εἴργειν): ‘assembrare >
rinchiudere > tenere fuori, escludere’, lat. urg-ēre, lit. verž-iù, verž-ti ‘comprimere’.
Interessanti i confronti con scr. vjána- (n.) ‘recinto’/vrajá- (m.) ‘recinto’, scr. av.
varǝzāna- ‘comunità’/vardana ‘città’ (> come prestito nel scr. vardhana- ‘id.’);
5
Risultano ormai inaccettate le etimologie tradizionali che volevano lat. urbs, urbis riflettere
un i.e. *u(o)rbh/dh-(i-) connesso con orbis, orbis ‘cerchio’; o riflettere un i.e. *bhrģh- ‘fortezza’.
98 EMANUELE BANFI
*ḱei- ‘giacere’: cfr. gr. κείσθαι ‘giacere’. La forma sta alla base di lat. cīvitas,
cīvitātis ‘città’, derivato da cīvis ‘cittadino’ (attestato a partire dal lessico delle
Leggi delle XII Tavole: nella forma arcaica ceivis) e passato, assai probabilmente,
in osco (cēus< lat. *cēvis): la flessione del tema in -i è dovuta, assai probabilmente,
ad analogia con hostis. Alla base di cīvis è da porsi una probabile base aggettivale
i.e. *ḱei-uo- ‘vicino’< * ḱei- ‘giacere’, confrontabile con scr. śivá- ‘che è prossimo
>favorevole’, lett. siẽva ‘moglie’, got. heiwa-frauja ‘capo della famiglia’, a.ingl.
hīwan (pl.) ‘membri di una casa’, aa.td. hīwo ‘marito’;
*st(h)a-ǝ-: ‘stare’ > ‘insediarsi’ > ‘luogo di insediamento’, alla base di numero-
se forme toponimiche germaniche, del tipo got. staϸs ‘luogo’, dan., sved, ol. stad,
a.a.td. sta, n.a.td. stadt, ted. Stadt, ecc.;
*me(i)th ‘abitare, stare’: av. maeθana ‘casa’, mitayaiti ‘egli vive’, lit. maĩstas,
a.sl. město, rus. mesto (Berneker, 1924, pp. II-51), pol. miasto ‘luogo’ > ‘città’.
2.2.1.
˗ xiāng 鄉 / 乡 ‘villaggio o città dove uno è nato’6: il carattere, nella forma
non semplificata (鄉 鄉), rappresenta iconicamente due individui (乡 e 阝)
seduti l’uno di fronte all’altro e intenti a mangiare (l’elemento centrale -良
- è ciò che ricorre nella parte inferiore del carattere 食 shí ‘mangiare’ (la
parte superiore di tale carattere -人- indica un coperchio posto sopra un
contenitore - 良 - pieno di cibo).
L’esame delle forme più antiche del carattere xiāng 鄉/乡 confermano tale in-
terpretazione: nelle iscrizioni su ossa oracolari (jiǎgǔwén 甲骨文), risalenti ai secc.
XIII-XI a.C. il carattere xiāng 鄉 / 乡 mostra in modo iconico due individui, posti
l’uno di fronte all’altro, nel cui mezzo sta un pesce, alimento essenziale per le genti
stanziate nella culla della antica civiltà cinese, le regioni bagnate dai grandi fiumi:
6
Xiāng 鄉 / 乡: Yancheng (鹽城, Mandarino) [ɕiã31], Jieyang (揭 , Min) [ hiõ33], Taiwa-
nese (台語, Min) [hiũ55], Pucheng-Nanpu (浦城南浦, Wu) [xiãŋ45], Xinyu (新余, Gan) [ʃoŋ34].
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 99
Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小 篆, sec. III a.C.) l’immagine è
nuovamente e vistosamente iconica: come nelle iscrizioni su ossa oracolari
(jiǎgǔwén 甲骨文), sono presenti due ‘individui’ intenti a mangiare (probabilmente,
di nuovo, un pesce):
cūn 村: ‘villaggio’. Il carattere, identico sia nella forma complessa che sempli-
ficata (e con scarsa differenziazione, a livello di resa fonetica, in punti geolinguistici
diversi dello spazio cinese), è formato da due elementi: 木 mù ‘legno, albero’ e 寸
cùn ‘unità di misura, pollice’ (qui con valore puramente fonetico).
Il primo valore del morfo, in cinese antico, era ‘villaggio’ e poi, per estensione
‘campagna’, ‘piccola circoscrizione’. Anche, per il noto fenomeno del plurisemanti-
smo di un morfo, anche, con valore aggettivale ‘rozzo’ > ‘stupido’/’limitato’; anche
‘malvagio’/’brutto’; come verbo vale ‘umiliare qualcuno con le parole’ > ‘offendere’
(Ricci, 2011, pp.1976-1977).
Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小 篆, sec. III a.C.) la forma è
100 EMANUELE BANFI
Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.) il carattere ha
la forma seguente:
7
La cui resa varia in punti geolinguistici diversi dello spazio cinese: chéng 城: Huizhou (惠
州, Hakka) [siaŋ11], Xichang (西昌, Hakka) [ȿaŋ13], Canton (廣州, Yue/cantonese) [ʃeŋ21], Panyu-
Shiqiao (番禺市橋, Yue/cantonese) [ʃɛŋ31], Zhongshan-Longdu (中山隆都, Min) [ʃiɛŋ33],
Danyang (丹陽, Wu) [səŋ55], Wenshan (文山, Mandarino) [ts’ə n42]; shì 市: Suzhou (蘇州, Wu)
[zɿ31], Teochew (潮州, Min) [tsua11], Zhangping (漳平, Min) [ts’i53].
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 101
nella scrittura del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.):
nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.)
Nelle scritture del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.), infine, la stiliz-
zazione della testa è portata all’eccesso:
8
Segnalo rese di dūshǒu 首都 proprie di alcuni punti geolinguistici della Cina: il carattere
shǒu 首 è reso nello Xiamen (廈門, Min) [siu53] / [ts’iu53], a Nanchino (南京, Mandarino)
[ȿəɯ212], a Chengdu (成都, Mandarino) [səu53], a Canton (廣州, Yue/cantonese) [ʃɐu35]; il ca-
rattere 都 dū, invece, non presenta significative variazioni nei dialetti cinesi.
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 103
La forma più antica del carattere risale alle scritture in piccolo sigillo (xiǎoz-
huān 小篆, sec. III a.C.)
3. CONCLUSIONI
3.1. In ambiente indo-europeo la nozione di ‘città’ risulta veicolata da lessemi il
cui semantismo fa riferimento ad una serie di radici esprimenti tre nozioni principali:
3.2. In ambiente cinese la nozione di città è resa, così come risulta dall’esame
dei caratteri, secondo le seguenti strategie semantiche:
9
Il carattere zhèn 鎮 risulta reso, foneticamente, in modo diverso in punti geolinguistici della
Cina: Xiamen (廈門, Min) [tin21], Jieyang (揭 , Min) [teŋ213], Xuzhou (徐州, mandarino) [tȿə
51].
104 EMANUELE BANFI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Adrados Francisco Rodrigurz, Bernabé Alberto, Mendoza Julia, Manual de Lingüística
indoeuropea. II. Morfología nominal y verbal, Madrid, Ediciones Clásicas, 1996.
Baldi Philip, The Foundations of Latin, Berlin-New York, de Gruyter, 1999.
Banfi Emanuele, Etimologie cinesi: alla ricerca della filigrana della parola (scritta), in
Manco A. (a cura di), Atti del XXXV Convegno internazionale di Studi della Società Ita-
liana di Glottologia (Napoli, 21-23 ottobre 2010), Roma, Il Calamo, 2011, pp.15-76.
Bauer R.Simon, Sino-Tibetan *kolo “wheel”, «Sino-Platonic Papers», XLVII, 1994, pp.15-33.
Belardi Walter, L’etimologia nella storia della cultura occidentale, Roma, Il Calamo, voll. 2,
2002.
Berneker Erich Carl, Slawisches etymologisches Wörtebuch, Heidelberg, Winter, 1924.
Bottéro Françoise, Sémantisme et classification dans l’écriture chinoise. Les systèmes de
classement des caractères par clés du Shuowen jiezi au Kangxi Zidian, Paris, Mémoires
de l’Institut des Hautes Études Chinoises, vol. XXXVII, 1996.
Braudel Fernand, Capitalismo e civiltà materiale, Torino, Einaudi, 1977.
Campanile Enrico, La ricostruzione linguistica e culturale, in Lazzeroni R. (a cura di),
Linguistica storica, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pp.115-146.
Chantraine Pierre, La formation des noms en grec ancien, Parigi, Klincksieck, 1979 [1933].
Chantraine Pierre, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots,
Parigi, Klincksieck, 1990.
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 105
1. INTRODUZIONE
Il Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche (= GSPL, cfr. http://www.sli-
gspl.net) ha elaborato “Sette tesi per una politica linguistica democratica”, che rap-
presentano un punto di riferimento imprescindibile per la riflessione sui tanti aspetti
che occorre considerare per tentare di regolare gli usi delle lingue che i parlanti
fanno in comunità plurilingui e non, in modo che sia garantito a tutti pari sviluppo
cognitivo e sociale evitando che la maggior competenza in una delle varietà o
lingue di un repertorio dia luogo a discriminazioni nei domini della famiglia, della
scuola, del lavoro, dell’integrazione sociale in generale1.
La quinta delle Sette Tesi, qui di seguito riportata, è dedicata in particolare al
plurilinguismo degli individui e al multilinguismo delle società dei paesi e merita di
essere presa in considerazione oltre l’orizzonte di condivisione culturale e di risul-
tati scientifici riconosciuti relativi al tema che tratta.
Tesi 52
Il plurilinguismo degli individui e il multilinguismo delle società e dei paesi è un valore
da tutelare e promuovere in una prospettiva che voglia essere democratica: a esso dun-
que occorre ispirare analisi e proposte in materia di pratiche educative, politiche lingui-
stiche implicite o esplicite e promozione di studi e ricerche, fatta salva l’opportunità
*
Dedico con affetto questo contributo a Norbert Dittmar, che ha segnato la mia carriera di
studioso anzitutto nei tempi dello studio dell’acquisizione di lingue seconde, e poi come maestro nei
progetti di ricerca nati dalla collaborazione tra la Freie Universität Berlin e l’Università di Pavia negli
anni ‘90 del secolo scorso e ancora nell’ambito del gruppo europeo coordinato dal Max-Planck-
Institut für Psycholinguistik di Nimega (progetto Structure of the Learner Language) per tutti i primi
anni 2000. Il tema qui trattato è ancora relativo alle lingue seconde, ma nell’ottica delle politiche
linguistiche che occorre elaborare per regolare in maniera ordinata l’alternarsi di italiano -nel caso qui
in esame- e inglese nei percorsi di studio universitario. Il lavoro qui presentato è parte del progetto
di ricerca interuniversitario “Lingua seconda/lingua straniera nell’Europa multilingue: acquisi-
zione, interazione, insegnamento”, finanziato con fondi PRIN 2009 del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca assegnati all’Università degli Studi di Bergamo.
1
Le Sette Tesi sono consultabili all’indirizzo telematico: http://www.sli-gspl.net/home/gspl-
le-sette-tesi/. Alla loro discussione è stato dedicato un incontro a Roma nei giorni 3 e 4 maggio
2013. In quell’incontro è stata presentata una prima versione di questo lavoro.
2
Corsivi di chi scrive.
108 GIULIANO BERNINI
La proposizione di tesi con l’auspicio di una loro validità generale, se non uni-
versale, comporta implicitamente la verifica preliminare della bontà della loro for-
mulazione, pur nella difficoltà di operare generalizzazioni di un livello di astrazione
più basso di quello del testo, attraverso la ricca varietà di situazioni cui esse si ap-
plicano.
Tenterò di affrontare questo compito in una prospettiva applicata e limitan-
domi alla quinta tesi, sottoponendo i suoi contenuti a una sorta di prova di trazione,
costituita dal plurilinguismo emergente nell’istruzione superiore italiana. La prova
di trazione toccherà i tre nuclei della quinta tesi, evidenziati in corsivo nel testo qui
sopra riportato, ovvero il valore rappresentato dal plurilinguismo degli individui e
dal multilinguismo delle società, le politiche linguistiche che ad esso occorre ispi-
rare3, l’auspicio di una convergenza verso l’apprendimento e l’uso di una stessa lin-
gua a fini pubblici e ufficiali nel contesto multilingue di un paese.
Nel testo della quinta tesi si possono leggere in filigrana gli insegnamenti tratti
dalla storia linguistica dell’Italia postunitaria, compiutamente descritta in De Mauro
(1963). Questi vengono proposti in termini positivi: si riconosce il ruolo dell’ita-
liano come lingua di convergenza rispetto ai dialetti e alle lingue minoritarie e si ri-
conosce il contributo dei dialetti alla ricchezza del repertorio multilingue del territo-
rio della Repubblica e plurilingue dei suoi cittadini, pur nell’assenza di adeguate
linee di pratica educativa e politica lungimirante già invocate da Graziadio Isaia
Ascoli (1873, in particolare le pp. 13-14 e 30 della ristampa del 1975). Le scelte di
politica linguistica invece perseguite sono ora ripercorse in Orioles (2011), che
sottolinea la mancanza di attenzione pubblica anche nella attuale ristrutturazione dei
rapporti interlinguistici indotti in tempi recentissimi dall’integrazione economica,
tecnologica e socioculturale a largo raggio e che ha visto l’emergere dell’inglese
come lingua veicolare di maggior diffusione. Ciò ha comportato l’allargamento an-
che funzionale di quello che Kachru (1985) ha definito l’ “expanding circle”
dell’inglese, cioè l’area di diffusione di questa lingua come lingua veicolare oltre il
cosiddetto “outer circle”, dove essa si è sovrapposta a diverse lingue locali soprat-
tutto negli stati ex-colonie del Regno Unito. Lo “outer circle” è secondo Kachru il
primo anello di espansione dell’inglese, originariamente limitato ai paesi dello “in-
ner circle”, dove è parlato dalla stragrande maggioranza della popolazione come
lingua nativa.
La ristrutturazione in atto nei rapporti interlinguistici coinvolge ora l’istruzione
superiore italiana con la diffusione dell’inglese come lingua dell’insegnamento e dello
3
Comprendo nella nozione di “politica” ogni pratica che ad essa può essere ricondotta a co-
minciare da quelle educative.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 109
studio, che nell’anno accademico 2011/12 ha coinvolto ben 359 corsi di studio tra
baccellierato, lauree magistrali e dottorati secondo i dati pubblicati dalla CRUI (Ber-
nini, 2012, pp. 161-162). Il fenomeno tocca tutti i paesi europei e molti paesi extra-eu-
ropei come la Turchia, ed è anche all’attenzione dell’ultimo numero dell’«AILA Re-
view» (cfr. Smit, Dafouz, 2012). Questo processo di plurilinguismo emergente si pre-
sta dunque bene alla verifica della bontà della formulazione della quinta tesi.
2. VALORE
La quinta tesi si apre con l’affermazione del valore intrinseco di plurilingui-
smo degli individui e multilinguismo dei paesi, correlandone tutela e promozione
con l’impostazione della democrazia. La formulazione idealista qui adoperata pre-
suppone rapporti equilibrati tra le varietà di un repertorio, ancorché esse non siano
in posizione equipollente nell’uso che i parlanti possono o debbono farne nella so-
cietà in cui si trovano a convivere, come è ampiamente noto dalle situazioni di di-
glossia e, nella realtà italiana attuale, di dilalìa (Berruto, 2012, ma 1987).
Nell’ambito dell’istruzione superiore qui in esame l’utilizzo dell’inglese nei
corsi di studio di diverso livello riconfigura il repertorio linguistico, introducendo
una lingua veicolare a largo raggio di comunicazione accanto alla lingua nazionale
e a una o più varietà locali con minore raggio di comunicazione, almeno nelle scelte
individuali degli studenti e dei docenti coinvolti e almeno in quell’ambito. L’arric-
chimento del repertorio e delle potenzialità comunicative costituisce un valore nel
quadro dell’internazionalizzazione delle università, promossa dalla European Uni-
versity Association e definita “the process of integrating an international, intercultu-
ral or global dimension into the purpose, functions or delivery of higher education”
(Knight, 2009). Si tratta di un complesso di processi obbligati nella formazione
dell’area europea dell’istruzione superiore avviata dalla Dichiarazione di Bologna
del 19 giugno 1999 con l’obiettivo di formare i futuri cittadini dell’Unione europea.
I corsi in inglese dell’università italiana si aggiungono con un certo ritardo ai 2400
attivati fino al 2007 in 401 università di diversi paesi europei, ma principalmente
nei Paesi Bassi, in Germania, in Finlandia e in Svezia, secondo le statistiche pubbli-
cate in Wächter, Maiworm (2008, p. 19).
Con la sua adozione come lingua di insegnamento e di studio, lo status della
lingua inglese viene a cambiare: da materia di studio nella scuola e nell’università al
di fuori del repertorio linguistico della comunità sociale, essa diventa parte di que-
sto repertorio come lingua di relazione e di studio. Conseguentemente lo status
dell’inglese cambia anche nella pratica didattica: il suo utilizzo nell’insegnamento
di qualsiasi disciplina per favorirne l’apprendimento incidentale nella pratica nota
come CLIL (Content Language Integrated Learning) muta ora nel suo utilizzo
come mezzo di trasmissione di contenuti disciplinari nella EMI (English Medium
Instruction).
La differenza di status della lingua seconda nella pratica CLIL e nella pratica
EMI incide però negativamente sul valore del plurilinguismo emergente. Per la sua
110 GIULIANO BERNINI
[…] ma anche chi sceglie di essere curato qui venendo per esempio dai Paesi dell’Est o
dai Paesi emergenti. E accogliere questa utenza significa avere personale con una voca-
zione internazionale: sarà necessario che sappiano parlare inglese, per esempio.
Il rapporto asimmetrico è evidente nei dati ISTAT del 2006 relativi alla dichia-
razione di conoscenza dell’inglese e del francese, presentati da Lorenzo Còveri
4
Si veda a questo proposito l’illustrazione di alcuni dettagli di questo conflitto in Bernini
(2012, pp. 155-158).
5
Corsivi di chi scrive.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 111
(2013) nel recente convegno fiorentino sulle Città d’Italia: dichiara di avere una
qualche conoscenza dell’inglese il 43% degli intervistati, contro il 29,1% che di-
chiara una qualche conoscenza del francese, dato sul quale pesa però l’82% degli
intervistati della valle d’Aosta.
3. POLITICHE LINGUISTICHE
La fragilità del valore di plurilinguismo e multilinguismo, qui mostrata per il
caso della nostra prova di trazione, è presupposta dalla quinta tesi, che sottolinea la
necessità di consolidarlo con una serie di misure, tra le quali centrale è l’elaborazione
di politiche linguistiche. Questo compito richiede la considerazione di tre fattori:
˗ le pratiche effettive dei parlanti, come p.es. la scelta dell’inglese come lin-
gua dell’istruzione superiore,
˗ le loro concezioni circa il valore o il prestigio delle varietà disponibili,
come p.es. quella che traspare dall’intervista al direttore generale del
nuovo ospedale di Bergamo riportata in 2,
˗ l’impegno di “gestori” che sappiano proporre e controllare i comporta-
menti linguistici auspicati, come descritto in Wilkinson (2011) per
l’università di Maastricht e in Salö (2010) per molte università svedesi.
lematico http://www.petitionpublique.fr/PeticaoVer.aspx?pi=UFS2013).
Nel caso qui in esame, una linea di condotta propositiva può essere articolata
in cinque punti, in relazione alle tre componenti di una politica linguistica, come qui
indicato.
Per quanto riguarda poi la concezione delle lingue e del loro uso, si può preve-
dere:
3) la libertà di scelta della lingua di istruzione, offrendo gli stessi corsi e inse-
gnamenti nelle due lingue coinvolte, italiano e inglese;
4) la costituzione di un ambiente realmente multilingue con insegnamenti te-
nuti in inglese da docenti italiani e stranieri per studenti sia italiani sia
stranieri; l’inglese acquisisce così lo status di lingua veicolare e dello stu-
dio e il suo uso non risulta affettato, come lo sarebbe nelle interazioni tra
soli italofoni.
Lingue e let-
Lettere e fil.
Sc. Umane.
Giurisprud.
Ingegneria
Economia
e sociali
ter. str.
Totale
arabo 0 0 0 0 0 99/100 99/1,41
cinese 0 0 0 0 0 230/100 230/3,27
inglese 447/9,22 177/3,65 904/18,66 276/5,69 1266/26,14 1773/36,60 4843/68,98
francese 0 35/7,36 35/7,36 30/6,31 11/2,31 364/72,84 475/6,76
giapponese 0 0 0 0 0 153/100 153/2,18
spagnolo 0 22/3,23 53/7,79 0 3/0,44 602/88,53 680/9,68
russo 0 0 0 0 0 134/100 134/1,90
tedesco 0 7/1,72 11/2,70 5/1,23 0 383/94,33 406/5,78
Totale 447/6,37 241/3,43 1003/14,28 311/4,43 1280/18,23 3738/53,24 7020
4. CONVERGENZA
Le parole che nella quinta tesi introducono l’opportunità della convergenza
verso una stessa lingua negli usi pubblici e ufficiali, pur prudenti, sembrano costi-
tuire un contrappeso riduttivo all’asserito valore del plurilinguismo e del multilin-
guismo. In effetti le esigenze comunicative in campo educativo e pubblico rappre-
sentano fattori di grande peso specifico che possono interagire in maniera anche
opposta con le scelte linguistiche personali, come mostra da una parte l’attrazione
esercitata dallo ‘ivrit’ nello Stato d’Israele e dall’altra parte la marginalità dell’irlan-
6
Le percentuali sono riferite all’ultima casella di ogni riga, mentre quelle dell’ultima colonna
sono riferite al totale degli studenti considerati riportati nella casella in basso a destra. Quindi i 99
studenti che hanno scelto arabo nel solo Dipartimento di Lingue e letterature straniere rappresen-
tano la totalità (100%) delle inserzioni di arabo nei piani di studio dell’intera università. Gli stessi
99 studenti, tuttavia, rappresentano solo l’1,41% del totale di 7020 inserzioni di lingue straniere
dell’università. Le 4843 inserzioni di inglese rappresentano il 68,98% del totale di 7020; percen-
tualmente, le inserzioni di inglese si distribuiscono come segue tra i vari dipartimenti: 9,22% a In-
gegneria, 3,65% a Giurisprudenza, 18,66% a Economia, 5,69% a Lettere e filosofia, 26,14% a
Scienze umane e sociali, 36,60% a Lingue e letterature straniere.
114 GIULIANO BERNINI
dese nella Repubblica d’Irlanda a parità di passione nazionale dei cittadini (cioè dei
parlanti) dei due paesi.
Anche nel caso qui in esame le esigenze comunicative tendono a instaurare un
rapporto asimmetrico tra le varietà in esso presenti e a condizionare le scelte di co-
dice a favore dell’inglese come lingua di maggior raggio comunicativo nel reperto-
rio dell’istruzione superiore.
L’asimmetria è presente nella maggior parte delle interazioni per via telema-
tica o telefonica o a faccia a faccia con non-italofoni anche quando il repertorio lin-
guistico a disposizione dei parlanti comprenda altre lingue oltre l’inglese, come è
già stato rilevato per le sedi da più tempo impegnate nell’internazionalizzazione,
come quella di Maastricht (Wilkinson, 2011, p. 5).
Nella comunicazione verso il grande pubblico le esigenze comunicative giusti-
ficano la costruzione di siti telematici delle università anche in inglese, che è soli-
tamente la versione direttamente accessibile da postazioni al di fuori dei confini na-
zionali. Ciò è massimamente evidente per i siti originariamente costruiti in lingue
che non utilizzano l’alfabeto latino e per i quali maggiore è la pressione esercitata
dall’efficacia di consultazione in favore della scelta di una lingua a più ampio rag-
gio comunicativo
L’utilizzo dell’inglese per una più efficace comunicazione a vasto raggio com-
porta anche una conseguenza per l’identità delle università stesse, le cui denomina-
zioni vengono trasposte in inglese, come in University of Bergamo, o Misr Univer-
sity for Science and Technology al posto di 9:;<=<>?@=<م واEFE= GHI JFI9; 7.
Queste traduzioni si configurano non tanto come glosse esplicative per chi non
conosce la lingua originaria, ma come nomi propri alternativi della medesima entità
in funzione delle relazioni instaurate con interlocutori di lingue diverse8. Si incide così
anche in senso antropologico sull’identità delle istituzioni universitarie, naturalmente
quelle al di fuori di Regno Unito, Stati Uniti d’America, Canada e Australia.
Lo scivolamento dal rapporto asimmetrico qui cursoriamente esemplificato
fino al monolinguismo indotto dalla convergenza verso una lingua per gli usi pub-
blici, è già in atto nella produzione scientifica, come è stato ampiamente discusso da
più voci e per la quale basti il rimando al numero 20 di «AILA Review» curato da
Augusto Carli e Ulrich Ammon nel 2007.
7
Ovvero, in trascrizione in caratteri latini: ǧāmiʕatu miṣra li-l-ʕulūma wa-li-l-taknūlūǧiya.
8
In maniera analoga a quello che avviene con i nomi propri (cognomi, nomi, nomignoli e so-
prannomi), come messo in luce da Cardona (1982, pp. 5-6), per cui la persona registrata all’anagra-
fe comunale col nome di battesimo Maria Antonietta è nota come Mita nella cerchia di pari e come
Nietta in quella familiare.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 115
certa contraddizione tra la terza delle sue componenti fondamentali, cioè la conver-
genza verso una lingua ufficiale, e la prima, cioè il valore del plurilinguismo e del
multilinguismo individuale e sociale. La tesi meriterebbe quindi di essere riformu-
lata sulla base delle prime osservazioni delle evoluzioni internazionali del plurilin-
guismo, riconciliando l’opportunità della convergenza verso una stessa lingua per
usi pubblici e ufficiali con l’asserzione del valore del plurilinguismo. Le ultime tre
righe della quinta tesi potrebbero essere riformulate come qui indicato:
La riformulazione, oltre a renderne il testo più efficace nei confronti di una più
vasta gamma di situazioni di multilinguismo, mette la quinta tesi in un rapporto più
coerente con la terza, relativa all’apprendimento della prima lingua, e con la quarta,
relativa all’accesso a varietà di lingua con funzioni socialmente dominanti.
Della quinta tesi delle sette, coerentemente denominate anche Heptàlogos, ri-
sulta così più evidente la correlazione con la quinta formula del ben più autorevole
e importante Dekàlogos:
א תִּ דְ צָחS (20,13 )שטות
Non uccidere (Esodo 20, 13).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Ascoli Graziadio Isaia, Proemio, «Archivio glottologico italiano», 1, 1873, pp. v-xli (ristam-
pato in id. Scritti sulla questione della lingua, a cura di Corrado Grassi, Torino, Einaudi,
1975, pp. 5-45).
Airey John, «I don’t teach language». The linguistic attitudes of physics lecturers in Sweden,
«AILA Review», 25, 2012, pp. 64-79,
Baldi Benedetta, Savoia Leonardo M., Perché barbari? Lingua, comunicazione e identità
nella società globale, Roma, Bulzoni, 2006.
Bernini Giuliano, I processi di internazionalizzazione delle università italiane e le loro rica-
dute linguistiche, in Bombi Raffaella, Orioles Vincenzo (a cura di), 150 anni. L’identità
linguistica italiana. Atti del XXXVI Convegno della Società Italiana di Glottologia,
Roma, Il Calamo, 2012, pp.151-165.
Berruto Gaetano, Lingua, dialetto, diglossia, dilalìa, in idem, Saggi di sociolinguistica e lin-
guistica, a cura di Giuliano Bernini, Bruno Moretti, Stephan Schmid, Tullio Telmon,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 3-24 (originariamente 1987).
Cardona Giorgio Raimondo, Nomi propri e nomi di popoli: una prospettiva etnolinguistica,
«Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni», 119 C (Università di Urbino), 1982.
116 GIULIANO BERNINI
Carli Augusto, Ammon Ulrich (a cura di), Linguistic Inequality in Scientific Communication
Today, «AILA Review» 20, 2007.
Coveri Lorenzo, Le città e l’italiano: analisi di dati statistici, relazione al Convegno Città
d’Italia: ruolo e funzioni dei centri urbani nel processo postunitario di italianizzazione,
Firenze, 18-19 aprile 2013.
De Mauro Tullio, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963.
Hagège Claude, Contre la pensée unique, Paris, Odile Jacob, 2012.
Kachru Braj Bihari, Standards, codification and sociolinguistic realism. The English lan-
guage in the outer circle, in Quirk R., Widdowson H. G. (a cura di), English in the
World, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 11-30.
Knight Jane, Internationalisation: Key Concepts and Elements, in Gaebel Michael, Purse
Lewis, Wächter Bernd, Wilson Lesley (a cura di), Internationalisation of European
Higher Education. An EUA/ACA Handbook, A 1.1, Stuttgart, Raabe, 2009.
Orioles Vincenzo, Politica linguistica, in Il vocabolario Treccani. Enciclopedia dell’italiano,
diretta da Raffaele Simone, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 2, 2011,
pp.1115-1117.
Salö L., Engelska eller svenska? En kartläggning av språksituationen inom högre utbildning
och forskning, Stockholm, Språkrådet, 2010.
Seidlhofer Barbara, Understanding English as a Lingua Franca, Oxford, Oxford University
Press, 2011.
Smit Ute, English as a Lingua Franca in Higher Education. A Longitudinal Study of Class-
room Discourse, Berlin, de Gruyter, 2010.
Smit Ute, Dafouz Emma (a cura di), Integrating Content and Language in Higher Education.
Gaining Insights into English-Medium Instruction at European Universities, «AILA Re-
view» 25, 2012.
Spolsky Bernard, Language Management, Cambridge, Cambridge University Press, 2009.
Wächter Bernd, Maiworm Friedhelm, English-Taught Programmes in European Higher
Education. The Picture in 2007, «ACA Papers on International Cooperation in Educa-
tion», Bonn, Lemmens, 2008.
Wilkinson Robert, What can we learn from practice about changing the instructional lan-
guage? Impacts and techniques, in Gaebel Michael, Purse Lewis, Wächter, Bernd, Wil-
son Lesley (a cura di), Internationalisation of European Higher Education. An EUA/ACA
Handbook, D 3.6, Stuttgart, Raabe, 2011.
MARINA CHINI
(Università di Pavia)
1. INTRODUZIONE
Nell’ultimo decennio la sociolinguistica della migrazione in Italia ha svilup-
pato diversi filoni di ricerca1 che hanno arricchito la precedente focalizzazione
quasi esclusiva degli studi sul repertorio d’arrivo degli immigrati, sostanzialmente
sull’italiano L2 e sulle modalità della sua acquisizione spontanea (sintesi e riferi-
menti in Giacalone Ramat, 2003, 2007; Bernini, 2010)2, e vi hanno aggiunto
prospettive nuove sia di sociologia del linguaggio, relative alle lingue d’origine
(L1) e all’intero repertorio degli immigrati, con le sue dinamiche di mantenimento
di L1 e shift linguistico (es. Berruto, 2009; Valentini, 2009), sia di linguistica del
contatto e sociolinguistica variazionistica applicate alle varietà (soprattutto di L2)
parlate dagli immigrati (Vietti, 2005, 2009). Alcune altre indagini si sono soffer-
mate sui loro atteggiamenti linguistici (Guerini, 2009, Chini, 2007, 2009), sulle
modalità della gestione delle competenze plurilingui di immigrati all’interno del di-
scorso, nel quale le varie lingue del repertorio si alternano e intrecciano con diverse
funzioni (Guerini, 2006), altri lavori si sono infine ispirati al paradigma pluridisci-
plinare e multimodale del “paesaggio linguistico” (Bagna, 2009 e riferimenti).
Risale al 2002 una delle prime indagini quantitative sulla presenza e gli usi
dell’italiano e delle lingue di origine degli immigrati, coordinata da chi scrive e
svolta nell’area nordoccidentale del Paese, più precisamente nella Provincia di Pa-
via e a Torino. Essa è stata condotta all’interno del Progetto nazionale “Le lingue
straniere immigrate in Italia”, sostenuto dal CNR-Agenzia 2000 (Chini, 2004) e
coordinato da Massimo Vedovelli (Università Stranieri di Siena), e si basava sulle
risposte a un questionario compilato, in modalità guidata, da 414 minori (di cui 309
in Provincia di Pavia) e 171 adulti3. L’indagine era stata preparata da una serie di
1
Per alcune linee di sintesi su quest’area di ricerca ci permettiamo di rimandare a Chini
(2009a, 2011).
2
Sono ancora pochissimi gli studi sulla presenza e gli usi di varietà regionali e dialettali ita-
loromanze fra gli immigrati (es. D’Agostino, 2004; cfr. però Villa, in stampa).
3
I suoi principali risultati, oltre che nella monografia a cura di chi scrive (Chini, 2004), sono
stati esposti e spesso pubblicati in varie sedi nazionali (es. Chini et al., 2004; un numero di SILTA
a cura di Chini, 2009c) e internazionali (brevemente in Chini, 2011, 2013). Ci è qui gradito ricor-
dare che proprio su invito del festeggiato ne abbiamo riferito anche presso la Freie Universität di
Berlino in una conferenza su “Migration to Italy and the acquisition of Italian as a second lan-
118 MARINA CHINI
interviste qualitative svolte in Lombardia e Piemonte dal 2000 al 2002, sulle quali si
era in parte riferito in occasione di un Congresso della Società di Linguistica Ita-
liana (Chini, 2003). Tali interviste avevano mostrato all’opera alcune tendenze che
in gran parte i dati quantitativi confermavano (cfr. Chini, 2003, pp. 241-244, con
Chini, 2004, cap. 8).
Dieci anni dopo, nel 2012, l’indagine è stata replicata con uno strumento quasi
identico, un questionario distribuito fra oltre 500 studenti di origine immigrata dai 9
ai 15 anni ca. in Provincia di Pavia (a cura della sottoscritta e con la collaborazione
di colleghi, laureandi e dottorandi pavesi), e quindi fra oltre 1300 alunni in alcune
province del vicino Piemonte (a cura di Cecilia Andorno, già membro dell’Unità
pavese della ricerca del 2002 e ora docente nell’Ateneo di Torino). Le elaborazioni
sono ancora in corso, ma disponiamo già di analisi relative ad alcuni aspetti del
campione pavese, in particolare le modalità di apprendimento dell’italiano (Chini,
in stampa a) e gli usi linguistici in famiglia (Chini, in stampa b), oltre che di studi
parziali di laureandi dell’Università di Pavia4 relativi ad alunni immigrati di alcuni
centri della Provincia pavese o piemontesi (Vigevano, Voghera, Mortara; Alessan-
dria per il Piemonte). Nell’ultimo decennio numerose sono state pure le interviste
qualitative condotte presso famiglie immigrate dell’area nordoccidentale, soprat-
tutto pavese e lombarda, specie in occasione di tesi specialistiche, di dottorato o
Master che abbiamo seguito, lavori che hanno consentito di indagare più da vicino
le dinamiche sociolinguistiche di famiglie o individui immigrati residenti nell’area
lombarda (o piemontese) pure negli anni successivi al 2002, nella pluralità delle
esperienze e dei contesti di vita che li caratterizzano.
In questo contributo intendiamo da un lato fornire alcuni dati quantitativi
nuovi, emersi dall’indagine pavese del 2012, relativi alle scelte di lingua di ragazzi
immigrati nel contesto familiare e soprattutto in quello amicale, finora non esami-
nato, un dominio con forti valenze relazionali e talora identitarie (tanto in senso ge-
nerazionale che etnico), dall’altro desideriamo arricchire il quadro con spunti qua-
litativi tratti da studi di caso individuali o familiari relativi alla stessa area lom-
bardo-pavese, potenzialmente utili a identificare fattori rilevanti per l’inter-
pretazione degli esiti dell’indagine quantitativa.
Non ci soffermiamo in questa sede su aspetti generali di tipo socio-demogra-
fico relativi all’immigrazione italiana, per i quali rimandiamo al ricco Dossier Ca-
ritas/Migrantes del 2012, oltre che, per una sintesi, a Blangiardo (2010) e ai para-
grafi iniziali di nostri recenti lavori (Chini, in stampa a, in stampa b); sulla popola-
zione scolastica di cittadinanza non italiana si vedano i recenti rapporti MIUR
guage” (6 luglio 2005), nell’ambito di una Giornata di studio dell’“Interdisziplinäres Zentrum Eu-
ropäische Sprachen” vertente sul tema “Migrationslinguistik”.
4
In particolare ricordiamo le tesi di Eleonora Piangerelli, Luca Paganetti, Antonella Pino e
Valentina Cipolla per il Pavese; Martina Amisano per l’Alessandrino.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 119
(MIUR, 2011, 2012). Ricordiamo solo che, alla fine del 2011, la popolazione di
origine straniera presente in Italia per immigrazione regolare consta di 5 milioni di
soggetti (ca. l’8% della popolazione totale), di cui quasi un quarto è costituito da
minorenni (23.9%), mentre circa la metà sono donne (49.5%). Si tratta pertanto di
una popolazione spesso giovane e dinamica, in via di stabilizzazione o in molti casi
stabilizzata. Le provenienze sono molto variegate, essendo comunque più rappre-
sentati immigrati giunti da Romania (19% del totale degli immigrati), Albania
(14%), Marocco (13%), in misura minore da Cina (4.5%), Moldavia, India e Filip-
pine (tutte sul 3%). Le mete di migrazione sono sparse su tutto il territorio italiano,
ma soprattutto si trovano nelle seguenti regioni: Lombardia (per il 23.5% degli im-
migrati), Lazio, Emilia Romagna e Veneto (ognuno ca. 11-12%), Toscana e Pie-
monte (entrambe 8-9%). Le due aree da noi recentemente indagate, Lombardia e
Piemonte, sono pertanto nel novero delle regioni più toccate dal fenomeno, nelle
quali stanno verosimilmente iniziando a costituirsi comunità linguistiche immigrate,
forse “nuove minoranze”, di una certa consistenza (cfr. discussione in Chini, 2009a).
In tale quadro, in particolare nell’area lombardo-pavese (su cui, cfr. ORIM, 2011;
Blangiardo, 2012), vanno collocate le riflessioni che seguono, che potenzialmente
possono tuttavia identificare dinamiche all’opera pure in altre aree del Paese,
soprattutto del Nord-Ovest.
adattamenti. Ci concentreremo qui esclusivamente sui dati pavesi per i quali le ela-
borazioni sono più avanzate.
Il questionario, anonimo, comprende 60 domande, in parte chiuse in parte aperte,
riguardanti i principali dati socioanagrafici dei soggetti e dei loro familiari, le loro
esperienze scolastiche e migratorie, le reti amicali, gli usi di L1 (cioè la prima varietà
di lingua appresa in famiglia nell’infanzia), dell’italiano (L2) e di altre varietà lingui-
stiche, praticati con vari interlocutori, prima e dopo la migrazione. È inoltre richiesta
ai soggetti una autovalutazione delle proprie competenze in L1, in italiano e in altre
lingue, e sono comprese domande circa gli atteggiamenti verso L1, l’italiano e i ri-
spettivi contesti di vita, verso il bilinguismo e circa gli usi delle lingue con alcuni
mezzi tecnologici (internet, skype, mail, sms, chat). Il questionario, steso in un italia-
no piano, è stato somministrato nelle scuole dalla scrivente e/o da suoi collaboratori a
gruppi in media di 5-15 soggetti, secondo un protocollo concordato che mirava a gui-
dare da vicino la compilazione dello stesso, dopo aver ottenuto l’autorizzazione delle
autorità scolastiche e dei genitori dei soggetti. Non sono stati coinvolti alunni neo-arri-
vati che si sarebbero verosimilmente trovati in difficoltà nella compilazione. La durata
della somministrazione guidata collettiva è andata di norma dai 60 ai 90 minuti5.
Le indagini qualitative cui faremo riferimento sono invece interviste indivi-
duali o familiari a soggetti immigrati di varia origine, residenti in Provincia di Pavia
o in aree confinanti, che hanno seguito in modo libero un canovaccio normalmente
concordato con chi scrive sulle stesse tematiche toccate dal questionario. L’intervi-
statore (nei casi riportati al par. 4, un’intervistatrice), un laureando o laureato, ha
avuto cura, quando possibile, di incoraggiare approfondimenti e riflessioni perso-
nali degli interpellati sull’esperienza migratoria e sul relativo vissuto linguistico.
Come in genere nelle ricerche qualititative, lo scopo finale delle interviste è stato
quello di “accedere alla prospettiva del soggetto studiato: cogliere le sue categorie
mentali, le sue interpretazioni, le sue percezioni ed i suoi sentimenti, i motivi delle
sue azioni” (Corbetta, 1999, pp. 405), in particolare in relazione al suo vissuto lin-
guistico e migratorio. Naturalmente non sempre e non tutti i soggetti hanno for-
nito riflessioni articolate ed esaustive, anche in dipendenza dall’età, dalla compe-
5
L’indagine ha potuto svolgersi grazie alla buona volontà e all’impegno di molti e alla collabo-
razione di scuole, associazioni presenti sul territorio, ricercatrici, docenti, giovani laureandi e
dottorandi. Siamo pertanto molto grati, in particolare, alle autorità scolastiche pavesi (dott. Giuseppe
Bonelli, prof. Caterina Mosa), ai Presidi e docenti delle scuole coinvolte (fra cui Monica Lardera), alle
colleghe Federica Da Milano, Caterina Mauri, Michela Biazzi, a studenti, laureandi o dottorandi per lo
più dell’Ateneo pavese (F. Pecorari, L. Stefanini, E. Piangerelli, L. Pedrini, L. Paganetti, V. Cipolla,
L.W. Leon Trujillo, K. Duka, A. Pino, A. Troccoli), a operatori della cooperativa pavese Progetto
Contatto (coordinati da Valentina Brunati e Andrea Cerioli) e dell’Associazione Babele (Maristella
Leone). Per le spese vive abbiamo fruito di un contributo dell’ex Dipartimento di Linguistica Teorica
e Applicata dell’Università di Pavia e di fondi PRIN 2009 (“Lingua seconda/lingua straniera
nell’Europa multilingue: acquisizione, interazione, insegnamento”, coord. nazionale G. Bernini;
responsabile dell’Unità di Pavia chi scrive).
Soggetto o fa- L1 Paese Età dei genitori Età dei figli (= Anni in Italia Residenza Nati all’ Nati in
miglia; anno d’origine P=padre F) (genitori-figli) italiana estero Italia
dell’ intervista M=madre
121
122 MARINA CHINI
tenza in italiano, lingua franca di tali colloqui (tranne nel caso di alcuni immigrati
africani francofoni), dal grado di fiducia e di apertura verso l’interlocutore, dalla
consuetudine a tale tipo di riflessioni nell’esperienza precedente, e da altri fattori
ancora. I soggetti intervistati vivono in contesti differenziati, in città o anche in
centri piccoli e medi, e appartengono ad alcune delle principali comunità immigrate
presenti in Italia. Da queste interviste ricaveremo alcune osservazioni relative ai
loro usi (e talora ai loro atteggiamenti) linguistici, senza alcuna ambizione di rap-
presentatività. Nella seguente tabella forniamo alcuni dati socioanagrafici dei sog-
getti intervistati e della loro famiglia (ulteriori dettagli al par. 4).
Si tratta dunque tipicamente di nuclei con i due genitori connazionali (non
sono incluse qui coppie miste), con figli per lo più nati all’estero, in una condizione
in cui il mantenimento di L1 è più probabile che in altre. Ci torneremo al par. 4.
Tabella 1: Composizione del campione pavese per sesso (2012, 2002) ed età (2012):
numeri assoluti (n.) e percentuali (%)
Dal punto di vista relazionale, oltre all’ambito della famiglia, si segnala per
molti minori (già nel 2002 e ancora nel 2012) la diffusa frequentazione di reti ami-
cali miste, fattispecie che riteniamo anch’essa potenzialmente interessante per i suoi
risvolti linguistici e sociali, in quanto può verosimilmente innescare dinamiche di
integrazione sociale, culturale e linguistica nel contesto di arrivo, soprattutto se tali
reti comprendono anche amici italiani e non solo amici del Paese d’origine. Ve-
diamo più nel dettaglio la composizione delle reti amicali dei soggetti nel campione
pavese del 2012, su cui ci concentreremo nel prosieguo del lavoro. Ci baseremo
sulle risposte alla domanda 27 del questionario (“Qui hai degli amici (puoi mettere
più crocette)”).
Il quadro che esce è piuttosto differenziato e nel complesso incoraggiante, dal
punto di vista della socialità. Coloro che hanno solo amici non italiani (e che poten-
zialmente rischiano un vissuto di marginalizzazione rispetto al contesto di arrivo)
sono decisamente pochi, circa il 4% dei rispondenti, di cui meno della metà (1.5%)
ha solo amici connazionali. Fortunatamente solo un soggetto dichiara di non avere
amici. Quasi tutti gli altri (96%) dichiarano di avere pure amici italiani, con i quali
verosimilmente potranno (o dovranno) usare (anche) l’italiano. Non è marginale
inoltre la quota di chi ha solo amici italiani, quasi uno su sei (15%), mostrandosi
pertanto fortemente orientato (per forza o per scelta) verso il contesto di arrivo. Ci
pare al contempo significativo che la maggioranza dei soggetti (61%) frequenti pure
amici stranieri di altra origine, non connazionali (e spesso, ma non sempre, di altra
lingua). Con questi pari stranieri (oltre che con amici italiani) è molto probabile
l’uso dell’italiano come lingua franca, accanto a quello di altri possibili lingue fran-
che o idiomi d’origine condivisi (pensiamo allo spagnolo per ragazzi di vari Paesi
latino-americani). Lo potremo verificare nel par. 3.
Tali primi dati sembrano delineare, per la maggioranza dei minori interpellati, un
ambito relazionale contrassegnato dalla molteplicità e dall’apertura sia verso il conte-
sto d’arrivo che verso coetanei di altre origini e con altre esperienze migratorie. Il
quadro può essere completato considerando le risposte alla domanda “Con chi stai
quando non sei a scuola?” (domanda 28), risposte che ci consentono di evidenziare le
opzioni praticate nel tempo extrascolastico dai minori, di norma più esente da vincoli
ed obblighi e aperto a scelte più libere (pur non in assoluto, data la giovane età).
Come ci si poteva attendere, vista anche l’età dei soggetti, è decisamente mag-
gioritaria (ca. 80%) l’esperienza di trascorrere (anche) con i familiari il tempo ex-
trascolastico, il che comporta per questi minori la possibilità di essere esposto alla/e
lingua/e (oltre che alla cultura) d’origine (almeno) in questo frangente. Tuttavia va
osservato che la frequentazione esclusiva, nel tempo libero, di persone legate al
Paese d’origine (familiari e amici connazionali) è bensì significativa (oltre un
quarto dei minori: 27.4%), ma non costituisce la norma. Segnala infatti di frequen-
tare (anche) amici italiani almeno il 56% del campione e frequenta pure amici di
altri Stati diversi dal proprio almeno il 25% dei soggetti (trascuriamo qui le varie
“altre combinazioni” testimoniate da meno del 3% del campione). Si conferma
dunque l’esperienza “plurale” emersa dalla tab. 3.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 125
Incrociando queste risposte con il sesso dei soggetti, non emergono grosse dif-
ferenze, se non che le femmine sono decisamente sottorappresentate nel piccolo
gruppo di chi ha solo amici italiani: nel complesso ha solo amici italiani il 4.6% del
totale, ma fra le femmine solo il 1.5%, fra i maschi il 7.4%. Neanche opponendo i
nati in Italia ai nati all’estero in relazione alle frequentazioni nel tempo libero emer-
gono risultati chiari e significativi; i nati all’estero, per esempio, non sembrano fre-
quentare più la famiglia e meno i soli amici italiani dei nati in Italia, come ci si po-
trebbe attendere; in ogni caso entrambi i sottogruppi si distribuiscono sulle varie ri-
sposte in modo proporzionale, secondo le tendenze generali rinvenibili nella tab. 4.
126 MARINA CHINI
In quali altri luoghi incontri i tuoi amici n. % su chi menziona % sul totale (n. 546)
italiani? altri luoghi
Al parco 56 21.8 10.2
In impianti sportivi 48 18.7 8.8
In oratorio 35 13.6 6.4
In luoghi pubblici 18 7.0 3.3
Nei negozi 13 5.0 2.4
Al parco e in oratorio 7 2.7 1.3
Al parco e in impianti sportivi 6 2.3 1.1
Altri luoghi (menzionati ognuno meno 74 28.8 13.6
del 2%)
Totale rispondenti 257 100.0 100.0 (= n. 546)
Fra gli altri spazi più significativi troviamo pertanto il parco (oltre il 12% del
campione, il 27% di chi menziona altri luoghi), gli impianti sportivi (risp. 10% e
21%) e l’oratorio (risp. 8% e 16%), luoghi tipici della socializzazione, del diverti-
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 127
I primi 7 luoghi si ritrovano anche nella tabella 5, pur con cifre un po’ diverse.
In particolare è più ridotta, come luogo di ritrovo con amici connazionali,
l’importanza della scuola (43%), che invece è praticamente per tutti luogo di in-
contro con gli amici italiani. Si conferma, ma in misura un po’ minore (56% vs.
62%), la strada come luogo di incontro con gli amici connazionali, per oltre la metà
dei soggetti. Decisamente maggiore l’importanza della casa come ambito di fre-
quentazione di amici connazionali (52%): per taluni è l’unico luogo della frequen-
tazione di amici connazionali (12%), per altri si combina ad altri (ca. 40%), mentre,
lo ricordiamo, per gli amici italiani la percentuale complessiva di chi li frequenta in
casa è inferiore, 32%. Ciò rimanda quasi simbolicamente a una certa distanza e dif-
ferenza di intimità sussistente fra rete amicale italofona e rete amicale connazionale.
Quasi 200 soggetti inoltre aggiungono altri luoghi in cui si ritrovano con amici
dello stesso Paese d’origine, secondo quanto riportiamo nella tabella seguente (tab. 8).
Sono in parte gli stessi luoghi (pubblici) menzionati per gli amici italiani
(parco, impianti sportivi, oratorio; cfr. tab. 6), ma in misura decisamente minore,
128 MARINA CHINI
mentre si aggiungono altri contesti, sia pubblici (i locali), che privati (case altrui), a
conferma della relativamente maggiore intimità che caratterizza relazioni con con-
nazionali rispetto a rapporti con amici italiani6.
In quali altri luoghi n. % su 192 % su totale Cfr. amici italiani: Cfr. amici it.:
incontri i tuoi amici risp. (n. 469) % su chi menziona % sul totale
connazionali? altri luoghi (n. 546)
Ci pare che l’insieme di questi primi dati sociorelazionali delineino profili, pur
differenziati, di (pre)adolescenti immigrati o figli di immigrati contrassegnati nella
grande maggioranza dei casi da una significativa relazionalità con il mondo dei
coetanei italiani/italofoni (e non solo), che essi frequentano non solo a scuola, ma
spesso anche in altri contesti meno istituzionali, legati al divertimento o pure
all’educazione (sportiva, religiosa). Importante anche la frequentazione di amici
connazionali o di altri Paesi, in gran parte negli stessi contesti (scuola, strada, luoghi
pubblici), con una maggiore intimità segnalata da più abituali visite domestiche nel
caso di amici connazionali.
6
Le risposte relative al Paese d’origine non vengono qui considerate perché fuorvianti ri-
spetto alla domanda, che intendeva sondare il luogo della frequentazione di amici di varia origine
in Italia.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 129
Delineato il quadro relazionale, vediamo ora quali siano gli usi linguistici dei
minori.
Ci soffermiamo ora sugli usi linguistici dei minori di origine immigrata inter-
pellati in Provincia di Pavia, nel loro quotidiano, in famiglia e con gli amici. Il que-
stionario permette anche di indagare altri ambiti sia pubblici, legati alle transazioni
(negozianti) e alla scuola (docenti e compagni), verosimilmente caratterizzati dal
ricorso all’italiano (come alcuni primi sondaggi confermano), sia privati (adulti
connazionali residenti in Italia, parenti rimasti nello Stato di origine), potenzial-
mente più legati a L1. In quanto segue tuttavia ci occupiamo di ambiti che più da
vicino segnano la vita affettiva e relazionale dei minori, appunto la famiglia e gli
amici, e nei quali è ipotizzabile tanto il ricorso a L1 o a lingue del repertorio di ori-
gine, quanto quello all’italiano (L2), essendo essi sia domini intraetnici che interet-
nici. Accanto ai dati del 2012 offriremo anche qualche indicazione relativa
all’indagine del 2002 al fine di evidenziare i cambiamenti sopraggiunti nelle prati-
che linguistiche di ragazzi di origine immigrata presenti in quest’area dell’Italia
nordoccidentale.
Forniamo dapprima un’idea sulle principali lingue usate solitamente in famiglia
(domanda 15 “Quali lingue o dialetti si parlano di solito nella tua famiglia?” (puoi
metterne più di uno/a)) e in seguito consideriamo le scelte di lingua del minore.
Lingua n. %
Italiano 390 70.1
Rumeno 112 20.1
Albanese 88 15.8
Spagnolo 84 15.1
Arabo (marocchino) 76 13.7
Dialetto/i 82 14.7
Altre lingue 206 37.1
Tabella 9: Lingue o dialetti parlati di solito nella famiglia dei soggetti (2012)
arabo, per lo più del Nord Africa. Sotto l’etichetta generica di “dialetto/i” stanno di
solito varietà locali e poco prestigiose delle lingue d’origine (57 casi, 10.3%), più ra-
ramente dialetti italoromanzi (20, 3.6%). Le lingue parlate in famiglia sono una qua-
rantina (come nel 2002); oltre a quelle della tab. 9, le principali sono francese (41
soggetti), inglese, altre varietà di arabo e lingue slave (una trentina per tipo), cinese
(25). Ma sul fronte del repertorio e della gamma delle lingue d’origine non inten-
diamo qui soffermarci oltre, interessandoci soprattutto le scelte di lingua dei minori.
Per rilevare meglio le tendenze al mantenimento di L1 o allo shift verso
l’italiano L2, abbiamo distinto tre situazioni: chi in famiglia usa solo l’italiano (shift
completo), chi usa solo altre lingue (mantenimento di L1), intendendo con “altre
lingue” la lingua materna o questa combinata con un’altra lingua diversa
dall’italiano (e dal dialetto italiano, menzionato molto raramente), e chi attinge alle
due o più lingue del repertorio disponibile (italiano + altre lingue), in un’ottica bi-
lingue. Privilegiamo qui la prospettiva del minore, cioè le scelte di lingua che egli
dichiara di fare quando si rivolge ad altri interlocutori, ma disponiamo anche dei
dati, simili ma talora non coincidenti, sulle scelte di lingua che secondo il minore
gli stessi interlocutori fanno con lui (su cui, cfr. Chini, in stampa a e in stampa b);
sono in grassetto le percentuali più significative.
Tabella 11: In che lingue o dialetti parli tu a queste persone? Scelte di lingua del minore con i
familiari (Provincia di Pavia e Torino, 2002; elaborazione su Biazzi, Chini, 2004, p. 157)8
8
Non sono incluse le percentuali delle risposte non pertinenti o non rilevanti (dal 2-6% per i
genitori, che non sempre sono presenti, dal 13 al 18% per i fratelli, che non tutti hanno).
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 131
Nel 2012 troviamo un pattern analogo a quello del 2002, pur con alcune diffe-
renze quantitative: in sostanza si ha per molti un uso conservativo di “altre lingue”
con i genitori e una distribuzione più omogenea sulle tre possibilità con i fratelli,
con una maggiore apertura verso l’italiano. Le principali differenze fra 2012 e 2002
consistono nel fatto che le scelte bilingui sono più attestate nel 2012 che nel 2002,
con i fratelli (38% nel 2012 vs. 37% a Pavia, e solo 24% a Torino nel 2002), ma so-
prattutto con i genitori (40% vs. 27-28% a Pavia nel 2002). Nel 2002 l’opzione
“conservatrice” per L1 è più accentuata, soprattutto con i genitori ma, in misura mi-
nore, anche con i fratelli (“solo altre lingue”, risp.: 51% e 32%). La quota di minori
che dichiara solo scelte di lingua “conservatrici” con i genitori pare pertanto in calo
negli ultimi 10 anni (dal 51% ca. al 42-44%), a favore del comportamento bilingue,
adottato dai minori con i genitori nel 28% dei casi nel 2002, nel 40-41% del 2012.
In queste famiglie immigrate si assiste dunque a un rafforzamento del ruolo
dell’italiano nel discorso rivolto dai minori ai genitori, nella forma dell’aumento dei
comportamenti bilingui e in misura minore delle scelte monolingui in italiano del
minore (dall’11-16% del 2002 al 15-18% del 2012). Nella direzione inversa, dal
genitore al minore, il ricorso al solo italiano con il figlio è un po’ più ridotto (10-
12% vs. 15-18%), mentre è un po’ più alto il mantenimento della sola L1 (48% vs.
42-44%). Comprensibilmente padre e madre si mostrano linguisticamente più con-
servatori dei figli e tuttavia ugualmente disposti ad accogliere e praticare la lingua
italiana in famiglia, soprattutto accanto a L1 ed altre lingue, più oggi che 10 anni fa
(ca. 40% dei casi nel 2012; 27-37% nel 2002).
Lo shift completo verso l’italiano è invece minoritario, seppur in ascesa dal
2002 al 2012: dal 12 al 18% con il papà, dall’11% al 15% (Pavia) con la madre.
Rimandiamo a successivi approfondimenti la verifica di correlazioni fra le tendenze
evidenziate e variabili socioanagrafiche quali sesso, età, luogo di nascita, prove-
nienza, frequenza scolastica in Italia o altre ancora (per il 2002, cfr. Biazzi, Chini,
2004; Chini, 2004, cap. 8; Chini 2009b; per il 2012, qualche primo incrocio in
Chini, in stampa a e in stampa b).
Veniamo ora agli usi linguistici nelle reti amicali dei soggetti di origine immi-
grata. I dati socioanagrafici illustrati al par. 2 ci hanno consentito di conoscere al-
cuni loro aspetti significativi (in particolare composizione, luoghi di ritrovo).
Dall’indagine del 2002 e dai primi sondaggi del 2012 su Vigevano e Voghera,
come del resto ci si poteva attendere, è emerso che la rete di amici italiani offre ai
nostri soggetti ovvie e proficue occasioni di uso (e apprendimento) della lingua ita-
liana, presumibilmente nelle sue varietà meno formali. Nel 2002 infatti, con alcune
lievi differenze fra la Provincia di Pavia e Torino, l’uso dell’italiano con gli amici
italiani era quasi totalizzante e arrivava al 96-97% del campione (compreso un 3-
6% di italiano combinato con lingue diverse da L1), di cui l’89-93% per il solo ita-
liano (punte superiori del 97-98% a Torino; Biazzi, Chini, 2004, p. 185). Nel 2012 a
Vigevano le cifre sono simili (93-97% di solo italiano da e con amici italiani) e lo
stesso vale per Voghera (98%; cfr. Paganetti, 2012; Piangerelli, 2012). Il contesto
amicale italiano offre dunque (fortunatamente) a moltissimi alunni di origine immi-
132 MARINA CHINI
Tabella 12: Usi linguistici nelle reti amicali (amici non italiani) nel 2002 (domande 16 e 17)
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 133
Lingue usate Amici connazionali Amici non italiani di Cfr: Amici non
in Italia con te altri Stati in Italia italiani in Italia
(2012) con te (2012) con te (Pavia
2002)9
n. % n. % %
Solo italiano (ed ev. altre lingue, 150 32.0 318 64.5 25.9
diverse da L1)
Solo altre lingue (compresa L1) 168 35.8 136 27.6 39.5
Entrambe le lingue (ed ev. altre) 151 32.2 39 7.9 25.9
Totale 469 100.0 99.0
In ogni caso, già nel 2002 l’italiano è tutt’altro che marginale nella rete ami-
cale straniera, coprendo ca. un quarto dei casi in modalità esclusiva (24-28%) e una
porzione di poco superiore (27-28% di altri soggetti) in modalità combinata con al-
tre lingue, L1 compresa. Quindi oltre la metà del campione del 2002 parla (anche)
italiano con amici stranieri che vivono in Italia, sia in Provincia di Pavia che a To-
rino, mentre oltre un terzo parla solo lingue del repertorio di origine, di solito L1,
con gli amici stranieri.
Nel campione del 2012, che consente di distinguere amici stranieri connazionali
e non, un primo sondaggio mostra un aumento percentuale del ruolo dell’italiano in
tali contesti amicali. Nella prossima tabella, come fatto per le lingue usate in famiglia,
in prima approssimazione uniamo in un’unica voce tutte le lingue diverse dall’italiano
(“altre lingue”) e distinguiamo chi opta per uno shift completo (“solo italiano”, even-
tualmente con altre lingue diverse da L1) da chi esibisce un mantenimento completo
di L1 (“solo altre lingue”, escluso l’italiano). Il paragone fra 2002 e 2012 è purtroppo
approssimativo, soprattutto perché nel 2002 (ultima colonna a destra della tab. 13),
come detto, non venivano distinti gli amici stranieri connazionali dagli altri; è tuttavia
possibile rilevare alcune tendenze in atto. Consideriamo anche qui le due direzioni
dello scambio: lingue scelte dall’amico straniero con il minore e viceversa.
Dal 2002 al 2012 il ruolo dell’italiano cresce sia nelle scelte di lingua di amici
connazionali (dal 26% al 32%) che soprattutto nelle scelte di amici non italiani di
altri Stati (64.5%), mentre cala il peso delle “altre lingue” (L1 compresa), specie per
amici stranieri di altri Stati (28%), ma anche per connazionali (dal 40% al 36%
circa). Si consolida decisamente al contempo, anche in tale dominio in parte in-
traetnico, l’opzione bilingue, già emersa in famiglia, in misura quantitativamente
simile (32% con amici connazionali; 38% con i fratelli); essa è invece ridotta (8%)
con amici stranieri di altri Stati, che spesso hanno altre lingue materne e con cui
quindi la scelta dell’italiano come lingua franca è spesso quasi obbligata e comun-
que maggioritaria (due casi su tre).
Considerando ora le scelte di lingua del minore verso tali amici, l’altra dire-
134 MARINA CHINI
zione dello scambio, otteniamo i seguenti dati (nell’ultima colonna forniamo per un
confronto il dato pavese del 2002).
Le tendenze sono simili a quelle relative alle scelte di lingua operate dagli
amici con il minore, ma per quanto riguarda gli amici connazionali il minore sem-
bra optare per uno shift verso l’italiano un po’ di più di quanto facciano i suoi amici
(secondo quanto riferisce), mentre sceglie L1 un po’ meno degli amici; uguale e
simmetrica invece l’opzione bilingue (31-32%).
Anche con amici stranieri di altri Stati le scelte del minore sono simili a quelle
degli amici stranieri, decisamente orientate all’italiano in due casi su tre, con una
preferenza lievemente maggiore, anche qui, per il ricorso al solo italiano di quanto
facciano gli amici (66 vs. 64.5%), a scapito del repertorio alloglotto (23% vs. 28%).
Si osserva dunque un certo ridimensionamento del peso delle lingue diverse
dall’italiano nel dominio amicale straniero, già con gli amici connazionali (dal
37-39% del 2002 al 32-36% del 2012), ma soprattutto con amici di altri Paesi (dal
37-39% al 23-28%), mentre cresce il peso dell’italiano anche in queste reti stra-
niere, nella forma del solo italiano o combinato con L1. La tendenza lievemente
maggiore verso l’italiano del minore interpellato rispetto ai suoi amici potrebbe
essere letta come esibizione di convergenza verso il rilevatore, italofono, e verso
la società di arrivo.
Lingue usate Tu con amici connazionali in Tu con amici non italiani Cfr. Tu con amici
Italia (Pavia 2012) di altri Stati (Pavia 2012) non italiani in
Italia (Pavia
2002)
n. % n. % %
Solo italiano 182 36.6 336 66.1 29.4
Solo altre 159 32.0 115 22.6 36.9
lingue
Entrambe le 156 31.4 57 11.2 26.3
lingue
Totale 497 100.0 508 99.9
Tabella 14: In che lingue o dialetti parli tu a queste persone? (Pavia 2012 e Pavia 2002)
Si sono inoltre studiate le correlazioni fra le lingue parlate con gli amici stranieri
connazionali o di altri Paesi e parametri come il sesso e la nascita in Italia o altrove.
Quanto alla variabile ‘sesso’, pur non essendoci differenze abissali né statisti-
camente solide, emerge che le scelte preferite dai maschi tendono più spesso al mo-
nolinguismo, in L1 o in L2 (risp. 36%), mentre quelle preferite dalle femmine vol-
gono maggiormente verso l’italiano, esclusivo (38%) o combinato con L2 (35%); è
più ridotta fra le ragazze la scelta conservativa di L1 con amici connazionali (28%
vs. il 36% dei maschi). Ciò conferma tendenze generali già riscontrate nei dati del
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 135
2002, che vedono le ragazze (e le madri) più propense a scelte miste dei ragazzi (e
dei padri; Chini, 2009b).
Anche quanto al luogo di nascita, Italia o altro Stato, non vi sono differenze ecla-
tanti e tutte le tre opzioni possibili sono solidamente rappresentate. Tuttavia fra i nati
in Italia lo shift verso il solo italiano con amici connazionali è di quasi 6 punti supe-
riore a quello dei nati all’estero, che invece optano per scelte più conservatrici della
sola L1 con 10 punti percentuali in più dei nati in Italia. Dunque la prima generazione
(minori nati all’estero) risulta mantenere L1 parlando con amici connazionali più della
seconda (minori nati in Italia), il che non stupisce, in realtà però con uno scarto non
enorme (di 6 punti percentuali), come emerge dalla seguente tabella. Ciò delinea uno
sviluppo in corso, ma piuttosto graduale, che tende a includere l’italiano sempre più
anche nel repertorio intracomunitario, soprattutto con il passare delle generazioni, ma
che al contempo non prevede l’espulsione da esso delle lingue d’origine.
Lingue usate secondo Solo italiano con Solo altre lingue con Sia italiano che altre
il sesso (2012) amici connazionali in amici connazionali in lingue con amici con-
Italia Italia nazionali in Italia
n. % n. % n. %
Maschi 89 36.3 89 36.3 67 27.3
Femmine 92 37.6 68 27.8 85 34.7
Totale 181 157 152
Tabella 15:
Scelte di lingua con amici connazionali in Italia e sesso dei rispondenti
Stato di nascita Solo italiano con amici Solo altre lingue con Italiano e altre lingue
connazionali in Italia amici connazionali in con amici connazionali
Italia in Italia
n. % n. % n. %
Italia 80 39.6 53 26.2 69 34.2
Altro Paese 99 34.0 105 36.1 87 29.9
Totale 179 158 156
Tabella 16:
Scelte di lingua con amici connazionali in Italia e luogo di nascita (Italia/Altro Paese)
Soffermandoci sugli Stati esteri di nascita più rappresentati nel campione, Al-
bania, Romania e Marocco (risp. 36, 79 e 26 soggetti), constatiamo scelte di lingua
con amici connazionali non molto divaricate, tuttavia si osserva uno shift maggiore
verso l’italiano in ragazzi albanesi (47%) che negli altri, mentre più spesso l’opzio-
136 MARINA CHINI
(3) BLE <ahi ahi ahi, la lingua che usiamo a casa> [=!ride] mi fai ridere, perché perché
ne parliamo spesso anche a casa sai, con mia moglie, perché è difficile, sul se-
rio dirti che usiamo esclusivamente, anche se noi vogliamo usare cioè parlare
solo in albanese, ma ti dico che non è così, purtroppo. Eh, sai che iniziamo a
11
Dati raccolti da Laureta Shishmani (2007/2008, p. 88). Negli estratti di interviste ripren-
diamo, talora con lievi modifiche, le convenzioni adottate da chi le ha raccolte, ispirate in modo
talora flessibile a quelle di CHILDES (MacWhinney 2000; ad es. in 3, 11) o a quelle di studi sulle
interlingue (Andorno, Bernini, 2003). Le trascrizioni sono semi-ortografiche e conservano, pur in
diversa misura, tratti (di interlingua) del parlato originale. I segni # (o ##, ###) o […] stanno per
pause, più o meno lunghe. Segmenti indicati con […] sono espunzioni, stringhe &xyz& o <xyz>
sono pronunciate in sovrapposizione con turni altrui.
138 MARINA CHINI
parlare in albanese e poi appena si parla di lavoro, per esempio durante la cena
no, iniziamo in italiano a raccontare episodi o cose varie, ma non per niente
ma, è più facile esprimere in italiano di faccende successe in italiano, come per
esempio, hm riportare discorsi fatti con colleghi o battute cose da ridere, si fa
fatica a trovare le giuste parole in albanese, ultimamente poi, oh Dio che imba-
razzo, non trovo neanche qualche parola, boh: l’avrò dimenticato un po’, che
ne so io, io mi fa un po’ strano [!]
INT mh # e sì, e il tuo figlio, cioè con lui in che lingua parli?
BLE ti ho detto no, cerchiamo, almeno # ecco, si prova a parlare in albanese quando
siamo a casa, ma per esempio se lo devo aiutare a studiare per forza che parlo
italiano no? Poi lui è molto in difficoltà con l’albanese, perché è venuto qui che
ne sapeva solo poche cose in albanese, e poi la scuola in italiano, le tante atti-
vità extrascolastiche sempre no, circondato da italiani, lui non sa, cioè sa vera-
mente parlare poco in albanese, ma ti dico che capisce, anzi per quel poco
contatto che ha con l’albanese mi stupisce anche come capisce così bene […]
sì, ormai da dieci anni, diciamo che l’italiano mi accompagna, cioè [/] fa parte
delle attività di tutto ciò che io faccio quasi in ogni posto, perché te l’ho detto
no [?] in famiglia almeno parliamo in albanese, sì [/] la maggior parte dei di-
scorsi, invece fuori casa è tutto in italiano, per cui, secondo me, ho un buon li-
vello, cioè [//] non mi sento afatto in difficoltà, per niente
Anche con qualche segnale di imbarazzo, BLE documenta una chiara permea-
bilità all’italiano del repertorio e degli usi linguistici familiari (soprattutto quando si
trattano temi legati all’Italia), accanto a intenzioni dichiarate di conservare L1. Qui i
risultati di apprendimento dell’italiano paiono elevati pure nella prima generazione
(forse grazie anche al buon livello culturale della coppia). Il figlio, nato all’estero,
ma giunto in Italia a 2 anni, dispone di una buona competenza passiva della lingua
d’origine dei genitori, che sa parlare, pur con qualche difficoltà; il suo shift verso
l’italiano è tuttavia pronunciato, tanto che pare ormai la sua lingua dominante (se
non la sua prima o seconda L1). In nuclei come D la lingua d’origine persiste nei
discorsi interni alla famiglia e resta pure molto positivo l’atteggiamento verso di
essa, tuttavia è possibile prefigurare un suo graduale indebolimento, se non abban-
dono, nella generazione dei figli (specie se appartengono alla generazione 2, o 1.75,
come qui).
Anche in famiglie provenienti dalla Romania spesso fra le diverse generazioni,
oltre a L1, è fortemente presente l’italiano, soprattutto, ma non solo, nel parlato dei
figli, che arrivano a sviluppare varietà quasi native di italiano. Menzioniamo qui il
caso di una famiglia della Transilvania, residente in una frazione in Provincia di
Pavia. Il padre risiede in Italia da 12 anni, la madre (M) e il figlio (unico, ALE) da
quasi 8 anni12.
12
Dati raccolti e trascritti da Erika Bin (2012/2013).
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 139
ALE Allora, diciamo che è un misto tra romeno e italiano perché … tipo…succede
tantissime volte- fuori dalla casa parliamo sempre italiano- in casa invece si
parla romeno, italiano, quello che viene. Quindi se non ti viene una parola in
italiano la dici in romeno e viceversa…
M [ride] non è che lui parla tanto il romeno … io con mio marito parliamo il ro-
meno, però lui solo l’italiano
ALE No, beh, parlo tanto anche il romeno, poi a scuola c’è una mia compagna di
classe romena e parliamo solo il romeno. Diciamo che non ho dimenticato il
romeno, non faccio neanche fatica a parlarlo
M è la tua lingua madre, non la puoi dimenticare
Vediamo ora un esempio di più chiara divaricazione fra la generazione dei ge-
nitori e quella dei figli. Si tratta di due cugine cinesi di 14 anni, della provincia di
Wenzhou, abitanti a Pavia, la prima A, nata in Italia, la seconda, B, giunta in Italia a
5 anni13. Qui l’orientamento della prima generazione (i genitori) è decisamente più
conservativo che nella famiglia D, essendo per essa molto più forte il peso di L1 (i
genitori parlano quasi sempre dialetto cinese in casa). Per contro entrambe le cu-
gine, che conoscono bene l’italiano, hanno sia amici italiani che cinesi, e affermano
di parlare solo italiano con fratelli e amici (pure cinesi), dialetto cinese e italiano
con i genitori. Lo shift, anche intraetnico, è piuttosto pronunciato nei figli con i pari,
mentre per i genitori si ha un forte mantenimento di L1. Nella rete amicale legata al
Paese d’origine emergono chiare differenze fra le generazioni, che vanno nello
stesso senso di quanto appena detto, con possibili situazioni “miste” (alternanze e
commutazioni di codice) fra adulti e minori:
13
Dati raccolti e trascritti da Nicoletta Chiapedi (2001/2002, pp. 108, 114-115).
140 MARINA CHINI
(6) INT i vostri genitori hanno degli amici cinesi qua in Italia?
A sì sì ehh… almeno i miei hanno degli amici cinesi magari la maggior parte
sono a Milano […] allora magari a volte ci rincontriamo tutti per andare in va-
canza insieme … è già successo moltissime volte… cioè i miei stanno con i
loro amici mentre io sto con i loro figli che ormai sono diventati anche miei
amici […] con loro parlo italiano perché anche loro parlano l’italiano come me
e poi… e poi frequentano anche loro scuole italiane
INT ma se per esempio siete a cena … appunto con questi amici… sia gli adulti che
voi ragazzi.. voi ragazzi parlate in italiano e gli adulti in cinese?
B sì [ride]
INT e gli adulti con i ragazzi?
A ehh a volte.
B un misto
(7) A io invece sono nata qua non ho avuto nessun problema … perché.. i miei geni-
tori con me parlavano in dialetto [cinese] però siccome... per lo più delle volte..
cioè sono stata tra virgolette affidata a dei loro clienti italiani di cui si fida-
vano.. molto... ecco.. che sono diventate tra virgolette mia nonna e mia zia e..
niente.. loro... con loro parlavo italiano e passavo più... la maggior parte del
tempo con loro e quindi parlavo più italiano che cinese
(8) INT quando sei venuta in Italia avevi 5 anni… quando sei arrivata come hai fatto a
imparare l’italiano?
B l’ho imparato... guardando la TV... poi parlando con lei che parlava già ita-
liano.. non ho preso corsi… cioè poi mi ricordo che quand’ero piccola all’asilo
per esempio era in inverno io e A andando a scuola trovavamo delle cose tipo
un albero.. e lei diceva “albero” e allora io imparavo la parola
Spesso in famiglie cinesi (ma talora anche in nuclei arabofoni) si attesta fra
genitori e figli una simile differenza nell’orientamento linguistico (e talora cultu-
rale), oltre che nelle competenze linguistiche: se la rete legata ai genitori è quasi
impermeabile alla lingua del contesto di arrivo, quella dei figli, che pur usano L1
con i genitori, appare più orientata verso l’italiano, lingua in cui i figli sono molto
più competenti dei genitori.
In nuclei di origine latino-americana la differenza fra lingua e cultura di par-
tenza e d’arrivo è potenzialmente più ridotta. Il vissuto testimoniato nelle interviste
è comunque molto diversificato e dipende anche dal livello culturale ed economico
dei genitori. Fra le tante ricordiamo qui l’intervista a una famiglia ecuadoriana (B),
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 141
ispanofona, di buon livello culturale, giunta in Italia da 5 anni (non per motivi eco-
nomici), residente in una frazione di un comune vicino a Pavia. Il padre è ingegnere
navale (ROC), la madre infermiera (PAU); la figlia di 13 anni (DAN), molto inte-
grata nel villaggio, è assente per vacanze al momento dell’intervista14. I genitori af-
fermano che fra loro parlano spagnolo, con la figlia soprattutto in spagnolo, ma an-
che in italiano (e talora in inglese), mentre riferiscono che la figlia usa spesso
l’italiano con i genitori ed è intenzionata a restare in Italia. Emerge pure un’apertura
culturale della famiglia al plurilinguismo, che porta a includere nel repertorio fami-
liare pure l’inglese (che in Ecuador si studia fin dalle scuole primarie), fatto non
molto comune nei dati finora raccolti fra ispanofoni.
14
Dati raccolti e trascritti da Roberta Portalupi (2003-2004, p. 101).
15
Dati raccolti e trascritti da Alessandra Cappellino (2004/2005, p. 239).
142 MARINA CHINI
(10) MOV io conosce ehm inglese italiano hindi lingua mia panjabi anche un po’ parla te-
desco perché Bolzano parlano tedesco e: altri no sono cinque lingue
(11) INT e ti capita di usare: ad esempio più di una lingua: ehm quando parli con qual-
cuno magari con la tua famiglia? # parli sempre e solo in una lingua: o cambi
tante volte?
GIO ehm cambi perché mia mamma anche lei la sa hindi e poi con lei anche parlo in
hindi oppure con mio papà in italiano anche con mio fratello in italiano oppure
in inglese
INT dipende dalle situazioni?
GIO sì dipende […]
INT ho capito # e:: quindi anche la tua lingua materna usi?
GIO sì anche la mia mat- ehm lingua materna ma di più uso: la mia lingua materna
INT di più in assoluto dici
GIO sì perché a: anche mia madre non capisce italiano anche lei non capisce più
bene italiano e poi devi usare: la mia lingua materna
Terminiamo con due casi africani in cui l’italiano pare quasi assente dal conte-
sto familiare, pur dopo anni di soggiorno in Italia. Dapprima vediamo il caso di
SAA, ragazzo egiziano emigrato a 12 anni e giunto in Italia da quasi 6 anni (ora è
diciottenne); la sua famiglia è composta da madre e quattro fratelli (di cui una è
sposata in Egitto).
L’italiano penetra dunque in parte nel discorso rivolto ai fratelli, ma solo fuori
casa. Per il resto in casa domina la varietà nativa di arabo (“dialetto egiziano”),
unico idioma parlato dalla madre. Il ragazzo usa talora anche la varietà alta (“arabo
ufficiale”), quando si trova al Cairo o in altre città del Paese d’origine. Come molti
arabofoni (Cuzzolin, 2001), SAA nutre un atteggiamento positivo verso di essa, ne-
gativo verso i dialetti arabi, ritenuti fattori di divisione nel mondo arabo e poco utili
(“voglio dimenticare il dialetto perché sicuramente non serve a niente”).
Concludiamo questa rapida carrellata con una famiglia senegalese, giunta in
Italia in diverse tappe: nel 1988 arriva il padre, primomigrante, nel 2000 arrivano la
madre (M) con una figlia (di 3 anni, ora di 13), poi giungono la figlia K, ora di 24
anni, e un figlio ora di 20; una figlia (ora di 10 anni) nasce invece in Italia. Pure in
questa famiglia la L1, il wolof, è molto usata, accanto al serere, “dialetto” della ma-
dre16 e l’italiano penetra quasi solo nella generazione dei figli. La madre, che si dice
orientata a tornare un giorno in patria, parla una varietà elementare di italiano e ri-
sponde spesso a monosillabi.
Nello stesso nucleo e anche fra fratelli gli usi linguistici preferenziali risultano
dunque talora parecchio diversi, in particolare a seconda dell’età dell’arrivo in Ita-
lia: le lingue del repertorio d’origine, oltre che dai genitori, sono mantenute in fa-
miglia soprattutto dai figli giunti in Italia più grandicelli, mentre uno shift verso
l’italiano è riportato per i figli più giovani o nati in Italia, nel discorso fra loro e an-
che con gli amici, fuori casa.
16
Dati e trascrizione sono di Erika Bin (2012/2013, pp. 133, 135).
144 MARINA CHINI
5. CONCLUSIONI
In questo lavoro abbiamo messo in luce alcuni aspetti quantitativi e qualitativi
degli usi linguistici di immigrati e dei loro figli in famiglia e nelle reti amicali. Il
panorama è davvero molto differenziato, anche perché i soggetti sono presenti in
Italia da un numero variabile di anni e hanno alle spalle vissuti migratori e sociolin-
guistici, livelli culturali e atteggiamenti diversi. Non abbiamo potuto che offrire al-
cune linee di tendenza, a livello quantitativo, e alcuni specimen discorsivi a livello
qualitativo, senza poterli analizzare nel dettaglio. Confrontando gli esiti di queste
indagini, quantitative e qualitative, per lo più successive a quella del 2002, emer-
gono alcuni sviluppi e alcuni elementi costanti rispetto a quella fase (cfr. Chini,
2003 e Chini, 2004, capp. 8-9).
A livello quantitativo da un lato si conferma e si accentua la differenza (certo
non assoluta) fra le scelte di lingua dei figli con i genitori (che per lo più proven-
gono dalla stessa area geolinguistica) e quelle dei figli con fratelli e amici conterra-
nei. Con i genitori oggi poco meno della metà dei minori interpellati (nel 2002 un
po’ di più) opta per un comportamento conservatore, usando lingue diverse
dall’italiano, legate al Paese d’origine (sostanzialmente L1 ed eventualmente altre
lingue o dialetti ivi parlati), mentre con fratelli e amici connazionali il manteni-
mento delle lingue d’origine riguarda solo un terzo dei soggetti (31-32%). In Pro-
vincia di Pavia, come già nel 2002, resta importante e un po’ più diffusa in famiglia
fra i minori di origine immigrata (ma anche nei loro genitori quando si rivolgono ai
minori; cfr. Chini, in stampa a, in stampa b) l’opzione bilingue, L1 + italiano (37-
38% nel 2002 e 2012), che indicizza verosimilmente un vissuto, non troppo con-
flittuale, all’insegna delle due (o più) lingue e culture che hanno contrassegnato il
percorso di questi migranti e dei loro figli. Nel frattempo è decisamente cresciuta la
porzione di chi attua un completo shift (intraetnico) verso l’italiano (anche) con
fratelli e amici connazionali (con i fratelli a Pavia dal 20% del 2002 al 32% del
2012; con “amici non italiani” a Pavia dal 25% del 2002 al 37% del 2012, con
amici connazionali in Italia); tale shift con i genitori era ed è invece un’opzione mi-
noritaria, pur in lieve ascesa (dall’11-16% del 2002 al 15-18% del 2012), più con il
padre che con la madre.
Non si sono potuti qui indagare i vari fattori che incidono su tali scelte. Altre
nostre indagini hanno evidenziato il peso del luogo di nascita (Italia o estero) e del
sesso. Ad esempio un minore nato all’estero ha una probabilità più che doppia che
il padre parli con lui/lei solo altre lingue (fra cui L1), cioè non l’italiano, rispetto a
un minore straniero nato in Italia; con i nati in Italia, poi, la scelta del solo italiano
da parte dei fratelli è quasi una volta e mezza più probabile che con i nati all’estero
(Chini, in stampa a). L’indagine qualitativa pare confermarlo e indicare che
l’opzione frequente per l’italiano in famiglia è favorita non solo fra i nati in Italia,
ma anche fra chi vi è giunto negli anni dell’infanzia o della scuola dell’obbligo (il
che rimanda al ruolo del fattore “età di arrivo”). Quanto al sesso, per es., sia padri
che madri optano per scelte bilingui più con le figlie che con i figli maschi (come
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 145
già nel 2002, cfr. Chini, 2009b; per il 2012, cfr. Chini, in stampa a).
Nelle reti amicali di connazionali (la sola) L1 è mantenuta in un terzo dei casi,
una porzione significativa, ma minoritaria, del campione (quanto nel discorso ri-
volto ai fratelli), mentre per i restanti casi l’italiano penetra negli scambi amicali
come codice unico (37%) oppure affiancato da L1 (31%; cfr. tab. 11). Tali quote ci
paiono segnalare una fase, forse di transizione, in cui i minori di origine immigrata,
pur in genere più orientati al contesto d’arrivo dei loro genitori, adottano scelte di
mediazione fra due mondi, quello legato alla lingua di origine, che contrassegna so-
prattutto il vissuto intraetnico dei genitori, ma in parte pure le relazioni intraetniche
dei minori, e quello italiano, cui si mostrano ben disposti, adottando la lingua ita-
liana pure nei loro rapporti interni al gruppo in due casi su tre, soprattutto parlando
con i pari (fratelli e amici).
Gli esiti a lungo termine su repertori e codici di tali scelte e degli atteggiamenti
soggiacenti saranno da studiare su un arco di tempo più esteso.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Ambrosini Maurizio, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005.
Ambrosini Maurizio, Molina Stefano, Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro
dell’immigrazione in Italia, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 2004.
Andorno Cecilia, Bernini Giuliano, Premesse teoriche e metodologiche, in Giacalone Ramat
Anna (a cura di), 2003, pp. 27-36.
Bagna Carla, Presupposti metodologici della raccolta di dati in contesti plurilingui urbani.
Bilanci e prospettive, «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», a. XXXVIII, n.
1, 2009 (= Chini 2009c), pp. 55-71.
Bagna Carla, Machetti Sabrina, Vedovelli Massimo, Italiano e lingue immigrate: verso un
plurilinguismo consapevole o verso varietà di contatto, in Valentini Ada et al., 2003, pp.
201-222.
Bernini Giuliano, Acquisizione dell’italiano come L2, in Simone Raffaele, Berruto Gaetano,
D’Achille Paolo (a cura di), Enciclopedia dell’italiano, vol. I, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, 2010, pp. 139-140.
Bernini Giuliano, Spreafico Lorenzo, Valentini Ada (a cura di), Competenze lessicali e di-
scorsive nell’acquisizione di lingue seconde, Perugia, Guerra, 2008.
Berruto Gaetano, Ristrutturazione dei repertori e ‘lingue franche’ in situazione immigratoria.
Appunti di lavoro. «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», a. XXXVIII, n. 1,
2009 (= Chini 2009c), pp. 9–28.
Biazzi Michela, Chini Marina, Gli usi linguistici, in Chini Marina (a cura di), 2004, pp. 145-210.
Bin Erika, Atteggiamenti sociolinguistici di famiglie immigrate residenti nel Pavese:
un’indagine ecologica, Tesi di Master, Università di Pavia, 2012/2013.
Blangiardo Gian Carlo, Una nuova fotografia dell’immigrazione straniera in Italia, in
Aa.Vv., Sedicesimo Rapporto sulle migrazioni 2010, Milano, Fondazione ISMU, Fran-
coAngeli, 2010, pp. 29-48.
146 MARINA CHINI
Blangiardo Gian Carlo, La popolazione straniera nella realtà lombarda, in Blangiardo Gian
Carlo (a cura di), L’immigrazione straniera in Lombardia. L’undicesima indagine regio-
nale. Rapporto 2011, Milano, Fondazione ISMU, 2012, pp. 35-66.
Bombi Raffaella, Fusco Fabiana (a cura di), Città plurilingui. Lingue e culture a confronto in
situazioni urbane, Udine, Forum, 2004.
Cappellino Alessandra, Analisi del repertorio e del vissuto sociolinguistico di immigrati in-
diani in Italia, Tesi di laurea quadriennale, Università di Pavia, 2004/2005.
Caritas/Migrantes, Immigrazione – Dossier statistico 2012, Roma, IDOS, 2012.
Chiapedi Nicoletta, Alunni stranieri in alcune scuole di Pavia: un’indagine sociolinguistica,
Tesi di laurea quadriennale, Università di Pavia, 2001/2002.
Chini Marina, Rapporti fra italiano e lingue d’origine nel repertorio di immigrati in area
lombarda: un sondaggio qualitativo, in Valentini Ada et al., Ecologia linguistica, Roma,
Bulzoni, 2003, pp. 223-246.
Chini Marina, Usi linguistici e atteggiamenti di minori immigrati a Pavia e Torino, fra L1 e
L2, in Pistolesi Elena (a cura di), Lingua scuola e società. I nuovi bisogni comunicativi
nelle classi multiculturali, Trieste, Istituto Gramsci del Friuli Venezia Giulia, 2007, pp.
153-178.
Chini Marina, L’italiano L2 nel repertorio delle nuove comunità alloglotte: riflessioni su al-
cune dinamiche in atto, in Consani Carlo, Desideri Paola, Guazzelli Francesca, Perta
Carmela (a cura di), Alloglossie e comunità alloglotte nell’Italia contemporanea, Roma,
Bulzoni, 2009a, pp. 279-315.
Chini Marina, Scelte di lingua e atteggiamenti di immigrati a Pavia e Torino: l’incidenza
della variabile del genere in famiglie di minori stranieri, «Studi Italiani di Linguistica
Teorica e Applicata», a. XXXVIII, n. 1, 2009b, pp. 107–133.
Chini Marina, New linguistic minorities: repertoires, language maintenance and shift, «In-
ternational Journal of the Sociology of Language», n. 210 (no. monogr. a cura di Dal Ne-
gro Silvia, Guerini Federica), 2011, pp. 47-69.
Chini Marina, Contesti e modalità dell’apprendimento dell’italiano per alunni di origine im-
migrata: un’indagine sulla Provincia di Pavia, in D’Agostino Mari, De Meo Anna, Ian-
naccaro Gabriele (a cura di), Atti del XIII Congresso AItLA, ?????? in stampa a.
Chini Marina, Italianizzazione di immigrati a Pavia (e a Torino) a distanza di dieci anni
(2002-2012), in Maraschio Nicoletta, Banfi Emanuele (a cura di), Città d’Italia. Ruolo e
funzioni dei centri urbani nel processo postunitario di italianizzazione, Firenze, Crusca,
in stampa b.
Chini Marina, Andorno Cecilia, Biazzi Michela, Interlandi Grazia Maria, Indagine sul pluri-
linguismo di immigrati a Pavia e a Torino: primi risultati, in Bombi Raffaella, Fusco Fa-
biana (a cura di), 2004, pp. 133-164.
Chini Marina (a cura di), Plurilinguismo e immigrazione in Italia. Un’indagine sociolingui-
stica a Pavia e Torino, Milano, FrancoAngeli, 2004.
Chini Marina (a cura di), Plurilinguismo e immigrazione nella società italiana, «Studi Italiani
di Linguistica Teorica e Applicata», a. XXXVIII, n. 1 (no. monogr.), 2009c.
Corbetta Piergiorgio, Metodologie e tecniche della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1999.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 147
Cuzzolin Pierluigi, Percezione del contatto di lingue: arabo classico, arabo moderno, ita-
liano, dialetto, in Vedovelli Massimo, Massara Stefania, Giacalone Ramat Anna (a cura
di), Lingue e culture in contatto. L’italiano come L2 per gli arabofoni, Milano, Fran-
coAngeli, 2001, pp. 89-107.
D’Agostino Mari, Immigrati a Palermo. Contatti e/o conflitti linguistici e immagini urbane,
in Bombi Raffaella, Fusco Fabiana (a cura di), 2004, pp. 191-211.
Extra Guus, Verhoeven Ludo (a cura di), Bilingualism and migration, Berlin, de Gruyter,
1999.
Extra Guus, Yağmur Kutlay (a cura di), Urban multilingualism in Europe: immigrant mino-
rity languages at home and school, Clevedon, Multilingual Matters, 2004.
Giacalone Ramat Anna, ‘On the road’: verso l’acquisizione dell’italiano lingua seconda, in
Chini Marina, Desideri Paola, Favilla Maria Elena, Pallotti Gabriele (a cura di), Imparare
una lingua. Recenti sviluppi teorici e proposte applicative, Perugia, Guerra, 2007, pp. 13-
42.
Giacalone Ramat Anna (a cura di), Verso l’italiano. Percorsi e strategie di acquisizione,
Roma, Carocci, 2003.
Guerini Federica, Language alternation strategies in multilingual settings. A case study:
Ghanaian immigrants in Northern Italy, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2006.
Guerini Federica, Repertori complessi e atteggiamenti linguistici: gli immigrati di origine
ghanese in provincia di Bergamo, «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», a.
XXXVIII, n. 1, 2009, pp. 73-88.
Guerini Federica, Dal Negro Silvia (a cura di), Italian sociolinguistics: twenty years on. «In-
ternational Journal of the Sociology of Language», n. 210 (Special Issue), 2011.
MacWhinney Brian, The Childes Project: Tools for Analyzing Talk. Transcription format
and programs, Mahwah NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 2000.
Massariello Merzagora Giovanna, Le “nuove minoranze” a Verona. Un osservatorio sugli
studenti immigrati, in Bombi Raffaella, Fusco Fabiana (a cura di), 2004, pp. 353-376.
Mioni Alberto M., Gli immigrati in Italia. Considerazioni linguistiche, sociolinguistiche e
culturali, in Bernini Giuliano, Cuzzolin Pierluigi, Molinelli Piera (a cura di), Ars lingui-
stica, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 377-409.
MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), Alunni con cittadinanza
non italiana. Verso l’adolescenza. Rapporto nazionale 2010/2011, Quaderni ISMU
4/2011, Milano, Fondazione ISMU, 2011 (http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/mi-
nistero/index_pubblicazioni_11).
MIUR, Servizio statistico, Gli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico
italiano. A. s. 2011/12, ottobre 2012 (http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/mini-
stero/index_pubblicazioni_12).
ORIM, Ottavo rapporto sull’immigrazione straniera nella Provincia di Pavia. Anno 2010, Mi-
lano, Fondazione ISMU, 2011 (http://www.orimregionelombardia.it/index.php?c=526).
Paganetti Luca, Lingue e usi linguistici di preadolescenti di origine straniera: il caso di Vi-
gevano, tesi di Laurea Magistrale, Università di Pavia, 2011/2012.
Piangerelli Eleonora, Repertori ed usi linguistici degli alunni stranieri nella Provincia di Pa-
148 MARINA CHINI
1. INTRODUZIONE
È opportuno innanzitutto specificare due termini che appaiono nel titolo di
questo contributo. In primo luogo, uso “bilingue” e “bilinguismo” nella loro acce-
zione più ampia, per riferirmi a una conoscenza e a una pratica -anche fortemente
asimmetrica- di due sistemi linguistici. In secondo luogo, con l’espressione “lingua
minoritaria” indico la lingua parlata da un gruppo di persone immigrate nel corso
degli ultimi decenni in un paese dove la lingua di maggioranza è diversa dalla lin-
gua nativa del gruppo.
Il bilinguismo (o meglio il multilinguismo), inteso come conoscenza e uso -per
quanto parziali- di più lingue da parte dei figli di famiglie immigrate, ancora oggi,
dopo decenni di discussioni, esperimenti, proposte e studi sollecitati dai movimenti
migratori che in maniera massiccia hanno coinvolto -e sempre più coinvolgono-
molti paesi in tutti i continenti, appare «un approccio complesso a un fenomeno
multidimensionale»1.
Una gran parte della ricerca sul bilinguismo nei recenti processi di migrazione
ha indagato processi e proprietà dell’acquisizione della lingua di maggioranza del
paese ospite, concentrandosi spesso sui meccanismi dell’acquisizione negli adulti2.
Ultimamente vari studi hanno affrontato in modo specifico anche lo sviluppo lin-
guistico dei bambini di famiglie migranti3. Manca ancora tuttavia -soprattutto in ri-
ferimento alla situazione italiana- una visione d’insieme che riesca a collegare tra
loro le diverse analisi svolte, e soprattutto a trasformare tali analisi in proposte ap-
plicative, che permettano di agire in maniera efficace nelle differenti situazioni di
bilinguismo con L1 minoritaria.
1
Traduzione del sottotitolo del contributo di Leikin, Schwartz, Yishai, 2012: A Complex Ap-
proach to a Multidimensional Phenomenon.
2
In questa prospettiva, gli studi sull’italiano L2 sono stati introdotti e sviluppati soprattutto
dai ricercatori che hanno collaborato al cosiddetto “progetto di Pavia” sull’indagine delle interlin-
gue di immigrati. Un’utile panoramica delle ricerche condotte in quest’ambito, corredate da un ca-
pitolo di considerazioni didattiche, è presentata in Giacalone Ramat, 2003.
3
Cfr. Bialystock 2001, Cummins 2001; Durgunoglu, Goldenberg, 2001; Leikin et al., 2012;
Leseman, 2002; Lucchese, Tamis Le Monda, 2007; Oller, Eilers, 2002. In ambito italiano: Bettoni,
2005; Chini, 2004; Favaro, 2002; Pallotti, 2000; Parry, 2002; Tosi, 1995.
150 PATRIZIA CORDIN
4
Dal titolo del saggio di Romaine 1999: Early Bilingualism from élite to folk.
5
Pascal, 2009.
6
Sorace, 2005.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 151
stiche. È facile che i bambini in questi casi sviluppino una competenza mista, comu-
nemente considerata imperfetta, con passaggi frequenti al code-switching7. In ogni
caso, diversamente da ciò che accade nel bilinguismo d’élite, difficilmente i bambini
in simili contesti raggiungono la competenza nativa nella lingua dei genitori.
È perciò necessario affrontare i due tipi di bilinguismo infantile separatamente,
tenendo conto che i vantaggi che il passaggio tra più lingue comporta spesso non si
raggiungono in contesti svantaggiati, dove sono presenti fattori di rischio come la
povertà, il far parte di una minoranza linguistica e culturale, la bassa istruzione dei
genitori8. In tali contesti non solo i bambini non beneficiano degli effetti positivi del
bilinguismo, ma anzi si trovano spesso a sperimentare conseguenze negative nello
sviluppo linguistico e nel rendimento scolastico, come con chiarezza mettono in
evidenza Lucchese, Tamis Le Monda.
Countless studies indicate that social risk factors, such as chronic poverty and low pa-
rental education, pose serious obstacles to children’s early language development and
subsequent school performance. The long-term effects of such risks create a challenge for
remedial programs, which many times fail to succeed at the goal of “leveling the playing
field”. Because risks such as poverty and low parental education are prevalent in minority
populations, children from ethnic and racial minority backgrounds are more likely to dis-
play poor academic outcomes and school dropout than the population at large9.
7
Romaine, 1995, propone sei tipi di bilinguismo, distinti in base al tipo di input che i bam-
bini ricevono nella famiglia e nel gruppo in cui vivono. Il sesto tipo, quello in cui i bambini sono
esposti a lingue miste, ricorre più frequentemente degli altri nelle società multilingui, dove “the
code-switching is a mode of bilingual performance which allows the bilingual to display his or her
full communicative competence.” (Romaine, 1999, p. 65).
8
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007.
9
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007, p. 1.
10
Cfr. Benincà, 1975.
152 PATRIZIA CORDIN
con molto tempo di ritardo rispetto al resto d’Europa il nostro Paese, e anche la nostra
Provincia, stanno facendo i conti con una presenza straniera nel sistema scolastico in
progressivo aumento. Ogni anno gli operatori scolastici accolgono nuovi studenti ap-
partenenti a famiglie immigrate. Un buon numero, soprattutto nella scuola dell’infanzia,
sono bambini nati in Italia, ma noi li chiamiamo ancora stranieri11.
Anche negli altri paesi europei i nomi con i quali ci si riferisce ai nuovi resi-
denti (molto spesso non ancora cittadini del paese dove sono nati) sottolineano
quasi sempre l’estraneità: foreigners, étrangers, Ausländer. Frequente è il ricorso a
sintagmi caratterizzati dalla negazione (non-national residents, non English spea-
king residents). Come osservano Extra e Verhoeven (1999, pp. 3-4), l’esclusione
concettuale riflessa nella terminologia dei discorsi pubblici deriva da un’inter-
pretazione restrittiva della nozione di cittadinanza e di nazionalità: in Europa infatti,
a differenza di quanto avviene in altri paesi con predominante immigrazione inglese
(come gli USA, il Canada, l’Australia e il Sud Africa), cittadinanza e nazionalità
sono basate sullo jus sanguinis, anziché sullo jus solis12.
Oltre ad introdurre una riflessione sul problema terminologico, la citazione ri-
portata all’inizio del paragrafo evidenzia anche che il numero degli scolari/studenti
11
Bampi, Saporito, 2008, p. 5.
12
In Austria, nella Repubblica Ceca, in Danimarca, in Germania, in Irlanda, in Italia, in
Lettonia, in Lituania, nel Lussemburgo, a Malta, in Norvegia, in Polonia, nella Slovacchia, in Slo-
venia, in Spagna, in Svizzera, in Ungheria gli alunni stranieri sono quelli che hanno genitori con
nazionalità diversa rispetto a quella del paese. In Francia e in Belgio, invece, il rilevamento della
nazionalità prende in considerazione quella dell’alunno e non quella dei genitori: è “francese di na-
scita” ogni bambino nato in Francia se uno dei genitori è nato in Francia ed è “francese per filia-
zione” ogni bambino con un genitore francese. In Inghilterra e in Olanda il censimento nazionale si
basa su categorie che non sono legate alla nazionalità, bensì al grado di appartenenza ad un gruppo
riconosciuto come “propria” comunità. In Portogallo e in Grecia i dati ufficiali rilevano nelle
scuole il gruppo culturale o la nazionalità di appartenenza degli alunni “non-portoghesi” o “non-
greci”, tra i quali vengono annoverati anche i figli degli “emigrati portoghesi o dei greci ritornati in
patria”. Cfr. il rapporto MIUR, 2008, p. 73.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 153
di famiglie non italiane è in progressivo aumento. Dati recenti mostrano che gli
iscritti alle scuole in Italia senza passaporto italiano sono quasi ottocentomila (8,4%
della popolazione scolastica complessiva)13. I più numerosi sono i ragazzi romeni
(141.050), seguiti dagli albanesi (102.719) e dai marocchini (95.912).
È decisamente aumentato anche il numero dei nati in Italia (334.284), che or-
mai rappresentano il 44,2% degli alunni con cittadinanza non italiana. In partico-
lare, nelle scuole dell’infanzia 126.000 bambini con famiglia non italiana (80,4%
del totale) sono nati nel nostro paese14.
L’aumento più significativo di alunni con cittadinanza non italiana riguarda le
scuole secondarie di secondo grado, dove dal 14% sul totale degli iscritti del
2001/2002 si è passati al 21,8% del 2011/2012, con il maggior numero di iscritti in
scuole per l’istruzione professionale (frequentate dal 39,4% del totale degli stra-
nieri) e tecnica (38,3%), seguite dalle scuole per l’istruzione liceale o artistica
(22,3%)15.
Il quadro di riferimento, tuttavia, non è completo, se ai dati relativi alle iscri-
zioni non si accompagnano i dati relativi agli esiti scolastici di questi alunni. Ri-
porto quindi di seguito i dati nazionali più recenti circa gli esiti degli alunni con cit-
tadinanza non italiana.
Percentuali degli alunni con ritardo scolastico sul totale degli iscritti - anno
scolastico 2011-12- dati italiani16.
13
Il rapporto MIUR-ISMU “Alunni con cittadinanza non italiana. Approfondimenti e analisi.
A.s. 2011/2012”, pubblicato su Repubblica del 14 marzo 2013, registra 755.939 alunni con cittadi-
nanza non italiana iscritti nelle scuole di vario grado, in gran parte concentrati nelle regioni del
centro Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna) e nel Lazio. I dati mostrano un au-
mento sensibile negli ultimi dieci anni: nell’anno scolastico 2001-2 gli alunni con cittadinanza non
italiana iscritti alle scuole di vario ordine erano 196.414 e rappresentavano il 2% della popolazione
scolastica complessiva.
14
In alcune regioni la percentuale è più alta: oltre 87% in Veneto, nelle Marche 85%, in
Lombardia 84% (cfr. il rapporto MIUR-ISMU 2013).
15
Rapporto MIUR-ISMU 2013.
16
Sono riportati qui e nella tabella successiva gli ultimi dati nazionali disponibili circa gli
esiti scolastici degli alunni con cittadinanza non italiana; cfr. il rapporto MIUR - Servizio Statistico
Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, anno scolastico 2011-2012. Nella tabella riferita
agli alunni ripetenti i dati del MIUR disaggregati per classi sono stati aggregati per scuola primaria
e secondaria di I e II grado.
154 PATRIZIA CORDIN
Percentuali degli alunni con cittadinanza non italiana iscritti alle scuole del
Trentino.
Femmine Maschi Stranieri18 Iscritti Percentuale
Scuola infanzia 629 737 1366 15862 8,61%
Primaria 1344 1425 2769 26641 10,39%
Secondaria I grado 797 991 1788 15711 11,38%
Secondaria II grado 604 435 1039 19749 5,26%
Formazione
professionale 307 500 807 4459 18,10%
TOTALE 3681 4088 7769 77963 9,96%
Percentuali della regolarità19 degli alunni con cittadinanza non italiana iscritti
alle scuole del Trentino.
Scuola primaria
Regolari 1classe 2 cl. 3 cl. 4 cl. 5 cl.
Studenti con con cittadinanza
italiana 97,60% 98,03% 98,04% 98,50% 98,41%
Studenti con cittadinanza
straniera 87,77% 83,40% 78,08% 76,08% 71,14
17
Bampi, Saporito, 2008.
18
Qui e nella tabella successiva del rapporto il termine “stranieri” è usato dagli autori, a con-
ferma dell’incertezza lessicale nel riferirsi a questo insieme di alunni.
19
Frequenza della classe scolastica prevista in un percorso regolare di studi, in base all’età
dell’alunno.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 155
Dai dati disponibili non è possibile avere certezze sulle ragioni che stanno alla base di
questo divario dei livelli di successo, ma indubbiamente ad esso concorre anche
l’anzianità di scolarizzazione degli stranieri, intesa come tempo trascorso all’interno del
nostro sistema scolastico. Si può ipotizzare anche che tra le cause del minor successo
scolastico vi sia il non adeguato possesso della competenza linguistica. Ma potrebbero
concorrere a questi risultati finali le condizioni sociali e culturali20.
4. RICONOSCERE LE CAUSE
Despite obvious commonalities among factors affecting the lexical knowledge of the
immigrants’ children, it is important to stress that the magnitude and strength of these
20
MIUR, 2008, p. 65.
156 PATRIZIA CORDIN
factors tend to vary from one immigrant population to another. In most situations the
extent of L1/L2 knowledge is likely to be related to a complex interaction of many so-
cio-cultural and socio-linguistic variables reflecting the unique context of each immi-
grant population21.
Early language development is rooted in the interactions children have with their par-
ents, significant care givers, child care providers, and peers. These early social ex-
changes both foster developing language skills and provide a vital foundation for chil-
dren’s school readiness and academic achievement23.
Per mantenere viva la lingua d’origine non basta tuttavia al bambino la con-
versazione casalinga e quotidiana: servono infatti occasioni diverse di scambio co-
municativo, con interlocutori e soggetti differenti, un input linguistico variato che
stimoli la capacità di impiegare registri linguistici diversi (non formali e formali), e
il passaggio dall’oralità alla scrittura.
Gli studi condotti sul ruolo del mantenimento della prima lingua in contesti di
migrazione concordano sull’effetto positivo di tale scelta, che influisce sui risultati
nella scuola, (dove gli alunni che conservano la L1 mostrano una migliore compe-
tenza linguistica in entrambe le lingue), sull’armonia e la coesione delle relazioni
familiari, e in generale sull’equilibrio emozionale e affettivo dei bambini24.
21
Schwartz, 2012, p. 123.
22
Pallotti, 2000.
23
Lucchese, Le Monda, 2007, p. 1.
24
Cfr. Tannenbaum, 2005. Lo studio riguarda 180 adolescenti di origine russa immigrati in
Israele, le famiglie dei quali hanno mantenuto un uso costante e vario dell’ebraico. I risultati molto
positivi della ricerca sulla competenza di questi studenti sono in parte determinati dal fatto che la
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 157
Inoltre, va considerato il fatto che quando una delle due lingue cui il bambino
è esposto è una “lingua debole”25, che non ha raggiunto quantità e qualità minime di
input, si perdono quei vantaggi cognitivi che sono propri del bilinguismo precoce, e
che sono dovuti al controllo che il bambino deve esercitare per inibire l’uso di una
delle due lingue nelle diverse situazioni comunicative. Nel caso del bilinguismo con
una lingua debole ci sarebbe infatti una carenza di controllo, che porterebbe
all’inibizione incompleta di una lingua e a una specie di “covert code-switching”. Si
avrebbe cioè l’attivazione delle proprietà strutturali della lingua più forte e il mate-
riale lessicale della lingua debole, a causa dell’incapacità del bambino di inibire
l’attivazione morfosintattica della lingua dominante26.
Studi recenti mostrano che in numerosi gruppi di immigrati si verifica la ten-
denza ad abbandonare la lingua d’origine con i figli per adottare il monolinguismo
dello stato ospite27. Inoltre, nonostante numerosi paesi riconoscano il valore del
mantenimento delle lingue di origine, nella pratica quotidiana molti bambini sono
scoraggiati dall’uso della loro prima lingua durante le ore scolastiche e scarsa in-
formazione è data alle famiglie sull’opportunità della conservazione della L1 e della
sua valorizzazione28. Una politica attenta al mantenimento delle lingue d’origine dei
gruppi immigrati dovrebbe invece estendersi a tutti i settori, cominciando dalla
scuola, introducendo ore di insegnamento, almeno in alcune L1 minoritarie, favo-
rendo contatti reciproci tra immigrati e residenti, stimolando il coinvolgimento dei
genitori nelle attività scolastiche, in modo da raggiungere bambini, famiglie e co-
munità di appartenenza.
lingua russa in Israele non viene impiegata solo per usi personali, ma anche in comunicazioni pub-
bliche, nei media, sui posti di lavoro, per produzioni artistiche e nel commercio.
25
Meisel, 2007, p. 499: “Only when children develop incomplete knowledge in one of their
language, will I refer to it as to the weaker as opposed to the stronger language. Asymmetric devel-
opment is different from the rate of acquisition of each of the languages”.
26
Meisel, 2007, p. 506; Sorace, 2005; Cummins, 2000.
27
Schwarz, 2012 a questo proposito riporta i dati di una ricerca svolta con genitori ispano-
foni in California, 2003.
28
A questo proposito Extra, Verhoeven, 1999, p. 20 osservano che avere dati aggiornati
sull’uso delle lingue d’origine tra gli immigrati in ogni Paese dovrebbe essere considerato un re-
quisito necessario per poter affrontare le questioni di base della politica linguistica nella program-
mazione dell’istruzione.
29
Family language policy è tutto ciò che riguarda “ideology, practice, management” delle
lingue all’interno della famiglia. Cfr. Schwartz, 2012, p. 131.
158 PATRIZIA CORDIN
ruolo cruciale svolto dalla cosiddetta “family language policy”, che comprende le
abitudini linguistiche praticate nella famiglia, le convinzioni dei genitori in tema di
educazione linguistica, i loro atteggiamenti nei confronti delle singole lingue in
gioco e del bilinguismo30. Il buon rendimento scolastico dei giovani russi immigrati
in Israele, il loro buon rapporto sia verso la lingua che verso la cultura del paese
d’origine, la salda relazione con i genitori sarebbero in buona parte determinati da un
atteggiamento positivo delle famiglie nei confronti del mantenimento della lingua
d’origine. La maggioranza dei giovani in questione infatti riceve un’alta esposizione
alla prima lingua in casa; spesso i genitori si adoperano perché i figli conoscano la
lingua d’origine; la lingua del paese ospite, l’ebraico, è ben conosciuta dai genitori; in-
fine gli stessi ritengono che la riuscita scolastica dei figli sia un obiettivo molto im-
portante.31 Adottando la prospettiva proposta da Shany e Geva, potremmo dire che
questo gruppo di immigrati possiede un grande capitale culturale per i figli32.
Un ruolo importante per lo sviluppo cognitivo, linguistico e per il successo
scolastico del bambino è svolto anche dall’istruzione informale che il piccolo riceve
in famiglia. Numerosi studi hanno evidenziato l’importanza delle pratiche cognitive
informali di socializzazione, come quelle che si mettono in atto nell’interazione
mamma-bambino durante il gioco, e hanno riconosciuto strategie diverse nel modo
di stimolare il bambino a seconda della classe sociale e del gruppo etnico di appar-
tenenza dei genitori. Contribuiscono inoltre allo sviluppo linguistico anche le inte-
razioni quotidiane che si svolgono nelle conversazioni in famiglia durante i pasti, o
durante altre attività svolte in casa.
The results of all these studies are quite consistent in showing 1) that informal educa-
tion or instruction practices at home predict children’s cognitive and language devel-
opment and later school achievement substantially (even if individual differences in in-
telligence are controlled), and 2) that poverty, low social class, low educational level,
traditional cultural child rearing beliefs, non mainstream cultural background, particular
religious traditions, and low-literate life styles have a pervasive influence on informal
30
In questa stessa prospettiva, De Houwer 1999 considera anche il ruolo svolto sullo svi-
luppo linguistico del bambino bilingue da un fattore che l’autrice chiama “impact belief”, che coin-
cide con la consapevolezza dei genitori circa l’effettivo influsso delle loro scelte sullo sviluppo
della lingua del bambino. De Houwer osserva che per uno sviluppo bilingue attivo l’impact belief è
necessario, accanto a un’attitudine positiva verso entrambe le lingue.
31
Le pratiche linguistiche di questo gruppo di immigrati sono riconosciute da Schwartz,
2012, p. 119 come “unique and intriguing case study of how family language policy (FLP) and
family background can enhance first language (L1; the heritage language), inter-generational
transmission and second language (L2) acquisition.”
32
“Cultural capital framework”: trasmissione delle forme di conoscenza, valori, educazione,
aspettative, beni culturali (libri, computers, certificati, diplomi, ecc.). Cfr. Shany, Geva, 2012, p. 80.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 159
education at home, leading in the end to less optimal preparation of the children for
formal schooling33.
33
Lesemann, 2002.
34
Per Schwartz, 2012, pp.129-131, il mantenimento in casa della lingua della famiglia con
istruzione alla lettura in tale lingua è, insieme all’atteggiamento positivo dei bambini per lo svi-
luppo di entrambe le lingue, uno dei due fattori che hanno più forte influsso sulla conoscenza del
vocabolario della L1 nei bambini di età scolare. Sulla conoscenza del vocabolario di L2 invece in-
cidono il livello di istruzione dei genitori, il livello di istruzione ricevuto dai bambini nel paese
d’arrivo, la durata del soggiorno nel nuovo paese.
35
Hart, Risley, 1995.
160 PATRIZIA CORDIN
Possiamo a questo punto riassumere il ruolo della FLP con le parole di Schwartz:
When immigrant families are proactive in their language policy and provide activities
in written forms of L1, the children respond by learning the language. In addition, when
immigrant families have favorable educational background obtained in the country of
origin, it is shown to benefit second generation children’s level of L2 vocabulary with-
out substantial economic support. Furthermore, the more families permit the co-exist-
ence of both languages in family language practice with the children the higher level of
L2 vocabulary mastery and the more endangered is L1 vocabulary. Finally children’s
report on FLP might become a real test of the effectiveness of this policy36.
5. ALFABETIZZAZIONE NELLA L1
L’alfabetizzazione e l’istruzione alla lettura (anche in età prescolare) fa parte
delle abitudini linguistiche familiari. Tuttavia, per l’importante ruolo nello sviluppo
linguistico del bambino che molti studi hanno riconosciuto a tale aspetto, riferen-
dosi in particolare alla lettura in famiglia, tratto il punto separatamente37.
La ricerca sugli scolari russi immigrati in Israele ha messo in risalto l’influenza
positiva che la lettura nella L1 ha per lo sviluppo linguistico del bambino. Un’altra
recente ricerca -anch’essa condotta in Israele- mostra come incida negativamente
sul bambino la totale mancanza di alfabetizzazione. Il campione esaminato è costi-
tuito da un gruppo di bambini figli di genitori immigrati provenienti da un’area ru-
rale dell’Etiopia, con tradizione orale e con un alto grado di analfabetismo38. Questi
bambini rappresentano il 10% degli scolari in Israele. Il loro insuccesso a scuola è
doppio rispetto a quello della popolazione scolastica; inoltre, un rilevante numero di
loro è inserito in programmi speciali di educazione. Nello studio condotto sul
gruppo le ricercatrici imputano l’insuccesso scolastico alla totale mancanza di alfa-
betizzazione nella lingua della famiglia: l’avvio all’alfabetizzazione avviene infatti
per questi scolari esclusivamente in ebraico. Poiché la comprensione della lettura è
compito complesso, influenzato da fattori come il riconoscimento delle parole, la
consapevolezza metalinguistica, le conoscenze culturali, le strategie di lettura, il vo-
cabolario, la conoscenza morfologica e sintattica, è evidente che i bambini di ori-
gine etiope nelle scuole israeliane partono nei confronti degli altri scolari con un
forte svantaggio, che con il passare degli anni, anziché diminuire, aumenta.
On more complex skills these children are not thriving, because, in spite of their cogni-
tive potential, they do not have sustained instructional and environmental exposure to
36
Schwartz, 2012, p. 133.
37
Lesemann, 2002.
38
Shani, Geva, 2012.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 161
cultural experiences that are needed in order to become more attuned to what it takes to
become good readers, good writers and sophisticated users of the language39.
Il crescente divario nel successo scolastico tra chi parte svantaggiato e chi no
mette in luce il fatto che per la riuscita scolastica è richiesto ben più che il possesso
di una lingua per la comunicazione. Gli studenti hanno bisogno di imparare anche le
modalità di comunicazione richieste da un continuo passaggio di confini culturali.
In altri termini, gli scolari devono imparare non solo la lingua del paese, ma anche
quella della scuola (“academic language”)40. Questa richiede non solo uno specifico
vocabolario, ma anche specifiche modalità di pensiero e di comunicazione in precisi
domini disciplinari, per eseguire compiti di analisi e di esplicitazione di significati,
per produrre testi e forme discorsive che seguono tradizioni e convenzioni signifi-
cativamente diverse dalla lingua in uso nelle comuni interazioni quotidiane.
Anche nel caso in cui i bambini siano inseriti nella scuola del paese di immigrazione
molto giovani, tra la scuola materna e le elementari, occorrono da quattro a sei anni
perché raggiungano livelli linguistici pari a quelli della media dei parlanti nativi. Tale
ritardo si manifesta soprattutto negli usi ‘cognitivo-accademici’ del linguaggio: descri-
vere accuratamente, narrare in modo preciso e chiaro, parlare di argomenti astratti, so-
stenere discussioni. È in queste aree che le competenze linguistiche dei bambini immi-
grati rimangono per anni al di sotto della media41.
6. PROGETTARE IL FUTURO
Quanto presentato nei paragrafi precedenti evidenzia come sia necessario e ur-
gente ripensare una politica linguistica per ridurre gli esiti scolastici negativi e per
valorizzare le potenzialità del bilinguismo nei bambini di famiglie migranti. Le li-
nee di intervento dovranno tener conto dei punti sopra esposti, favorendo il mante-
nimento della L1, una maggiore consapevolezza dei genitori circa le lingue e gli
39
Shany, Geva, 2012, p. 109.
40
Levin, Shohamy, 2012, p. 140, la definiscono come un tipo specifico di lingua usato nelle
classi per imparare e insegnare (nelle spiegazioni, nelle analisi, nelle valutazioni, nelle discussioni,
nei tests, nei corsi online, nei testi scolastici).
41
Sotiri, 2005.
42
Levin, Shoamy, 2012, p. 153.
162 PATRIZIA CORDIN
stimoli linguistici da usare in famiglia, e infine una maggiore esposizione dei bam-
bini, anche in età prescolare, all’alfabetizzazione, prima di tutto nella L1.
Pur avendo molti paesi lavorato in queste direzioni, sino al 2000, tuttavia, nes-
sun progetto applicato negli stati membri dell’Unione Europea era riuscito a portare
una riduzione sostanziale delle differenze di status tra le lingue del paese ospite e
quelle dei paesi d’origine43.
In Italia, in particolare, come emerge dalla citazione riportata alla fine del § 2,
rimane una forte incertezza, sia nel riconoscimento dei motivi che causano le diffe-
renze negli esiti scolastici tra scolari italiani e scolari con cittadinanza non italiana, sia
nella proposta di strategie di intervento. In diverse province sono state sperimentate
varie iniziative, spesso in modo poco sistematico e con interventi che solo raramente
erano mirati a combattere le cause prime del divario nei risultati scolastici.
Mi pare interessante a questo proposito riferire alcuni risultati di un’esperienza
di sensibilizzazione svolta in forma di focus groups, che nel 2005 ha coinvolto ge-
nitori, insegnanti e studenti a Trento44. A ognuno dei sette gruppi, formati ciascuno
da un minimo di dodici persone a un massimo di quindici45, hanno partecipato
rispettivamente: coordinatori pedagogici delle scuole d’infanzia, insegnanti per
l’educazione di adulti e nelle scuole serali, insegnanti di scuole primarie e seconda-
rie, studenti italiani, studenti con cittadinanza non italiana, genitori italiani e infine
genitori immigrati. A ogni gruppo sono state poste alcune domande sulle iniziative
scolastiche prese nella rispettiva scuola di appartenenza in favore degli alunni con
cittadinanza non italiana, sui bisogni soddisfatti e sui bisogni non soddisfatti. Al-
cune delle risposte che riferisco di seguito mostrano quali strategie sono state prin-
cipalmente adottate nelle scuole e come queste siano inadeguate per affrontare radi-
calmente la situazione di disagio scolastico descritta. Per esempio, gli studenti
“stranieri”46 riconoscono nei seguenti punti l’attenzione che la scuola di apparte-
nenza manifesta nei loro confronti: “gli insegnanti chiedono se ci sono problemi di
lingua”; “sono date spiegazioni aggiuntive dai professori quando un ragazzo stra-
niero non capisce”; “vengono proposti corsi di lingua [italiana] al pomeriggio”;
“vengono proposti corsi per alunni stranieri prima dell’inizio dell’anno scolastico”.
Ancora, alla domanda sui bisogni degli “alunni stranieri” ai quali la scuola di
appartenenza è riuscita a dare risposta gli educatori di adulti riconoscono: “alfabe-
tizzazione di base e mediazione linguistica”. I genitori italiani individuano: “alfabe-
tizzazione di base e insegnamento dell’italiano alle mamme”. Gli insegnanti elen-
cano: “realizzazione di corsi di italiano a vari livelli”; “la comunicazione in lingua
madre alle famiglie straniere”; “corsi di mantenimento della lingua di origine”. Gli
43
Romaine, 1999.
44
Cfr. Pedrotti et al., 2005.
45
L’unico gruppo anomalo è risultato quello degli studenti italiani, al quale hanno parteci-
pato solo due persone.
46
Così sono chiamati nel testo.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 163
Quando si constata che gli alunni sono in grado di interagire, di comprendere semplici
ordini, di esprimere esperienze personali, cessano gli interventi di sostegno e si comin-
cia a trattarli come tutti gli altri. In realtà, è proprio allora che hanno più bisogno di as-
sistenza. Crediamo infatti che il ritardo dipenda molto dalla quantità e qualità della loro
esposizione alla lingua. Bisognerebbe allora non abbassare l’attenzione verso gli allievi
non italofoni per diversi anni, predisponendo interventi specifici per facilitare
l’acquisizione delle abilità di uso cognitivo-accademico del linguaggio: spiegazioni
dettagliate del lessico, sostenuto dall’eventuale uso di supporti didattici non verbali,
numerose verifiche della comprensione, negoziazione del significato delle parole47.
Una svolta decisa per affrontare i problemi esposti nelle pagine precedenti non
può che partire dall’educazione che i bambini ricevono sin dalla prima infanzia48.
La ricerca negli ultimi dieci anni ha visto uno sviluppo enorme degli studi
sull’importanza dell’acquisizione linguistica e degli stimoli cognitivi che vengono
dati ai bambini in età prescolare e sugli effetti molto positivi di trasformazione so-
47
Sotiri, 2005. L’autrice propone in particolare di lavorare nelle scuole sulla comparazione
linguistica, come è stato fatto in alcuni esperimenti promossi dall’Università degli Studi di Padova
e dal Servizio di Mediazione Culturale del Comune, all’interno di un progetto mirato a incorag-
giare gli alunni a sfruttare le conoscenze della propria lingua per una migliore acquisizione
dell’italiano, a partire dal riconoscimento di somiglianze e differenze tra le lingue in gioco.
48
“From the point of view of optimal child development […] what does matter […] is at
what age the child started in ECEC [early care and education centers], how many hours each week
the child is in care or education, how many years are spent in care or education before primary
school begins, what activities and social interactions the child participates in, how these activities
and interactions may foster cognitive and personal development over time, how big the groups of
children are, how many staff is available, how secure, trustworthy and stable the child’s social re-
lationships are with other children and with caregivers, and, finally, how good and available possi-
ble alternatives are (for instance, parental care).” Leseman, 2002, p. 21.
164 PATRIZIA CORDIN
ciale ed economica che i primi anni di educazione attenta allo sviluppo completo
del bambino possono avere49.
L’obiettivo di garantire a tutti i bambini sin dal primo anno di vita ricchezza e
varietà di stimoli linguistici, cognitivi ed emotivi è ciò che caratterizza un progetto di
educazione precoce presentato nel 2009 al governo dell’Ontario50. La proposta pre-
vede la costruzione di un sistema educativo continuo, cioè rivolto ai bambini da 0 a 8
anni, integrato, cioè capace di coinvolgere i genitori insieme agli educatori51, e piena-
mente inserito nella comunità, che lo conosce e che partecipa alla sua realizzazione52.
In questo progetto la formazione degli educatori risulta fondamentale per sta-
bilire un rapporto di qualità con i bambini. Infatti:
49
Pascal, 2009, p. 10, riferisce in particolare delle ricerche sul tema dell’economista James
Heckman.
50
Pascal, 2009. Il progetto trova la sua base teorica in alcune proposte presentate nei lavori di
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007 e di Leseman, 2002.
51
“We know that children do better when parents are involved in their education, know their
educators, and keep track of what is happening in class. Research demonstrates that the most ef-
fective time to engage parents is when their children are young […]. Joint responsibility between
parents and educators is an important “difference maker” when it comes to the developmental pro-
gress of children”. (Pascal 2009, p. 29).
52
Per esempio, per aiutare nell’insegnamento di L1. Data la presenza di molte diverse prime
lingue è difficile trovare risorse per il personale adatto. Possono in questo caso essere sperimentate
strategie alternative, come il coinvolgimento dei genitori e di rappresentanti delle comunità socio-
linguistiche.
53
Leseman, 2002, p. 41.
54
Cfr. Pascal, 2009, p. 35.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 165
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bampi Laura, Saporito Grazianna (a cura di), Alunni con cittadinanza non italiana. Anno
scolastico 2007-8, Trento, Didascalie Quaderni, 2008.
Benincà Paola, Dialetto e scuola: un rapporto difficile, in Colombo Adriano (a cura di),
Guida all’educazione linguistica, Bologna, Zanichelli, pp.115-120; (1a ed., Atti della
giornata di studio GISCEL, Padova, Cleup, 1975).
Bettoni Camilla, Il bilinguismo dei bambini immigrati, in Iori Beatrice (a cura di), L’italiano
e le altre lingue: apprendimento della seconda lingua e bilinguismo dei bambini e dei
ragazzi immigrati, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp.1-12.
Bialystock Eleanor, Bilingualism in development. Language, literacy and cognition, New
York, Cambridge University Press, 2001.
Chini Marina (a cura di), Plurilinguismo e immigrazione in Italia. Un’indagine sociolingui-
stica a Pavia e Torino, Milano, FrancoAngeli, 2004.
Cummins Jim, Language, power and pedagogy. Bilingual children in the crossfire, Cleve-
don, Multilingual Matters, 2000.
De Houwer Annick, Environmental factors in early bilingual development: the role of parental
beliefs and attitudes, in Extra Guus, Verhoeven Ludo (a cura di), 1999, pp. 75-95.
Durgunoglu Aydin Y., Goldenberg Claude (a cura di), Language and literacy development in
bilingual settings, New York, Guilford Press, 2001.
Extra Guus, Verhoeven Ludo (a cura di), Bilingualism and Migration, Berlino-New York, de
Gruyter, 1999.
Extra Guus, Verhoeven Ludo, Immigrant minority groups and immigrant minority languages
in Europe, in Extra Guus, Verhoeven Ludo (a cura di), 1999, pp. 3-28.
Favaro Graziella, Insegnare l’italiano agli alunni stranieri, Firenze, La Nuova Italia, 2002.
Giacalone Ramat Anna (a cura di), Verso l’italiano, Roma, Carocci, 2003.
Hart Betty, Risley Todd, Meaningful Differences in Everyday Parenting and Intellectual De-
velopment in Young American Children, Baltimora, Paul H. Brookes, 1995.
Leikin Mark et al. (a cura di), Current Issues in Bilingualism, New York, Springer, 2012.
Leikin Mark, Schwartz Mila, Yishai Tobi, Current Issues in Bilingualism: A Complex Approa-
ch to a Multilidimensional Phenomenon, in Leikin Mark et al. (a cura di), 2012, pp. 1-20.
Leseman, Paul P.M., Early childhood education and care for children from low-income or
minority backgrounds, OECD, 2002.
Leseman Paul P.M., de Jong Peter F., Home literacy: opportunity, instruction, cooperation
and social-emotional quality predicting early reading achievement, «Reading Research
Quaterly», n. 33, 1998, pp. 294-318.
Levin Tamar, Shohamy Elana, Understanding Language Achievement of Immigrants in
Schools: The Role of Multiple Academic Languages, in Leikin Mark et al. ( a cura di),
2012, pp. 137-155.
Lucchese Fernanda, Tamis Le Monda Catherine, Fostering Language Development in Children
from Disadvantaged Backgrounds, Encyclopedia of Language and Literacy Development,
Londra, 2007, pp. 1-11. http://www.literacyencyclopedia.ca/pdfs/ topic.php?topld=229.
166 PATRIZIA CORDIN
Meisel Jürgen, The weaker language in early child bilingualism: Acquiring a first language
as a second language?, «Applied Psycholinguistics», n. 28, 2007, pp. 495-514.
MIUR, Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, anno scolastico 2011-12.
http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/ac861a31-5970-
46f8-ba7b-
MIUR, Alunni con cittadinanza non italiana. Scuole statali e non statali. Anno scolastico
2006-7, rapporto 2008; www.pubblica.istruzione.it
MIUR-ISMU, Alunni con cittadinanza non italiana. Approfondimenti e analisi. Anno scolastico
2011/2012, pubblicato su Repubblica, 14 marzo 2013.
Oller David K., Eilers Rebecca E., Language and literacy in bilingual children, Clevedon,
UK, Multilingual Matters, 2002.
Pallotti Gabriele, I bisogni linguistici degli alunni immigrati, in Lingue, culture e nuove tec-
nologie, Quaderni del GISCEL, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 61-7.
Parry Mair, The challenges of multilingualism today, in Lepschy Anna Laura, Tosi Arturo,
Multilingualism in Italy: Past and Present, Oxford, Legenda, 2002, pp. 4, 7-59.
Pascal Charles, With Our Best Future in Mind. Implementing Early Learning in Ontario,
Ontario, 2009. www.ontario.ca/earlylearning
Pedrotti Dario, Bampi Laura, Tomasi Adriano (a cura di), Migranti nella scuola. Focus
group con studenti, genitori ed operatori, Trento, Didascalie strumenti, 2005.
Romaine Suzanne, Bilingualism, Oxford, Blackewell, 1995.
Romaine Suzanne, Early bilingual development: from elite to folk, in Extra Guus, Verhoeven
Ludo (a cura di), 1999, pp. 61-73.
Schwartz Mila, Second Generation Immigrants: A Socio-linguistic Approach of Linguistic
Development within the Framework of Family Language Policy, in Leikin Mark et al. (a
cura di), 2012, pp. 119-135.
Shany Michal, Geva Esther, Cognitive, Language, and Literacy Development in Socio-cul-
turally Vulnerable School Children – The Case of Ethiopian Israeli Children, in Leikin
Mark et al. (a cura di), 2012, pp. 77-117.
Sorace Antonella, Selective optionality in language development, in Cornips Leonie, Corri-
gan Karen (a cura di), Syntax and variation. Reconciling the biological and the social,
Amsterdam, Benjamins, 2005, pp. 55-80.
Sotiri Marinela, Plurilinguismo e didattica interculturale. La comparazione come spunto di
sensibilizzazione e mezzo per l’integrazione, 2005. http://www.click.vi.it/sistemieculture/
plu-rilinguismo_didattica_interculturale.doc
Tannenbaum Michal, Berkovich Marina, Family relations and language maintenance: impli-
cations for language educational policies, «Language Policy», n. 4, 2005, pp. 287-309.
Tosi Arturo, Dalla madrelingua all’italiano: lingue ed educazione linguistica nell’Italia
multietnica, Firenze, La nuova Italia, 1995.
TRAUTE TAESCHNER - SARA POLIANI - SABINE PIRCHIO
(Sapienza Università di Roma)
1. INTRODUZIONE
La letteratura internazionale riporta numerose evidenze che i bambini che
presentano un ritardo del linguaggio in età precoce sono a rischio per successivi
problemi specifici del linguaggio (Bishop, Edmundson, 1987; Rescorla, Schwartz,
1990; Thal, Bates, 1988). Come è noto, il ritardo del linguaggio rappresenta uno
tra i motivi più frequenti di consultazione clinica in età prescolare ma, ancora trop-
po spesso, esso è stato considerato e trattato come una condizione omogenea,
transitoria e a prognosi sempre favorevole. È invece ormai sufficientemente di-
mostrato che un ritardo nello sviluppo del linguaggio può celare problemi clinici
complessi e di natura diversa (sensomotori, cognitivi, relazionali) costituendone
una tra le più precoci manifestazioni; è inoltre opportuno ricordare che un disor-
dine linguistico rappresenta sempre un fattore di rischio per lo sviluppo cognitivo
e psicoaffettivo del bambino, data la funzione di mediazione e integrazione della
vita mentale che il linguaggio svolge sin dalle prime fasi della sua acquisizione
(Rutter, Lord, 1987).
I criteri che permettono una diagnosi di ritardo di linguaggio nei bambini pic-
coli sono molto controversi, così come non appare univoca la definizione della fa-
scia di età in cui tale problema possa essere accertato. Molti autori concordano con
la necessità di considerare l’ampiezza del vocabolario espressivo e la capacità di
produrre enunciati di più parole come uno degli indici più stabili per la definizione
del ritardo. Ad esempio Rescorla (1989) definisce ‘parlatori tardivi’, quei bambini
che a 24 mesi presentano un lessico inferiore a 50 parole e un’assenza di combina-
zioni di parole; Paul (1991) considera in ritardo i bambini con meno di 10 parole fra
18 e 23 mesi e con un vocabolario inferiore a 50 parole a 23 - 24 mesi; Thal (2000)
invece identifica come in ritardo quei bambini che a 18 - 29 mesi presentano un re-
pertorio lessicale inferiore al 10° percentile per la loro età, e nessun enunciato di
due o più parole. È evidente che gli studi citati fanno riferimento essenzialmente ad
indici relativi al dominio della produzione del linguaggio ed è a questi che molti
clinici ricorrono per il riconoscimento dei bambini parlatori tardivi.
La domanda di diagnosi e assistenza in genere che i piccoli pazienti pongono è
lievitata notevolmente in questi ultimi anni, soprattutto nell’area dello sviluppo lin-
guistico. Il problema, del resto, non riguarda solo l’accertamento del ritardo ma an-
che e soprattutto l’intervento. L’età tra i 24 e i 36 mesi è la migliore per identificare
i bambini con problemi dello sviluppo comunicativo-linguistico e mettere in atto
interventi educativi, psicologici e riabilitativi in grado di prevenire disturbi futuri.
168 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO
2. METODO
Hanno partecipato alla ricerca 35 bambini di età compresa tra i 24 e i 36 mesi
frequentanti uno stesso asilo nido situato nella periferia nord di Roma; il gruppo dei
partecipanti è sostanzialmente omogeneo per quanto concerne il livello professio-
nale e il grado di scolarità dei genitori, addensandosi il primo attorno a mansioni a
carattere di libero professionista e rientrando il secondo al livello della scuola media
superiore. Il gruppo è equidistribuito per quanto riguarda le variabili età e genere
dei bambini. La situazione interna del Nido si può considerare di tipo standard in
relazione alle caratteristiche strutturali quali ampiezza, suddivisione degli spazi,
qualità e quantità del materiale di gioco, organizzazione dei vari momenti della
giornata dei bambini.
Nella prima fase dello studio (T1) è stata valutata la competenza linguistica di
partenza dei bambini attraverso il noto questionario di Caselli e Casadio (2002), Il
primo vocabolario del bambino (PVB) nella versione “Parole e Frasi”, in quanto
permette di valutare la produzione e comunicazione vocale, lo sviluppo morfolo-
gico e le combinazioni di parole e frasi.
172 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO
In base ai risultati delle analisi dei questionari, i bambini sono stati suddivisi in
due gruppi: a) bambini con sviluppo tipico del linguaggio (N=18); b) bambini con
ritardo linguistico (N=17). A quest’ultimo gruppo di bambini è stata data la possi-
bilità di partecipare all’intervento sperimentale. Per motivi contingenti e logistici, 5
bambini non hanno potuto partecipare all’intervento e sono stati mantenuti nella ri-
cerca in qualità di gruppo clinico di controllo. I 12 bambini parlanti tardivi del
gruppo sperimentale sono stati esposti per un periodo di 5 mesi alle attività proposte
dal modello psicolinguistico del Format Narrativo mediamente per tre volte a setti-
mana con la loro educatrice svolgendo le prime quattro storie delle “Avventure di
Hocus e Lotus”, serie narrativa sviluppata per la realizzazione nella pratica dei con-
cetti teorici sopra esposti. Oltre all’azione teatrale, ogni racconto è stato poi cantato
nella sua modalità di mini operetta, con lo scopo di permettere al bambino di me-
morizzare in modo emotivamente coinvolgente e piacevole il lessico e le strutture
frasali. È stato chiesto, inoltre, ai genitori dei bambini, di far ascoltare il più possi-
bile le mini operette anche a casa, in modo da poter utilizzare la musica come occa-
sione di stabilizzazione del linguaggio appreso.
Alla fine dei 5 mesi di intervento (T2), a sei mesi di distanza dalla prima valuta-
zione, è stato valutato il livello di sviluppo linguistico raggiunto dai bambini dei tre
gruppi, attraverso una nuova somministrazione del PVB (Scheda Parole e Frasi) e le
prove di narrazione orale. I bambini sono stati invitati a raccontare tre tipi di storie:
dei bambini e delle parole diverse (types) per i tre tipi di storie. E’ stata fatta anche
un’analisi della narrazione, evidenziando il numero di episodi riportati e non ripor-
tati nei racconti, verificando così se i bambini erano in grado di narrare una storia
seguendone la sequenzialità e la strutturazione spazio temporale. Inoltre, è stata
eseguita l’analisi della struttura semantica della frase, che consente di individuare la
complessità sintattica delle frasi utilizzate dai bambini durante la narrazione. Le
frasi sono state classificate secondo i criteri di categorizzazione della struttura se-
mantica della frase che si fonda su Tesnière (1936), Parisi, Antinucci (1973) e Hel-
bing, Schenkel (1969). Secondo quest’analisi le frasi si possono suddividere in:
3. RISULTATI
3.1 Analisi del PVB
È stata fatta un’analisi multivariata per valutare lo sviluppo raggiunto dai
bambini dei tre gruppi nel periodo tra T1 e T2 nella produzione di parole attraverso
i risultati del questionario PVB. Dai risultati si è evidenziato un effetto principale
del tempo (F (1,32) = 130,109, p <.001) e del gruppo (F (2,32) = 23,503, p <.001) e un
effetto di interazione (F (2,32) = 35,756, p <.001) che confermano l’utilità e
l’efficacia del modello utilizzato: i risultati dei bambini parlanti tardivi del gruppo
sperimentale migliorano in modo più consistente degli altri due gruppi successiva-
mente all’intervento (fig.1) superando quelli dei bambini del gruppo di controllo
clinico che al T1 erano invece superiori.
Lo stesso andamento si è evidenziato nell’analisi della produzione frasale: i par-
lanti tardivi del gruppo sperimentale presentano al T2 un progresso significativo in
confronto al T1 sia nel numero di frasi totali (fig. 2) sia nelle frasi complete (fig. 3).
L’analisi multivariata sulle frasi totali ha evidenziato un effetto principale del
tempo (F (1,32) = 68,120, p<.001) e del gruppo (F (2,32) = 30,595, p<.001) e un effetto di
interazione (F (2,32) = 21,143, p<.001) a favore dei bambini del gruppo sperimentale.
L’analisi multivariata sulle frasi complete mostra un effetto significativo del
174 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO
tempo (F (1,32) = 57.856, p <.001), del gruppo (F (2,32) = 11,134, p<.001) e un effetto
di interazione (F (2,32) = 27,977 p <.001). I bambini parlanti tardivi del gruppo spe-
rimentale superano anche questa volta al T2 il gruppo clinico di controllo.
600
500
400
300
200
100
0
T1 T2
Figura 1:
Numero medio di parole prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi
Figura 2:
Numero medio di frasi prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi
SAPER NARRARE A DUE ANNI 175
Figura 3:
Numero medio di frasi complete prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi
tivo rispetto nella narrazione nota (Biancaneve) che è stata loro insegnata con il solo
linguaggio, intonazione della voce e illustrazioni. In altre parole, i bambini con
sviluppo linguistico tipico riescono ad arricchire il proprio linguaggio anche solo
sulla base di racconti verbali illustrati. Bambini, invece, con poca prontezza verbale
non riescono a fare altrettanto.
Figura 4:
Numero medio di parole totali prodotte alle tre storie
Rispetto al numero di types, cioè le parole diverse presenti nel racconto, i ri-
sultati ricalcano quelli dei tokens nelle tre storie (fig. 5). Più precisamente, nella sto-
ria di Hocus e Lotus il gruppo che si differenzia (F (2,28) = 6,395, p <.005) con il mi-
nor numero di types prodotti è quello dei parlatori tardivi del gruppo di controllo.
Nella storia nuova invece è il gruppo dei bambini con sviluppo tipico che si diffe-
renzia significativamente (F (2,29) = 13,983, p <.001) con un numero di tipi di parole
superiore rispetto agli altri due gruppi. Lo stesso avviene per la storia nota con una
differenza significativa (F (2,28) = 14,204, p<.001) anche qui a favore del gruppo dei
bambini con sviluppo tipico rispetto ai due gruppi di parlatori tardivi.
Questi risultati evidenziano come l’effetto del trattamento si sia verificato
come significativo nella storia del Format Narrativo e non nelle altre prove: sulla
base di questi risultati è senza dubbio possibile formulare l’indicazione dell’oppor-
tunità di una educazione linguistica multimodale per i bambini parlatori tardivi. In-
fatti, la narrazione attraverso la sola modalità verbale con uso dell’intonazione della
voce e di illustrazioni, come avvenuta per la storia di Biancaneve, vale a dire la sto-
ria nota, porta a dei risultati soddisfacenti solo quando i bambini hanno uno svi-
luppo tipico. Quindi, nonostante il racconto di una storia con l’aiuto di figure sia un
modello bimodale, possiamo confermare che le figure sono una modalità più debole
rispetto al gesto, all’espressione mimica e all’azione. Inoltre, si è osservato attra-
verso la storia nuova, I gattini, che il passaggio dall’esperienza reale alla sua narra-
zione è molto difficile in quanto deve mettere in moto capacità astratte di categoriz-
SAPER NARRARE A DUE ANNI 177
Figura 5:
Numero medio di types prodotti alle tre storie
duare i vari episodi di una storia sconosciuta, narrandone in quantità simile ai bam-
bini con sviluppo tipico. Operazione che invece non riesce altrettanto bene al
gruppo di controllo.
10
8
6
4
2
0
Sviluppo tipico Parlanti tardivi format Parlanti tardivi controllo
Figura 6:
Numero di eventi riportati nella storia di Hocus e Lotus
12
10
8
4
2
0
Sviluppo Parlanti tardivi Parlanti tardivi controllo
sperimentale
Figura 8:
Struttura semantica della frase nella storia di Hocus e Lotus
cono un maggior numero di espressioni, fra cui quelle onomatopeiche, rispetto agli
altri due gruppi. Ciò è dovuto al fatto che i racconti della sperimentazione hanno in
sé molti enunciati di questo tipo e sono richiesti dalla narrazione.
L’analisi della struttura semantica della frase nei racconti della storia nuova (I
gattini) non ha rilevato importanti differenze tra i bambini dei tre gruppi nella capa-
cità di esprimersi utilizzando le varie strutture frasali. Come mostra la figura 9,
l’unica categoria nella quale i tre gruppi si differenziano significativamente tra loro
(F (2,29) = 8,385, p<.01) è nelle parole singole. I bambini con sviluppo tipico anche
in questa storia riportano un minor numero di parole singole rispetto agli altri due
gruppi di bambini parlatori tardivi, confermando che, grazie alla maturazione lin-
guistica raggiunta, sono in grado di narrare una storia nuova attraverso strutture fra-
sali complete e più complesse.
Figura 9:
Struttura semantica della frase nella storia I Gattini
di eccellere rispetto alle altre narrazioni, differenziandosi con una produzione mag-
giore di frasi ampliate complete rispetto agli altri gruppi.
Infine, i risultati emersi dall’analisi della struttura semantica della frase nei
bambini parlatori tardivi sperimentali, evidenziano come le strutture complesse
compaiano poco e non tutti i bambini le producano. Questo è un indice evidente che
i bambini si trovano in un periodo di apprendimento linguistico costituito soprat-
tutto da parole singole e da frasi semplici come le nucleari, avendo tuttavia già su-
perato il periodo prelinguistico e quello di produzione verbale caratterizzata princi-
palmente da espressioni, parole singole e frasi incomplete. Al contrario, i bambini
parlatori tardivi di controllo continuano ad avere una netta preferenza per parole
singole e producono un numero molto limitato quando non assente di frasi più
complesse quali le ampliate e le binucleari.
4. CONCLUSIONE
I risultati ottenuti dalla presente ricerca forniscono un contributo a nostro av-
viso importante per la strutturazione di interventi di educazione linguistica per i
bambini parlatori tardivi, mostrando come un intervento attraverso il format narra-
tivo si sia rivelato anche questa volta di notevole validità. Attraverso le attività del
format i bambini imparano ad attribuire attivamente un significato alle azioni e alle
espressioni dell’adulto, passando quindi ad una comprensione sempre più deconte-
stualizzata, e imparano a produrre simboli verbali sempre più stabili e condivisibili.
Mediante questa condivisione e simbolizzazione i bambini imparano ad usare il lin-
guaggio in modo rappresentazionale. Inoltre, si è verificato come i materiali e le
182 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bickel J., Il bambino con problemi di linguaggio. Diagnosi, intervento, prevenzione a casa e
a scuola, Livorno, Belforte editore libraio, 1989.
Bishop D.V.M., Edmundson A., Language-impaired 4-years-old: distinguishing transient
from persistent impairment, «Journal of Speech and Hearing Disorder», 52, 1987, pp.
156-173.
Bruner J., The ontogenesis of speech acts, «Journal of Child Language», 2, 1975, pp. 1-19.
Camaioni L., The social construction of meaning in early infant-parent and infant-peer rela-
tions, in Nadel J., Camaioni L. (a cura di), New Perspectives in Early Communicative
Development, London, Routledge, 1993.
SAPER NARRARE A DUE ANNI 183
Caselli M.C., Casadio P., Il primo vocabolario del bambino. Guida all’uso del questionario
MacArthur per la valutazione della comunicazione e del linguaggio nei primi anni di
vita, Milano, Franco Angeli, 2002.
Cecchini M., Langher V., Cataudella S., Frasca L., Loporcaro M.F., La comunicazione nelle
prime ore di vita, Roma, Ed. Psicologia, 1998.
Cross T., Mother’s speech and its association with rate of linguistic development in young
children, in Waterson N., Snow C. (a cura di), The development of communication, New
York, Wiley, 1978.
Fernald A., Simon T., Expanded intonation contours in mothers’ speech to newborns, «De-
velopmental Psychology», 20, 1984, pp. 104-113.
Helbing C., Schenkel W., Woerterbuch zur Valenz und Distribution deutscher Verben,
Leipzig, Veb Bibliographisches Institut, 1969.
Lerna A., Massagli A., Russo L., Taeschner T., Galluzzi R., Utilizzo del format narrativo
nella riabilitazione del linguaggio di bambini Down, «Logopedia e Comunicazione», 3,
2006, pp. 271-295.
Longobardi E., Funzione comunicativa del comportamento materno e sviluppo comunicativo
linguistico del bambino nel secondo anno di vita, «Giornale Italiano di Psicologia», 3,
1992, pp. 425-448.
Parisi D., Antinucci F., Elementi di grammatica, Boringhieri, Torino, 1973.
Paul R., Profiles of toddlers with slow espressive language development, «Topics in Lan-
guage Disorder», 11, 1991, pp. 1-13.
Rescorla L., The language development survey: A screening tool for delayed language in
toddlers, «Journal of Speech and Hearing Disorders», 54, 1989, pp. 587-599.
Rescorla L., Schwartz E., Outcome of toddlers with expressive language delay, «Applied
Psycholinguistic», 1, 1990, pp. 393-407.
Rutter M., Lord C., Language disorders associated with psychiatric disturbances, in Yule
W., Rutter M. (a cura di), «Language Development and Disorder», London, MacKeith
Press, 1987.
Searle J.R, Kiefer F., Bierwisch M. (a cura di), Speech act theory and pragmatics, Dordrecht
(Olanda), D. Reidel Publishing Company, 1980.
Smorti A., Il pensiero narrativo, Firenze, Giunti, 1994.
Snow C.E., Mothers’ speech research, in Snow C. E., Ferguson C. (a cura di), «Talking to chil-
dren. Language input and acquisition», Cambridge, Cambridge University Press, 1977.
Stern D., Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
Taeschner T., Insegnare la lingua straniera: prospettive teoriche e didattiche per la scuola
elementare, Bologna, Mulino, 1992.
Taeschner T., L’insegnante magica, Roma, Borla, 2002.
Taeschner T., Rinaldi P., Tagliatatela D., Pirchio S., “Le parole per raccontarmi”. Una ri-
cerca sull’apprendimento dell’italiano da parte di adolescenti figli di immigrati, «Psico-
logia dell’educazione e della formazione», vol. 10, n.1, 2008, pp. 21-35.
Tesnière L., Esquisse d’une syntaxe structurale, Paris, Klincksieck, 1953.
184 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO
Thal D., Bates E., Language and gestures in late talkers, «Journal of Speech and Hearing Re-
search», 31, 1988, pp. 115-123.
Thal D., Late-talking todlers: Are they at risk?, San Diego, State University Press, 2000.
Wells C.G., Robinson W.P., The role of adult speech in language development, in Fraser C.,
Scherer K. R. (a cura di), Advances in the social psychology of language, Cambridge,
Cambridge University Press, 1982.
MIRIAM VOGHERA
(Università di Salerno)
denza tra i due tipi di variazione, ma il passo verso l’identificazione delle due varia-
bili è breve1.
Ma la sovrapposizione tra le dimensione di variazione non deriva solo da una
interpretazione superficiale dei dati, ma anche dal fatto che esistono ampie zone del
lessico e della morfosintassi che possono essere caratterizzate legittimamente tanto
in diamesia quanto in diafasia e in diatopia. Per esempio, espressioni come an-
dare/essere fuori di testa, essere fuori (nel significato di ‘comportarsi in modo ec-
centrico’ o ‘essere impazzito’) possono essere considerate come appartenenti ad un
registro informale della varietà standard dell’italiano o come appartenenti
all’italiano regionale romano, cioè ad una varietà diatopica, o, infine, come apparte-
nenti all’italiano parlato, cioè essere caratterizzati in diamesia. L’assegnazione di
queste espressioni ad una varietà piuttosto che ad un’altra è, al di fuori di ogni con-
testo, del tutto arbitraria e certamente indipendente dal loro aspetto formale. Esi-
stono quindi per definizione zone di sovrapposizione tra dimensioni di variazione
per le quali non è sempre facile individuare la gerarchia relativa dei fattori caratte-
rizzanti. Nel caso del nostro esempio possiamo dire che il fattore diafasico domina
quello diatopico e quello diamesico. In altri casi potrà essere difficile stabilire quale
dimensione di variazione sia prevalente, perché esiste un certo margine di indeter-
minatezza che può essere controllato solo contestualmente.
Alla considerazione sulla collocazione dei vari usi dovrebbe inoltre sempre ac-
compagnarsi la valutazione della distanza psicologica percepita dai parlanti tra le
varie strutture ed espressioni. Fin dal classico contributo di Fishman (1972), i ricer-
catori che si sono occupati di variazione linguistica sono concordi nell’affermare
che la percezione che i parlanti hanno della autonomia o della distanza tra lingue o
varietà, indipendentemente dalla realtà linguistica, è uno dei fattori che contribuisce
maggiormente all’avvicinamento o alla distanza tra di esse. Ciò vuol dire che fattori
esterni alla struttura linguistica possono avere in molti casi un peso determinante. A
ciò contribuisce, come è ovvio, la diversa funzionalizzazione delle varietà la quale
ha delle conseguenze sistematiche sull’organizzazione dei messaggi. Gumperz
(1982) ha mostrato che gli stessi parlanti mettono in atto strategie comunicative di-
verse a seconda delle varietà usate. Questo vuol dire che i diversi usi linguistici
vengono percepiti e marcati come appartenenti ad una determinata varietà non solo
in base alle loro caratteristiche formali e funzionali, ma anche sulla base della co-
struzione dell’interazione comunicativa la quale coinvolge non solo la struttura dei
testi, ma l’intera organizzazione discorsiva. Gli etnografi della comunicazione si
sono infatti impegnati nell’analisi degli eventi comunicativi (speech events), la
quale ha come oggetto di osservazione lo svolgersi dell’interazione tra i membri di
un gruppo durante uno scambio comunicativo. L’analisi si sposta dunque dal testo
1
Il complicato intreccio tra i vari tipi di variazione è ben illustrato dai nuovi attributi sociali e
identitari che ha assunto oggi il dialetto nelle nuove generazioni: si vedano Berruto (2006 e 2007).
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 187
2
Per quanto riguarda gli esempi tratti da corpora di parlato, ho mantenuto le convenzioni
delle trascrizioni originarie, anche se diverse tra loro. Il segno # indica una pausa e le vocali tra pa-
rentesi uncinate sono da considerare allungate.
188 MIRIAM VOGHERA
LIP DIACORIS
tipo[+N] 76% 82%
uso tassonomico
tipo[+A] 2% 5%
tipo[-N] 22% 13%
Tabella 1: Frequenza di tipo[±N] nel parlato e nello scritto.
3
Il corpus LIP è stato consultato grazie al sistema di interrogazione parallela delle trascri-
zioni ortografiche e dei files audio che costituisce il VoLIP (Voghera, Cutugno, Iacobini, Savy,
2013) pubblicato nel luglio 2013 all’indirizzo www. parlaritaliano.it.
4
Il Diacoris è consultabile all’indirizzo: corpora.dslo.unibo.it/coris_ita.html
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 189
5
L’intero corpus, raccolto nei primi anni 2000, è costituito da 100 ore di parlato; non es-
sendo concepito per l’analisi lessicale, non dà la misura della lunghezza in parole e non è interro-
gabile nella sua interezza per elementi lessicali. Per questo motivo la sua utilizzazione è stata solo
parziale.
6
Per una discussione più approfondita si rimanda a Voghera (2013a).
190 MIRIAM VOGHERA
Un quarto nucleo funzionale è costituito dagli usi di tipo, seguito o meno dal
complementatore che, come connettivo esplicativo o dichiarativo, di fatto sostitui-
bile con i due punti o un cioè, per esempio (13), o consecutivo (14):
Infine tipo può funzionare come segnale discorsivo sia come hedger (Lakoff,
1973) sia come focalizzatore non contrastivo: nel primo caso tende a delimitare ed
eventualmente attenuare il significato di un espressione o la forza pragmatica di un
enunciato (esempio 15); nel secondo, al contrario, ha lo scopo di segnalatore del fo-
cus dell’enunciato e quindi assume in qualche misura il ruolo di alerter.
(17) Vantava amicizie molto importanti, ma erano in realtà del tipo «voglio
ma non posso». (DiaCoris)
(17)a [Amicizie [del tipo voglio ma non posso]A]SN
quelli di produzione verbale. In tal modo la sequenza verbale non viene propriamente
alterata e non è richiesto un intervento di ricostruzione da parte del ricevente. In (18),
una conversazione spontanea informale, tipo occorre come segnale discorsivo a soste-
gno della programmazione, cumulandosi, come spesso succede, con altri segnali:
(18) senti allora poi per stasera dopo ‘sto riso che si si si degnasse di cuo-
cersi allora tu hai puoi scegliere fra # una serata brutta a casa di amici
di Stefano e Isabella che tipo cioè uno che parte devono dirgli addio
cioè sai quelle tipo sai tipo serie Berlinguer […] (LIP)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aarts Bas, Syntactic Gradience, Oxford, Oxford University Press, 2007.
Albano Leoni Federico, Presentazione del progetto Clips, 2007, http://www.clips.unina.it.
Consultato l’11 giugno 2013.
Berretta Monica, Connettivi testuali in italiano e pianificazione del discorso, in Coveri L. (a
cura di), Linguistica testuale, Atti SLI, 22, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 237-254.
Berruto Gaetano, Quale dialetto per l’Italia del Duemila? Aspetti dell’italianizzazione e ri-
sorgenze dialettali in Piemonte (e altrove), in Sobrero A.A., Miglietta A. (a cura di), Lin-
gua e dialetto nell’Italia del duemila, Galatina, Congedo, 2006, pp. 101-127.
Berruto Gaetano, Sulla vitalità sociolinguistica del dialetto, oggi, in Raimondi Gianmario,
Revelli Luisa (a cura di), La dialectologie aujourd’hui, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2007, pp. 133-148.
Biber Douglas, Johansson Stig, Leech Geoffrey, Conrad Susan, Finegan Edward, Longman
Grammar of Spoken and Written English, Londra, Longman, 1999.
Bittencourt Vanda de Oliveira, Tipo (Assim) como Delimitador de “Unidades de
Informacao”, «Estudos Linguisticos», 29, 2000, pp. 264-69.
Croft William, Beyond Aristotle and gradience. A reply to Aarts, «Studies in Language», 31,
2007, pp. 409-430.
Danon-Boileau Laurent, Morel May-Annick, Question, point de vue, genre, style. Les noms
prépositionnels en français contemporain, «Faits de langue», 9, 1997, pp. 193-200.
De Mauro Tullio, Mancini Federico, Vedovelli Massimo, Voghera Miriam, Lessico di
frequenza dell’italiano parlato, Milano, Etaslibri, 1993.
Denison David, History of the sort of construction family, Paper presented at the Second Inte-
rnational Conference on Construction Grammar (ICCG2), Helsinki, 6-8 settembre, 2002.
Denison David, The grammaticalization of sort of, kind of and type of in English, Paper
presented at New Reflections on Grammaticalization 3, University of Santiago de
Compostela, 17-20 luglio, 2005.
Denison David, The construction of SKT, Paper presented at Second Vigo-Newcastle-
7
Emerge tra l’altro l’esigenza di considerare in modo sistematico altre modalità come lo
scritto digitale.
194 MIRIAM VOGHERA
1. INTRODUZIONE
Che la patologia faccia luce sulla fisiologia è fatto noto. Altrettanto nota è la
frequente labilità, se non l’inconsistenza, del confine fra l’una e l’altra. In questo
articolo prenderò in considerazione un caso limite che drammaticamente manifesta
forme di incompetenza metapragmatica (Caffi, 1994), accompagnate dall’assenza o
dall’errato dosaggio di mitigazione, sia nel suo senso più generale di ottimizzazione
del sistema e di calibrazione dei parametri interazionali più legati all’instaurarsi e al
mantenersi della co-identità, sia nel suo senso più specifico di operazione stilistica
attenuativa attuata su una o più componenti dell’atto linguistico1.
Il presente contributo si colloca in un’area di ricerca di pragmatica inter-
personale (cfr. Locher, Graham (a cura di, 2011) che indaga i meccanismi discorsivi
della costruzione dell’identità e del ‘lavoro relazionale’2. Più specificatamente, il
punto di vista adottato qui è ‘psicostilistico’, nel senso che, all’interno del lavoro
relazionale, le scelte stilistiche vengono viste come indici e momenti decisivi nel
monitoraggio delle distanze emotive fra gli interlocutori. L’idea di stile che vi è
sottesa è non solo compatibile, ma utilmente integrabile con la prospettiva socio-
* Questo contributo riprende e aggiorna una sezione del cap. III di Caffi (2001).
1
Tra queste componenti sono distinguibili, almeno a scopo euristico: contenuto proposizio-
nale, indicatore di forza illocutoria, istanza enunciativa. Ho chiamato “cespugli” le operazioni mi-
tiganti attuate sulla proposizione, “siepi” quelle sull’illocuzione, “schermi” quelle sull’origine deit-
tica (Caffi, 1999; Caffi, 2001; Caffi, 2007b; Caffi, 2013).
2
Come notano Locher, Watts (2008, p. 96), l’espressione ‘relational work’ “refers to all as-
pects of the work invested by individuals in the construction, maintenance, reproduction and trans-
formation of interpersonal relationships among those engaged in social practice”.
198 CLAUDIA CAFFI
3
Utilizzo la traduzione italiana di Alfredo Polledro in Fëdor Dostoevskij, L’idiota, Torino,
Einaudi, 1984 [1941], parte quarta.
4
Come ho sostenuto in Caffi (1992; 2000; 2001; 2002), vi è stata in linguistica una sostan-
ziale rimozione della dimensione emotiva, presente al massimo come residuale: il problema
dell’espressione dell’emotività è stato o del tutto cancellato dalle teorie linguistiche, o marginaliz-
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 199
zato e ridotto a manifestazioni particolari (ad esempio, i suffissi “affettivi”, o le interiezioni). E ciò
a dispetto del ruolo centrale assegnato all’affettività nelle costruzioni teoriche di grandi autori del
Novecento. Penso soprattutto a Bally, a Bühler, alla scuola di Praga che vede nella funzione emo-
tiva una delle due funzioni fondamentali del linguaggio. Per sottili descrizioni pragmatiche ante-
litteram degli aspetti emotivi delle scelte stilistiche nel dialogo, a vari livelli di analisi, il rinvio è a
Spitzer (2007 [1922]).
200 CLAUDIA CAFFI
5
Cahill (1981, p. 77) definisce così il concetto di pseudocomunicazione di Habermas: «Vari-
ously categorized members of a society, because they share a common language and many com-
mon experiences, are likely to mistakenly assume that a consensus exists among them concerning the
meaning of communicative behavior. This mistaken assumption produces a system of reciprocal
misunderstandings, which are not recognized as such or pseudocommunication» (Cahill S.E.,
Cross-sex communication. «Berkeley Journal of Sociology», 26, 1981, pp. 75-88).
6
Con una singolare convergenza, in campo psicoanalitico, Donald Metzler (1981) usa sia la
metafora della temperatura sia quella della modulazione.
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 201
7
In Caffi (2001, p. 218 ss.) vengono distinti due tipi di sintonizzazione: la sintonizzazione te-
matica, esemplificabile dalle riformulazioni, e la sintonizzazione stilistica, riferibile a casi di scelte
convergenti sul piano anche formale da parte degli interlocutori. La sintonia/distonia dialogica
viene indagata da Riccioni (2005).
202 CLAUDIA CAFFI
La prima tesi etica di Dostoevskij – sostiene Askol’dov – è qualcosa che a prima vista si
presenta come quanto di più formale, ma che però, in un certo senso, è il più importante:
Sii persona”. La persona, secondo Askol’dov, si differenzia dal carattere, dal tipo e dal
temperamento, i quali di solito servono da oggetto di raffigurazione in letteratura, per la
sua straordinaria libertà interiore e per l’assoluta indipendenza dall’ambiente esterno.
(Michail Bachtin, Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1968, p. 19).
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 203
I capitoli VI e VII dell’Idiota (Parte Quarta, trad. it. di Alfredo Polledro, To-
rino, Einaudi, 1984 [1941]) orchestrano uno scandalo. Ambientati nel salotto degli
Epančin, essi costruiscono una memorabile catastrofe, costituendo un esempio di
quelle «scene di scandali e di catastrofi che hanno una così essenziale impor-
tanza in tutte le opere di Dostoevskij» (Bachtin, 1968, pp. 190-191). Vi viene
descritta una progressione verso il fuori di sé8 che è anche una progressione
conversazionale.
Il mio intento qui non è quello di proporre un’analisi linguistico-stilistica dello
stupendo testo dostoevskijano, di estrema complessità e polivalenza semantica.
L’intento che mi propongo, molto più modesto e parziale, è quello di rintracciare,
negli espliciti interventi dell’autore, alcuni momenti di quell’abbinamento di stati
interni ed espressione comunicata che permette di ricostruire sul piano formale la
dinamica degli eventi e anche la ragione interazionale della catastrofe: l’incapacità
da parte di Myškin di un dosaggio ‘congruo’ dell’emotività rispetto all’argomento
conversazionale da un lato e, dall’altro, di una sintonizzazione con lo stile comuni-
cativo – e le distanze emotive da esso inferibili – dei presenti.
Il dire di Myškin è esagerato. La temperatura troppo elevata. Egli dichiara
esplicitamente la sua incompetenza metapragmatica, l’incapacità di cogliere il
kairÒj, il momento opportuno, e di osservare il pr◊pon, il decorum, la misura, ade-
guandosi a ciò che è lecito, appropriato, atteso, rispetto alla situazione: «Non ho il
gesto opportuno... Mi manca anche il senso della misura» (p. 544). Ma, subito
dopo, è il principe stesso a rivalutare, su un altro piano, il proprio comportamento
inadeguato, menzionando a suo riscatto proprio il valore della sincerità: «la sincerità
non vale meno del gesto; non è così? non è cosi?» (p. 544).
Compito troppo arduo ricostruire anche pallidamente le dinamiche della con-
versazione che si snoda lungo la serata, nel suo ramo principale e nei suoi affluenti,
8
O piuttosto, ci si potrebbe forse chiedere, verso l’essere del tutto in sé? Si ricorderanno a
questo proposito, in altri passi del romanzo, le considerazioni straordinariamente penetranti anche
da un punto di vista clinico, dove la fase precedente l’attacco epilettico è caratterizzata da uno stato
d’animo di profonda egosintonia, nel quale le capacità cognitive e sensoriali sono potenziate. Vi si
accenna del resto nello stesso capitolo VI in cui, nell’accavallarsi di sensazioni contrastanti subito
dopo la rottura del vaso, una transitoria sensazione di benessere viene da Myškin scambiata per un
segno premonitore dell’attacco: «Un attimo dopo gli sembrò che tutto si allargasse davanti a lui,
che allo spavento subentrassero la luce, la gioia, l’estasi; si sentì mancare il respiro e... ma
quell’attimo passò. Grazie a Dio, era un’altra cosa!» (p. 540). Interessanti studi delle modalità lin-
guistiche del racconto di crisi epilettiche, di rilevanza clinica e diagnostica, sono Gülich, Schön-
dienst (1999), e Furchner, Gülich (2001).
All’interno del complesso dibattito svolto dalla scienza antica sulle origini e le terapie
dell’epilessia, importante il ruolo del trattato presumibilmente ippocratico del V secolo, edito con
testo a fronte: Ippocrate, La malattia sacra, a cura di Amneris Rosselli, Venezia, Marsilio, 1996.
Per un inquadramento del testo e del dibattito in cui si inserisce, si veda la recensione di Giuliana
Lanata, «Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 125, fascicolo 3,1997, pp. 323-328.
204 CLAUDIA CAFFI
nel gioco sfaccettato e vivacissimo dei rinvii, dei fraintendimenti e delle rivelazioni.
Tuttavia è possibile, per i miei fini parziali, seguire una traccia, tra le tante possibili,
offerta dall’autore. Dostoevskij esegue, infatti, una minuziosa punteggiatura espres-
siva e stilistica di ogni fase dell’incontro, della conversazione e addirittura di cia-
scun turno di parola, in una continua e sottilissima caratterizzazione del tono emo-
tivo delle battute che si intrecciano. Ricorrono, oltre ai commenti autoriali espliciti
sul progressivo eccitamento di Myškin, più sfumate valutazioni nelle quali sembra
di scorgere un’oscillazione di Dostoevskji fra diversi punti di vista, ora più ora
meno sanzionanti rispetto al comportamento del principe.
Il punto di vista più frequentemente adottato dall’autore è quello dei parteci-
panti alla serata: ad esempio, in modo più velato rispetto ai commenti metacomuni-
cativi sul comportamento del principe, l’autore riprende anaforicamente il discorso
di Myškin definendolo «quella febbrile tirata» (p. 539). Ma è presente anche un
punto di vista più neutrale, in cui l’autore non si schiera con nessuna delle due parti
ed anzi, dall’una prende, sia pure quasi impercettibilmente, le distanze. Si veda in
particolare il rilievo seguente, increspato dal cambiamento di footing (Goffman,
1981, [1979]): «Del resto tutto ciò, e tutto quello scandalo poteva risolversi, di lì a
un minuto, nel modo più semplice e naturale» (p. 539). Alla ripresa anaforica tra-
mite l’incapsulatore neutro e generico, “tutto ciò”, viene affiancato l’incapsula-
tore axionimico con la valutazione fortemente negativa, indicatore emotivo di
valutatività (Caffi, Janney, 1994; Conte 1999 [1996]): “tutto quello scandalo”,
valutazione citazionale che viene attribuita ai presenti e non presa a carico diretta-
mente dall’autore; l’uso delle virgolette, insieme al forte contenuto valutativo, se-
gnala il distanziamento ironico, altrove più sfumato.
spetta la massima del “dire quanto è appropriato a un dato stadio della conversa-
zione”. Dice infatti di più di quanto richiesto dalle circostanze. La competenza me-
tapragmatica, non va dimenticato, opera in prima istanza e negativo: sappiamo cosa
non fare, cosa non dire, e l’ovvia eco montaliana amplifica e amplia un procedi-
mento per esclusione che è fondamentale nei comportamenti comunicativi.
Ora, il “dire di più” di Myškin e la sua sincerità avrebbero potuto produrre sul
piano del sistema comunicativo “serata in casa Epančin”, al di là delle possibili rea-
zioni agli specifici contenuti semantici dei suoi interventi, esiti meno catastrofici. Ad
esempio, il suo “dire di più” avrebbe potuto essere sanzionato come un dire prolisso,
noioso (per la Quantità), o impertinente, provocatorio (per la Qualità): avrebbe potuto
trattarsi cioè, globalmente, di un dire inopportuno, certo, ma all’interno del patto con-
versazionale. Ciò che fa saltare tale patto e rende scandaloso il dire di più del principe,
è il modo in cui dice di più, non tanto per l’inosservanza delle massime del Modo gri-
ceane, quanto per un fattore di diversa natura, non dicotomico ma scalare: il grado di
coinvolgimento inferibile dalle sue parole, la temperatura del suo discorso, che è
troppo caldo e si farà rovente. È l’eccesso di pathos, di immediacy (Wiener, Mehra-
bian, 1968), che egli manifesta sia verso il contenuto della sua comunicazione sia
verso gli interlocutori. È il grado, troppo alto, di adesione al suo dire, che determina la
“non compostezza” comunicativa (Leonardi, Viaro, 1990).
È questa la terza causa. Ed è quella tematizzata da Dostoevkij che rileva a più
riprese proprio la sproporzione tra emozione di Myškin e argomento del discorso:
«Perché fosse così agitato, perché fosse stato preso di punto in bianco da un tale
intenerimento, sproporzionato, in apparenza, al tema del discorso, sarebbe difficile
da dire». E poco prima, nel testo e nella serata, si rileva che il padrone di casa Ivan
Petrovič «aveva notato la straordinaria attenzione prestata dal principe a quel di-
scorso» (p. 531), in corrispondenza cioè dell’introduzione, nel flusso di uno dei
rami della conversazione, di un tema che avrà imprevedibili sviluppi: il riferi-
mento al defunto Nikolaj Andreevič Pavliščev, padrino del principe rimasto or-
fano in tenera età.
Riassumendo: la violazione della massima della Quantità (“non dire più di
quanto sia richiesto”) è data da un rispetto eccessivo della massima della Qualità (“sii
sincero”), con importanti ripercussioni sulle massime del Modo. Da un lato, il testo
dunque conferma l’esistenza di una gerarchia fra le massime, l’osservanza eccessiva
dell’una determinando la violazione o lo stravolgimento delle altre. Dall’altro, è ne-
cessario completare il quadro conversazionale con considerazioni d’altro genere ri-
guardanti l’associazione, che rimane da costruire in un modello di analisi integrato, fra
argomenti, interlocutori e temperatura espressiva, nella co-varianza di diversi parame-
tri all’interno del sistema comunicativo “serata in casa Epančin”.
Rispetto alla massima della sincerità griceana, la cui adesione si pone in ter-
mini dicotomici, altri fattori entrano in gioco, non dicotomici, ma scalari, veicolati
da fatti stilistici, aggregabili intorno al concetto di coinvolgimento, di sottoscrizione
e vicinanza emotiva (Caffi, 1992; Caffi, 2000; Caffi, 2002). Nel testo, la progres-
sione di Myškin verso «l’entusiasmo e la commozione» è accompagnata, in direzione
206 CLAUDIA CAFFI
emotiva opposta, da occhiate sempre più preoccupate e sgomente (p. 533). I com-
menti metapragmatici dell’autore disegnano, sul piano stilistico, meccanismi comu-
nicativi complementari: «Dopo poche altre parole di spiegazione, molto calme da
parte di Ivàn Petrovič e straordinariamente eccitate da parte del principe, venne in
chiaro che…» (p. 532, c.vo mio, C. C.).
A catastrofe consumata, il contrasto coinvolge, oltre allo stile, anche il conte-
nuto, come mostra la sequenza, successiva alla rottura del vaso, in cui Myškin
chiede perdono per la sua goffaggine: «E perdonate tutto? Tutto, oltre al vaso?»
(c.vo nel testo), a cui fa seguito una battuta del vecchio nobile: «C’est très curieux
et c’est très sérieux» dove la mancanza di congruenza fra turni conversazionali
all’interno di una coppia adiacente non è solo formale, stilistica, ma anche sequen-
ziale, e sostanziale. In (non) risposta tangenziale, con quella che Sluzky et al.
(1967) chiamano “disqualificazione transazionale”, all’appassionata richiesta di
perdono, fa seguito l’elegante commento francese, paratattico e assonante, non ri-
volto a lui, ma ad altri, anche se in modo che il principe possa sentirlo. Al di là, o al
di qua, della cooperazione dialogica, altri parametri, relativi a ciò che la scuola di
Palo Alto vedrebbe come messaggi analogici complementari, entrano in gioco:
ne risulta una distonia comunicativa stilisticamente marcata. Senza delle restrizioni
contestuali “psicostilistiche”, funzionanti per gradi, che mostrino l’interdipendenza
tra costruzione di identità dialogica e temperatura emotivo-stilistica, le dinami-
che della conversazione e dell’evento scandaloso non sono scandagliabili.
vaso. Sempre Ivan Petrovič: «Via, questa è un’esa-ge-ra-zione» (p. 542), per una
volta, avverte l’autore, commento letteralmente vero perché il principe aveva erro-
neamente attribuito una buona azione al suo interlocutore (che avrebbe regalato del
legname ai contadini).
Dopo la climax della rottura del vaso, l’atmosfera emotiva della serata si di-
stende: «molti si rivolgevano a lui e gli parlavano affabili» (p. 540). La rottura del
vaso funge catarticamente a placare l’inquietudine per l’inappropriatezza del com-
portamento di Myškin. Insieme al vaso, il patto conversazionale, contenitore di le-
gittime aspettative, dopo essersi incrinato per le “esagerazioni” di Myškin, si è
rotto. Si apre l’attesa, per i presenti, di rinegoziarlo su una temperatura più bassa.
Gli invitati del salotto di Lizaveta Prokòf’evna non sanno che il peggio deve
ancora arrivare. Myškin persiste infatti nell’inapropriatezza: dapprima immerso
nella sensazione di sgomento provocata in lui dall’avverarsi della profezia, poi in-
credulo di essere stato perdonato, è infine sommerso da un traboccante quanto inade-
guato senso di gratitudine e dal bisogno di confessione, che lo accomuna ad altri
straordinari personaggi dostoevskijani (p. 541). Egli chiede e ottiene il turno di parola
dalla Belokonskaja9. Tanto più a sorpresa, dato l’abbassarsi della temperatura emo-
tiva generale dopo la (prima) catastrofe e il precedente impaccio conversazionale e
mondano di Myškin, solo parzialmente neutralizzato dal suo candore, sarà
l’accentuazione di un ruolo interazionale one-up. Egli non interloquirà più: appro-
priandosi di lunghi turni di parola, egli darà giudizi categorici, farà apprezzamenti
diretti sui suoi interlocutori, emetterà verdetti, tutti atti linguistici, è facile notarlo,
che presuppongono qualche tipo di potere-sapere da parte di chi li enuncia. Al ri-
fiuto di una mitigazione rituale, consistente nel non adeguamento ai microrituali
interattivi sia di comunicazione sia di metacomunicazione (scelta dei contenuti e
9
È interessante notare che, nella traduzione di Rinaldo Küfferle, il turno con cui la princi-
pessa consente a Myškin di parlare inizia con il seguente commento (assente nella traduzione di
Alfredo Polledro qui seguita): «Che voglia di arrampicarti su pei muri». Tale espressione è chiosata
in nota dal traduttore così: «Espressione russa per dire: ‘esagerare le cose all’estremo e affermarle
col massimo ardore’» (Garzanti, p. 695). Si tratta di una traduzione letterale dell’espressione
idiomatica russa lezt’ ná steny, il cui significato è ‘essere preso dalla rabbia, uscire dai gan-
gheri, perdere la padronanza sulle proprie azioni’. La traduzione di Küfferle è di felicità discuti-
bile visto che “arrampicarsi su pei muri” interferisce, si direbbe inutilmente, vista la facilità
della resa dell’espressione idiomatica russa, con l’espressione italiana “arrampicarsi sui ve-
tri”, di senso completamente diverso. Ora, al di là del problema dell’adeguatezza di questa tradu-
zione, solo indirettamente pertinente in questa sede, è interessante notare che, nella nota esplicativa
del traduttore, l’esagerazione menzionata si riferisce a due oggetti diversi: da un lato il contenuto di
un’affermazione, dall’altro la modulazione della medesima, il suo alto grado di assertività, dunque
a fatti sia di contenuto che di relazione, sia di comunicazione che di metacomunicazione. Come se
il traduttore sentisse l’esigenza di sottolineare, anche a scapito della resa efficace del russo, en-
trambe queste dimensioni che rendono incandescente la temperatura del discorso di Myškin.
Ringrazio Enrica Salvaneschi e Paola Cotta Ramusino per l’aiuto alla comprensione di que-
sto passo del testo originale.
208 CLAUDIA CAFFI
10
Molte, e ancora tutte da sviluppare, le possibili convergenze tra la prospettiva di pragma-
tica integrata qui adottata e una prospettiva socio-psicologica. Mi riferisco in particolare alla ‘teoria
del sociometro’ sviluppata da Mark Leary e Deborah Downs. Secondo questa teoria l’auto-stima
funziona come un ‘sociometro’ che serve a monitorare le reazioni degli altri ai nostri comporta-
menti allertandoci rispetto ai rischi di esclusione sociale. Si veda al riguardo: Leary M. R., Tambor
E. S., Terdal S. K., Downs D. L., Self-esteem as an interpersonal monitor: the sociometer hypothe-
sis. «Journal of Personality and Social Psychology», 68, 3, 1995, pp. 518-530. Per una presenta-
zione generale di temi psicologici relativi all’auto-consapevolezza e al ruolo dell’esperienza affet-
tiva si veda Leary (2003).
210 CLAUDIA CAFFI
Quali regole interazionali, in quel contesto, sono state violate producendo lo scan-
dalo? Forse “non mostrarti troppo”? “Adegua la tua temperatura emotiva al tipo di
attività, cerimoniale o sostanziale, in corso”? “Controlla l’intensità delle tue emo-
zioni e il pathos della tua comunicazione”?
La causa principale della catastrofe è dunque emotiva-stilistica, è l’eccesso di
investimento emotivo, è lo stile troppo ‘caldo’, la temperatura troppo alta, nella to-
tale assenza di mitigazione. Un esito diverso avrebbe probabilmente avuto il suo
intervento in società se gli stessi contenuti semantici fossero stati pronunciati in
modo distaccato, ironico, subito perdendo la loro pericolosità e diventando un
nuovo gioco di società, forse azzardato e appunto per questo intrigante. La norma
interazionale che viene violata è il distacco, la distanza emotiva, l’indifferenza
come condizione dello stile, dell’ironia, della piacevolezza del conversare. La corte-
sia e la semplicità dei modi degli invitati alla serata degli Epančin sono fatti solo
formali o addirittura simulazioni: la sostanziale vacuità dei loro discorsi rispecchia
quella delle loro esistenze.
Il procedere conversazionale di queste pagine dell’Idiota mostra tra l’altro
l’insufficienza della diade ‘cortesia-scortesia’: in mancanza di un accordo sulla de-
finizione di ‘scortesia’, ben documentata da Culpeper (2011) e dalla raccolta curata
da Derek Bousfield e Miriam Locher (Bousfield, Locher, a cura di, 2008), si può
sostenere che il comportamento di Myškin viola le regole del comportamento cor-
tese, ma in modo non intenzionale: la minaccia della faccia che ne risulta è non vo-
luto (cfr. Goffman, 1967). E mostra anche l’insufficienza delle diadi ‘contenuto-re-
lazione’ e ‘interazione simmetrica-interazione complementare’. L’interazione fra
Myškin e i suoi interlocutori è drammaticamente complementare da un punto di vi-
sta analogico, cioè da un punto di vista della sottoscrizione emotiva a quanto dice,
della temperatura del discorso che si riflette nello stile. Come osserva Stendhal,
massimamente esperto di metapragmatica conversazionale, nel passo posto ad
exergo di questo contributo: «L’imprevu, produit par la sensibilitè, est l’horreur des
grandes dames: c’est l’antipode des convénances » (Le rouge et le noir, pp. 469-
70). Anche in assenza di una personalità così profondamente conturbante come
Myškin, ciò che fa orrore, non solo alle signore, il rischio vero, è che, a corto di
routines conversazionali che mettano in forma e strutturino “ciò che si deve essere”,
ci si possa anche manifestare per quello che si è, liberando dal vaso tutti i mali.
CONCLUSIONI
La discussione di un caso di sistema comunicativo ‘difettoso’ quale quello di
Myškin ha inteso far luce su alcuni modi della connessione fra co-costruzione (o
dissoluzione) dell’identità, fattori emotivi della comunicazione e scelte linguistiche,
stilistiche e conversazionali.
Il coinvolgimento emotivo è logicamente precedente alle massime gri-
ceane. Il ruolo che esso svolge è, dalla parte dell’emittente, di determinare l’appli-
cazione o la non applicazione delle massime e il grado a cui esse sono applicate, e
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 211
dalla parte del ricevente, di operare sul tipo di interpretazione, che cambia a se-
conda del grado di coinvolgimento (Arndt, Janney, 1987). Dunque, l’emotività
sembra funzionare da meccanismo regolatore nell’interazione.
Il caso estremo di Myškin sembra giustificare un’ipotesi: in contesti anche non
istituzionali e non rigidamente formali, la ‘compostezza’ comunicativa, anche nelle
sue versioni emotivamente più gelide, è un valore apprezzato, e qualificante di un mo-
dello di comportamento sociale premiato. Nella società dell’alta borghesia e nobiltà
della Russia di fine Ottocento lo stile comunicativo che ha successo – si veda nello
stesso capitolo de L’idiota, il caso paradigmatico del nobile che in ogni occasione
mondana ripete la stessa battuta – si fonda su una sostanziale indifferenza interperso-
nale. Sembra cioè di qualche fondamento l’ipotesi che in contesti relazionali non in-
timi, per il ‘buon’ andamento della comunicazione sia preferibile “mantenere le di-
stanze”, anche utilizzando forme di mitigazione rituale, all’avvicinarsi al destinatario:
come se l’avvicinamento fosse avvertito come potenziale minaccia per il self, intru-
sione nel proprio territorio, non solo etno-sociologico, ma anche psicologico.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Abercrombie David, Elements of general phonetics, Edinburgh, Edinburgh University Press,
1967.
Arndt Horst, Richard W. Janney, InterGrammar, Toward an integrative model of verbal,
prosodic and kinesic choices in speech, Berlino, de Gruyter, 1987.
Bachtin Michail, Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1968.
Bateson Gregory et al., La nouvelle communication, Parigi, Éditions du Seuil, 1981.
Bousfield Derek, Miriam A. Locher (a cura di), Impoliteness in language: studies on its in-
terplay with power in theory and practice, Berlino, de Gruyter, 2008.
Caffi Claudia, Illocuzione, metacomunicazione, coinvolgimento. Problemi teorici di pragma-
tica linguistica, Pavia, Tipografia del Libro, 1990.
Caffi Claudia, Modulazione, mitigazione, litote, in Conte M.-E., Giacalone Ramat A., Ramat
P. (a cura di), Dimensioni della linguistica, Milano, Angeli, 1990b, pp. 169-199.
Caffi Claudia, Il concetto di coinvolgimento nella linguistica pragmatica, in Gobber G. (a
cura di), La linguistica pragmatica. Atti del XXIV Congresso della Società di Linguistica
Italiana, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 267-297.
Caffi Claudia, 1994, Metapragmatics, in Asher R., Simpson J. (a cura di), The Encyclopedia
of Language and Linguistics Oxford, Pergamon (rist. in Brown K. (a cura di), 2006, The
Encyclopedia of Language and Linguistics, 2nd Edition, Elsevier, Oxford, pp. 82-88).
Caffi Claudia, On mitigation, «Journal of Pragmatics», vol. 31, n. 7, 1999, pp. 881-909.
Caffi Claudia, Aspects du calibrage des distances émotives dans l’interaction entre rhéto-
rique et psychologie, in Plantin Ch., Doury M., Traverso V. (a cura di), Les émotions
dans les interactions, Lyon, Presses Universitaires de Lyon (collection ARCI + cédé-
rom), 2000, pp. 89-104.
Caffi Claudia, La mitigazione. Un approccio pragmatico alla comunicazione nei contesti te-
212 CLAUDIA CAFFI
Mulino, 1981).
Goffman Erving, Engagement, in Bateson et al., 1981 [1963], pp. 267-278.
Grice Paul H., Logic and conversation, in Cole P., Morgan J. L. (a cura di), Syntax and Se-
mantics. Speech Acts, New York-Londra, Academic press, 1975, pp. 41-58 (Trad. it. Lo-
gica e conversazione, in Sbisà M. (a cura di), 1978, Gli atti linguistici, Milano, Feltri-
nelli, pp. 199-219; nuova trad. it. in A. Iacona, E. Paganini (a cura di), 2003, Filosofia del
linguaggio, Milano, Cortina, pp. 221-244).
Gülich Elisabeth, Martin Schöndienst, “Das is unheimlich schwer zu beschrieben”. Formu-
lierungsmuster in Krankheitsbeschreibungen anfallskranker Patienten: differentialdiag-
nostische und therapeutische Aspekte, «Psychotherapie und Sozialwissenschaft- Zeit-
schrift für qualitative Forschung», 1, 3, 1999, pp. 199-227.
Habermas Jürgen, Toward a theory of communicative competence, in Dreutzek H. P. (a cura
di), Recent sociology no. 2: Patterns of communicative behavior, New York, Macmillan,
1970, pp. 115-148.
Habermas Jürgen, Vorbereitende Bemerkungen zu einer Theorie der kommunikativen Kompe-
tenz, in Habermas J., Luhmann N. (a cura di), Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechno-
logie: Was leistet die Systemforschung?, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1971, pp. 101-141.
Habermas Jürgen, Teoria dell’agire comunicativo, 2 Voll., Bologna, Il Mulino, 1986 [1981].
Haley Jay, An interactional description of schizophrenia, «Psychiatry», Vol. 22, 1959, pp.
321-332.
Holtgraves Thomas, The language of self-disclosure, in Giles H., Robinson W. P. (a cura di),
Handbook of language and social psychology, Chichester, Wiley, 1990, pp. 191-207.
Leary Mark R., The self and the emotion: the role of self-reflection in the generation and regu-
lation of affective experience, in Davidson R. J., Scherer K. R., Goldsmith H.H. (a cura di),
Handbook of affective sciences, Oxford, Oxford University Press, 2003, pp. 773-786.
Leonardi Paolo, Maurizio Viaro, Conversazione e terapia: L’intervista circolare, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 1990.
Locher Miriam A., Richard J. Watts, Relational work and impoliteness, in Bousfield Derek,
Locher Miriam A. (a cura di), Berlino, de Gruyter, 2008, pp. 77-99.
Locher Miriam A., Sage L. Graham (a cura di), Interpersonal Pragmatics, «Handbooks of
Pragmatics 6», Berlino, de Gruyter, 2011.
Marcondes de Souza Danilo, Dialogue breakdowns, in Dascal M. (a cura di), Dialogue: an
interdisciplinary approach, Amsterdam, Philadelphia, Benjamins, 1985, pp. 415-426.
Metzler Donald, Temperatura e distanza come dimensioni tecniche dell’interpretazione in
Id., La comprensione della bellezza ed altri saggi, Firenze, Loescher, 1981 [1976],
pp. 170-186.
Peräkylä Anssi, Sorjonen Marja-Leena (a cura di), Emotion in interaction, Oxford, Oxford
U.P, 2012.
Riccioni Ilaria, La percezione della sintonia dialogica, Ranica, Edizioni Junior, 2005.
Sluzki Carlos E., Janet Beavin, Alejandro Tarnopolsky, Eliseo Veron, Transactional
Disqualification. Research on the double bind, «Archives of General Psychiatry», vol.
16, aprile 1967, pp. 494-504.
214 CLAUDIA CAFFI
Spitzer Leo, Lingua italiana del dialogo, Milano, Il Saggiatore, 2007 [1922].
Stolorow Robert D., George E. Atwood, I contesti dell’essere. Le basi intersoggettive della
vita psichica, Torino, Bollati-Boringhieri, 1995 [1992].
Watzlawick Paul, Janet Beavin, Don Jackson, Pragmatics of human communication, New
York, Norton, 1967 (Trad. it. Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrola-
bio, 1971).
West Candace, Richard M. Frankel, Miscommunication in medicine, in Coupland N., Giles
H., Wiemann J. M. (a cura di), 1991, pp. 166-194.
Wiener Morton, Albert Mehrabian, Language within language: Immediacy, a channel in
verbal communication, New York, Appleton Century-Crofts, 1968.
GIOVANNA ALFONZETTI
(Università di Catania)
1
Il progetto dal titolo Il portale dell’italiano televisivo: corpora, generi e stili comunicativi
(PRIN 2008) è stato realizzato dalle Università di Catania, Firenze, Genova, Milano e della Tuscia,
con la collaborazione dell’Accademia della Crusca. Sulle principali differenze tra paleo-Tv e neo-
Tv, cfr. tra gli altri Fumagalli, 2004. Sulla storia della televisione più in generale ci si limiterà a
menzionare Abruzzese, 1995, Grasso, 2004 e Ortoleva, 1995. Sul linguaggio televisivo, cfr. Al-
fieri, Bonomi, 2008 e 2012.
2
Zambarbieri (2004, p. 88) ricorda soprattutto Your show of shows della NBC, firmato da
Mel Brooks e Woody Allen e diretto da Max Liebman.
216 GIOVANNA ALFONZETTI
3
Per la trascrizione del corpus si è utilizzata una versione semplificata del sistema del LIR
(Lessico italiano radiofonico) (cfr. Alfieri, Stefanelli, 2005), della quale qui di seguito si danno le
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 217
comprende in particolare:
convenzioni adoperate:
barra obliqua doppia // = fine di enunciato dichiarativo (anche fine turno)
barra obliqua semplice / = scansione interna dell’enunciato (pausa o cambio intonazione)
punto interrogativo ? = fine di enunciato interrogativo
punto esclamativo ! = fine di enunciato esclamativo
punti di sospensione … = intonazione sospensiva
parentesi quadre [ ] = commenti paralinguistici e situazionali
parentesi uncinate < > = sovrapposizione di turno
trattino - = interruzione di parola
[xxx] = parola o parte di parola incomprensibile o di difficile trascrizione
due punti : = allungamento fonologico dovuto ad esitazione, enfasi, ecc.
h, ehm, ahm, uhm, mhm, ah = respiro udibile, riempitivi
apici doppi “ ” = discorso diretto riportato
MAIUSCOLO = fenomeni di enfasi
carattere corsivo = forme commentate nell’esempio.
218 GIOVANNA ALFONZETTI
all’attenzione dei non numerosi studi sul linguaggio del varietà paleo-televisivo, su
cui poter basare generalizzazioni empiricamente fondate.
Nella Storia linguistica, De Mauro (1979, p. 440), facendo riferimento a un
articolo del Corriere della Sera del 9 gennaio 1965, scrive: «poca cosa anche i rari
forestierismi che appaiono qua e là nelle trasmissioni»; e ricorda, inoltre, come una
semplice frase in francese -«entre les deux mon coeur balance»- pronunciata dal
maestro Chiron in Lascia o raddoppia? (9 luglio 1957), non capita da Mike Buon-
giorno, causi le risate o l’indignazione del pubblico. Del resto, la bellissima inchie-
sta di De Rita, I contadini e la televisione, su cui ampiamente riferisce De Mauro,
aveva mostrato l’esasperazione provata da un gruppo di contadini lucani nel non
comprendere lingue a loro sconosciute. Scrive infatti De Rita (1964, p. 120):
Niente infatti li esaspera tanto quanto il non capire, il che avviene molto spesso, ma se
generalmente la delusione viene tradotta in un giudizio negativo sullo spettacolo, perché
è difficile ammettere che “non piace” perché “non si capisce”, nel caso di trasmissioni
in cui è inserita qualche frase o canzone in lingua straniera, tutta l’irritazione si scatena
senza reticenza.
New York, Londra e Parigi in quegli anni, portato sulla scena da Dany Saval che lo
balla insieme a Don Lurio nella puntata del 22/12/19624:
Nella puntata del 28/10/1961 di Studio Uno, le parole crociate sono al centro
di un numero del quartetto Cetra, che si esibisce cantando in inglese mentre svolge
un cruciverba, di cui una voce fuori campo sottolinea la provenienza d’oltreoceano:
Moltissimi sono i luoghi più o meno lontani menzionati nelle varie trasmis-
sioni, che fanno da sfondo a numeri di diverso genere: capitali, città e paesi europei
(Parigi in testa e poi Londra, Bruxelles, Vienna, Saint Tropez, Saint Vincent,
Courmayeur, Istanbul, Olanda Spagna, Andalusia, ecc.) ma anche ovviamente gli
Stati Uniti (con New York, Broadway, Illinois, Philadelphia, Tennessee, South Ca-
rolina, Mississipi, ecc.); e poi ancora Argentina, Cuba, Avana, Ipanema, Rio de Ja-
neiro, Lima, Perù, Bogotà, Equador, Uganda, Malesia, ecc. Frequenti sono anche le
ambientazioni esotiche dei vari numeri: giardini africani, la giungla, le praterie del
Far West, la Casba, la savana, ecc.
L’intento pedagogico di portare nella casa dei telespettatori mondi e culture
lontane, perseguito da tutta la televisione delle origini -per la quale, com’è noto, an-
che l’intrattenimento non era totalmente separato dalla divulgazione culturale- è
particolarmente evidente in una esibizione di Mina (Studio Uno 28.10.1961), la
quale, prima di cantare una canzone parzialmente in giapponese, dal titolo Anata to
watashi (‘Tu ed io’), si prepara indossando il kimono, aiutata da due samurai, con
4
Il video è disponibile su YouTube.
220 GIOVANNA ALFONZETTI
5
Anche questo video è disponibile su You tube.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 221
3. LE LINGUE STRANIERE
Il principale mezzo attraverso il quale si tenta di creare e comunicare questa
atmosfera di internazionalismo è, naturalmente, l’uso di elementi variamente ricon-
ducibili a lingue straniere.
3.1 Forestierismi
Nel corpus esaminato, si trova, in primo luogo, una notevole quantità di fore-
stierismi6 da varie lingue, adoperati con funzioni diverse.
Consistente è il numero di francesismi, in maggioranza prodotti di lusso sal-
damente radicati in italiano (e per questo non sempre marcati come esotismi nei di-
zionari), il cui largo uso mostra il prestigio culturale di cui gode ancora il francese
negli anni Sessanta del ’900, per «il legame a certi modelli di vita e all’evocazione
degli ambienti della jeunesse dorée, dei boulevards, dei gigolos, degli apache pari-
gini» (Morgana, 1994: 715), che il varietà paleo-televisivo sfrutta a piene mani. E
infatti boulevard e gigolo figurano nella folta schiera di francesismi riscontrati so-
prattutto in Studio Uno. Ad esclusione di bijou, rendez vous, frac e tête à tête, en-
trati precedentemente, la maggior parte è penetrata in italiano nel corso dell’800:
abat jour, chic, clichè, fané (‘appassito, sfiorito, sciupato’), grand hôtel, réclame,
soubrette7, souvenir, viveur. Ai primi decenni del ’900 risalgono invece bistrot,
chansonnier, usato nella presentazione cantata di Marcel Amont (protagonista di
spicco della prima edizione di Studio Uno), chanteuse, (uovo alla) coque, garçon-
nière, manicure, troupe, vedette. Più a ridosso degli anni Sessanta, si hanno visagi-
ste (1950)8, nella forma non adattata, e nouvelle vague (1959), tecnicismo di ambito
cinematografico, cui si fa riferimento nel Cinegiornale dell’altro ieri (9.12.1961),
rubrica presente solo nella prima edizione di Studio Uno, letta da una voce fuori
campo e dedicata alla ricostruzione di fatti storici e culturali del passato recente:
6
Si considereranno soprattutto i prestiti non adattati, occasionali o entrati più o meno stabil-
mente nella lingua comune.
7
Questo francesismo mostra la diretta filiazione del varietà televisivo dal teatro: dal soprano
leggero, che spesso interpreta il personaggio della servetta nel teatro dell’opera, passa infatti a de-
signare l’attrice che recita, canta e balla in spettacoli di varietà teatrali e televisivi.
8
Tra parentesi si dà la data di prima attestazione che figura nel Gradit e/o nel Sabatini-Coletti.
222 GIOVANNA ALFONZETTI
I francesismi sono usati soprattutto per il loro potere evocativo nel ricostruire il
costume e il clima culturale di determinate epoche storiche, come mostra un altro
esempio tratto dal Cinegiornale di Studio Uno (4.11.1961), dove, nel dare «una rapida
scorsa alla moda» del 1927, non viene risparmiata una bordata al limite dell’ingiuria
misogina contro le donne che portano i capelli molto corti, cioè alla garçonne:
Ancor più numerosi sono in entrambe le trasmissioni gli anglicismi, una ulte-
riore preziosa testimonianza della decisa impennata che l’influenza dell’inglese –
pur dotata di una profondità diacronica dimostrata dalla stratificazione cronologica
degli apporti – registra nel secondo dopoguerra9. Ad esclusione di alcuni di epoca
precedente – milord, hall, baby, ring, shock, trainer, whisky, smoking (come si sa,
uno pseudo-anglicismo10) – la maggior parte degli anglicismi del corpus è penetrata
in italiano nel corso del ’900. Tranne pochi casi – come week end, party, star, miss
– si tratta di denominazioni di referenti connessi alla realtà culturale anglosassone o
anglo-americana: charleston, gangster, jazz e cool jazz11, swing, spider, rock,
technicolor, western, ecc. Vari gli anglicismi penetrati negli anni a ridosso di quelli
dei nostri due varietà: mister (1951), hobby (1956), rock and roll (1956), long
playing (1959), night (1960), cover girl (1954), latin lover (1963).
Un anglicismo usato regolarmente in tutte le puntate di entrambe le trasmissioni
in modo autoreferenziale è, ovviamente, show (1954), ma in chiave radicalmente
diversa: seria in Studio Uno, da parte sia delle gemelle Kessler nella prima edizione,
sia di Walter Chiari nella formula di presentazione della seconda:
Invece, in 123 (31.5.1959) l’uso della parola è asservito alla chiave comica e
autoironica che informa l’intera trasmissione, e l’assonanza tra show, shock e scioc-
9
Cfr. su questo punto Klajn, 1972 e la Postfazione al Gradit.
10
Secondo Klajn (1972, pp. 101-2), cui si rinvia per maggiori informazioni, «il più noto dei
falsi anglicismi europei», riduzione del sintagma smoking jacket.
11
Tecnicismo di ambito musicale, indica uno stile di jazz affermatosi alla fine degli anni qua-
ranta, caratterizzato da una maggiore ricercatezza armonica e timbrica.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 223
(9) STEP
se vuoi danzare la marimba d’oltremare devi sempre ricordare questo step.
12
Ad eccezione di majorettes, spider, rock, rock and roll, step, la maggior parte di quelli ri-
224 GIOVANNA ALFONZETTI
e che è assente sia in Klajn, 1972, sia in Rando, 1989- ricorre già nella puntata di
Studio Uno del 28.10.1961, in bocca a Marcel Amont che ne spiega il significato al
pubblico italiano:
(10) MAJORETTES
come voi sapete in Stati Uniti… ehm / quando… quando…e: e: durante le elezioni
per… reclamizzare… un prodotto delle sigarette delle [xxx] / fanno sfilare le majoret-
tes! le majorettes che sono… belle… bellissime ragazze… eh/eh / ballerine o:: ballerine
o acrobàte… con de uniformi militari //
Nel varietà della paleo-Tv non è raro lo sfruttamento a fini comici delle con-
notazioni di alcuni forestierismi. Così, ad es., l’anglicismo tecnico, appartenente al
linguaggio della aerodinamica, flap(per)13, è adoperato in uno sketch esilarante di
Walter Chiari (Studio Uno 23.2.1963), dove si deride – nella «fiera delle novità del
modernismo» – il vizio degli italiani di voler apparire ciò che non si è. In partico-
lare, il grande attore ironizza sulla figura di un giovane, il quale – durante «una di
quelle feste di moda in tutta Italia» dove ci si presenta con «Elà! Come va? Salve
salve, si mangia e beve e poi si va via» – tenta di far colpo su una ragazza millan-
tando ricchezze, viaggi e competenze poliglotte in realtà inesistenti. È evidente che
l’anglicismo in questo contesto serve ad evocare efficienza tecnologica, ricchezza,
progresso, così come la menzione di un marchio automobilistico prestigioso quale
Rolls-Royce, che il giovane sbruffone ha difficoltà persino a pronunciare corretta-
mente. Lungi dall’essere un ricco poliglotta, nella battuta finale in romanesco, il
giovane si rivela un provinciale dialettofono che non possiede nemmeno un tele-
fono proprio ma deve servirsi di quello del droghiere sotto casa:
(11) FLAPPER
come sta? sta bene? … mi sembra già d’averla conosciuta … [risate] a Montecarlo? …
no … a New York lei non va … ah! Perché mi sembra d’averla già conosciuta / vista in
qualche posto per il modo… mi piace:: mi piace insomma il suo viso /così intelligente/ i
suoi occhi [risate] … io ho viaggiato … ho conosciuto tanta gente sa? [risate] [lunga
pausa] senta un po’ / vuole domani venire a vedere la villa di mia madre? la mando a
prendere con la roll rolls royce con l’autista / lei può parlare con lui inglese francese …
tedesco indiano/ lui parla tutte le lingue … anch’io parlo parlo tutte le lingue // oppure
oppure se vuole possiamo andare con l’aereo privato il mio aereo /non è un gran cosa /
ha già due anni / è già vecchio [risate] potremmo andare non so io a:: Saint Vincent /
c’è un piccolo campo per atterrare/ ma ce la fa / sono un 350 metri/ buttandosi in flap-
scontrati nel corpus figura nell’inventario fornitoci da Klajn (1972, pp. 24-25) dei circa trecento
anglicismi non adattati usati comunemente nella lingua di ogni giorno negli anni Sessanta del se-
colo scorso. Cfr. anche Cartago, 1994, pp. 744-745.
13
Flap è la «superficie aerodinamica ausiliaria mobile, situata sul bordo posteriore dell’ala,
che serve ad aumentarne la portata» (Gradit).
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 225
per / inversando l’elica così insomma / si può fare [risate] oppure andiamo a vedere la
collezione di gioielli/se vuole andiamo a vedere la collezione di gioielli dei miei nonni
che è enorme grande / ma lì ci vogliono due tre giorni insomma per vedere / capisce? ad
ogni modo io sono molto felice d’averla veduta/le do il mio biglietto da visita / ecco /io
non mi permetto perché lei è una signora signorina / insomma / non mi permetto di di-
sturbarla // sarà lei quando avrà tempo e se avrà voglia di telefonarmi di chiamarmi [la
signorina legge il biglietto] “va bene // questo è il suo numero di telefono privato?” dice
“no non no / è il droghiere sotto // ma se insiste me chiameno”//
(12) GOLEADOR
sono il dominatore degli stadi / l’idolo delle folle / il goleador // so quello coi capelli
color morrone / con la fronte bassola e gli occhi viola […] sono alto un metro e sessanta
a piedi nudi e uno e sessantacinque coi tacchetti a spillo // a spillo per poterli piantà me-
glio negli stinchi de l’avversario [risate e applausi del pubblico].
(13) CONDUCATOR
io so er marito… er maschio… er padre de famiglia il conducator / infatti a casa me
comporto come Garibardi / obbedisco // [risate del pubblico].
Troviamo inoltre il russismo samovar che – insieme agli arabismi casba (pe-
netrato attraverso il francese) e bazar, alla musica araba di sottofondo, all’invo-
cazione ad Allah e al termine di origine turca muezzin – serve a creare l’atmosfera
esotica di un numero del quartetto Cetra (22.12.1962), su cui si tornerà tra breve per
il suo plurilinguismo:
(14) CASBA
V.f.c. questa è la casba… il regno del vizio della corruzione e del peccato… qui in
un dedalo di viuzze / dove la morte e l’avventura sono in agguato / un uomo /
protetto dall’omertà / vive la sua vita losca e senza speranza //
[…]
F [una turista si aggira nel mercato] qua in questo insolito bazar /una teiera un
samovar / mi viene voglia di comprar
(15) WIGWAM
[…] il giorno dopo questa schiacciante vittoria / Settimburg passa in mezzo
all’accampamento degli indiani col suo cavallo bianco così // si ferma davanti al primo
wigwam / sarebbero quelle capanne… quelle capanne di pelle di daino o di bufalo dove
ci sono dentro gli indiani e… ferma il cavallo che nitrisce hihhhi: / [nitrito del cavallo]
[…].
14
Secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana, ‘geisha’ o ‘gheiscia’ sarebbe entrato
in italiano nel 1887 per mediazione dal francese. Klajn (1972, p. 18) invece considera molto pro-
babile sia in ‘geisha’ che in ‘kimono’ la “partecipazione” dell’inglese.
15
Il video di questo numero è disponibile su YouTube.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 227
Sono infine presenti nel corpus alcuni latinismi usati all’inizio della puntata
del 24.04.1965 di Studio Uno da Lelio Luttazzi in chiave prevalentemente autoiro-
nica, non senza tuttavia un intento didattico, visto che non se ne dà per scontata la
comprensione ma, al contrario, il latinismo segue l’espressione italiana che dunque
ne chiarisce il significato, secondo uno dei procedimenti tipici della divulgazione:
(16) LATINISMI
buona sera amici / buona sera a tutti // avete visto che le Kessler avevano un fiore sul …
sui capelli? bene / una ragione c’è // molti ci scrivono / ci hanno scritto / chiedendoci se
la nostra sigla iniziale / questa qui che avete visto adesso con la notte è piccolina è fil-
mata [xxx] … come volete / come vogliamo dire e:: una volta per sempre / una tantum
cioè / oppure se viene fatta di volta in volta / ex novo // scusate queste citazioni latine /
ma mi porto dietro questo fardello di questa spaventosa cultura umanistica //
Anche l’attrice e cantante spagnola, Carmen Sevilla, ospite della stessa puntata
di 123, oltre a cantare in napoletano una Tarantella sevigliana insegnatale da Vitto-
rio De Sica, (con il quale l’anno prima aveva girato il film Pane, amore e Andalu-
sia), si autopresenta parlando in italiano con varie interferenze dallo spagnolo:
Il fenomeno è ancora più accentuato in Studio Uno, poiché molti dei protago-
nisti fissi non sono italiani: una buona parte dell’italiano parlato e/o cantato sul pal-
coscenico di Studio Uno sarà di conseguenza più o meno fortemente interferito
dalla lingua madre dei vari parlanti. Francese è, ad esempio, Marcel Amont, il
quale, presentato come lo «chançonnier di maggior successo», nella prima edizione
intrattiene il pubblico cantando ma anche raccontando lunghe storie, o piuttosto fa-
vole, in parte cantate, nelle quali, oltre a consistenti parti in francese (cfr. 3.3.), il
pubblico è esposto a un italiano con numerose e forti interferenze soprattutto a li-
vello fonologico ma anche morfosintattico: scempiamento sistematico delle conso-
nanti lunghe (camello), accento sulla ultima sillaba in parole che in italiano non
sono tronche (es. favolà, mamà), forme di passato remoto con morfemi flessivi
francesi (chiamà, s’armà anziché chiamò e s’armò), semplificazione del paradigma
dell’articolo tipica delle varietà diastratiche basse di italiano (puntata del
4.11.1961):
italiani: Mac Ronay (mimo, acrobata, prestigiatore e comico francese che tuttavia
non parla mai ma si limita a concludere i suoi numeri con l’interiezione Hep!), le
Bluebell Girls, il Trio Mattison, Zizi Jeanmaire, Dany Saval e soprattutto il po-
polarissimo Don Lurio, nome d’arte di Donald Benjamin Lurio: celebre ballerino,
coreografo, showman americano, definito «il ballerino simbolo della tv italiana ai
suoi albori» nell’articolo in cui Repubblica il 26 gennaio 2003 informa della sua
morte. Nonostante si proclami «molto più italiano» di prima per i tanti anni tra-
scorsi in Italia, per l’acquisto di «un bello appartamento qui a Roma» e per
l’apprezzamento del cibo italiano -(«di mattina io mangio gli spaghetti… pome-
riggio lasagne e la sera tortelini eh / più italiano di così si muore» 22.12.1962)- il
suo acclimatamento linguistico non sembra altrettanto riuscito. L’italiano parlato
da Don Lurio è una interlingua fossilizzata con forti interferenze fonologiche in-
glesi e inoltre mancati accordi di numero e genere, errori nel genere dei sostantivi
e nelle preposizioni, verbi all’infinito, omissione di articoli, ecc. Ne diamo un
esempio nel frammento (22), tratto dalla puntata del 22.12.1962, dove nel rivol-
gersi a Dany Saval le dà del tu e del lei nello stesso turno, incongruenza dovuta
sicuramente alla mancata distinzione in inglese delle due diverse forme pronomi-
nali allocutive. Si noti inoltre la pronuncia piana anziché sdrucciola di romantica
da parte di Dany Saval:
16
Si fa presente che con ‘commutazione di codice’ ci si riferisce al passaggio da un sistema
linguistico a un altro entro lo stesso episodio comunicativo, cui è normalmente possibile assegnare
una qualche funzionalità comunicativa. La commutazione di codice, dal punto di vista sintattico,
può essere di tipo interfrasale, intrafrasale (code mixing) e extrafrasale (tag switching). Una defini-
zione più approfondita si trova in Alfonzetti, 1992, pp. 15-31.
17
Cfr. Auer, 1984 e Alfonzetti, 1992.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 231
top hat and white tie / cappello a cilindro e cravatta bianca / con i suoi volteggi vertigi-
nosi Fred Astaire ha impresso un nuovo ritmo alla mondanità […]
[musica e balli]
ladies and gentlemen we would like to present a song from the latest film of Mr Fred
Astaire /
[segue la canzone The way you wear your hat] […]
per quanto appesantite dalla polvere del tempo / nemmeno il passato si rivela insensi-
bile alla magia delle canzoni di Fred Astaire
[…]
dancing in the dark / danzando nel buio / lievitano negli anni folli di Fred Astaire le
fantasticherie romantiche [segue ballo].
In questi casi le ragioni della commutazione vanno ricercate nel valore simbo-
lico del francese negli anni Sessanta del secolo scorso, quando è ancora considerato,
come si diceva a proposito dei francesismi rinvenuti nel corpus, lingua di cultura e
di indiscusso prestigio internazionale, con connotazioni di raffinatezza e cosmopo-
litismo.
Questo valore del francese è del resto l’unica ragione del suo uso nella sigla
della prima edizione di Studio Uno, il Dadaumpa, un testo italiano con alcuni seg-
menti in inglese e francese. Se l’uso dell’inglese potrebbe ricondursi al fatto che
dall’America provengono sia i gemelli Blackburn sia la danza stessa del Dadaumpa
(così ci vien detto nella sigla), quello del francese, addirittura all’inizio di una can-
zone che non ha alcun nesso reale con il mondo francese, non può che essere con-
notativo:
(27) DADAUMPA
oui mais oui
siamo ritornate in Italie
e felici d’esser qui vi diciamo a vous merci canticchiando il Dadaumpa
c’est comme chose che va la vie en rose
una danza molto chic
che portiam dall’Amerique
e si chiama Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa
ogni stella grande come il sole ci sembrerà
ogni luce accesa nel buio sembrerà la luna che splende sul mar
Dadaumpa dadaumpa
le anime gemelle cercavam
e se le trovammo lì
e se adesso sono qui
ringraziamo il dadaumpa
i gemelli, i gemelli, i gemelli Blackburn
[entrano in scena i gemelli Blackburn]
hello boys
traversammo tutto l’Illinois
valicammo il Tennessee
per venire sino a qui
a portare il Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa
u::umpa Studio uno è pronto a cominciar
e all’aprirsi del Lido
diamo inizio al nostro show
con l’arrivo di Luttazzi di Luttazzi di Luttazzi Lelio
234 GIOVANNA ALFONZETTI
(29) JE T’AIME
voglio un uomo romantico tipo Chopin / che mi dica je t’aime
e che sfogli margherite per saper se l’amo oppure no
voglio un uomo col fegato di Cyrano / non col naso però
che sia pronto sul momento a sfidare la morte per me
voglio un uomo molto abiente
con l’argent del Aga Khan
un campione muy valiente
18
La necessità di contestualizzare la sigla al programma è chiaramente ribadita dal regista di
Studio Uno, Antonello Falqui, che fa l’esempio della sigla di Canzonissima, Zum zum zum, cantata
da Mina, dove venivano valorizzati tutti gli strumenti musicali (Zambarbieri, 2004, p. 104).
19
Si ha qui un esempio di commutazione connessa al discorso, categoria che include tutti i
casi nei quali il code switching è usato come strategia di cui i parlanti bilingui si servono per risol-
vere problemi relativi all’organizzazione della conversazione, quali la strutturazione in sequenze, la
correzione, i cambiamenti di argomento o di destinatario, dare espressione alla polifonia del di-
scorso, ecc. (Alfonzetti, 1992, pp. 119-137).
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 235
Subito dopo, come si sarà notato, le gemelle ricorrono allo spagnolo per espri-
mere, tra i desiderata riguardanti l’uomo ideale, anche quello di essere «un campione
muy valiente», sfruttando in questo caso le connotazioni simboliche di virilità con-
nesse al mito del maschio spagnolo. Si tratta di una delle rarissime commutazioni in
lingue diverse dal francese e dall’inglese riscontrate nel corpus esaminato.
La funzione di esprimere la polifonia del discorso per mezzo del code swit-
ching si ritrova anche in uno sketch di Cobelli (Studio Uno 22.12.1962), ambientato
in uno stabilimento cinematografico romano, dove si sta girando Le donne di Ne-
rone, parodia del film Mio figlio Nerone del 1956 del regista Steno. In questo nu-
mero -nel quale si ironizza sulle carenze linguistiche degli attori italiani e non (che
grazie al doppiaggio possono permettersi di non saper parlare italiano) e sulla con-
seguente babele linguistica durante le riprese- nella sua lingua madre vengono ri-
portate le parole dell’attrice inglese, Gloria Swanson, che impersona il ruolo di
Agrippina. Nel citare le sue parole, Cobelli attua una sorta di scimmiottamento,
imitandone la qualità della voce ma anche la tonalità emotiva di rabbia e il ritmo,
talmente veloce da rendere incomprensibili i segmenti in inglese, proprio per questo
subito dopo tradotti dal regista, che fa quindi da interprete della signora Swanson,
non senza finalità ed effetti comici:
Anche in 123, in un numero in cui Roy Ross imita diversi tipi di pianista
(14.6.1959) -il pianista spagnolo, quello americano, il pianista bambino che crescendo
diventa blasé, il pianista allegro, il pianista distratto, ecc.- nel presentarli, oltre a par-
lare un italiano interferito, l’artista effettua alcune commutazioni: passa ad esempio al
francese nel formulare una domanda del pianista miope il quale, non vedendo nem-
meno il pianoforte che gli sta davanti, chiede: «Où est le piano s’il vous plait?».
Le commutazioni in lingua straniera svolgono inoltre la funzione di ricostruire
ambientazioni straniere o persino esotiche. Così, ad esempio, la commutazione in
tedesco -l’unica rinvenuta nel corpus- di alcune formule convenzionali -«Bittershön
Bittershön io vorrei saper dov’è il castello» e «Aufwiedersehen»- serve a collocare
in Baviera lo sketch del quartetto Cetra, Il castello del Vampiro (Studio Uno
26/1/1963).
Identica finalità ha la commutazione in spagnolo nella stessa puntata, allorché,
mentre due ballerini si esibiscono in un tango, una voce fuori campo ripete più volte
«Por favor señor un tango».
Anche in un altro sketch del Quartetto Cetra, Casba (Studio Uno del
22/12/1962) -parodia del famoso film francese Il bandito della Casba, diretto da
Julien Duvivier nel 1937- l’uso di francese e inglese, insieme alla musica araba, alla
ripetuta invocazione ad Allah e ad alcuni esotismi arabi e turchi (cfr. 3.1.), serve
alla caratterizzazione esotica del luogo. Nel bazar della Casba si aggira una stra-
niera sofisticata (F), intenta a far compere, che parla in italiano con alcuni elementi
in inglese, motivati in questo caso anche da ragioni di rima (wonderful e Istanbul):
(31) CASBA
F ma è tanto bella la casbà
che sensazione wonderful
è molto meglio d’Istanbul
coro bella straniera no non ti fidar
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 237
Pepé Macot (P), rifugiatosi nella Casba dove «vive la sua vita losca e senza
speranza», protetto dall’omertà degli abitanti del posto, nel restituirle una collana
rubatale da un ladruncolo, le si rivolge in un francese misto a italiano, commutando
quindi in inglese in un breve turno di temporaneo adeguamento cortese
all’interlocutrice, che lo aveva ringraziato in questa lingua, come si può osservare
dal breve dialogo riportato in (32):
(32) CASBA
P bonjour bonjour mademoiselle / riprendi il tuo gioiel
F molto gentil thank you / non lo potrò scordar mai più
P che fai mademoiselle ce soir / vieni con me a ballar
F molto gentil thank you
P let’s go
F pardon
P après de vous
Più avanti nello sketch, quando è il momento di separarsi, Pepé, nel prendere
congedo dalla donna di cui ormai si è innamorato, le rivolge appellativi amorosi in
francese («ti verrò a salutar sulla riva del mar cherie»), che si conferma dunque
come lingua del discorso amoroso.
In questo sketch, al plurilinguismo italiano, francese e inglese si aggiunge an-
che l’uso del napoletano che serve a caratterizzare in chiave macchiettistica i perso-
naggi: sia Pepé furbo, ladro e sbruffone, che si vanta di essere imbattibile, sia il
commissario che, stanco di dargli la caccia, propone ai due gendarmi di desistere e
andare a prendersi un caffè:
In questo caso l’uso del napoletano si spiega probabilmente anche con il ri-
chiamo alla parodia del 1949, Totò le Mokò, del regista Carlo Ludovico Bragaglia,
dove Totò svolge il ruolo di Pepé, originariamente impersonato da Jean Gabin.
Non è possibile trattare qui della componente dialettale nel varietà della paleo-
televisione, che affrontaremo approfonditamente altrove20. Ci si limiterà ad osser-
20
Qualche cenno si trova in Alfonzetti, Materia, 2013.
238 GIOVANNA ALFONZETTI
vare che in entrambi i programmi (e, per la precisione, in Studio Uno a partire dalla
seconda edizione, con Walter Chiari e Giancarlo Cobelli), si ha un uso parco ma re-
golare di elementi dialettali, con finalità prevalentemente comiche, parodiche e ca-
ricaturali, secondo una lunga e ben collaudata tradizione letteraria e teatrale, a cui il
varietà della paleo-televisione, come si è detto più volte, si rifà espressamente.
Tornando alla componente straniera, molti altri elementi tratti dal francese e
dall’inglese si trovano sparsi qua e là nel corpus analizzato, alcuni dei quali sem-
brano svolgere le stesse funzioni della commutazione di codice nel parlato sponta-
neo di parlanti bilingui: oltre alla citazione di cui si è detto, anche la funzione di
contribuire alla organizzazione sequenziale del discorso, marcando cambiamenti di
argomento, sequenze marginali, sequenze di apertura e chiusura, ecc. Ad esempio,
nel frammento (34), tratto da uno sketch di Cobelli su un incidente stradale causato
da un sorpasso irregolare (Studio Uno 26.1.1963), il lungo turno nel quale la per-
sona investita – ritenendo che il trovarsi dalla parte della ragione le dia il diritto di
parlare come un fiume in piena – racconta l’esame sostenuto per conseguire la pa-
tente, si conclude con un segnale demarcativo di chiusura in inglese:
(34) FINISH
sì sì / non sono mica sordo eh / ma chi è che gliel’ha data a lei la patente? […] / no ma
dico… ma lei non lo sa che girando il volante la macchina volta eh? [risate]/ ma ma
dico ma ma che esame ha fatto lei? ma sa che se lei era al mio posto la bocciavano su-
bito shi: / mosca! eh / ha torto e parlo io /ecco… io l’esame… signori testimoni eh / ore
otto e trenta visita medica / alzi le braccia / abbassi le braccia / faccia l’inchino / no set-
tecento / braccia conserte / batta le mani [xxx] qui [xxx] vedere le unghie / la pulizia mi
piace / la pulizia mi piace / vedere la gola trah / via le tonsille / [risate] e fin qui mi sta
bene /ecco // poi la vista / aquila / torace / a tamburo / udito / vada nell’angolo… umi-
liante ci va anche il dottore… mi sta bene / mi sta bene / e lì lui comincia a muovere la
bocca e mi fa / “risponda / non sente?” boh / e io anch’io / [fa delle smorfie] è andato
via che rideva come un matto / finish //
4. CONCLUSIONI
La nostra analisi non sarebbe completa se non si accennasse ad alcune prese di
posizione critiche nei confronti dell’uso delle lingue straniere, che affiorano a tratti
in entrambe le trasmissioni.
La chiave ci viene offerta da una battuta fatta en passant da Walter Chiari a
proposito del nome di una delle protagoniste (Sondra Finchley) di Tragedia Ameri-
cana – popolarissimo sceneggiato della paleo-Tv, tratto dall’omonimo romanzo del
1925 di Theodore Dreiser – di cui l’attore ci regala una esilarante parodia nel mo-
nologo del 22.12.1962. La predilezione per i nomi che sono o che sembrano stra-
nieri (nel caso specifico, a dire la verità, pienamente legittimata dall’origine ameri-
cana dell’opera) sarebbe una manifestazione del «vizio dell’esotismo» che, secondo
Walter Chiari, affligge noi italiani:
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 239
21
Klajn, 1972, p. 30 ricorda tra i tanti: Edoardo, Alfredo, Oscar (dall’Ossian), Edmondo (dal
Conte di Montecristo di Dumas), Evelina (dal romanzo di Fanny Burney del 1778). Tra i nomi di
discendenza shakespiriana, oltre Ofelia, Cordelia e Desdemona, mai diventati popolari in Italia, si
ha Gessica, la cui prima attestazione è nel Mercante di Venezia e che al giorno d’oggi ha cono-
sciuto una sorprendente vitalità, nella forma originale più esotica Jessica, grazie al personaggio
creato da Gary Wolf -Jessica Rabbit- nel libro Who Censored Roger Rabbit? del 1981, trasposto
poi nel famoso film di animazione dal titolo in Italia di Chi ha incastrato Roger Rabbit.
22
Come si ricorderà, Walter -il cui probabile modello è stato Walter Scott- è, tra i nomi in-
glesi non adattati che penetrano in italiano nell’Ottocento, quello che ha avuto enorme fortuna e
larghissima diffusione (Klajn, 1972, p. 31).
240 GIOVANNA ALFONZETTI
contro i nomi stranieri in un paese in cui imperversano i Max, Willy, Ketty, Tony,
Lucy, Ines, Oscar, ecc.
Una presa di posizione analoga a quella di Walter Chiari, spostata dal versante
dell’onomastica alla sfera musicale, si trova in 123, quindi nel 1959, durante la ru-
brica dal titolo ovviamente ironico Enciclopedia Televisiva Duecani (E.T.D.), nella
quale i due conduttori leggono le presunte definizioni inviate dai telespettatori, se-
condo un ordine alfabetico da loro stabilito la volta precedente. Nella puntata del 14
giugno, Ugo Tognazzi legge la definizione della parola attrazione inviata da un
immaginario telespettatore napoletano, che così recita:
(36) ATTRAZIONE
Salvatore Giaquinto / ora quarto [risata] / Giaquinto / il nome è giusto / Napoli /
ATTRAZIONE / qualunque cantante anche stonata / purché non italiana /
Nelle stesse trasmissioni che aprono le porte a culture e lingue straniere con lo
scopo primario di attrarre il pubblico ricreando un’atmosfera internazionale, ispirata
a modelli d’oltralpe e d’oltreoceano, il fenomeno è, dunque, contemporaneamente
oggetto di frecciate critiche e di aperta parodia. Questa è rivolta soprattutto verso
ciò che già Klajn, come si è appena visto, considerava anglomania e che nei de-
cenni successivi, sino ai giorni nostri, come ben sappiamo, non mostrerà alcun se-
gno di cedimento, estendendosi capillarmente a molte altre sfere della cultura e
della lingua e alimentando accesi dibattiti anche tra i non specialisti, quasi si trat-
tasse di una minaccia alla “purezza” o alla sopravvivenza stessa dell’italiano.
La chiave parodica e dissacrante che caratterizza l’intera trasmissione 123 non
poteva non colpire anche questo fenomeno di costume, prima ancora che lingui-
stico, come mostra chiaramente la motivazione data da Ugo Tognazzi per giustifi-
care i sottotitoli in inglese che appaiono in sovrimpressione ad apertura della pun-
tata del 31 maggio, contenenti la traduzione della canzoncina «banale» e «vane-
rella» cantata dai due attori mentre scendono alcuni gradini, raffigurando così con-
cretamente la discesa di qualità del programma da essi verbalmente dichiarata:
perché noi siamo un po’ scio scio sciocchini / però però se pure avete
detto no/ faremo l’un due tre per divertir / io e te / d’anno in anno
siamo scesi un gradino più in giù / peggiorando d’anno in anno un tan-
tino di più / la Rai tv / non ci sopporta più / ma per forza o per amore ci
dovete mandar giù: / yeah //
[sottotitolo]: The Rai-tv can’t stand us any more; but whether you like
it or not you have to put up with us]
[…]
U.T. le: didascalie in inglese che avete visto sopra la nostra canzoncina / non
devono trarvi in inganno / il nostro programma non è stato venduto
all’America / l’America non l’ha voluto nemmeno gratis / [risate] no! li
abbiamo messe soltanto per facilitare il compito a:gli spettatori italiani
/ abituati a vedere i programmi americani e inglesi con didascalie in
italiano / per cui siamo convinti che al giorno d’oggi gli italiani sap-
piano molto meglio l’inglese che non l’italiano / chiaro?
Vediamo l’ultima trasmissione. L’apre Perry Como, al solito sorridente come uno che si
diverta un mondo alle cose che avvengono attorno a lui e delle quali egli sia spettatore
invece che attore; il che assicura che almeno uno che si diverte c’è.
(38) EUROVISIONE
bon soir mesdames bon soir messieurs / tous rapport avec quelque chose qui peut avoir
de l’intelligence est purement casuel
good evening ladies and gentleman / any resemblance to anything intelligent is purely
coincidential
[annuncio in cinese]
U.T. per chi non è poliglotta / e soprattutto per Raimondo Vianello / traduco
testualmente / qualsiasi riferimento a cose intelligenti è puramente ca-
suale / fine dell’eurovisione//
Si ricorderà qui che la presa in giro di chi si spaccia per poliglotta si era già in-
contrata in Studio Uno, nello sketch di Walter Chiari sul giovane borgataro romano,
che si vantava non solo di parlare personalmente tutte le lingue ma addirittura di
avere un autista che sapeva fare altrettanto, mentre alla fine si sarebbe rivelato un
dialettofono sprovvisto persino di un telefono personale (cfr. 3.1.).
Sempre in Studio Uno, in uno sketch di Giancarlo Cobelli sulla figura della
mantenuta (23.2.1963), si trova un’altra sottile e intelligente parodia del fenomeno
dell’anglomania, raffigurato come un fiume in piena, così difficile da arginare da
aver travolto persino Dante, l’amante scomparso (il nome del sommo poeta, padre
della lingua italiana, ovviamente non può essere casuale)23, che da morto appare in
sogno alla sua Gianna per parlarle di una «casettina» di cui lei brama impossessarsi.
23
A distanza di ben 50 anni, Dante Alighieri viene di nuovo chiamato in causa in relazione
alla anglomania dei nostri giorni, in Telescherno, cartone animato di Stefano Disegni, nel magazine
Sette del Corriere della Sera del 15/3/2013: Dante appare a un Benigni avido di denaro, che sta
progettando «una letturina dell’Odissea in 25 puntate», chiedendogli il favore di non leggere più la
Divina Commedia perché il pubblico comincia a odiarlo: «alla seconda puntata hai già perso tre
punti di share!». Alle insistenze di un presuntuoso Benigni, certo che lui può permettersi di leggere
anche «le istruzioni della lavatrice» senza annoiare, Dante spazientatito ribatte: «Roberto, la gente
si sta rompendo i ‘oglioni. L’arietta politically correct non attacca più. Si vede l’occhio furbo». A
questo punto Benigni, sorpreso, lo interrompe: «O Dante, parli inglese?». E Dante: «Nell’aldilà ci
si annoia, ho fatto un corso» [cors. mio].
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 243
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Abruzzese Alberto, Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Ge-
nova, Costa & Nolan, 1995.
Alfieri Gabriella, Bonomi Ilaria, Gli italiani del piccolo schermo. Lingua e stili comunicativi
nel piccolo schermo, Firenze, Cesati, 2008.
Alfieri Gabriella, Bonomi Ilaria, Lingua italiana e televisione, Roma, Carocci, 2012.
Alfieri Gabriella, Stefanelli Stefania, Lessici dell’italiano radiofonico (LIR), in Burr Elisa-
beth (a cura di), Tradizione e innovazione. Il parlato: teoria-corpora- linguistica dei cor-
pora. Atti del VI Convegno SILFI (Duisburg 28 giugno-2 luglio 2000), Firenze, Cesati,
2005, pp. 397-411.
24
Tra i tanti esempi, mi limiterò qui a segnalarne uno ripreso dalla stampa, e cioè l’articolo
di Francesco Merlo intitolato Dai carbonari ai cantautori. Così Genova diventa capitale dei nuovi
indignati italiani (Repubblica 7 marzo 2013), nel quale si legge «[…] questa nuova capitale poli-
tica […] ha conquistato l’egemonia. O -se preferite l’inglese del cretino cognitivo [cors. mio]- ha
preso il posto trendy e cool che fu via via della Milano di Berlusconi e della Lega».
244 GIOVANNA ALFONZETTI
Alfonzetti Giovanna, Il discorso bilingue. Italiano e dialetto a Catania, Milano, Franco An-
geli, 1992, (ristampa 2012).
Alfonzetti Giovanna, Materia Alessandra, Il varietà italiano: Studio Uno, in Gargiulo Marco
(a cura di), L’Italia e i mass media, Roma, Aracne, 2013, pp. 77-99.
Alfonzetti Giovanna, Le varietà del varietà italiano tra paleo- e neo-televisione, in Il portale
della TV. La TV dei portali (Firenze, 8 marzo 2013), Catania, Bonanno, in stampa.
Auer Peter, Bilingual Conversation, Amsterdam, Benjamins, 1984.
Bettetini Gianfranco, Braga Paolo, Fumagalli Armando (a cura di), Le logiche della televi-
sione, Milano, Franco Angeli, 2004.
Cartago Gabriella, L’apporto inglese, in Serianni Luca, Trifone Pietro (a cura di), Storia della
lingua italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, vol. III (Le altre lingue), 1994, pp. 721-750.
De Mauro Tullio, Postfazione. Caratteri del lessico italiano, in GRADIT, vol VI, 2000,
pp.1163-1211.
De Mauro Tullio, Storia linguistica dell’Italia Unita, Bari, Laterza, 1979 (1a ed. 1963).
De Rita Lidia, I contadini e la televisione. Studio sull’influenza degli spettacoli televisivi in
un gruppo di contadini lucani, Bologna, Il Mulino, 1964.
Eco Umberto, Tv: la trasparenza perduta, in Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani,
1983, pp. 163-179.
Fanfani Pietro, Arlìa Costantino, Lessico dell’infima e corrotta italianità, Milano, Carrara,
1890, (3a ed. rivista).
Fochi Franco, Lingua in rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1966.
Fumagalli Armando, L’industria televisiva e il suo impatto sociale, in Bettetini Gianfranco,
Braga Paolo, Fumagalli Armando (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 17-44.
Gradit = Grande Dizionario Italiano dell’Uso, diretto da Tullio De Mauro, Torino, Utet,
1999-2007.
Grande Dizionario della lingua Italiana, diretto da Giorgio Barberi Squarotti, Torino, Utet,
1961-2009.
Grasso Aldo, Radio e televisione, Teorie, analisi, storie, esercizi, Milano, Vita e pensiero,
2000.
Grasso Aldo, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2004.
Gusmani Roberto, Aspetti del prestito linguistico, Napoli, Libreria scientifica editrice, 1973.
Klajn Ivan, Influssi inglesi nella lingua italiana, Firenze, Olschki, 1972.
Menarini Alberto, Il cinema nella lingua. La lingua nel cinema, Milano, Fratelli Bocca, 1955.
Menduni Enrico, I linguaggi della radio e della televisione. Teorie, tecniche, formati, Bari,
Laterza, 2010 (1a ed. 2002).
Morgana Silvia, L’influsso francese, in Serianni Luca, Trifone Pietro (a cura di), Storia della
lingua italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, vol. 3° (Le altre lingue), 1994, pp. 671-719.
Nacci Laura, La lingua della televisone, in Bonomi Ilaria, Masini Andrea, Morgana Silvia (a
cura di), La lingua italiana e i mass media, Carocci, Roma, 2004, pp. 67-92.
Ortoleva Peppino, Un ventennio a colori, Firenze, Giunti, 1995.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 245
Sabatini Coletti = Sabatini Francesco, Coletti Vittorio, Dizionario della lingua italiana, Mi-
lano, Rizzoli, 2006.
Simone Raffaele, I mass media e il comportamento linguistico degli italiani, in Lo Cascio
Vincenzo, L’italiano in America Latina, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 51-65.
Tagliavini Carlo, Un nome al giorno. Origine e storia di nomi di persona italiani (voll. I, II),
Torino, Ed. Radio italiana 1955, 1957.
Zambarbieri Elisa, Il varietà, in Bettetini Gianfranco, Braga Paolo, Fumagalli Armando (a
cura di), Le logiche della televisione, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 87-107.
GABRIELLA B. KLEIN - SERGIO PASQUANDREA
(Università degli studi di Perugia)
1. PREMESSA
«Nonostante il burocratese sia stato bandito da almeno quindici anni, grazie
alla diffusione dei manuali di stile e alle direttive sulla semplificazione del linguag-
gio amministrativo, permane l’oscurità di una comunicazione che non tiene conto
del suo interlocutore.» (Mazzoni, 2012, p. 23). Se ciò è tanto vero per i testi scritti, è
facile vedere quanto lo sia anche per il linguaggio parlato e per le interazioni verbali
in generale. Il problema diventa pressante quando tali interazioni coinvolgono par-
lanti non nativi di una lingua, per i quali la complessità e scarsa trasparenza del bu-
rocratese possono costituire ostacoli insormontabili.
Il presente contributo si colloca all’interno degli studi sociolinguistici, in parti-
colare di quelli improntati all’Analisi della Conversazione e all’analisi della comu-
nicazione multimodale. Saranno analizzati quattro casi di interazione comunicativa,
tratti da un corpus di incontri burocratico-istituzionali italiani, in cui una persona
con un retroterra linguistico-culturale non-italiano (che definiamo ‘adulto-in-mobi-
lità’ o AM) interagisce con un/a impiegato/a di un servizio pubblico (che definiamo
‘adulto-in-contatto-con-la-mobilità’ o ACM). Nell’analisi, si cercherà di indivi-
duare quali pratiche comunicative emergano nell’interazione, quali di esse possono
essere considerate buone pratiche e quali cattive pratiche o pratiche problematiche.
In particolare l’obiettivo è di individuare come l’uso di diverse modalità semiotiche,
come il gesto, lo sguardo, la postura, la manipolazione di oggetti (comunicazione
multimodale) possa agevolare la comprensione reciproca e il buon esito dell’inten-
zione comunicativa, con particolare focus sui tecnicismi burocratici1.
* Desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile queste ricerche rendendosi
disponibili con impegno e spontaneità, talvolta mettendosi in discussione, e sempre mostrando cu-
riosità e desiderio di imparare. Non riportiamo i loro nomi per mantenere la loro privacy.
1
Per la discussione sul linguaggio e le pratiche burocratici si può vedere -in ambito italiano-
p. es. Fioritto, 2009; Raso, 2008 e, per una dimensione più interculturale, Bartoli, 2012.
248 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
questo paragrafo, sarà tracciato un panorama di tali studi, con particolare riguardo a
quelli che si rifanno al campo dell’Analisi della Conversazione e dell’analisi mul-
timodale, e ne sarà discussa la rilevanza per lo studio della comunicazione inter-
culturale.
culturale, ha pubblicato i famosi saggi The Silent Language (1959) e The Hidden
Dimension (1966).
[...] in 1951 the study of intercultural communication did not yet have a name, its con-
ceptualization at the intersection of culture and communication had not yet occurred,
and the study of nonverbal communication as a “silent language” component of inter-
cultural communication had not been recognized. The field of intercultural communi-
cation was in a pre-paradigmatic era (Kuhn, 1962/1970) before 1950 (Rogers, Hart,
2001). (Rogers et al., 2002, p. 24).
Da allora, sono state avanzate numerose definizioni di che cosa sia una “co-
municazione interculturale”, ognuna delle quali pone l’enfasi su differenti aspetti: si
tratta dunque di un terreno che rimane oltremodo complesso e scivoloso. Ad ogni
modo, la comunicazione interpersonale presenta le pratiche comunicative dei parte-
cipanti a un’interazione come culturalmente determinate, in quanto differenti da
quelle degli appartenenti ad altre culture, gruppi etnici o reti sociali.
Di conseguenza, «ciascun evento comunicativo è condizionato dal background
socio-culturale e di esperienza delle persone che vi sono coinvolte. [...] Se tale
background e il rispettivo atteggiamento mentale non vengono condivisi, soprag-
giungono facilmente dei fraintendimenti ed è necessaria a quel punto una negozia-
zione di significato per poter giungere a un’interpretazione comune. La negozia-
zione di significato (Gumperz, 1982) si riferisce alla formulazione di un’espres-
sione o al significato simbolico di un’azione. In questo modo, in sostanza il signi-
ficato viene negoziato da tutti i partecipanti all’evento comunicativo. Gli sforzi nel
condividere e nel negoziare rappresentano una delle strategie fondamentali nella
comunicazione interculturale» (Dossou, Klein, 2007, p. 29).
Quando una comunicazione interpersonale, che si colloca in una dimensione
interculturale, presenta delle diversità nel modo e nello stile di comunicazione, pos-
sono generarsi delle difficoltà, in quanto tra persone che non condividono lo stesso
retroterra culturale vi è un maggiore rischio di incomprensione, di fraintendimenti,
di ‘miscomunicazione’ consapevole o no. Tali diversità e difficoltà possono essere
percepite o no da parte dei conversazionalisti2. A titolo di esempio, e limitandosi
all’ambito della comunicazione faccia-a-faccia che costituisce l’ambito del presente
studio, se una persona ha l’abitudine, per sua cultura (suoi modelli comportamen-
tali, suoi valori connessi a tali comportamenti), di aspettare che le si attribuisca il
turno per parlare (‘etero-selezione di turno’), si comporterà in modo diverso da una
persona che ha l’abitudine, per sua cultura, di prenderlo autonomamente (‘auto-se-
lezione di turno’). La dinamica interattiva tra due conversazionalisti può dunque ri-
sentire di stili e modi ‘conversazionali’3 differenti da quelli tipici di ciascuno dei
2
Con il termine ‘conversazionalista’ si intende il/la partecipante a una conversazione.
3
Il termine ‘conversazionale’ è da intendersi come termine tecnico senza alcuna valutazione
implicita: quando due o più persone intraprendono un’interazione comunicativa, s’impegnano in
250 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
due gruppi. A tali modi e stili possono essere legati dei valori differenti, social-
mente condivisi da ciascuno dei gruppi di appartenenza, e che quindi possono es-
sere valutati dagli stessi interattanti in modi differenti: chi si prende il turno auto-
nomamente può essere percepito dall’altro come scortese, mentre chi aspetta che gli
si attribuisca il turno può essere sentito dall’altro come passivo. Tali valutazioni di-
vergenti del comportamento conversazionale dell’altro possono causare problemi
comunicativi, non solo sul piano relazionale ma anche sul piano dell’oggetto della
comunicazione4, compromettendo la comprensione del contenuto stesso oltre che la
relazione tra le persone.
Il presente contributo vorrebbe proporre una visione della comunicazione inter-
culturale come fenomeno che inevitabilmente si basa sulla comunicazione interperso-
nale ed è caratterizzata da «un modo, uno stile di comunicare tra persone che fanno
riferimento a contesti culturali differenti» (Dossou, Klein, 2007, p. 12). Più precisa-
mente, «ogni qual volta interlocutori di culture diverse si incontrano con dei punti di
vista differenti e con i rispettivi diversi modi di comunicare, sono inevitabilmente
coinvolti in una comunicazione interculturale. Ciascun interlocutore porta con sé il
proprio bagaglio culturale e esperienziale, adattandolo alle dinamiche interazionali.»
(Dossou, Klein, 2007, p. 29). Non sempre differenze dovute al bagaglio dei singoli
emergono e tantomeno non sempre diventano esplicite e consapevoli ai partecipanti,
ma possiamo immaginare che siano sempre presenti in maniera latente5.
Dal momento che, come illustrato sopra, la comunicazione avviene a diversi
livelli, oltre a quello puramente verbale, tali differenze vanno analizzate secondo
un’ottica globale, che integri le diverse dimensioni in uno studio olistico della
comunicazione umana.
3.1 Il problema
Il presente studio prende in analisi quattro interazioni fra ‘adulti-in-contatto-
con-la-mobilità’ (ACM) e ‘adulti-in-mobilità’ (AM), per mostrare come la dimen-
una ‘conversazione’. In tal senso non facciamo qui alcuna distinzione tra ‘ordinary conversation’
and ‘institutional talk’ (cfr. Nofsinger, 1991) che mette in opposizione ‘conversation’ a ‘talk’.
4
Per la distinzione dei quattro piani della comunicazione (contenuto, relazione, intenzione,
autor-rivelazione) si veda Watzlawick, Helmick Beavin, Jackson, riportato anche in Dossou, Klein,
2007, pp. 22-23 e Dossou, Klein, 2012, p. 6.
5
Per quanto riguarda il concetto di ‘cultura’, il presente studio si basa sulla definizione degli
antropologi italiani Tullio Seppilli e Grazietta Guaitini Abbozzo, i quali definiscono ‘cultura’ come
“l’insieme delle rappresentazioni mentali socialmente elaborate attraverso cui gli individui, a li-
vello di personalità, entrano in rapporto con il loro contesto in una società storicamente determi-
nata” (Seppilli, Guaitini Abbozzo, 1974, p. 30). Per una definizione dei concetti di cultura e comu-
nicazione interculturale si veda anche Mucchi Faina, 2006, pp. 3-4.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 251
6
Si vedano le tesi di laurea, condotte sotto la guida di Gabriella B. Klein, di Cipiciani Luca,
Comunicazione interculturale e percezione dell’ ‘altro’ nella vita quotidiana. Un’indagine empi-
rica a Perugia, 2004; Valloni Maria Letizia, L’interazione tra persone straniere e amministrazione
pubblica: elaborazione di uno strumento d’indagine per far emergere le difficoltà comunicative,
2004; Bassetti Eleonora, “non ho avuto tante difficoltà -la difficoltà ce l’ho avuta con la lingua
italiana e basta”. Un’indagine sociolinguistica in Umbria per un progetto formativo, 2005; Manni
Arianna,”Saremo sempre stranieri”. Un’indagine sociolinguistica in Umbria per un progetto for-
mativo, 2005.
7
Alcune possono essere visionate sulla piattaforma di BRIDGE-IT al link: http://lnx.bridge-
it.communicationproject.eu/web/htdocs/bridge-it.communicationproject.eu/dokeos/main/document
document.php?cidReq =BRIDGEITCORSOIT1&curdirpath=%2FTUTTI_I_VIDEO.
8
Tale principio, a livello nazionale, implica tra le altre azioni proposte dalla Commissione
Europea, quella di “introdurre la competenza interculturale nelle strategie di assunzione e forma-
zione” (http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_per-
sons_asylum_immigration/l14502_it.htm).
9
Per una panoramica sullo sviluppo dei due progetti e della continuità tra di loro si veda
Klein, 2010.
252 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
10
La presenza della telecamera e del ricercatore all’interno del setting è una delle principali dif-
ficoltà che si incontrano nel raccogliere dati che si vorrebbero “naturali” e “spontanei”: è il “paradosso
dell’osservatore” già evidenziato da Labov (1970). La presenza dell’osservatore è una variabile che
inevitabilmente modifica il contesto dell’interazione: il problema, allora, è in che modo i dati raccolti
possano ancora essere considerati validi. D’altra parte, poiché è evidente che videoregistrare i dati
all’insaputa dei parlanti non sarebbe eticamente corretto, l’unico modo per procurarsi i dati è quello di
dichiarare apertamente la propria presenza. Per una discussione del problema, complesso e tutt’altro
che univocamente risolto, si veda Pasquandrea (2007, pp. 13-17). Giova comunque richiamare quanto
affermato da Duranti (2002, p. 111): “Le persone in genere non inventano dal nulla un comporta-
mento sociale, compresa la lingua. Piuttosto, le loro azioni sono parti di un repertorio a loro disposi-
zione, indipendente dalla presenza della videocamera. […] Nella maggior parte dei casi le persone
[sono] troppo occupate a vivere la propria vita per cambiarla in modo sostanziale a causa della pre-
senza di un nuovo oggetto, o di una persona nuova”.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 253
11
AM: adulto-in-mobilità; M: soggetto maschile.
12
ACM: adulto-in-contatto-con-la-mobilità; F: soggetto femminile; la numerazione progres-
siva indica persone diverse della stessa categoria: p. es. ACM/F1, ACM/F2 e così via.
254 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
Esempio 1°
Come si può notare dalla Figura 1, ACM/F1 pronuncia i propri turni tenendo il
modulo per la richiesta aperto sul tavolo, davanti ad AM/M, e indicandogli, di volta
in volta e in modo ordinato, i punti del modulo di cui sta parlando.
Le espressioni deittiche come “quest’altro quadro” (riga 6), “queste caselle”
(riga 8), “questi punti” (riga 10), o “al punto sei” (riga 20), “al punto sette” (riga
26), “dal punto otto” (riga 28), fanno riferimento a tale attività.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 255
NO
N.B.: Barrare la casella SI se nessuno dei componenti il nucleo richiedente
ha mai usufruito di contributi, concessi in qualunque forma (agevolazione
sugli interessi o a fondo perduto) dallo Stato o da altri Enti Pubblici, per
l’acquisto (in proprietà immediata o differita) o il recupero di alloggi.
Barrare la casella NO se almeno uno dei componenti il nucleo familiare
richiedente ha già percepito contributi in conto interessi o in conto capitale
per l’acquisto o il recupero di alloggi; in questo caso la domanda verrà
esclusa.
8 Che il nucleo familiare richiedente, alla data del bando, è formato esclu-
SI sivamente da una coppia sposata (o anagraficamente convivente) da non
NO più di un anno e con uno o più figli minori a carico;
Figura 2: Un estratto dal formulario
13
Non siamo a conoscenza di una letteratura specifica su tale punto, ma abbiamo varie testi-
monianze dirette come quella di Koffi M. Dossou del Togo e di Antoinette Elisabeth Mavingou
della Rep. Dem. del Congo, soci dell’associazione Key & Key Communications la quale è uno dei
partner del progetto BRIDGE-IT.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 257
terpretato come un accordo o come un segno di comprensione, quanto come una se-
gnalazione fatica, volta a evidenziare l’apertura del canale comunicativo.
Dal punto di vista lessicale, l’Esempio 1a si caratterizza per un’alta incidenza
di termini tecnici, che ACM/F1 produce senza alcun tipo di spiegazioni. Si vedano
casi come “i componenti del suo nucleo familiare” (riga 1), “non possidenza di di-
ritti su alloggi” (righe 12-13), “diritto di proprietà usufrutto uso abitazione” (righe
17-18), “possesso di redditi da fabbricati” (riga 21), “condizioni di punteggio” (riga
31). Quasi tutti i casi citati rientrano in quelli che, riprendendo una terminologia
proposta da Luca Serianni per il lessico medico, si potrebbero definire ‘tecnicismi
collaterali’, vale a dire «vocaboli (…) legati non a effettive necessità comunicative
bensì all’opportunità di adoperare un registro elevato, distinto dal linguaggio co-
mune» (Serianni, 2005, pp. 127-128).
Un altro punto di possibile criticità, che esula dal piano strettamente lessicale e
investe quello più ampiamente logico-semantico, è la spiegazione alle righe 10-18,
in cui ACM/F1 illustra come la domanda sia “posta in modo negativo” e come
quindi il richiedente “per dire che […] non ha diritti su un alloggio adeguato dovrà
rispondere sì”. Tale concetto, che richiede un carico cognitivo non indifferente per
un apprendente non nativo, viene veicolato senza effettivamente assicurarsi della
sua comprensione.
In generale, si può concludere che AM/M viene sottoposto a una massiccia
dose di linguaggio tecnico non mitigato, veicolato per di più all’interno di un flusso
di parlato continuo, che gli concede pochi spazi di intervento.
L’Esempio 1b mostra uno dei pochi punti dell’interazione in cui AM/M ha
l’occasione di interloquire per chiedere spiegazioni.
Esempio 1b
1 ACM/F1 lei risponderà sì o no a seconda che hh hm * lei>> verifichi di
2 rientrare in quella condizione * oppure * no quindi <<BASSO: avere
3 avuto eseguito uno sfratto avere un * figli dagli undici ai
4 ventisei anni oppure>> essere una persona
5 completamente sola senza riferimenti parentali
6 * e * e poi <<VELOCE: in base alle fasce d’età>> anche questo ha
7 un determinato punteggio|
8 AM/M ok [ma però]
9 ACM/F1 <<LENTO: [non so ] lei mi/>> comunque mi può dire>
10 ciò che non le risulta chiaro se ci sono dei punti
11 magari che vanno approfonditi
12 AM/M sì il primo punto non lo capisco bene perché [io]
13 ACM/F1 [sì]
14 AM/M da tre anni sono qui ** [ehm ]
15 ACM/F1 [lei è] residente qui da
16 [tre anni/ ]
258 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
Nelle righe 1-6, AMC/F1 termina l’esposizione del modulo e segnala la con-
clusione sia con l’intonazione sospensiva, sia con la postura, ritraendosi all’indietro
e facendo il gesto di riprendere il modulo (vedi figura 3).
Solo a questo punto AM/M, che ha evidentemente colto la fine della spiega-
zione, interviene (riga 8), peraltro subito interrotto da ACM/F1, che gli si sovrappone
(riga 9), prospettando la possibilità che AM/M esponga eventuali dubbi o richieste di
chiarimento; è notevole che questa sia la prima volta, dall’inizio dell’incontro, in cui
ACM/F1 si pone il problema di accertarsi della comprensione, da parte di AM/M, di
quanto è stato esposto. Il successivo svolgimento dell’interazione mostra come
AM/M chieda chiarimenti sul “primo punto”, ossia su una parte dell’interazione che
aveva avuto luogo quasi otto minuti prima, all’inizio della sequenza.
Questa prima interazione mostra alcuni punti di criticità, relativi all’interazione
in ambito burocratico-istituzionale: in primo luogo, la tendenza dell’ACM/F1 a pro-
durre lunghi turni, senza accertarsi della comprensione da parte dell’AM/M e senza
dare la possibilità di intervenire per chiedere chiarimenti; in secondo luogo, la pre-
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 259
senza di una gran quantità di lessico tecnico non mediato; in terzo luogo, un uso del
modulo che si limita alla sua spiegazione (perlopiù, ripetendone integralmente interi
brani), senza mai realmente mediarne e/o semplificarne il contenuto. In definitiva,
nonostante l’atteggiamento di ACM/F1 si possa definire disponibile e collaborativo,
l’effetto concreto delle sue pratiche comunicative si risolve in una non-facilitazione, e
anzi in molti casi in un ostacolo alla comprensione da parte dell’AM/M.
Inoltre, come nel caso precedente, i turni di ACM/F2 sono piuttosto lunghi e
raramente offrono ad AM/F1 l’occasione di intervenire: tuttavia, questa particolare
parlante mostra un comportamento più attivo, sotto forma di una maggiore tendenza
a produrre commenti e risposte e, in generale, a competere per la presa del turno.
Tale comportamento può essere motivato da un modello culturale individualista
(cfr. Mucchi Faina, 2006, p. 5) a cui la parlante da polacca-europea fa riferimento.
L’Esempio 2 mostra appunto uno di questi casi.
Nelle prime righe, ACM/F2 sta esemplificando i dati da inserire nel modulo
per quanto riguarda lo stato di famiglia del richiedente
260 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
Esempio 2
1 ACM/F2 oltre a mE qui c’è /c’è altre per [sone ]
2 AM/F1 [certo]
3 ACM/F2 che ne so se lei appunto ha un figlio mette i
4 dati del [figlio]
5 AM/F1 [sì ]
6 ACM/F2 il coniuge
7 AM/F1 Sì
8 AMC/F2 o un fratello una sorella capito chi è presente
9 * nel nucleo familiare * alla data del bando|
10 AM/F1 va bene
11 ACM/F2 ok=
12 AM/F1 =<<BASSO: eh volevo anche chiedere>>
13 ACM/F2 Sì
14 AM/F1 <<BASSO: come funziona l’aiuto per esempio [........|]>>
15 ACM/F2 [allora il] ** poi ci
16 vuole la marca da bollo anche eh=
17 AM/F1 =ah
18 ACM/F2 hm * da quattordici e sessantadue=
19 AM/F1 =e dove * si può comprare
20 ACM/F2 si prende dal tabaccaio\ * si
21 AM/F1 ah quindi dove * ok
22 ACM/F2 <<LENTO: poi dopo domAnda * per quanto riguarda
23 questa del contributo affitto secondo * no * va
24 spedita * per raccomandata con ricevuta di ritorno\>> [e la ]
25 AM/F1 [ah quindi]
26 non lo devo [mo-mostrare qui ]
27 ACM/F2 [entro * la scadenza] no
28 non va consegnata qua\ Va bEne/
29 AM/F1 sì sì
30 **
31 ACM/F2 e poi mi dicevA|
32 AM/F1 Eh come funziona [l’aiuto perché]
33 ACM/F2 [allora il ] esatto eh * <<LENTO:
34 adesso hm cioè esce poi una hm * entro sessanta
35 giorni ma * hm dipende dal numero di domande che
36 arrivano * esce una graduatoria provvisoria\ che
37 sta esposta quindici giorni * e voi in quel
38 periodo dovete venire a controllare se siete stati ammessi>>
Esempio 3a
1 ACM/M la scheda anagrafica è completa\ adesso\ procediamo
2 al primo modello\ alla stampa del primo modello\
3 AM/F2 Mhm
4 ACM/M <<ALTO: d’iscrizione anagrafica\>> ** che noi
5 stampiamo in triplice copia/ ** la <<LOUD: quarta>>
6 stampa è un’attestazione che daremo a lEi\ <<LENTO:
7 che serve già>> per dimostrare che ha fatto quest’iscrizione\
8 AM/F2 sì sì cap [isco\]
9 ACM/M [poi ] dovremmo comunque fare una domanda al
10 comune di NOME DEL COMUNE/ per rIchiedere <<VELOCE:
262 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
Nella prima parte della sequenza, le azioni relative all’espletamento della pro-
cedura, come compilare, stampare o firmare i documenti (righe 10, 14, 16) si alter-
nano a turni piuttosto estesi, nei quali ACM/M spiega ad AM/F2 ciò che via via fa.
Tali turni si possono considerare positivi sul piano della relazione, in quanto mirano
a rendere l’AM partecipe e consapevole della procedura in corso; essi, tuttavia, pre-
sentano una certa incidenza di linguaggio tecnico (“scheda anagrafica”, “modello”,
“triplice copia”, “attestazione”, “certificato di soggiorno”, “attestare”), sebbene in
misura minore rispetto a quanto osservato nei casi precedenti.
All’apparenza, l’interazione procede in maniera non problematica, come sembra
confermare il commento di AM/F2 alla riga 8 (“sì sì capisco”). In realtà, nel momento
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 263
in cui ACM/M le dispone davanti i documenti, appena stampati, per la firma (righe
24-25), emerge che AM/F2 non ha pienamente capito le spiegazioni (cfr. la richiesta
auto-iniziata: “non capisco tutto parole”, righe 27 e 29), e in particolare non ha com-
preso la necessità di stampare il documento in più copie; tale richiesta di spiegazioni è
un’iniziativa autonoma da parte di AM/F2, non stimolata da alcuna domanda da parte
di ACM/M, che invece sembra considerare l’interazione in corso del tutto non pro-
blematica. Segue dunque una sequenza (righe 33-41), in cui ACM/M riformula la
spiegazione in termini appartenenti a un registro meno tecnico (“noi dobbiamo fare tre
copie” (riga 35), “dobbiamo dare questi documenti al nostro ufficio” (righe 37-38),
“deve andare in più uffici” (riga 40). Altro aspetto degno di menzione è che l’attività
di firmare un modulo, che presuppone una precisa assunzione di responsabilità da
parte dei due partecipanti all’interazione, è realizzata senza un effettivo accertamento
della comprensione, da parte di AM/F2, di quanto sta avvenendo.
È anche interessante mostrare il prosieguo dell’interazione, riportato nell’Esempio 3b.
Esempio 3b
43 ACM/M adesso facciamO una co- un documento in più [ris]petto
44 agli extra comunitari/ pErché eh questo documento
45 è stato passato\ eh <<BASSO: con legge <<VELOCE:
46 trenta del duemilasette\>> ai comuni/>> * dalle pre-
47 dalle questure/ e quindi dal ministero/ * e è il
48 certificato di sOggiorno\ intanto noi rilasceremo un eh *
49 una ricevuta\ cioè una primo documento\ ** e dopo sessanta
50 giorni lei potrà ritirare <<VELOCE: definitivamente il
51 certificato di soggiorno/ che * ha validità * quINquennale\>>
Esempio 3c
1 ACM/M <<BASSO: allora cittadinanza è qui abbiamo detto
2 olandese\>> è coniugata/
3 AM/F2 [non capisco\ ]
4 ACM/M [è <<ALTO: sposata>>] ha il <<ALTO: marito/>>
5 <<ACM/M INDICA L’ANULARE, SU CUI PORTA LA FEDE
NUZIALE>>
6 AM/F2 /n[o/ ]
7 ACM/M [no\]
8 AM/F2 Sì
9 ACM/M è un elemento anche questo impOrtante\ perché potrebbe
10 essere una studentessa che
11 AM/F2 [sì ]
12 ACM/M [com]unque è sposAta\ quindi|
In questo caso, ACM/M ricorre prima al termine tecnico “coniugata” (riga 2);
poi, di fronte alla mancata comprensione di ACM/F2, ricorre a due riformulazioni
(“è sposata” e “ha il marito”, riga 4), accompagnate dal gesto di toccarsi la fede
all’anulare, che alla fine ottiene la risposta desiderata. Nel prossimo paragrafo, sa-
ranno analizzate alcune di queste buone pratiche.
Esempio 4a
1 ***
2 ACM/F3 hm ** <<LENTO: questo/>>
3 AM/F3 s[ì/]
4 ACM/F3 <<LENTO: [ a]ttestA>>
14
AM/F3 è in realtà olandese, ma si è scelto di presentarla come sudafricana per avere un
esempio di una diversa pratica burocratica, che coinvolge una cittadina di un paese non-comunitario.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 265
5 AM/F3 [mhm]
6 ACM/F3 <<LENTO: [che] da oggI ha la residenzA>>
7 AM/F3 [okay\]
8 ACM/F3 [nel ] nostro comune\
9 AM/F3 [okay\]
10 ACM/F3 [ tut]to quello che deve dimostrare/ con questo foglio\
11 AM/F3 okay\
12 ***
13 ACM/F3 e benvenuta/ nel comune di <<ALTO: NOME DEL COMUNE|>>
14 AM/F3 oh grazie/ <<VELOCE: grazie/>>=
Questo estratto, per quanto breve, è però rappresentativo dello stile comunica-
tivo di ACM/F3, che adotta turni brevi, pronunciati a un ritmo molto lento (anche,
probabilmente, in risposta alle notevoli difficoltà linguistiche di AM/F3, il cui ita-
liano è frammentario e assai poco fluente) e contenenti una percentuale molto bassa
di lessico specifico. Il confronto con gli Esempi 3a e 3b mostra come ACM/F3 cer-
chi di evitare termini burocratici e privilegi costrutti sintattici semplici e diretti (“da
oggi ha la residenza nel nostro comune”, righe 6 e 8, anziché “da oggi è iscritta
all’anagrafe”).
Ma, forse, l’aspetto più interessante di questa interazione è l’abilità con la
quale ACM/F3 sfrutta le risorse multimodali (sguardo, gesto, uso degli oggetti) al
fine di veicolare nel modo più efficace il messaggio, come dimostra il prossimo
estratto analizzato (Esempio 4b). La sequenza è tratta dalla fase iniziale
dell’incontro: AM/F3 si è appena seduta alla scrivania e ACM/F3 sta accertandosi
delle condizioni necessarie all’espletamento della pratica.
Nelle righe 7-10, AM/F3 dimostra chiare difficoltà a fornire la risposta alla
domanda di ACM/F3 (“ha mai avuto la residenza in Italia?”). Dopo qualche mo-
mento di esitazione, in cui cerca di riformulare la domanda con brevi sintagmi no-
minali (“residente”, “abitazione in Italia”), constatando la difficoltà da parte di
AM/F di fornire i dati richiesti, ACM/F3 fa ricorso a uno degli oggetti presenti sulla
scena, vale a dire il passaporto di AM/F3 dal quale prendere i dati personali neces-
sari. L’aspetto più interessante, però, è che il passaporto non viene richiesto
esplicitamente da ACM/F3, che si limita a formulare una nuova domanda (“lei
arriva?”, riga 12), alla quale AM/F3 reagisce porgendole il documento. L’analisi
dell’aspetto puramente verbale dell’interazione non permette di capire come si sia
arrivati a quest’ultima azione: occorre invece analizzarne la costruzione mul-
timodale.
Esempio 4b
1 ACM/F3 [<<ALTO: è mai stata>>] in italia/
2 AM/F3 [mai ]
3 ACM/F3 [ha mai] avuto la residenzA/
266 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
4 AM/F3 [sì]
5 ACM/F3 [in] italiA/
6 AM/F3 sì/
7 ACM/F3 <<LENTO: residentE/ ** abitazionE\>> in italiA/
8 AM/F3 (qui) [ehm]
9 ACM/F3 [<<BASSO: (in) ital]iA/>>
10 AM/F3 sì * no
11 **
12 ACM/F3 lei arriva/
13 AM/F3 passaporto/
14 ACM/F3 okay sì *7* mhm passaporto/ * per eh lavorO/
15 AM/F3 ehm ye- sì lavorare\ <<BASSO hm sì/=>>
16 ACM/F3 =/<<BASSO: allora\>> * vediamo tra i documenti/
17 AM/F3 okay/
18 ACM/F3 okay/ ** e le ricevute/ *** va bene\ ** allora|
Innanzi tutto, si può notare come alla riga 11 ACM/F3 sposti lo sguardo verso
la busta di plastica trasparente, in cui AM/F3 tiene il passaporto. Tale divergenza di
sguardi segnala la coesistenza di due azioni simultanee: quella di AM/F3, che con-
tinua a cercare una risposta verbale, e quella di ACM/F3, che invece si orienta già
verso l’oggetto (Figura 5).
Subito dopo, ACM/F3 comincia a formulare la domanda (“lei arriva?”), e allo
stesso tempo allunga la mano verso la busta. Nel frattempo, AM/F3 inizia un gesto
che sembrerebbe preludere a una ripresa del turno da parte sua (Figura 6): in altri
termini, le due interattanti continuano a perseguire due azioni diverse.
A questo punto, però, AM/F3 nota il gesto di ACM/F3, sposta lo sguardo
verso la busta e prende autonomamente il passaporto, mentre ACM/F3 interrompe e
ritrae il gesto (Figure 7 e 8).
Prima di estrarre il passaporto dalla busta, AM/F3 guarda ACM/F3 formu-
lando il turno alla riga 13 (“passaporto”) e, ottenuta conferma, glielo porge (fi-
gure 9 e 10).
L’analisi dimostra come la comunicazione avvenga, in larga parte, attraverso
strategie multimodali come il gesto e lo sguardo, che riescono a travalicare le diffi-
coltà espressive di AM/F3 con la lingua italiana: ACM/F3 chiama in causa e rende
rilevante un oggetto, il passaporto, trasformandolo in uno strumento per la comuni-
cazione. È anche notevole che questa complessa negoziazione multimodale occupi,
in realtà, poco più di 3 secondi.
Richiesta di conferma tramite linguaggio verbale e non-verbale (sguardo).
Il passaporto continuerà ad essere impiegato anche nel prosieguo dell’inte-
razione, come dimostra l’Esempio 4c, in cui ACM/F3 ricorre ad esso per accertare
informazioni come la provenienza geografica di AM/F3 (righe 1-2), il suo nome e
cognome (15-21) e data di nascita (righe 22-23).
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 267
Esempio 4c
1 ACM/F3 <<*10* ACM/F3 SCRIVE AL COMPUTER>>
2 <<SOFT: allora>> lei arriva direttamente da dove/ da quI/
3 ACM/F3 MOSTRA IL PASSAPORTO AD AM/F3
4 AM/F3 sì\
5 ACM/F3 okay\ *** hm ** <<SLOW: vA ad abitare con qualcuno/
6 nell’aPPartamento/>>
7 AM/F3 sì ehm eh NOME DEL COMUNE\
8 *
9 ACM/F3 mhm ** qui\ abita qualcuno/ * ha la residenza qualche altra persona/
10 [ am]ica/
11 AM/F3 [ehm] <<VELOCE: no no no [no ]>>
12 ACM/F3 [solo\]
13 AM/F3 no [solo\]
14 ACM/F3 [okay\]
15 AM/F3 solo\=
16 ACM/F3 =okay\ ** questo è il cOgnome/
17 AM/F3 sì\
18 ACM/F3 [mhm]
19 AM/F3 <<BASSO: [cog]nome\>>
20 **
21 ACM/F3 okay\ questo è il nome/
22 AM/F3 nome\ sì\
23 ACM/F3 mhm *** data di nascita/=
24 AM/F3 =sì/ <<VELOCE E BASSO: sì/ sì/>>
25 <<*15* ACM/F3 SCRIVE AL COMPUTER>>
Esempio 4d
1 ACM/F3 mhm/ *23* ACM/F3 SCRIVE SU UN FOGLIO, POI SI GIRA
2 VERSO AM/F3 INDICANDOSI IL DITO ANULARE, DOVE
3 TIENE LA FEDE
4 AM/F3 eh [no\]
5 ACM/F3 <<BASSO: [no\]>>
6 AM/F3 no\ no\ no\=
7 ACM/F3 =okay\ che scuole ha fatto nel suo paese/
Esempio 4e
1 ACM/F3 [hm ] *** <<LENTO: questa/ è la
2 tassA/ per lo>> lo smaltimento\ dei rifiuti\
3 AM/F3 hm (...)
4 ACM/F3 rifiuti/<<ACM/F3 PRENDE DA SOTTO LA SCRIVANIA IL
5 CESTINO DEI RIFIUTI E LO MOSTRA A AM/F3>>
6 AM/F3 <<ALTO: ah/>>
7 ACM/F3 <<LENTO: di casa/ da buttare via\>> si paga una tAssa\
8 AM/F3 ah\ okay\ <<BASSO: [sì ]>>
9 ACM/F3 [mhm]
AM/F3 accompagna il turno alla riga 2 con un’espressione facciale che dimo-
stra chiaramente una mancata comprensione; invece di ricorrere a strategie mera-
mente verbali (spiegazione, riformulazione), ACM/F3 preferisce usare un oggetto
presente nell’ambiente (il cestino della carta straccia), accompagnandolo con il so-
stantivo “rifiuti” e poi con una frase estremamente semplificata (“rifiuti di casa da
buttare via”, righe 2 e 7, “si paga una tassa”, riga 7).
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’uso di un ‘foreigner talk’ estrema-
mente semplificato si può considerare positivo in questo particolare contesto, in
quanto esso risponde alle esigenze di AM/F3, la quale mostra chiare difficoltà nella
produzione e ricezione dell’italiano. Va comunque posta attenzione all’uso di una
simile varietà in qualunque contesto, in quanto essa potrebbe, in altri casi, risultare
lesiva della ‘faccia’ di un AM, o persino offensiva.
15
Docente di pedagogia e referente dell’università di Malta quale partner di BRIDGE-IT.
270 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Atkinson John M., Heritage John (a cura di), Structures of Social Action: Studies in Conver-
sation Analysis, Cambridge, Cambridge University Press, 1984.
Bartoli Clelia, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Roma-Bari, Laterza, 2012.
Blommaert Jan, Semiotic and spatial scope: Towards a materialist semiotics, in Pachler
Norbert, Boeck Margit (a cura di), Multimodality and Social Semiosis. Communciation,
Meaning-Making, and Learning in the Work of Gunther Kress, New York, Springer,
2013, pp. 29-38.
Boden Deirdre, Zimmerman Don H. (a cura di), Talk and Social Structure. Studies in Ethno-
methodology and Conversational Analysis, Cambridge, Polity Press, 1991.
BRIDGE - IT BE Relevant to Intercultural Diversity Generation in Europe-Integration Team
510101-LLP-1-2010-1-IT-GRUNDTVIG-GMP, sito ufficiale del Progetto Europeo
http://bridge-it.communicationproject.eu.
Dossou Koffi M., Klein Gabriella B. Punti di partenza, obiettivi e concetti fondamentali, in
Klein Gabriella B. (a cura di), SPICES Guidelines. Un metodo per la formazione alla
comunicazione interculturale in situazioni istituzionali, Perugia, Key & Key Communi-
cations, 2007, pp. 12-30 (trad. it. di SPICES Guidelines. A method for intercultural
communication training in institutional settings, Perugia: Key & Key Communications,
2007, anche disponibile al link http://www.interculturaldialogue-2008.eu/1534.0.html?&
amp;redirect_url=my-startpage-eyid.html).
Dossou Koffi M., Klein Gabriella B., Our Communication Concept, in 2011, disponibile al
link http://bridge-it.communicationproject.eu/res/default/OUR-COMMUNICATION-
CONCEPT-WEB.pdf.
Duranti Alessandro, Antropologia del linguaggio, Roma, Meltemi, 2002 (traduzione italiana
di Linguistic Anthropology, Cambridge, Cambridge University Press, 1997).
Fasulo Alessandra, Monzoni Chiara, Assessing mutable objects: A multimodal analysis, «Re-
search on Language and Social Interaction», a. 42, n. 4, 2009, pp. 36-376.
Fioritto Alfredo, Manuale di stile dei documenti amministrativi, Bologna, Il Mulino, 2009.
Goodwin Charles, Action and embodiment within situated human interaction, «Journal of
Pragmatics», n. 32, 2000, pp. 1489-1522.
Goodwin Charles, The body in action, in Coupland Justine, Gwyn Richard (a cura di), Dis-
course, the body and identity, New York, Palgrave/Macmillan, 2013, pp. 19-42.
Gumperz John J., Discourse Strategies, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.
Hall Edward T., The Silent Language, New York, Doubleday, 1959.
Hall Edward T., The Hidden Dimension, New York, Doubleday, 1966.
Heath Christian, Body Movement and Speech in Medical Interaction, Cambridge, Cambridge
University Press, 1986.
Heath Christian, Embodied action and organisational interaction: Establishing contract on
the strike of a hammer, «Journal of Pragmatics», a. 46, n. 1, 2013, pp. 24-38.
Hodge Robert, Kress Gunther, Social Semiotics, Cambridge, Polity 1988.
Kendon Adam, Gesture: Visible Action as Utterance, Cambridge, Cambridge University
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 273
Press, 2004.
Klein Gabriella B., Da SPICES a e-SPICES a BRIDGE-IT … una lunga strada, «La e-New-
sletter ufficiale di BRIDGE-IT», n. 1, 2010, pp. 1-4, versione italiana, disponibile al link
http://bridge-it.communicationproject.eu/res/newsletters-nuovi/newsletter-1-IT.pdf.
Klein Gabriella B., Caruana Sandro, Adulti-in-mobilità e adulti-professionalmente-in-con-
tatto-con-la-mobilità: una coppia relazionale standardizzata, in Klein, Caruana (a cura
di), Intercultural Communication in Bureaucratic and Institutional Contexts (Procee-
dings of the Final Conference of the European Project SPICES-Social Promotion of In-
tercultural Communication Expertise and Skills-224945-CP-1-2005-1-IT-GRUNDTVIG-
G11, Perugia/Italy, 21.09.2007), Perugia, Guerra Edizioni (CONVERSARII. Studi Lin-
guistici del CLA-Sezione Didattica, 2), 2008, pp. 39-59.
Kress Gunther, Van Leeuwen Theo, Multimodal discourse: The modes and media of contem-
porary communication, Bloomsbury, Academics, 2001.
Labov William, The study of language in its social context, «Studium Generale», a. 23, 1970,
pp. 30-87 (trad. it. in Giglioli Pier Paolo, Fele Giolo (a cura di), Linguaggio e contesto
sociale, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 207-232).
Luff Paul, Hindmarsh John, Heath Christian, Workplace studies: Recovering work practice
and informing system design, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.
Mazzoni Marco, La criticità della provincia di Perugia, in Bonerba Giuseppina, Carloni En-
rico, Mazzoni Marco, Ponti Benedetto (a cura di), La Provincia e le buone pratiche am-
ministrative. Semplificazione e trasparenza in Francia, Germania, Spagna e Svezia.
Rapporto di ricerca con Sintesi introduttiva di Paolo Mancini, Perugia, Università degli
studi di Perugia, Documento non pubblicato, 2012, pp. 22-30.
Mondada Lorenza, Emergent focused interactions in public places: a systematic analysis of
the multimodal achievement of a common interactional space, «Journal of Pragmatics»,
a. 41, n. 10, 2009, pp. 1977–1997.
Mondada Lorenza, The organization of concurrent courses of action in surgical demonstra-
tions, in Streeck Jürgen, Goodwin Charles, LeBaron Curtis (a cura di), Embodied Inter-
action: Language and Body in the Material World, Cambridge, Cambridge University
Press, 2011.
Mondada Lorenza, Video analysis and the temporality of inscriptions within social interaction:
The case of architects at work. «Qualitative Research», a.12, n. 3, 2012, pp. 304-333.
Mucchi Faina Angelica, Comunicazione interculturale. Il punto di vista psicologico-sociale,
Roma-Bari, Laterza, 2006.
Nofsinger Roger E., Everyday conversation, London, Sage, 1991.
Norris Sigrid, Analyzing Multimodal Interaction: A Methodological Framework. London,
Routledge, 2004.
Norris Sigrid, Jones Rodney H., Discourse in Action: Introducing Mediated Discourse Anal-
ysis, London, Routledge 2005.
Pasquandrea Sergio, Code-switching e identità: pratiche discorsive di famiglie italiane in
paesi anglofoni, Tesi di dottorato, Università degli studi di Pisa, 2007 (disponibile sul
sito: http://etd.adm.unipi.it/t/etd-09052007-125152).
274 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA
Poggi Isabella, Magno Caldognetto Emanuela, Mani che parlano. Gesti e psicologia della
comunicazione, Padova, Unipress, 1997.
Raso Tommaso, La scrittura burocratica - La lingua e l’organizzazione del testo, Roma, Ca-
rocci, 2008.
Rogers Everett M., Hart William B., Miike Yoshitaka, Edward T. Hall and The History of
Intercultural Communication: The United States and Japan, «Keio Communication Re-
view», n. 24, 2002, pp. 3-26. (Anche disponibile al link: http://www.mediacom.keio.ac.
jp/publication/pdf2002/review24/2.pdf).
Sacks Harvey, Lectures on conversation, London, Blackwell, 1992.
Schegloff Emanuel, Sequence organization in interaction: A primer in conversation analysis,
Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
Scollon Ron, Mediated Discourse. The Nexus of Practice, New York, Routledge, 2001.
Scollon Ron, Scollon Wong Suzie, Discourses in place: Language in the material world,
London, Routledge 2004.
Seppilli Tullio, Guaitini Abbozzo Grazietta, Schema concettuale di una teoria della cultura,
Perugia, Istituto di Etnologia e Antropologia, Università degli studi di Perugia, 1974.
Serianni Luca, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel
presente, Milano, Garzanti, 2005.
SPICES-Social Promotion of Intercultural Communication Expertise and Skills. Socrates
Programme, Grundtvig Training Courses-Reference: 224945-CP-1-2005-1-IT-
GRUNDTVIG-11, sito ufficiale del Progetto Europeo http://www.trainingspices.net.
Stivers Tanya, Sidnell Jack, Multimodal interaction, numero monografico di «Semiotica», a.
36, n.156 (1/4), 2000.
Streeck Jürgen, How to Do Things with Things, «Human Studies», a. 19, n. 4, 1996, pp. 365-
384.
Streeck Jürgen, Interaction and the living body, «Journal of Pragmatics», a. 46, n. 1, 2013,
pp. 69-90.
Streeck Jürgen, Goodwin Charles, LeBaron Curtis (a cura di), Embodied interaction. Lan-
guage and body in the material world, Cambridge, Cambridge University Press, 2011.
Watzlawick Paul, Helmick Beavin Janet, Jackson Don D., Pragmatics of Human Communi-
cation, New York, Norton & Co., 1967 (trad. it., Pragmatica della comunicazione
umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Ubal-
dini, 1971).
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 275
7. CONVENZIONI NOTAZIONALI
xxx sta per una lettera: trascritto del parlato
xxxxx- / -xxx parola interrrotta / parola tronca
(...) sequenza non comprensibile acusticamente
GESTIONE TURNI
[xxxxxxx ] parlare simultaneo
[xxxxxxxxxx ]
[xxxxxxx ] parlare sovrapposto
[xxxxxx]xxxx
xxx= ‘latching’: i turni di due parlanti si attaccano senza il minimo di
=xxx pausa tra i turni
xxx // xxx INTERRUZIONE E RIPIANIFICAZIONE DEL DISCORSO
INTONAZIONE DELLE SILLABE
x/ ascendente
x\ discendente
x| sospensiva
PAUSE
* breve
** media
*** lunga
*sec* molto lunga con indicazione della lunghezza in secondi
ENFASI
xxXxx singola lettera maiuscola indica enfasi sulla vocale
ALLUNGAMENTO
xxxxxxx una lettera sottolineata significa un allungamento vocalico o
consonantico
VELOCITÀ
<<VELOCE: xxx>> parlato veloce / cambio marcato di velocità
<<LENTO>: xxx> parlato lento / cambio marcato di velocità
VOLUME
<<ALTO: xxx>> parlato a voce marcatamente alta / cambio marcato di volume
<<BASSO: xxx>> parlato a voce marcatamente bassa / cambio marcato di volume
COMMENTI
COMMENTO commenti sono scritti in lettere maiuscole;
vengono usati per descrivere un’azione o per fornire informazioni
sul contesto della situazione;
sono anche usati per indicare la velocità dell’eloquio e il volume
della voce (vedi sopra)
<<COMMENTO commento riferito a una sequenza di parlato
xxx>>
KARL GERHARD HEMPEL
(Università del Salento)
1. INTRODUZIONE
Al giorno d’oggi l’inglese è solitamente considerato come lingua veicolare
della comunicazione scientifica internazionale e i motivi della sua posizione domi-
nante nel mondo accademico sono spesso stati discussi (p.es. Kaplan, 2001). La ri-
cerca sociolinguistica si è concentrata principalmente sulla ricostruzione dello svi-
luppo che ha condotto alla situazione attuale (per un’ampia documentazione v.
Ammon 1998), sull’analisi degli svantaggi che risultano per i non anglofoni dalla
supremazia della lingua inglese e sulle problematiche che ne derivano per la comu-
nicazione scientifica (Saracino, 2004; Ammon, Carli, 2007; Ammon, 2012); poca
attenzione invece è stata riservata all’esiguo numero di materie che continuano ad
essere multilingue.
Un maggior interesse a questa problematica si osserva in area tedescofona,
dove il futuro ruolo della lingua madre, già da alcuni decenni, è oggetto di dibattiti
accesi che non interessano solo un ristretto pubblico accademico. Il punto centrale
della discussione sono le lamentele per l’impatto oramai recessivo del tedesco in di-
scipline scientifiche e tecniche che contrasta con la sua persistenza nelle scienze so-
ciali e umanistiche (Weinrich, 1986). I linguisti tedeschi frequentemente sottoli-
neano il carattere particolare della comunicazione specialistica nelle discipline
umanistiche che corrisponde alla loro tipica varietà di paradigmi e al forte radica-
mento nelle diverse macroculture; di conseguenza il multilinguismo è considerato
spesso come presupposto per una proficua attività di ricerca in quegli ambiti (Ok-
saar et al., 1988; Österreicher, 2002). Negli ultimi anni, argomentazioni simili sono
state sviluppate occasionalmente anche in Italia e nell’area ispano-americana, dando
così prova di una maggiore autostima linguistica (Calaresu et al., 2006; Hornung,
2011; Hamel, 2005). Alcuni studiosi avanzano critiche verso il concetto di una lin-
gua franca in generale, esprimendosi a favore di una politica linguistica che rafforzi
la posizione delle lingue diverse dall’inglese (Ehlich, 2004; 2006; Thielmann, 2002;
Ammon. 2000; 2012).
In tale contesto rivestono un ruolo chiave alcune discipline tradizionalmente
multilingue e ‘piccole’, che in tedesco vengono spesso definite come Nischenfächer
(‘discipline di nicchia’). Queste comprendono la filologia classica, la teologia, la
filosofia e la musicologia, nonché l’egittologia e l’islamistica (Ammon, 2000; Beh-
rens et al., 2010). Recentemente è stata condotta una ricerca approfondita sulla si-
tuazione linguistica in archeologia classica per quanto riguarda le aree di lingua te-
278 KARL GERHARD HEMPEL
Sembra quindi sussistere una crescente pressione sui ricercatori delle ‘disci-
pline di nicchia’ che sentono, alla stregua dei loro colleghi appartenenti alle disci-
pline ‘dure’, una sempre maggiore costrizione a pubblicare in inglese (“publish in
English or perish”). I futuri sviluppi dipenderanno dal rapporto tra fattori personali
e sociali, quali l’acquisizione di competenze linguistiche che permettono di scrivere
testi complessi in inglese, il prestigio e la (percepita) ricezione a livello internazio-
nale dei testi redatti in lingue diverse dall’inglese.
In questo contesto, un ruolo cruciale è quello svolto dalla parte anglofona della
comunità accademica, a volte apertamente accusata di uno «sciovinismo bibliogra-
fico» (Sobrero, 2006, pp. 10-11) che, insieme ad altri fattori, può portare anche a
una «skewed accumulation of scientific knowledge» (‘accumulo distorto del sapere
scientifico’, Ammon, 2012, p. 342). In questa sede si vuole indagare sul peso attri-
buito dagli studiosi statunitensi alla bibliografia non anglofona, raccogliere qualche
informazione sulla sua ricezione e cercare di fare qualche ipotesi sulla possibile
evoluzione futura. I contributi redatti in lingue diverse dall’inglese hanno un presti-
gio paragonabile a quello delle pubblicazioni in inglese, almeno in alcune disci-
pline? In che misura i ricercatori anglofoni leggono articoli e libri in altre lingue? Si
percepiscono eventuali barriere linguistiche? Sussiste una consapevolezza della
realtà multilingue della disciplina e qual è l’atteggiamento mostrato nei confronti
del multilinguismo?
di un campione di studiosi avanzati nella carriera, con una lunga esperienza nella ri-
cerca (bibliografica). Di meno sono invece i giovani che hanno finito il loro dotto-
rato negli anni ’90 oppure dopo il 2000 (rispettivamente 4 e 5 studiosi). Dato il nu-
mero esiguo di partecipanti, non sono state adoperate suddivisioni in sottogruppi.
Il primo blocco, composto da 11 domande (tabella 1, figg. 1-10), mira a de-
scrivere la percezione dell’uso delle lingue, mentre nel secondo, con 7 domande
(figg. 11-17), si raccolgono informazioni sull’atteggiamento nei confronti del mul-
tilinguismo e le prospettive future. Le domande sono state formulate in modo da
evitare il diretto riferimento alle qualità personali dei partecipanti (per esempio alle
competenze linguistiche), mentre è stata data la possibilità di fornire commenti li-
beri (con un esplicito invito a farlo alla fine del modulo); è stato inoltre garantito un
trattamento anonimo dei dati.
Le domande che seguono (figg. 1-2) riguardano l’uso passivo della lingua
nelle università americane e precisamente la bibliografia ritenuta importante da pro-
fessori universitari per l’insegnamento e ai fini della ricerca. La maggior parte di
questi afferma di chiedere agli studenti di leggere opere in lingue straniere (fig. 1) e
le lingue (fig. 2) corrispondono esattamente a quelle richieste dai loro colleghi eu-
ropei (Hempel 2011, pp. 58-59; 2012, pp. 77-79): tedesco, francese, italiano, greco
moderno, spagnolo e turco, anche se alcuni intervistati sottolineano che queste pos-
sono variare a seconda del campo o del tema concreto della ricerca.
Figura 1: Risposte alla domanda “Do you require your students to read archaeological litera-
ture in languages other than English (e.g. for their thesis?)”.
Dalle risposte risulta però che si tende – diversamente da quanto avviene nei
Paesi europei – a differenziare tra studenti dei corsi triennali e del biennio
successivo (in Germania, ad esempio, le lingue straniere sono solitamente richieste
per tutti gli studenti). La barriera linguistica è quindi sentita più come un problema,
come si evince anche da alcuni commenti dei partecipanti al riguardo:
Rarely; as the majority of my classes are freshmen survey classes (100-level), most of
the students do not have a sufficient mastery of foreign languages to allow them to read
non-English scholarly papers
1
Le abbreviazioni delle riviste sono quelle raccomandate dall’Istituto Archeologico Germa-
nico, v. http://www.dainst.org/sites/default/files/media/abteilungen/zentrale/redaktion/Richtlini-
en/02_liste-abkuerzungen.pdf?ft=23 (10/06/2013).
282 KARL GERHARD HEMPEL
Figura 2: Risposte alla domanda “Do you require your students to read archaeological litera-
ture in languages other than English (e.g. for their thesis?) -If so, in which languages?”
We (US faculty members) can require (and do require) graduate students to learn for-
eign languages. But your survey fails to account for the majority of the students that we
teach: undergraduates. Almost none of them knows German, certainly not German and
French and Italian. This makes it very difficult to teach a class that incorporates the
most important and the latest research. If Classical Archaeology in American is to re-
main a vibrant field, we must attract very bright undergraduates. We can only do this by
presenting them with the best literature and the most important debates in the field. But
this is usually impossible because of the language barrier.
Nel secondo commento è espressa inoltre l’opinione che la qualità della ricerca
archeologica e dell’insegnamento in America dipenda in qualche maniera dalla pos-
sibilità di recepire opere scientifiche in lingua straniera. Tale quadro si completa
prendendo in considerazione le due domande riferite all’uso della lingua per le pub-
blicazioni in archeologia classica e alla dinamica degli ultimi decenni (figg. 4-5):
pur essendo usato meno di due decenni orsono, il tedesco è visto dagli intervistati
come importante quanto l’inglese, seguito dal francese e dall’italiano, mentre al-
cune altre lingue (soprattutto lo spagnolo e il turco) appaiono in aumento – un ri-
sultato che corrisponde abbastanza bene alle idee riscontrate nel sondaggio presso
gli archeologi europei (Hempel, 2011, pp. 60-62; 2012, pp. 80-82).
Alcuni degli intervistati forniscono ulteriori commenti a queste domande che
evidenziano ancora una volta la necessità di leggere la bibliografia archeologica in
lingua straniera per scopi di ricerca, a seconda della tematica trattata:
It ist not possible to study Roman architecture or sculpture without German as well as
English. Many excavation reports are in French or Italian or modern Greek.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 283
Figura 3: Risposte alla domanda “Which languages are actually mostly used for publications
in Classical Archaeology (in order of importance)?”
Figura 4: Risposte alla domanda “To your knowledge, are there any languages today which
were used in literature on Classical Archaeology more or less than 20 years ago? - If so,
which ones?”
[…] there is not one language more important than another, particularly in the subfields.
You can’t be a Romanist (as I often am) without Italian; for Archaic Greece, it drops
down the list. In my Anglophone world command of French, German, Italian are seen
as indispensable
284 KARL GERHARD HEMPEL
[…] If you work (conduct fieldwork or contextually based studies) in Greece or Italy, and
since current fieldwork is dominated by local archaeological authorities and universities in
those countries, then it is paramount that you read Greek and Italian (most basic reports
are in these languages); and then English, French and German for the basic fieldwork of
the foreign schools. The most comprehensive handbooks and compendious synthetic and
descriptive or synoptic studies are written in German (e.g., sculpture) and French (e.g.
architecture); most theoretical approaches and culture histories are in English and so on.
[…]
Figura 5: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists keep
themselves informed about new non-English publications in their field?”
Figura 6: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists read
non-English books (e.g. entire articles/books)?”
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 285
Figura 7: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists read
non-English books (e.g. entire articles/books)? -If so, in which languages?”
Altri partecipanti invece ci informano del problema particolare che gli studiosi
negli Stati Uniti, a causa delle politiche bibliotecarie, a volte hanno difficoltà ad ot-
tenere le informazioni necessarie per le loro ricerche:
I think many try to stay abreast, but not all succeed. U.S. university libraries have had
their budgets cut severely, and foreign publications are often the first to go. Free access
to digital publications would help enormously.
Part of the problem in working in other languages is the cost of the publications – aca-
demic libraries are not buying materials as they used to, especially if the work will
‘only’ benefit a couple of researchers at a University, and materials are costly for an in-
dividual, even if one can find out about them […]
To some extent American scholars are at the mercy of the buying policies of their uni-
versity libraries. Librarians prefer to buy books in English; they don’t mind buying
286 KARL GERHARD HEMPEL
books in French too much because they probably studied French at some point, it is
much harder to get them to buy in German and especially Italian. The argument is that
the students will not read those books and it makes no sense for the library to buy for
only one person (i.e. the person requesting the book). It becomes harder and harder for
scholars in US institutions that do not have a dedicated program in archaeology to keep
up with non-English publications unless we receive regular circulars from non-English
publishers. Non-English publications seem also to be published in shorter runs and to
go out of print faster so we often miss getting them when they are available. […]
Figura 8: Risposte alla domanda “Do you feel the knowledge of research-relevant foreign
languages on the part of US archaeologists has increased or decreased during the last 20
years?”2
2
Alcuni dei partecipanti hanno fornito risposte diverse riferite a lingue diverse. Per il grafico,
ogni singola risposta è stata conteggiata, per cui il numero totale di risposte supera il numero dei
partecipanti al sondaggio.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 287
Figura 9: Risposte alla domanda “Do you feel the knowledge of research-relevant foreign
languages on the part of US archaeologists has increased or decreased during the last 20
years? -If so, in which ones?”
Figura 10: Risposte alla domanda “As far as you know, non-English publications in US
academic practice are considered as more or less important than English ones (e.g. in selec-
tion procedures, evaluations and assessments)?”
Decreased; all languages; with the extensive use of translatable programs such as
Google, personal knowledge of foreign languages has been reduced. Now, people are
increasingly having their computers translate for them, thus circumventing the need to
know the language personally
through the Phd [sic] in 6 years. Unless they have somehow bucked the trend and ac-
quired languages earlier, in spite of these impediments, it is impossible for them to do a
serious degree in Classical Archaeology (with proper language training) in that period
of time. In my youth, students were still expected to have some at least passing
knowledge of a foreign language to enter or at least to graduate from college. […].
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 5 10 15
Figura 11: Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Specialised
communication in humanities is different from that in exact sciences.”
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 289
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 2 4 6 8 10 12 14
Figura 12:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -The linguistic features
(such as form and style) of scientific publications in humanities are important.”
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 5 10 15 20 25 30
Figura 13:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Classical archaeologists
should know foreign languages, in order to be able to read publications written in languages
other than their mother tongue”.
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18
Figura 14:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -English-speaking
classical archaeologists should read more non-English publications.”
290 KARL GERHARD HEMPEL
La nostra indagine si conclude con tre domande (figg. 15-17) relative alle opi-
nioni sul futuro della comunicazione multilingue in archeologia classica e sugli
obiettivi di eventuali politiche linguistiche. È interessante notare come i pareri su un
eventuale monolinguismo anglofono nella comunicazione specialistica in archeolo-
gia classica siano altamente divise (fig. 15): circa la metà dei partecipanti dichiara
di non avere un’opinione precisa. La maggioranza di quelli che esprimono un
parere, tuttavia, tende verso una visione monolinguistica, accettando in tal modo
l’idea di un uso generalizzato dell’inglese nel futuro.
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 5 10 15
Figura 15:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -In the future English
will be the only language used for scientific communication in Classical Archaeology.”
Having a shared scholarly language makes international research and cooperation much
easier. English has begun to play that role across the last thirty years, but it’ll be a long
time before it becomes the only important language in the field (perhaps another thirty
years).
I doubt it will come to this. In Greece, the move is in the opposite direction, with jour-
nal [sic] such as AEMTh taking central place for regional studies.
Un’immagine più uniforme risulta dalle risposte alle domande successive ri-
guardanti l’atteggiamento verso l’uso della lingua da parte di studiosi non anglofoni
e di eventuali misure di politica linguistica che potrebbero indurre loro a passare all’
inglese (figg. 16-17). Quasi tutti i partecipanti rifiutano l’idea di obbligare i colleghi
a usare l’inglese, mentre la stragrande maggioranza respinge anche l’eventuale
promozione dell’inglese come lingua accademica attraverso politiche specifiche,
per cui l’idea generale appare quella di un passaggio verso l’inglese, che però non
dovrebbe essere ulteriormente agevolato.
I numerosi (e talvolta estesi) commenti alle ultime due domande, come pure i
commenti finali riferiti all’intero questionario mostrano una serie di argomentazioni
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 291
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 2 4 6 8 10 12 14 16 18
Figura 16:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Non-English speaking
classical archaeologists should publish the results of their research activities in English.”
strongly agree
agree
disagree
strongly disagree
0 2 4 6 8 10 12
Figura 17:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Language policy should
adopt measures to encourage the use of English for scientific communication in Classical
Archaeology”.
e motivi discorsuali ricorrenti che possono essere riassunti come segue: (1) una lin-
gua veicolare sarebbe utile, ma (2) non politicamente (o eticamente) corretta, per di
più (3) non risolverebbe il problema della bibliografia pregressa che comunque
deve essere consultata, formatasi nel tempo in quanto l’archeologia classica è stata
multilingue dai suoi albori, dando vita a varie tradizioni accademiche che devono
essere rispettate. (4) Gli archeologi non anglofoni devono affrontare difficoltà du-
rante la scrittura di testi accademici complessi non redatti nella loro lingua madre
(correndo anche il rischio di un inglese ‘cattivo’), per cui (5) l’uso dell’inglese
come lingua veicolare dovrebbe essere limitata alla comunicazione in congressi in-
ternazionali. (6) I giovani studiosi europei, tuttavia, potenzialmente interessati
all’accesso al mercato del lavoro accademico degli Stati Uniti potrebbero sentirsi
obbligati a produrre pubblicazioni in lingua inglese. Alcuni dei commenti che
esprimono tali pensieri sono i seguenti:
292 KARL GERHARD HEMPEL
While I’d be delighted if everything were written in English (and whereas English is a
fairly good scientific language because of both its extensive vocabulary choices and its
grammatical specificity), I think it extremely arrogant to force anyone to write in other
than her/his native tongue. […].
I still believe that it is important for classical archaeologists to be multi-lingual. Re-
quiring English is a form of ‘cultural imperialism’
Scholars should enjoy the freedom to publish in whatever language they wish to pub-
lish. This is an element of academic freedom
Obviously it would be more convenient for those of us who use English natively, but
practically this cannot work. Not having to read a foreign language would make ar-
chaeological work much easier for anyone. But there is no ethical way to argue that one
language should be given preference. With all of us being required to read scholarly
material in whatever language it appears, all of us face the same challenge. Moreover,
even if one could enforce such an exclusion, it would not address the vast body of
scholarship in various languages, which one still has to deal with. Thus, little would be
gained by decreeing that from now on only one language can be used.
Classical Archaeology has been an international, multi-lingual discipline from its be-
ginnings in the 18th c. The field would not benefit from changing this, and even if eve-
rything were written in English from now on, students and scholars would still need to
read the older publications.
I don’t think your study takes into account the need of scholars to examine old publica-
tions. We will always have to learn French, German, Italian, Russian, Greek, etc. to
look at the primary data collected in the 19th and 20th centuries. […].
I have had the job of editing submissions in English from scholars for whom English is
not the mother tongue. I would have preferred them to have written in their mother
tongue! Even if English is used increasingly in academic publishing, reading recent ar-
ticles is only a small part of a scholar’s job. He/she should be fluent in German, Italian,
and French.
Although it would be most convenient for us (and our students) to have everything
published in English, I respect the right of foreign nationals to use their own lan-
guage(s)--not least because sophisticated communication in the humanities is difficult
enough without the extra burden of doing it in a foreign tongue. If non English speakers
want their voices and ideas to be heard, read, disseminated, and discussed, however, as
a matter of practicality these languages should be restricted to the four or five listed
above. Conferences are another matter.
We have seen at conferences that English is becoming a way for an Italian, French,
German, Turkish, Israeli, Greek etc scholars to communicate with one another: having
English as a second language helps enormously to share information, across all the lan-
guage communities. For the languages not well studied at all internationally for the hu-
manities, like Polish or Dutch or Arabic or Hebrew etc, publishing in one of the four
major scholarly languages (English, French, German, Italian) is indispensable to make
an impact, in any case. […].
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 293
North America, and to some extent, the UK and Australia, remains a source of graduate
training grants and jobs that young scholars from around Euope [sic] and UK wish very
much to penetrate to get a good degree, and a job, especially from the countries with the
most corrupt and restricted systems for job procural and promotion: for career, being
able to speak scholarly English and perhaps even to write in it (or pay a translator) is in-
creasingly valuable for the survival of brilliant young people. […].
The US job market, although not great at the moment, may offer more opportunities
than the European market, in which case there is pressure on potential European appli-
cants to publish in English, both to demonstrate their language skills and to get a careful
read from committees reviewing their dossiers (committee members are frequently not
in classical archaeology— we are not as specialized here as in Europe). […]
3. CONCLUSIONI
Dalla nostra indagine risulta che l’atteggiamento degli archeologi classici negli
Stati Uniti (almeno di quelli che hanno risposto al nostro questionario) verso il
multilinguismo presenta caratteristiche sorprendentemente simili a quelle riscon-
trate tra gli studiosi europei; simili sono anche le argomentazioni sviluppate a so-
stegno delle loro idee. La maggior parte dei partecipanti è convinta che la comuni-
cazione specialistica nel campo al momento non può e non deve diventare
monolingue per diversi motivi saldamente radicati nella tradizione e nelle peculia-
rità della prassi accademica, come ad esempio il frequente riferimento alla lettera-
tura specializzata di vecchia data e l’importanza cruciale del lavoro sul campo nei
paesi classici, le cui lingue sono utilizzate anche per le pubblicazioni.
Per quanto riguarda il futuro sviluppo del multilinguismo, i pareri tra gli ar-
cheologi americani non sono unanimi; ma tale tendenza potrebbe essere dovuta non
tanto all’osservazione di quanto succede effettivamente in ambito accademico, ma
alla prevalenza di una posizione ideologica che attribuisce all’inglese un ruolo di
primo piano in tutti i settori chiave come l’economia, la ricerca scientifica e lo svi-
luppo tecnologico. Tale posizione agli occhi di molti, nonostante la situazione lin-
guistica particolare di determinate discipline, porterebbe nel futuro ad un inelutta-
bile dominio dell’inglese su tutto. Una tendenza simile si osserva anche tra gli
studiosi di lingua tedesca e italiana: una maggioranza di questi ultimi esprime forte
preoccupazione circa il futuro della lingua madre (Hempel , 2011, pp. 73-75; 2012,
pp. 101-104).
Gli archeologi classici negli Stati Uniti, tuttavia, sembrano sentire in maniera
più marcata rispetto ai loro colleghi europei alcune barriere comunicative legate al
carattere multilinguistico della materia. Nelle loro risposte alle nostre domande
sottolineano alcune difficoltà specifiche incontrate nell’insegnamento accademico,
in particolare con i laureandi, a causa di una progressiva perdita delle abilità lingui-
stiche nell’educazione scolastica negli Stati Uniti. Inoltre, alcuni degli intervistati
lamentano ostacoli materiali che impediscono loro di rimanere al passo con i più
recenti risultati della ricerca, in quanto le librerie si rifiutano di acquistare opere
294 KARL GERHARD HEMPEL
Many of my colleagues in the US are indeed fighting hard against the loss of know-
ledge of foreign languages among students and, generally, against a endency in the
American academia to acknowledge or even establish English as the only academic
language. […] And since I am teaching in the US it became very obvious that there are
no explicit attempts to establish English as the global academic language in Classical
Archaeology, but rather an overall development to privilege English scholarship on
reading lists, in bibliographies, in footnotes, in the acquisition policy of libraries, etc., a
tendency which is very obviously not based on an assessment of the international im-
portance or the amount of scholarly contributions in English, [but] resulting from an in-
creasing neglect of consulting international scholarship as well as from the inability to
read any foreign languages.
Per far luce sull’effettiva ricezione della bibliografia, sarebbero tuttavia neces-
sarie ulteriori ricerche basate sull’analisi delle citazioni, sulla scia di un interessante
studio sullo sviluppo dei riferimenti bibliografici presenti in alcune riviste statuni-
tensi di filosofia, linguistica, filologia classica e storia (Kellsey, Knievel 2004). Da
questa ricerca risulta che l’uso mirato della bibliografia non anglofona da parte de-
gli studiosi negli ultimi decenni è sostanzialmente costante, e si può supporre che la
tendenza in archeologia classica sarà simile.
Le barriere comunicative all’interno della comunità scientifica potrebbero es-
sere parzialmente rimosse garantendo un facile accesso alle informazioni sugli svi-
luppi nelle altre macroculture, p.es. con l’utilizzo di specifici rapporti in lingua in-
glese sulle ricerche nei Paesi non anglofoni, come è stato recentemente suggerito da
Ulrich Ammon (2012, pp. 350-352). Una misura del genere, come altre simili che
già sono diffuse in archeologia e nell’antichistica in generale (si pensi p.es. alla pre-
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 295
senza di riviste con recensioni in inglese come il Bryn Mawr Classical Review,
all’aggiunta di abstract in lingua inglese oppure ad occasionali traduzioni), non di-
spenserebbe comunque gli utenti dall’acquisizione e dal miglioramento delle loro
conoscenze linguistiche.
A mio parere, le caratteristiche strutturali dell’organizzazione della ricerca in-
sieme agli atteggiamenti degli studiosi diffusi in diverse macroculture, dànno una
certa garanzia che l’archeologia classica possa (almeno a livello di pubblicazioni)
rimanere una disciplina multilingue per il futuro prevedibile. Decisiva in tal senso
sarà soprattutto la convinzione dei non-anglofoni di voler continuare a utilizzare la
propria lingua madre, nonostante qualche possibilità in meno di vedere i propri
contribute recepiti nella comunità scientifica. Anche dal punto di vista degli ar-
cheologi anglofoni, la responsabilità ultima ricade su chi pubblica e pertanto sceglie
anche la lingua, come risulta dal seguente commento di un archeologo statunitense
sugli atteggiamenti dei suoi colleghi europei verso l’uso della lingua:
As an American classical archaeologist who has lived and worked in Germany for a
number of years, I am acutely aware of the issue you are investigating. In my view, the
Germans are complicit in the demise of German as a scholarly language by being
overly eager to give papers and publish in English
A questo punto potrebbe essere rassicurante notare come gli archeologi clas-
sici, siano questi americani o europei, nonostante qualche difficoltà, siano costanti
nel sostenere il multilinguismo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Ammon Ulrich, Ist Deutsch noch internationale Wissenschaftssprache? Englisch für die
Lehre an den deutschsprachigen Hochschulen, Berlino, De Gruyter, 1998.
Ammon Ulrich, Entwicklung der deutschen Wissenschaftssprache im 20. Jahrhundert und
die Zukunftsperspektive, in Debus Friedhelm, Kollmann Franz Gustav, Pörksen Uwe (a
cura di), Deutsch als Wissenschaftssprache im 20. Jahrhundert, Stuttgart, Steiner, 2000,
pp. 59-80.
Ammon Ulrich, Linguistic inequality and its effects on participation in scientific discourse
and on global knowledge accumulation-With a closer look at the problems of the second-
rank language communities, «Applied Linguistics Review» a. 3, n. 2, 2012, pp. 333-355.
Behrens Julia, Fischer Lars, Minks Karl-Heinz, Rösler Lena, Die Internationale Positionie-
rung der Geisteswissenschaften in Deutschland. Eine empirische Untersuchung, Hoch-
schul Informations System GmbH, Hannover, 2010.
http://www.bmbf.de/pubRD/internationale_positionierung_geisteswissenschaften.pdf
(10/06/2013).
Calaresu Emilia, Guardiano Cristina, Hölker Klaus (a cura di), Italienisch und Deutsch als
Wissenschaftssprachen. Bestandsaufnahmen, Analysen, Perspektiven/Italiano e tedesco
come lingue della comunicazione scientifica. Ricognizioni, analisi e prospettive, Berlino,
296 KARL GERHARD HEMPEL
LIT, 2006.
Carli Augusto, Ammon Ulrich (a cura di), Linguistic Inequality in Scientific Communication
Today, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 2007.
Ehlich Konrad, The Future of German and other Non-English Languages of Academic
Communication, in Gardt Andreas, Hüppauf Bernd (a cura di), Globalisation and the
Future of German, Berlino, de Gruyter, 2004, pp. 174-185.
Ehlich Konrad, Mehrsprachigkeit in der Wissenschaftkommunikation – Illusion oder Not-
wendigkeit?, in Ehlich Konrad, Heller Dorothee (a cura di), Die Wissenschaft und ihre
Sprachen, Frankfurt, Peter Lang, 2006, pp. 17-38.
Hamel Rainer Enrique, El español en el campo de las ciencias: propuesta para una politica
del lenguaie, in Congresso Internacional sobre Lenguas Neolatinas en la Comunicazión
Especializada, Centro de Estudios Lingüisticos y Literarios, Agence Intergouver-
namentale de la Francophonie, México, El Colegio de México, Unión Latina, 2005, pp.
87-112.
http://www.hamel.com.mx/ArchivosPublicaciones/2005%20El%20espanol%20en%20el
%20campo%20de%20las%20ciencias%20%20Propuestas%20para%20una%20politica
%20del%20lenguaje.pdf (10/06/2013).
Hempel Karl Gerhard, Nationalstile in archäologischen Fachtexten. Bemerkungen zu ‘Stilbe-
schreibungen’ im Deutschen und im Italienischen, in Ehlich Konrad, Heller Dorothee (a
cura di), Die Wissenschaft und ihre Sprachen, Linguistic Insights 52, Frankfurt, Peter
Lang, 2006, pp. 255-274.
Hempel Karl Gerhard, Presente e futuro del plurilinguismo nelle scienze umanistiche. Il tede-
sco e l’italiano in archeologia classica, «Lingue e Linguaggi», a. 6, 2011, pp. 49-88.
http://sibaese.unisalento.it/index.php/linguelinguaggi/article/view/11644/10620
(10/06/2013).
Hempel Karl Gerhard, Gegenwart und Zukunft der Mehrsprachigkeit in den Geisteswissen-
schaften. Deutsch und Italienisch in der Klassischen Archäologie, «trans-kom», a. 5, n. 1,
2012, pp. 60-123.
http://www.trans-kom.eu/bd05nr01/trans-kom_05_01_04_Hempel_Mehrsprachigkeit.
20120614.pdf (10/06/2013).
Hornung Antonie (a cura di), Lingue di cultura in pericolo-Bedrohte Wissenschaftssprachen.
L’italiano e il tedesco di fronte alla sfida dell’internazionalizzazione-Deutsch und Italie-
nisch vor den Herausforderungen der Internationalisierung, Tübingen, Stauffenburg,
2011.
Kaplan Robert, English – the Accidental Language of Science?, in Ammon Ulrich (a cura di),
The Dominance of English as a Language of Science, Berlino-New York, de Gruyter,
2001, pp. 3-26.
Kellsey Charlene, Knievel Jennifer E., Global English in the Humanities? A Longitudinal
Citation Study of Foreign-Language use by Humanities Scholars, «College & Research
Libraries», a. 65, n. 3, 2004, pp. 194–204.
http://crl.acrl.org/content/65/3/194.full.pdf (10/06/2013).
Oksaar Els, Skudlik Sabine, von Stackelberg Jürgen, Gerechtfertigte Vielfalt. Zur Sprache in
den Geisteswissenschaften, Darmstadt, Luchterhand, 1988.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 297
Lingua e emigrazione italiana nel mondo: per uno spazio linguistico italiano
globale
milioni di stranieri adulti e bambini che le parlano, la retorica sulle fortune dell’ita-
liano nel mondo, il rifiuto nel riconoscere alla nostra lingua un ‘destino internazio-
nale’ capace di generare una forte industria linguistica capace di creare posti di la-
voro; la sistematica scissione operata fra la lingua e la ‘cultura’ con la conseguente
limitazione dello spazio linguistico italiano nel mondo alla sola dimensione cultu-
rale intellettuale. Qual è questo filo conduttore che accomuna una gran parte della
società e delle istituzioni? Il rifiuto del multilinguismo come valore, la paura ‘babe-
lica’ delle lingue degli altri, la mancata assunzione di responsabilità di doverci con-
frontare con gli altri attraverso le lingue -quali che esse siano.
Questo nostro contributo si ricollega all’esperienza che in anni ormai lontani –
eravamo alla fine degli anni Settanta – mise lo scrivente in contatto con Norbert
Dittmar, che guidava presso l’Università di Heidelberg il Pidgin-Gruppe, che stu-
diava i processi linguistici che vedevano impegnata la nostra emigrazione
nell’allora Repubblica Federale di Germania, in un momento di svolta i cui esiti
solo oggi ci appaiono chiari1. Il lavoro di Dittmar costituì un punto di riferimento
per coloro che negli anni immediatamente successivi si trovarono a studiare i pro-
cessi linguistici dell’allora nuovo fenomeno dell’immigrazione straniera in Italia.
La svolta epocale era data da quel fenomeno, che allora cominciava e che ora sta
strutturalmente cambiando l’identità della società italiana anche dal punto di vista
linguistico2: il mondo iniziava a caratterizzarsi sul piano culturale e linguistico di
quei tratti di ‘globalità’ che erano funzione dei processi di globalizzazione che orai
muovono merci e persone creando costellazioni di contatti come mai forse prima
nella storia del genere umano. E insieme alle merci e alle persone entrano in con-
tatto, sono entrati nelle realtà linguistiche locali nuovi idiomi come mai prima è av-
venuto, per lo meno in maniera tanto massiccia e sistematica.
Il mondo globale o post-globale appare caratterizzato dalla infinita mobilità
delle persone e delle loro lingue; si tratta di un mondo che ha trovato un equilibrio a
livello di funzioni strumentali in un idioma di uso globale (adesso l’inglese, domani
– chissà – magari il cinese), ma che vede comunque crescere, con il contatto, la cu-
riosità verso le lingue degli altri. Di tale situazione è segnale la sempre crescente
industria delle lingue, crescente nonostante le crisi3.
1
I risultati del progetto ISFOL-ME-DI/Sviluppo che ci permise di collaborare con il Pidgin-
Gruppe sono contenuti in AA.VV., 1980.
2
La bibliografia degli studi linguistici che hanno preso come loro oggetto (o anche -saussu-
rianamente - come loro materia) l’immigrazione straniera sono ormai moltissimi anche in Italia, e
questa non è la sede nemmeno per una loro sommaria ricognizione. Sulla dimensione ormai strut-
turale, anche dal punto di vista linguistico, dell’immigrazione straniera in Italia ci permettiamo di
rinviare a Vedovelli, 2012.
3
Gli studi sull’industria delle lingue costituiscono un capitolo rilevante dell’azione della
Commissione Europea; per una ricognizione ampia v. Rinsche, Portera Zanotti, 2009.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 301
L’infinita mobilità delle persone nel mondo globale mette in contatto gli
idiomi come non mai, creando nuove configurazioni di diversità che Vertovec
(2006, 2007, 2010) definisce di ‘superdiversità’, e che generano situazioni di super-
contatto linguistico (Barni, Vedovelli, 2009, 2011). In questo movimento infinito la
stessa nozione di ‘emigrante’ trova difficoltà a definirsi con specificità, al punto che
l’iperonimo migrante oggi tende a sostituire i termini emigrato-immigrato, segna-
lando in tal modo la difficoltà di determinare un cristallizzato assetto identitario sul
piano sociale, culturale e linguistico4.
Nuovi modelli concettuali sono elaborati per dare conto di nuove realtà; vec-
chie vergogne – il lasciare la propria terra, per trovare fortuna altrove, vista come
una sconfitta – persistono e connotano di sé anche le parole. Eppure, proprio in que-
sto contesto il processo del migrare emerge nella sua rilevanza, nella sua specificità
e insieme nella sua capacità di ridisegnare gli assetti identitari delle società, le loro
culture, le loro lingue. I processi migratori sono in grado, allora, di catalizzare una
gamma di questioni molto vasta e di diventare banco di prova delle scelte indivi-
duali, sociali, istituzionali nei confronti dei contatti fra lingue e culture, delle politi-
che di multilinguismo, delle prassi educative nel campo della comunicazione inter-
culturale. Il migrare diventa paradigma di ogni contesto dove la diversità delle lin-
gue e culture ridefinisce gli assetti individuali e collettivi.
La dimenticanza verso l’emigrazione italiana nel mondo, sia nel momento ce-
lebrativo dell’unità nazionale, sia negli anni – i nostri – in cui essa è ricominciata,
appare il segnale di un problema più vasto: quello della società italiana nei confronti
della sua eredità storica multilingue e nei confronti della sua attualità, dove è chia-
mata a proporsi con una sua identità entro le dinamiche del mondo globale.
Così, proprio a fronte di quella istituzionale dimenticanza verso l’emigrazione
italiana nel mondo, nel 2011 pubblicammo la prima Storia linguistica dell’Emi-
grazione Italiana nel Mondo – la SLEIM.
4
M. Tirabassi ha proposto di sintetizzare in glob-migrants, e di applicarla agli italiani,
l’espressione global migrants che si sta diffondendo per indicare i professionisti che vanno a collo-
care le proprie competenze in altri Paesi (comunicazione in occasione del Convegno organizzato
presso l’Università di Cassino da The Edinburgh Gadda Prize il 6 maggio 2013 sul tema No-
Where-Next / War-Diaspora-Origin. Convergenze ed esplorazioni di metodo intorno all’emigra-
zione italiana). Sul concetto di ‘mercato globale delle lingue’ v. Calvet, 2002 e De Mauro,
Vedovelli, Barni, Miraglia, 2002.
302 MASSIMO VEDOVELLI
5
Tra le ricognizioni bibliografiche ricordiamo Tassello, Vedovelli, 1996 e Vedovelli, Villa-
rini, 1998, o il più recente Bettoni, Rubino, 2010; Krefeld, 2004 fonda un autonomo campo di stu-
dio entro le scienze del linguaggio: la Migrationslinguistik, Linguistica Migratoria/Migrazionale.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 303
riva sempre più netta l’idea che la riconfigurazione degli assetti idiomatici nazionali
non potesse andare unicamente e univocamente verso una omogeneizzazione capace
di annullare ogni idioma, ogni voce dissonante. Così, anche sotto la spinta della diffu-
sione degli studi dell’allora fiorente scienza sociolinguistica, il modello dello ‘spazio
linguistico’ dava forma a un volto linguistico italiano nuovo e insieme tradizionale
nella pluralità dei poli idiomatici costitutivi. Che oggi, proprio sotto la spinta dei mo-
vimenti di immigrazione straniera che riguardano l’Italia, si parli di ‘spazio linguistico
nazionale quadripolare’, considerando anche il polo delle lingue immigrate, conferma
la forza descrittiva e interpretativa del modello.
Che cos’è lo spazio linguistico? È un insieme in cui l’eterogeneità delle entità
fattuali viene ordinato in fatti omogenei secondo parametri. I fatti diventano omo-
genei proprio grazie ai parametri, e sono costituiti dalle lingue, dagli idiomi, dalle
varietà e dai registri linguistici che caratterizzano gli usi espressivi e comunicativi
della comunità linguistica nazionale.
Lo spazio in cui ci muoviamo con frasi e parole, lo spazio linguistico, non è il caos. Ci
sono degli ordini. Saper usare le parole significa essere consapevoli sia di questa grande
libertà che le parole ci danno sia dell’ordine, o meglio degli ordini, dello spazio lingui-
stico. (De Mauro, 1983, p. 102).
I parametri sono principi d’ordine per la materia linguistica, per il ‘caos’: sono
utilizzabili sul piano teoretico, della descrizione e interpretazione scientifica dei
fatto linguistici, e allora producono il modello dello spazio linguistico, ovvero la
costruzione teorica capace di organizzare sinotticamente e sincronicamente le varie
dimensioni degli usi linguistico-comunicativi nella competenza individuale e a li-
vello collettivo. In questo caso lo spazio linguistico è modello del repertorio idio-
matico. Sono utilizzabili a livello del singolo locutore, e ciò implica, come locutore,
il coinvolgimento della sua coscienza linguistica, il suo porsi sul piano metalingui-
stico dove si attua la riflessione sugli usi espressivo-comunicativi: è proprio tale
piano uno degli oggetti primari dell’azione formativa, mirante a dare ai locutori /
apprendenti gli strumenti e le guide per estendere la consapevolezza nella gestione
degli usi linguistici. Saper usare le parole e le frasi significa, nella prospettiva indi-
cata da De Mauro, muoversi scegliendo i mezzi per raggiungere gli scopi espressivi
e comunicativi che ci si propone: tanto più vasto sarà il bagaglio di tali mezzi a di-
sposizione, tanto migliore e più adeguata potrà essere la scelta (atto ‘etico’ fondante
l’attività espressiva) e perciò il risultato dell’evento espressivo-comunicativo.
Banfi (2008) allarga alla dimensione sincronica i confini dello spazio linguistico:
sola italiana (italiano standard, italiani regionali, italiano popolare, dialetti italo-ro-
manzi, lingue ‘altre’) e, in prospettiva diacronica, l’insieme delle varietà linguistiche
che, nel corso dei secoli, hanno caratterizzato la storia linguistico-culturale della nostra
penisola, baricentro del Mediterraneo.
6
Sui panorami linguistici urbani globali e sulla posizione dell’italiano al loro interno v.
Hélot, Barni, Jannsens, Bagna, 2012.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 309
nuove le dinamiche e gli attori per il fatto che esiste ed è fortemente dinamico un
mercato globale delle lingue-culture-società-economie.
Lingue immigrate:
˗ lingue di origine degli stranieri immigrati in Italia (usi intracomunitari, ex-
tracomunitari, usi mistilingue).
Al primo asse, sul quale si dispongono i tre poli del dialetto, dell’italiano, della
lingua del Paese di vita degli emigrati e dei loro discendenti, ne corrisponde un altro
che vede dislocarsi le scelte da parte degli utenti sulla base delle funzioni generali
dell’idioma selezionato. I poli che vi sono coinvolti sono quello della lingua etnica,
della lingua identitaria e della lingua nazionale del Paese, intendendo con questa
espressione l’idioma usato nel tessuto quotidiano dell’interazione con locutori che
non siano italiani o discendenti di italiani.
Le scelte linguistiche si caricano, così, di valori simbolici, facendo assurgere le
lingue scelte a emblemi, a simboli dei ruoli che i locutori svolgono, proprio con le
loro scelte idiomatiche, entro la società del Paese. Tali scelte non sono mai collo-
cate fuori da contesti relazionali, e pertanto i tre poli della lingua etnica, identitaria,
nazionale si articolano in contesti in cui le scelte di uso linguistico hanno maggiori
probabilità di occorrenza.
Questo secondo asse si struttura, allora, nel modo seguente.
Lingua etnica (v. immagine n. 7):
˗ contesti familiari (gruppi di emigrati italiani)
˗ contesti intracomunitari (comunità degli emigrati italiani, su base paesana
o sovralocale)
˗ rapporti con la comunità di origine in Italia
˗ contesti dei panorami linguistici urbani (connotazioni etniche nella ristora-
zione e negli altri settori a forte valenza identitaria originaria).
Lingua identitaria:
˗ contesti ufficiali istituzionali (rapporti con le rappresentanze consolari,
vita dell’associazionismo di emigrazione nei rapporti con l’Italia)
˗ contesti formativi (attività linguistico-culturali rivolte ai discendenti degli
emigrati italiani)
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 311
All’elenco dei mezzi/canali della comunicazione che, in base alla loro natura e
alle costrizioni che impongono alla strutturazione del testo, è presentato in De
Mauro (1983) riteniamo opportuno aggiungere altri tratti che discendono da un lato
dai generali cambiamenti intervenuti nelle tecnologie, e che dall’altro sono presenti
in modo specifico nei contesti di emigrazione italiana nel mondo. Rimangono nel
modello dello spazio linguistico italiano globale i canali del parlato a voce e
dell’endofasia, ma quello dello scritto assume tratti diversi. Può mantenersi lo
scritto a mano, comunque sempre più limitato, soprattutto nei sistemi scolastici
all’estero e presso i giovani, dal ricorso alle tecnologie avanzate, ma la videoscrit-
tura di testi, l’uso della scrittura tramite i telefoni cellulari, la possibilità di scrivere
a mano direttamente su supporti elettronici o di simulare la continuità della scrittura
a mano su tastiere elettroniche, la scrittura di testi in internet e nelle varie sue mani-
festazioni sociali (chat ecc.) rappresentano ormai il nuovo panorama dove si svi-
luppa la comunicazione scritta coinvolgente il singolo individuo. Tali mezzi a tec-
nologia avanzata sono soggetti a rapida evoluzione (si pensi, ad esempio, alle nuove
tecniche di scrittura ‘lineare’ sulle tastiere dei cellulari, che stanno sostituendo la
digitalizzazione analitica dei caratteri) e presuppongono competenze specifiche di
gestione tecnica per sviluppare le potenzialità che possono attribuire all’espressione
individuale.
Per quanto riguarda la radio, questa ha avuto un ruolo molto forte negli anni
Sessanta – Settanta del Novecento, quando le onde medie consentivano ai nostri
emigrati di ascoltare le trasmissioni della RAI (dai giornali radio alle cronache do-
menicali delle partite di calcio), e quindi di stare in contatto con i modelli di uso
312 MASSIMO VEDOVELLI
italiano che passavano attraverso il mezzo radiofonico. Ora, internet rende possibile
ascoltare anche le trasmissioni radiofoniche via computer, non solo della emittente
pubblica, ma anche delle radio private, capaci queste di esibire un ventaglio di
idiomi, varietà e registri più ampio, dove l’italiano anche nei suoi specifici usi
adottati dai giovani si interlaccia con le lingue straniere (l’inglese, soprattutto, ma
anche altre: si pensi alle canzonette, tema prevalente delle radio private).
La TV ha avuto un ruolo decisivo nella svolta linguistica delle nostre comunità
all’estero: il satellite consente oggi di vedere le trasmissioni italiane praticamente in
tutto il mondo, con effetti linguistici di notevole portata: il legame è diretto e co-
stante con gli usi vivi che caratterizzano oggi la comunità italiana presente entro i
confini nazionali.
Anche la stampa in lingua italiana vede una presenza diffusa come mai prima
entro le nostre comunità. Le nuove tecnologie, consentendo all’estero la stampa dei
giornali italiani ‘in tempo reale’, annulla la distanza di tempo che fino a pochi anni
fa impediva a chi stava all’estero di leggere in modo aggiornato. Sono anche diffusi
quotidiani e altri periodici realizzati all’estero, a volte entro quadri di stampa pluri-
lingue destinata alle comunità presenti in un dato Paese.
Proprio le tecnologie avanzate, come abbiamo ricordato più volte, stanno con-
tribuendo a cambiare il volto linguistico delle comunità di origine italiana nel
mondo, reimmettendo al loro interno una gamma di usi vivi di italiano come mai
prima, e perciò agendo sui fattori che, soprattutto sulle generazioni di mezzo dei no-
stri emigrati, spingono verso moduli espressivi condivisi in lingua italiana.
8. I LOCUTORI
Gli utenti dello spazio linguistico italiano globale comprende diverse tipologie
di locutori, articolate a seconda delle fasce generazionali e della origine italiana /
non italiana.
Anziani
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana
Adulti
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana
Giovani
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 313
renze), intendendo l’italiano nella sua varietà popolare. Si tratta di un sistema di usi
che privilegia la lingua etnica, una identità linguistica legata soprattutto ai valori
dell’origine comunitaria. I suoi usi più orientati verso il dialetto o il misto dialetto /
italiano saranno collocati in ambito intrafamiliare e intracomunitario, soprattutto
intendendo con ciò il gruppo di emigrati provenienti tutti da uno stesso paese di una
regione italiana. In definitiva, è più ampia l’area degli usi idiolettali e di contesto
legato alla comunità di origine; la possibilità di accesso, tramite scelte più di natura
pantolettale, a una rete di contesti sociali più articolata nel Paese di vita non è facile.
Un anziano straniero, invece, potrà scegliere lo studio dell’italiano come L2
per i suoi valori culturali intellettuali, privilegiando cioè la conoscenza della tradi-
zione culturale italiana, escludendo perciò le funzioni ‘etniche’ della lingua e tutto
ciò che questo comporta in termini di usi dialettali o misti dialetto/italiano/lingua
del Paese. L’italiano sarà, per tale fascia di pubblico, una L2, una lingua straniera da
apprendere in contesto formativo.
Un adulto di origine italiana potrà muoversi con più ampia possibilità entro lo
spazio linguistico, potendo interagire con gli anziani in famiglia e nelle occasioni
sociali comunitarie (magari potendo solo capire il dialetto nelle sue forme conser-
vate più ‘pure’ nelle parlate dagli anziani, e ricorrendo più di frequente a moduli
misti italiano/dialetto/ lingua del Paese), ma anche potendo svolgere la propria atti-
vità professionale usando la lingua del Paese in vario grado di possesso a seconda
dell’età di arrivo nel Paese, dei modi di apprendimento ecc. Potrà usare l’italiano
nelle sue forme colloquiali nell’interazione in contesti istituzionali (uffici consolari,
enti gestori della formazione ecc.), e professionali (rapporti con italiani provenienti
dall’Italia, rapporti con ditte italiane ecc.). Potrà anche avere una competenza in
italiano standard tale da renderlo in grado di leggere la stampa italiana, seguire le
trasmissioni televisive italiane, e anche di scrivere in italiano se il livello di scolarità
in tale lingua glielo potrà consentire. Più ipotizzabile è la scrittura in italiano popo-
lare, soprattutto nei confronti della famiglia/comunità di origine in Italia: a tale pro-
posito è da valutare il ruolo che la posta elettronica ha nel favorire lo sganciamento
da usi molto misti e connotati da tratti dialettali.
Diverso è il caso degli italiani emigrati recentemente e impegnati in contesti di
alto livello culturale (università, enti di ricerca, attività professionali specializzate,
stampa e mass media ecc.). In questi casi la competenza in italiano standard è quella
del nativo, e si unisce alla competenza nella lingua del Paese come L2, lingua stra-
niera per lo più acquisita in contesti formali e usata abitualmente. La propensione
alla commutazione di codice è maggiore rispetto a quella verso il miscuglio deri-
vante dal contatto fra l’italiano e la lingua del Paese. Sono tali adulti a essere perce-
piti come la punta avanzata della diffusione dei valori propri della cultura italiana
nei contesti di prestigio all’estero.
Un adulto straniero, soprattutto giovane, potrà scegliere l’italiano come una L2
da apprendere in contesto formativo per finalità di studio (presso Università ita-
liane, progetti europei di mobilità ecc.) o professionali (rapporti con ditte italiane,
lavoro presso ditte italiane ecc.). Le attività professionali possono portarlo a attin-
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 315
gere ai mezzi della lingua italiana per aggiungere una connotazione valoriale posi-
tiva (ad esempio, nelle insegne dei negozi e, in generale, nella comunicazione so-
ciale, nella comunicazione che entra nei panorami linguistici urbani).
Un giovane adulto di origine italiana avrà una competenza piena nella lingua
del Paese, e una capacità di movimento soprattutto entro il polo dell’italiano: sarà
più netta la tendenza alla commutazione di codice rispetto alle scelte mistilingue. La
capacità di gestire il dialetto o le varietà miste dialetto/italiano sarà molto ridotta. La
scelta di orientarsi verso la ‘ricerca delle radici’ può avere una duplice finalità: una
più legata a una motivazione personale di conoscenza delle origini familiari;
un’altra più tesa a valorizzare l’ascendenza culturale e linguistica italiana in fun-
zione professionale, sfruttando l’indubbia capacità di evocazione di valori positivi
(di creatività, gusto, buon gusto ecc.) oggi percepiti globalmente come intrinseci
all’identità linguistico-culturale italiana.
I giovanissimi discendenti collocano il centro della propria attività linguistica
nella lingua del Paese che per loro è L1; il contatto con l’italiano può avvenire in
contesto formativo, e in tal caso allora è una L2, una lingua straniera. La gestione
degli idiomi e varietà più ‘etnici’, dei terreni di contatto fra dialetto e italiano è for-
temente ridotta, se non assente completamente.
I giovani e giovanissimi stranieri possono considerare l’italiano come L2, og-
getto di apprendimento in contesto formativo all’estero e/o in Italia: la motivazione
dello studio (a livello di scuola superiore e di università, scambi studenteschi e mo-
bilità) e quella della curiosità per un modo di vivere diverso sembrano prevalenti
per questo tipo di pubblico. La sua presenza appare crescente entro le attività lin-
guistico-culturali promosse dalle Istituzioni italiane e gestite dagli appositi enti
all’estero, e che inizialmente erano destinate ai soli discendenti degli emigrati ita-
liani: anche questa ristrutturazione dei pubblici di tali attività segnala, da un lato, la
crescente richiesta di lingua italiana da parte degli stranieri, ma anche la mancanza
di una politica di diffusione linguistica che sappia riconoscere la dimensione glo-
bale di tale richiesta, svincolata dalle connotazioni etniche e migratorie. Non infre-
quente è il caso che tali attività vedano presenti, oltre che i giovani e giovanissimi di
origine propria del Paese, anche i discendenti di gruppi emigrati non italiani: quasi
che il successo della lingua-cultura italiana sia considerato come segno del successo
del progetto migratorio della comunità italiana, preso a modello per il proprio
(come è avvenuto in Svizzera).
Le diverse possibilità di escursione, di movimento e di scelta entro lo spazio
linguistico italiano globale coinvolgono le comunità degli emigrati italiani segnan-
done l’articolazione generazionale interna, così come quella professionale e per
ceto. Il modello collega le comunità alle società del Paese di vita/di appartenenza,
pertinentizzando la nuova posizione della lingua italiana nel mercato globale delle
lingue-culture-società-economie in una prospettiva che la considera soggetto capace
di creare terreni di contatto con le altre in vista della promozione delle identità,
della spinta verso nuove frontiere di identità nel mondo globale. In questo senso, lo
spazio linguistico italiano globale diventa esempio delle realtà plurilingui create dagli
316 MASSIMO VEDOVELLI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
AA.VV., Formazione linguistica e professionale dei lavoratori migranti. Progetto ISFOL-
ME/DI Sviluppo di elaborazione e produzione di mezzi didattici per l’insegnamento della
lingua tedesca ai lavoratori italiani in RFT, «Quaderni di Formazione», ISLFOL, 68,
maggio-giugno 1980.
Banfi E., L’influsso dello spazio linguistico italiano sull’area balcanica: diacronia e sincro-
nia, Sito web dell’Accademia della Crusca, dicembre 2008.
Barni M., Vedovelli M., L’Italia plurilingue fra contatto e superdiversità, in M. Palermo (a
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 317
Immagine n. 1:
Lo spazio linguistico per De Mauro (1980)
Immagine n. 2:
Lo spazio linguistico italiano globale
Italiano LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 319
Immagine n. 3:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese
Immagine n. 5:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese
320 MASSIMO VEDOVELLI
Immagine n. 6:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese
Immagine n. 8:
Polo lingua etnica, comunitaria, del Paese
Contesti scolastici
Immagine n. 9:
Polo lingua etnica, comunitaria, del Paese
IMMACOLATA TEMPESTA
(Università del Salento)
*
A Norbert Dittmar mi lega una lunga frequentazione scientifica, che inizia nell’ambito delle
ricerche condotte negli anni Ottanta-Novanta dal Gruppo di Lecce e che è continuata nel tempo.
Ringrazio il prof. Dittmar per l’offerta, sempre spassionata, delle ‘sue’ competenze, per rafforzare
le ‘mie’ competenze. Ogni discorso con lo studioso è stato per me una lezione, sempre.
La grande disponibilità professionale e umana dello studioso ha rafforzato, negli anni, il rap-
porto scientifico, con la partecipazione del prof. Dittmar a seminari e ricerche presso l’Università
del Salento.
324 IMMACOLATA TEMPESTA
«Villano rincivilito! », proseguì don Rodrigo: «tu tratti da par tuo. Ma ringra-
zia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si
fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa
volta; e la vedremo.»
Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per
cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Ro-
drigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia. [A. Manzoni, I Promessi
Sposi, Milano, 1840, a cura di Cesare Angelini, Torino, Unione Tipografa Editrice
Torinese, 1968, cap. VI, pp. 123-128].
La scena manzoniana, qui riportata nelle sue parti più significative, per motivi
di spazio, rappresenta uno spaccato esemplare delle strategie interazionali messe in
atto dai protagonisti, Don Rodrigo e Padre Cristoforo, in un incontro verbale diffi-
cile, in cui si confrontano due figure con caratteristiche e vissuti molto diversi, en-
trambe di grande forza, pur trattandosi di forze diverse.
La rete sociale è quella non confidenziale, fra attori che non hanno consuetudine
di frequentazione; il registro inizialmente formale, va via via abbassandosi, seguendo
le mosse pragmatiche che evolvono dal rispetto dell’apertura all’offesa finale.
L’interazione si sviluppa come un vero e proprio gioco di faccia goffmaniano;
fino a un certo punto fra Cristoforo cerca di non violare la ‘faccia’ dell’altro, ricor-
rendo a una presentazione positiva della richiesta che va a fare, mitigandone la
forza illocutoria (vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità) e a
blandi richiami (Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossi-
gnoria illustrissima).
L’impresa del frate, di convincere il signorotto a lasciare in pace Lucia, appare
però, fin dall’inizio, verbalmente complessa. Don Rodrigo non ammette nessuna
invasione nella sua vita.
L’interazione, divenuta un campo di battaglia, quella che Goffmann chiama di-
sgrazia rituale, provocata dalla rottura dell’integrità rituale, dalla violazione dell’im-
magine sociale dell’altro, si chiude con una minaccia e un ordine di allontanamento,
con il ripristino e l’esercizio di un potere interazionale e, prima di tutto, sociale.
Gli allocutivi, gli appellativi, i titoli, che rientrano fra le espressioni formulari
della cortesia, cioè tra le manifestazioni più esplicite, segnano l’evoluzione del dia-
logo da un’interazione in cui gli interlocutori rispettano la faccia altrui -sia fra Cri-
stoforo che Don Rodrigo usano il lei, fra Cristoforo ricorre anche alla formula “vos-
signoria illustrissima”- ad una interazione in cui fra Cristoforo passa al voi, don
Rodrigo al tu.
«Come parli frate» segna l’inizio dell’invettiva rodrighiana, con il passaggio
dall’allocutivo di cortesia “lei”, all’allocutivo “tu” che, lungi dall’essere un pronome
di solidarietà, serve a marcare la superiorità del signore verso il subordinato.
Il Manzoni descrive in modo magistrale anche i cambiamenti non verbali della
comunicazione: alzando la voce, gridò, additò sono azioni riferite a don Rodrigo,
chinò il capo riguarda invece fra Cristoforo.
I REGISTRI E LA RETE 325
1
Burns T., Erving Goffman, Il Mulino, Bologna, 1997.
2
Cfr. Brown P., Levinson S., Politeness. Some universals in language usage, Cambridge,
Cambridge University Press, 1987.
326 IMMACOLATA TEMPESTA
3
Ma anche morali, estetiche.
4
Per una sintesi della discussione sul concetto e l’applicazione del gioco di faccia si veda
Watts, 2005.
I REGISTRI E LA RETE 327
5
L’uso richiama il sounding laboviano (Labov, 1972), sebbene questo rappresentasse, per le
fasce giovanili di ceto basso, un vero e proprio gioco. Si veda Dittmar (1978). Della pratica del
flyting fra i giovani neri degli Stati uniti, nei Caraibi scrive Ong (1986). Uno dei giochi consiste
nell’insultare le rispettive madri dei partecipanti.
328 IMMACOLATA TEMPESTA
sta, 2000, p. 102); comprendono, oltre a giochi di parole, insulti veri e propri e raf-
forzano il sentimento di appartenenza al gruppo. Questa particolare forma ludica
della comunicazione è legata alle zone interne della rete sociale, alle celle amicali e
familiari, e a interazioni con basso grado di formalità e relazioni fra i parlanti fon-
date su valori e conoscenze condivise. Il linguaggio giovanile -e adolescenziale- è
ricco di esempi di questo genere. L’espressività ricercata attinge a disfemismi, alla
pornolalia ostentata, che perdono il loro riferimento semantico per assumere una
connotazione ironica o semplicemente giocosa (come per fighetto/a). Il carattere di
base del linguaggio giovanile non è quello di porsi come codice alternativo alla lin-
gua degli adulti, né quello di contrapporsi alla lingua tradizionale, ma piuttosto,
quello di riconoscersi in un gruppo, di segnalarne l’identificazione attraverso la di-
mensione ludica e scherzosa, senza freni inibitori.
Nel frammento (1) è riportata una parte di un’interazione spontanea che si
svolge in cella, fra tre giovani amiche, nell’abitazione di una di queste, a Cisternino
(Brindisi) (Tempesta, 2000, p. 103). La chiave è scherzosa, l’interazione presenta
molte prese in giro e molte risate.
L’appellativo disfemistico, al turno 14, sembra richiamare più l’intimità del
rapporto amichevole fra E ed A1, che non il rimprovero di E per la latitanza (che
fine hai fatto) di A1, tanto che A1 reagisce, al turno 15, esprimendo un ‘grazie’ e
giocando sull’insulto.
Frammento (1)
E 1 tee *…ciao
R 2 ss sta dormendo
E 3 e chi se ne frega /dai sediamoci
A2 4 dai poverina sta dormendo
E 5 sì, sediamoci qua così mo che si sveglia gli viene un collasso
A1 6 oo ragazze
A2 7 oo si è svegliata
R 8 chi non muore si rivede
E 9 guarda m..m.. ha il viso incorniciato da qualcosa. Ti sarai per
caso fatta monaca?
A1 10 bbe veramente la vocazione è quella, però
R 11 [In sovrapposizione con 10]
aspettate prima di litigare. Auguri
A1 12 auguri
A2 13 è vero, auguri
E 14 io non te li do perché sei una stronza
A1 15 grazie, però io te li do lo stesso. Auguri
E 16 non te li do bbe
A1 17 che mi dici
E 18 che fine hai fatto?
[…]
I REGISTRI E LA RETE 329
Frammento (2)
A 1 Giorno sorellina
B 2 Buongiornoo pazzerella mia! <3
C 3 […] SCUSATECI TUTTI MA.. DOVEVAMO
LAVORARE!! Ahhahah
A 4 Stronze
C 5 Domenica splenderà il sole, tranquilla!Ahahah
Lo stesso valore di rete sembra emergere nel frammento (3), un post in cui una
studentessa risponde al post di un’amica sull’opportunità di accettare una proposta
di voto per un esame sostenuto, dandole della ‘matta’ (6 davvero fuori?)
Frammento (3)
6 davvero fuori? Certo che devi accettàààà ☺ ☺ ☺
Sia nel parlato spontaneo che nel social network il carattere affettivo-ludico
dell’improperio è indicato da vari elementi: paralinguistici (intonazione, accento,
ritmo)6, e cinesici (gesti, mimica, sguardo) nell’interazione faccia a faccia, espe-
dienti grafici e segnali discorsivi nel web.
Sarà interessante rilevare, attraverso ricerche apposite, su un ampio corpus di
dati, se si possa definire quali voci siano ammissibili all’uso affettivo-ludico, quali,
invece conservino integralmente ed esclusivamente, il potenziale aggressivo e of-
fensivo e quali procedure si possono adottare per far transitare le forme del secondo
gruppo nel primo (come avviene, ad esempio nel baby talk, con l’uso di diminutivi,
‘scemino’, ‘scemetto’, di accrescitivi, ‘minchione’).
Per alcune voci, ad esempio quelle omofobe, sembra permanere il valore alta-
mente denigratorio, conflittuale, di minaccia e rottura della faccia altrui, non com-
parendo mai con altri significati sociali.
4. INDICATORE DI REGISTRO
Per tastare il polso al disfemismo nell’italiano contemporaneo è interessante
considerare i cambiamenti che, secondo Nora Galli de’ Paratesi (2009), hanno ri-
6
A questi aspetti è dedicato uno studio in corso di Barbara Gili Fivela, Università del Sa-
lento.
330 IMMACOLATA TEMPESTA
Frammento (4)
A mali estremi estremi mavatteneaffanculo
(post di uno studente universitario);
Frammento (5)
Dovrei smetterla di essere educata, una frase in italiano corretto e garbato non
potrà mai sostituire l’essenza di un “Fottiti e se ti avanza tempo sparati” (da Insa-
nity, 1609 condivisioni al 7 maggio 2013).
Frammento (6)
mah…mi piacerebbe tanto ma non ce l’ha farò mai ad esprimermi con un
modo cosi liberatorio….ti rovinano da piccoli con tanta educazione e autocontrollo
rigido…da grandi si blocca la parola in gola sic
7
Per dare il quadro generale, gli assi del cambiamento sarebbero tre: quello delle aree
semantiche colpite, quello dell’evoluzione dei sostituti linguistici, quello della forza repressiva
dell’interdizione (p. 139).
8
Esistono persino dei blog dedicati, in cui si possono pubblicare insulti (come nel blog <in-
sulti gratuiti e possibilmente creativi>, presente sul web al 16 giugno 2013). Contro il proliferare
degli insulti, intesi genericamente come post sarcastici per provocare attenzione, scrive Saviano su
La Repubblica dell’11 maggio 2013.
I REGISTRI E LA RETE 331
5. CONCLUSIONE
I significati sociali delle espressioni di insulto sono, dunque, quanto mai vari,
presentando caratteri paralinguistici e extralinguistici diversi fra loro.
Premesso che in tutti i casi si tratta di usi altamente espressivi, emotivamente
connotati, della lingua, l’emittente ricorre a tutti i mezzi, non solo verbali, ma para-
linguistici e cinesici, in particolare mimici e dello sguardo, nel parlato, a enfatismi
grafici e a segnali discorsivi vari nella piazza virtuale, sul web, per raggiungere il
suo scopo socio-comunicativo.
a) L’insulto è considerato, primariamente, un elemento coprolalico, facente
parte di un comportamento non cooperativo e di rottura della faccia goff-
maniana. Rientra, con questo significato, in un contesto comunicativo ca-
ratterizzato dal turpiloquio. Linguaggio veloce, creativo, intonazioni e mo-
dulazione della voce molto espressive sono aspetti di quello che Sharp,
Smith (1995), trattando il comportamento aggressivo dei bulli, definiscono
un “abuso” linguistico, in una situazione in cui chi insulta ha, o presume di
avere, un ruolo di potere e di controllo sul destinatario.
Esistono vari mezzi per esacerbare l’intensità di un messaggio scortese,
come l’utilizzo di parole fortemente negative, di parole tabù, di modificatori
(“sei così stupido”), l’utilizzo e il supporto di mezzi prosodici e non verbali.
b) L’insulto può diventare un mezzo per esprimere vicinanza, identifica-
zione, cameratismo.
c) L’insulto può essere un mezzo per detabuizzare il lavoro di faccia, per
giocare a rompere la faccia positiva, senza creare una disgrazia rituale.
d) L’insulto, desemantizzato, può diventare un semplice indicatore di regi-
stro basso, di trivialità.
Conoscere bene una persona significa, non tanto impegnarsi a farsi strada verso il suo
vero io, ma, conoscendo i suoi modi comunicativi, identificare quali maschere e quali
strategie egli adotterà a seconda delle circostanze.
Come dire che l’insulto può far parte di diverse maschere, è importante che
l’interlocutore capisca quale l’emittente indosserà in una determinata situazione.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Brown P., Levinson S., Politeness. Some universals in language usage, Cambridge, Cambridge
University Press, 1987.
Burns T., Erving Goffman, Bologna, Il Mulino, 1997.
Crisafulli E., Igiene verbale. Il Politicamente corretto e la libertà linguistica, Firenze, Val-
lecchi, 2004.
Culpeper J., Impoliteness. Using language to cause, offence, Cambridge, University Press,
2011.
Dittmar N., Manuale di sociolinguistica, Bari, Laterza, 1978.
Dittmar N., Grundlagen der Soziolinguistik. Ein Arbeitsbrich mit Aufgaben, Tübingen,
Niemeyer, 1997.
Galli de’ Paratesi N., Le brutte parole: semantica dell’eufemismo, Milano, Mondadori, 1969.
Galli de’Paratesi N., Eufemismo e disfemismo nel linguaggio politico e nell’italiano di oggi,
«Synergies Italie», n. speciale 2009, pp. 137-144.
Grice P., Logic and conversation, in Cole P., Morgan J.L. (a cura di), Syntax and semantics.
Speech acts, New York, Academic Press, 1975 (Logica e conversazione, in Iacona A., Pa-
ganini E. (a cura di), Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003).
Holmes J., Women, men and politeness, Londra, Longman, 1955.
I REGISTRI E LA RETE 333
Labov W., Language in the Inner City, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1972.
Lakoff R., The logic of Politeness; or Minding your P’s and Q’s, in Papers from the Ninth
Regional Meeting of the Chicago Linguistics Society, Chicago, University of Chicago,
1973 (da Bazzanella C., Linguistica e pragmatica del linguaggio. Un’introduzione, Bari,
Laterza, 2005).
Ong W.J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.
Radtke E., Eufemismo e norma sociale, in Gruppo di Lecce (a cura di), Linguistica e antro-
pologia, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 387-395.
Sabatini F., L’italiano dell’ uso medio. Una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in
Holtus G., Radtke E. (a cura di), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart,
Tübingen, Gunter Narr, 1982, pp. 154-184.
Serianni L., Sul turpiloquio nell’italiano scritto contemporaneo, in Natale S., Pietrini D.,
Puccio N., Stellino T. (a cura di), “Noio volevàn savuàr”. Studi in onore di Edgar Radtke
per il suo sessantesimo compleanno, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2012, pp. 179-186.
Sharp S., Smith P. K., Bulli e vittime nella scuola, Trento, Erikson, 1995.
Tempesta I., Varietà della lingua e rete sociale, Milano, Franco Angeli, 2000.
Tempesta I., La goliardia giovanile. Un impasto giovanile, in Natale S., Pietrini D., Puccio
N., Stellino T. (a cura di) , 2012, cit., pp. 197-209.
Watts R.J., Ide S., Ehlich K. (a cura di), Politeness in language. Studies in its history. Theory
and Practice, Berlino, de Gruyter, 2005.
BIBLIOGRAFIA DI NORBERT DITTMAR∗
Kommentierte Bibliographie zur Soziolinguistik, Parte I, in «Linguistische Berichte», 15,
1971, pp. 103-128.
Kommentierte Bibliographie zur Soziolinguistik, Parte II, in «Linguistische Berichte», 16,
1971, pp. 97-126.
Möglichkeiten einer Soziolinguistik: Zur Analyse rollenspezifischen Sprachverhaltens, in
«Sprache im technischen Zeitalter», 38, 1971, pp. 87-105.
Die Rolle der Studenten bei der Linguistik in der BRD, in Hartmann P. (a cura di), Zur Lage
der Linguistik in der BRD, Frankfurt am Main, Athenäum, 1972, pp. 161-171.
Con Jäger S., Soziolinguistik, «Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik», vol. 2,
vol. 7, 1972.
Con Klein W., Die Codetheorie Basil Bernsteins, in Klein W., Wunderlich D. (a cura di), As-
pekte der Soziolinguistik, Frankfurt am Main, Fischer Athenäum, 1972, pp. 15-35.
Soziolinguistik. Exemplarische und kritische Darstellung ihrer Theorie, Empirie und Anwen-
dung. Mit kommentierter Bibliographie, Frankfurt am Main, Athenäum, 1973.
Soziolinguistik, in Stammerjohann H. (a cura di), Handbuch der Linguistik, München, Nym-
phenburger Verlagshandlung, 1975, pp. 389-410.
Situation of Sociolinguistics in the Federal Republic of Germany, in «Sociolinguistic News-
letter», VI, Nr. 3, 1975, pp. 6-12.
Con Becker A., Klein W., Rieck B.O., Thielicke E., Wildgen W., Sprache und Kommunika-
tion ausländischer Arbeiter Heidelberger Forschungsprojekt Pidgin-Deutsch. Analysen,
Berichte, Materialien, Kronberg, Ts. Scriptor, 1975.
Con Becker A., Klein W., Rieck B.O., Thielicke E., Wildgen W., Zur Sprache ausländischer
Arbeiter: Syntaktische Analysen und Aspekte des kommunikativen Verhaltens, in «Zeit-
schrift für Literaturwissenschaft und Linguistik», 5, 18, 1975, pp. 78-121.
Con Klein W., Untersuchungen zum Pidgindeutsch spanischer und italienischer Arbeiter in
der Bundesrepublik: Ein Arbeitsbericht, in Wierlacher A. (a cura di), Jahrbuch Deutsch
als Fremdsprache, n. I, New York, Springer, 1975, pp. 170-194.
Pour un fondement empirique de la théorie des actes de parole, in Verdoodt A., Kjolseth R.
(a cura di), Language in Sociology, Löwen, Peeters, 1976, pp. 11-37.
Sociolinguistics. A critical survey of theory and application, Londra, Edward Arnold, 1976.
Handboek van de sociolinguistiek, Utrecht, Antwerpen, Uitgeverij Het Spectrum, 1978.
Manuale di Sociolinguistica, Bari, Laterza, 1978.
Datenerhebung und Datenauswertung im Heidelberger Forschungsprojekt “Pidgin-Deutsch
ausländischer Arbeiter”, in Bielefeld H. U. et al. (a cura di), Soziolinguistik und Empirie,
Wiesbaden, Athenäum, 1978, pp. 59-89.
Syntaktische Merkmale des Pidgin-Deutsch ausländischer Arbeiter. Eine Fallstudie, in
«Grazer Linguistische Studien», 3, 1978, pp. 36-53.
∗
a cura di Immacolata Tempesta.
336 IMMACOLATA TEMPESTA
Zum Forschungsstand der Erzählanalyse, in «Linguistische Berichte», n. 58, 1978, pp. 77-82.
Con Rieck B.O., William Labov: Sprache im sozialen Kontext, n. 1, Königstein, Scriptor,
1978.
Con Wolfgang W., Empirische Grundlagen des Sprachunterrichts für Arbeitsimmigranten, in
Arbeitsgemeinschaft der katholischen Studenten und Hochschulgemeinden (a cura di),
Materiali per l’area di progetto “Ausländische Arbeiter”, vol. 11, 1978, pp. 32-38.
Con Rieck B.O., Reihenfolgen im ungesteuerten Erwerb des Deutschen. Zur Erlernung
grammatischer Strukturen durch ausländische Arbeiter, in Dietrich R. (a cura di), As-
pekte des Fremdsprachenerwerbs, Heidelberg, Scriptor, 1978, pp. 119-145.
Con Rieck B.O., Zum Sprachunterricht für ausländische Arbeiter: Überlegungen zu seinen
Voraussetzungen und Zielen anhand einer explorativen empirischen Studie zu seinen lin-
guitischen Grundlagen, in Kühlwein W., Radden G. (a cura di), Sprache und Kul-
tur: Studien zur Diglossie, Gastarbeiterproblematik und kulturellen Integration, Tübin-
gen, Narr, 1978, pp. 161-224.
(a cura di), Zweitspracherwerb, «Linguistischen Berichte», n. 64, 1979.
Warum sollen Arbeitsimmigranten Deutsch lernen?, «Deutsch lernen», n. 4, 1979, pp. 28-46.
Zum Nutzen von Ergebnissen der Untersuchung des ungesteuerten Zweitspracherwerbs aus-
ländischer Arbeiter, in Klöpfer R. (a cura di), Bildung und Ausbildung in der Romania,
München, Fink, 1979, pp. 371-396.
Fremdspracherwerb im sozialen Kontext. Das Erlernen von Modalverben. Eine lexikalisch-
semantische Analyse, in Klein W. (a cura di), Sprache und Kontext, «Zeitschrift für Lite-
raturwissenschaft und Linguistik», n. 33, 1979, pp. 84-103.
Der Niederschlag von Erfahrungen ausländischer Arbeiter mit dem institutionellen Kontext
des Arbeitsplatzes in Erzählungen, in Söffner H.G. (a cura di), Interpretative Verfahren
in den Text- und Sozialwissenschaften, Stuttgart, Metzler, 1979, pp. 65-103.
Con Gutfleisch I., Rieck B.O., Interimsprachen- und Fehleranalyse. Teilkommentierte
Bibliographie zur Zweitspracherwerbsforschung 1967-1978, «Linguistische Berichte», n.
64, parte 1, 1979, pp. 105-142.
Con Gutfleisch I., Rieck B.O., Interimsprachen- und Fehleranalyse. Teilkommentierte
Bibliographie zur Zweitspracherwerbsforschung 1967-1978, «Linguistische Berichte», n.
65, parte 2, 1979, pp. 51-81.
Con Haberland H., Kangas-Skutnabb T., Telemann U., Papers of the First Scandinavian
German Symposium on the Language of Immigrants and their Children, Roskilde, Uni-
versitet Roskilde, 1979.
Con Becker A., Klein W., Sprachliche und soziale Determinanten im kommunikativen Ver-
halten ausländischer Arbeiter, in Quasthoff U. (a cura di), Sprachstruktur-Sozialstruktur,
Königstein, Scriptor, 1979, pp. 158-192.
Warum sollen Arbeitsmigranten Deutsch lernen?, «Journal of Germanic Studies», The Uni-
versity of Michigan, vol VI, n. 2, 1980, pp. 190-218.
Ordering Adult Learners According to Language Abilities, in Felix S. (a cura di), Second
Language Development, Tübingen, Narr, 1980, pp. 205-231.
Die „Zweite Generation”: Gastarbeiterkinder zwischen zwei Sprachen und Kulturen, in
BIBLIOGRAFIA 337
Con Schlobinski P., The sociolinguistics of urban vernaculars. Basic concepts and methods,
Berlin, de Gruyter,1988.
Con Schlobinski P., Wandlungen einer Stadtsprache. – Berlinisch in Gegenwart und Vergan-
genheit, Berlin, Colloquium, 1988.
Con Ammon U., Mattheier K., Soziolinguistik. Ein Internationales Handbuch zur Wissen-
schaft von Sprache und Gesellschaft, n. 2, Berlin, de Gruyter, 1988.
Con Schlobinski P., Wachs I., Variation in a divided speech community: The urban vernac-
ular of Berlin, in Dittmar N., Schlobinski P. (a cura di), The sociolinguistics of urban ver-
naculars. Basic concepts and methods, Berlin, de Gruyter, 1988, pp. 3-18.
Con Schlobinski P., Wachs I., The social significance of the Berlin urban vernacular, in
Dittmar N., Schlobinski P. (a cura di), The sociolinguistics of urban vernaculars. Basic
concepts and methods, Berlin, de Gruyter, 1988, pp. 19-43.
Con Schlobinski P., Wachs I., Berlin style and register, in Dittmar N., Schlobinski P. (a cura
di), The sociolinguistics of urban vernaculars. Basic concepts and methods, Berlin, de
Gruyter, 1988, pp. 44-113.
Con Schlobinski P., Wachs I., Components of an overarching theoretical perspective in so-
ciolinguistics, in Dittmar N., Schlobinski P. (a cura di), The sociolinguistics of urban ver-
naculars. Basic concepts and methods, Berlin, de Gruyter, 1988, pp. 114-144.
Con Schlobinski P., Convergence, discourse and variation, in Auer P., Di Luzio A. (a cura
di), Variation and Convergence. Studies in Social Dialectology, Berlin, de Gruyter, 1988,
pp. 157-175.
Con Schlobinski P., Implikationsanalyse, in Ammon U., Dittmar N., Mattheier K. (a cura di),
Soziolinguistik. Ein Internationales Handbuch zur Wissenschaft von Sprache und Gesell-
schaft, Berlin, de Gruyter, 1988, pp. 1014-1026.
Con Kuhberg H., Der Vergleich temporaler Ausdrucksmittel in der Zweitsprache Deutsch in
Lernervarietäten zweier elfjähriger Kinder mit den Ausgangssprachen Polnisch und Tür-
kisch anhand von Longitudinaldaten, in Vater H., Ullmer-Ehrich V. (a cura di), Tempo-
ralsemantik, Tübingen, Narr, 1988, pp. 308-329.
Con Hädrich D., Gibt es die “Berliner Schnauze”? Der “Berliner Stil” in einer Neuköllner
Fußballmannschaft aus ethnografischer Kleingruppenperspektive, in Dittmar N.,
Schlobinski P. (a cura di), Wandlungen einer Stadtsprache. Berlinisch in Gegenwart und
Vergangenheit, Berlin, Colloquium Verlag, 1988, pp. 83-102.
Variatio delectat. Le basi della sociolinguistica, Galatina, Congedo, 1989.
Soziolinguistik, in Bausch H., Christ B., Hüllen W., Krumm H. J. (a cura di), Handbuch
Fremdsprachenunterricht, Tübingen, Francke, 1989, pp. 38-45.
Acquisition of Semantics, «Annual Review of Applied Linguistics», IX, 1989, pp. 54-71.
Soziolinguistischer Stilbegriff am Beispiel der Ethnographie einer Neuköllner Fußballmann-
schaft, «Zeitschrift für Germanistik», 4 (10), 1989, pp. 423-414.
Die Konstitution von Temporalität, in Katny A. (a cura di), Studien zur kontrastiven Linguis-
tik und literarischen Übersetzung, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1989, pp. 115-137.
Prolegomena zu einer diskursanalytischen Bestimmung der Themakonstitution in Gesprä-
chen, «Linguistische Studien», serie A, 1989, pp. 100-115.
340 IMMACOLATA TEMPESTA
Con Cadiot P., La sociolinguistique en pays de langue allemande, Lille, PUL, 1989.
Con Klein W., Developing grammars. The acquisition of German syntax by foreign workers,
New York, Springer, 1989.
Con Schlobinski P. (a cura di), The Sociolinguisticsof Urban Vernaculars. Case Studies and
their Evaluation, Berlin, de Gruyter, 1989.
Con Tempesta I., Competenza e uso della lingua degli emigranti italiani all’estero e al ri-
torno, in Kremer D. (a cura di), Actes du XVIIIe Congrès International de Linguistique et
de Philologie Romane, Tübingen, Niemeyer, 1989, pp. 451-456.
Con Sobrero A., L’italiano in Europa. Dalla parte di chi emigra, in Lo Cascio V. (a cura di),
L’italiano all’estero, Amsterdam, Benjamins, 1989, pp. 94-118.
Con Schlobinski P., La lingua urbana di Berlino. Metodologia di descrizione e risultati, in
Klein G. (a cura di), Parlare in città. Studi di sociolinguistica urbana, Galatina, Con-
gedo, 1989, pp. 63-92.
Con Reich A., Schumacher M., Skiba R., Terborg H., Die Erlernung modaler Konzepte des
Deutschen durch erwachsene polnische Migranten, «Informationen Deutsch als Fremd-
sprache», n. 2, vol. 17, 1990, pp. 125-172.
“Charlie komm arbeit aber nich gut …” Le connecteur aber comme metteur en scène du di-
scours en allemand L2. Une étude en perspective longitudinale, in Russier C., Stoffel H.,
Véronique D. (a cura di), Modalisations en langue étrangère, Aix-en-Provence, Publica-
tions de l’Université de Provence, 1991, pp. 123-132.
La costituzione della temporalità nella prospettiva della comparazione degli apprendimenti,
in Bernini G., Giacalone Ramat A. (a cura di), La temporalità nell’acquisizione di lingue
seconde. Materiali linguistici, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 199-218.
Berliner Längsschnittstudie zum Deutscherwerb von polnischen Migranten, «Linguistische
Berichte», 131, 1991, pp. 37-44.
Con Terborg H., Modality and second language learning. A challenge for linguistic theory,
in Ferguson Ch. A., Hübner T. (a cura di), Second Language Learning and Linguistic
Theory, Amsterdam, Benjamins, 1991, pp. 347-384.
Erwerbsprofil und Lernstil-Überlegungen zu einer Erklärung von Lernerfolg auf der Folie
empirischer Beobachtungen zum soziokognitiven Stil einer polnischen Lernerin in der
Interaktion, Wiss, Zeitschrift der Humboldt-Universität zu Berlin, 1992, pp. 7-25.
Introduction: Topic in Grammar and Discourse, «Linguistics», n. 30 (1), 1992, pp.1-3.
Con Skiba R., Pragmatic, semantic and syntactic constraints and grammaticalization: a lon-
gitudinal perspective, «Studies in Second Language Acquisition», 14, 1992, pp. 323-349.
Con Skiba R., Zweitspracherwerb und Grammatikalisierung. Eine Längsschnittstudie zur
Erlernung des Deutschen, in Leirbukt O., Lindemann B. (a cura di), Psycholinguistische
und didaktische Aspekte des Fremdsprachenlernens/Psycholinguistic and pedagogical
aspects of foreign language learning, Tübingen, Narr, 1992, pp. 25-61.
Con Schlobinski P., Stile und Polyphonie des Berlinischen: Dialekt und Identitätssymbolik, in
Janota J. (a cura di), Vielfalt der kulturellen Systeme und Stile, Tübingen, Niemeyer,
1993, pp. 118-128.
Con Reich A. (a cura di), Modality in Second Language Acquisition. Modalité et Acquisition
BIBLIOGRAFIA 341
Corpus de langue allemande écrite et parlée. Documentation sur les données techniques et
organisationnelles, «Revue Française de Linguistique Appliquée». n. 1-2, 1996.
Explorations in ´Idiolects´, in Sackmann R. (a cura di), Theoretical Linguistics and Gram-
matical Description, Amsterdam, Benjamins, 1996, pp. 109-128.
Die Berliner Sprachgemeinschaft nach dem Fall der Mauer: Varietäten im Kontakt, Kommuni-
kation im Konflikt, in Thelander M. (a cura di), Sampsel & Variation. Spraliga studier tillä-
gnade Bengt Nordberg pa 60-arsdagen, Uppsala, Uppsala Universitet, 1996, pp. 87-103.
Studienbibliothek Soziolinguistik, Heidelberg, Julius Groos, 1996.
Con Haust D., Taxonomic or Functional Models in the Description of Codeswitching? Evi-
dence from Mandinka and Wolof in African Contact Situations, in Jacobson R. (a cura
di), Codeswitching Worldwide, Berlin, de Gruyter, 1996, pp. 262-276.
Grundlagen der Soziolinguistik, Ein Arbeitsbuch mit Aufgaben, Tübingen, Niemeyer, 1997.
Sprachliche und kommunikative Perspektiven auf ein gesamtdeutsches Ereignis in Erzählun-
gen von Ost-und Westberlinern, in Barz I., Fix U. (a cura di), Deutsch-deutsche Kommu-
nikationserfahrung im arbeitsweltlichen Alltag, Heidelberg, Winter, 1997, pp. 1-32.
Con Spolsky B., Walters J., Grammaticalization and Social Convergence in Second Language
Acquisition, «Trends in Linguistics, Studies and Monographs», 101, Berlin, de Gruyter,
1997, pp. 1713-1732.
Wer A sagt, muß auch B sagen oder: Wie verläßlich lassen sich Sprecher nach sprachlichen
Merkmalen auf Implikationsskalen (IPS) ordnen?, in Ammon U., Mattheier K.J., Nelde
P. (a cura di), Sociolinguistica. Internationales Jahrbuch für Europäische Soziolinguistik,
Special Issue, Tübingen, Niemeyer, 1998, pp. 85-116.
Con Spolsky B., Walters J., Language and Identity in Immigrant Language Acquisition and
Use. A Framework for Integrating Sociological, Psychological and Linguistic Data, in
Regan V. (a cura di), Contemporary Approaches to Second Language Acquisition in So-
cial Context, Dublin, University College Press, 1998, pp. 124-136.
Con Bredel U., “Naja dit sind allet so + verschiedene dinge die einem da so durch-n kopp
gehn... zuviel neues mi eenem schlach”. Verfahren sprachlicher Bearbeitung sozialer
Umbruchsituationen, in Reiher R. (a cura di), Sprache als Mittel zur Identifizierung und
Distanzierung, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1998, pp. 83-105.
Der Erwerb der Fokuspartikeln auch und nur durch die italienische Lernerin Franca, in
Dittmar N., Giacalone Ramat A. (a cura di), Grammatik und Diskurs, Tübingen, Stauf-
fenburg, 1999, pp. 125-144.
Con Bredel U., Die Sprachmauer, Berlin,Weidler Buchverlag, 1999.
Con Giacalone Ramat A., Grammatik und Diskurs, Tübingen, Stauffenburg Verlag, 1999.
Con Bredel U., Die Sprachmauer. Die Verarbeitung der Wende und ihrer Folgen in Gesprä-
chen mit Ost- und WestberlInerinnen, Berlin, Weidler, 1999.
Sozialer Umbruch und Sprachwandel am Beispiel der Modalpartikeln halt und eben in der
Berliner Kommunikationsgemeinschaft nach der ‘Wende’, in Auer P., Hausendorff H. (a
cura di), Kommunikation in gesellschaftlichen Umbruchsituationen. Mikroanalytische
Arbeiten zum sprachlichen und gesellschaftlichen Wandel in den neuen Bundesländern,
Tübingen, Niemeyer, 2000, pp. 199-234.
BIBLIOGRAFIA 343
Soziolinguistischer homo faber als Grenzgänger zwischen Form und Funktion der gespro-
chenen Sprache, «Sociolinguistica» 14, 2000, pp. 90-98.
Con Glier M., Abbruch, Aufbruch, Umbruch? Im Schatten der alten und im Flutlicht der
neuen Sprache, in Reiher R., Baumann A. (a cura di), Mit gespaltener Zunge? Die deut-
sche Sprache nach dem Fall der Mauer, Berlin, Aufbau, 2000, pp. 241-272.
Con Glier M., Zur Wissenschaftsgeschichte der Soziolinguistik im deutschsprachigen Raum,
in Häcki-Buhofer A. (a cura di), Vom Umgang mit sprachlicher Variation. Soziolingui-
stik, Dialektologie, Methoden und Wissenschaftsgeschichte, Tübingen, Francke, 2000,
pp. 71-86.
Con Schmidt-Regener I., Soziale Varianten und Normen, in Helbig G. (a cura di), Handbuch
Deutsch als Fremdsprache, Berlin, de Gruyter, 2001, pp. 520-532.
Deutsch-deutsche Sprach- und Kommunikationserfahrungen nach der Wende aus westdeut-
scher Perspektive, in Antos G., Fix U., Kühne I. (a cura di), Deutsche Sprach- und Kom-
munikationserfahrungen zehn Jahre nach der Wende, Frankfurt am Main, Peter Lang,
2001, pp. 101-140.
Zur Ungleichzeitigkeit des Gleichzeitigen. Umbruchstile: terra incognita, in Keim I., Schütte
W. (a cura di), Soziale Welten und kommunikative Stile. Festschrift für W. Kallmeyer zum
60. Geburtstag, Tübingen, Narr., 2002, pp. 281-314.
Changes in East German Society in the 1990s. The Disintegration of Identity and its Recon-
stitution within its own Native Language, in Jelen E., Rauen M., Swiatek M., Winiarskiej
J. (a cura di), Language Dynamics and Linguistic Identity in the Context of European In-
tegration, Krakow, Goethe Institut Inter Nationes, 2002, pp. 69-78.
Multidimensionales kubistisches und grotesk-überrealistisches Theater: Methusalem oder
Der ewige Bürger von Yvan Goll (1891-1950), in Zenmella T. (a cura di), Yvan Goll. In-
tersezioni testuali e multimediali, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice
Bologna, 2002, pp. 77-91.
Lakmustest für funktionale Beschreibungen am Beispiel von auch (Fokuspartikel, FP), ei-
gentlich (Modalpartikel, MP) und also (Diskursmarker, DM), in Fabricius-Hansen C.,
Leirbukt O, Letnes O. (a cura di), Modus, Modalverben, Modalpartikel, Trier, WVT
Wissenschaftlicher Verlag, 2002, pp. 142-177.
Con Forsthoffer I., Konversationsanalyse, in Kühl, S., Strodtholz P. (a cura di), Methoden der
Organisationsforschung. Ein Handbuch, Reinbek, Rowohlt 2002, pp. 395-425.
Register, in Ammon U., Dittmar N., Mattheier K., Trudgill P. (a cura di), Soziolinguistik, n.1,
Berlin, de Gruyter, 2004, pp. 216-226.
Umgangssprache, in Ammon U., Dittmar N., Mattheier K. J., Trudgill P. (a cura di), Sozio-
linguistik, n. 1, Berlin, de Gruyter, 2004, pp. 250-262.
Forschungsgeschichte der Soziolinguistik, in Ammon U., Dittmar N., Mattheier K. J.,
Trudgill P. (a cura di), Soziolinguistik, n. 1, Berlin, de Gruyter, 2004, pp. 698-720.
Sprache und Umbruch, in Bungaku D. (a cura di), Neue Beiträge zur Germanistik, München,
Iudicium, 2004, pp. 131-151.
Con Ammon U., Mattheier K., Trudgill P. Handbuch der Soziolinguistik, Berlin, de Gruyter,
2004.
344 IMMACOLATA TEMPESTA
also allora alors. Drei diskursive Schrittmacher, dreimal gleich und ungleich?, in Klaeger S.,
Thörle B. (a cura di), Sprache, Gesellschaft und Identität. Festschrift für Christine Bier-
bach, Stuttgart, Romanische Sprachen und ihre Didaktik, 2009, pp. 303-321.
Stil und Sozialität (Gruppe, Geschlecht, Alter), in Fix U., Gardt A., Knape J. (a cura di), Rhe-
torik und Stilistik, 2 parte, Berlin, de Gruyter, 2009, pp. 1245-1270.
Varietäten und Stil, in Fix U., Gardt A., Knape J. (a cura di), Rhetorik und Stilistik, 1 parte,
Berlin, de Gruyter, 2009, pp. 1669-1690.
Konversationsanalyse, in Handbuch Methoden der Organisationsforschung: Quantitative
und Qualitative Methoden, Wiesbaden, VS Verlag, 2009, pp. 395-425.
Mudança social radical e seu reflexo sociolingüístico nos registros e estilos de berlinenses do
leste do oeste depois da reunificaçâo alemâ, in Barretto M., Salgado C. (a cura di),
Sociolinguística no Brasil. Uma contribuiçâo dos estudos sobre línguas em/de contato,
Homenagem ao professor Jürgen Heye, Rio de Janeiro, Vimeiros de Castro, 2009, pp. 130-
146.
Transkription. Ein Leitfaden mit Aufgaben für Studenten, Forscher und VS Verlag für
Sozialwissenschaften, 2a edizione, Wiesbaden, Verlag, 2009.
Areal variation and discourse, in Auer P., Schmidt J.E. (a cura di), Language and Space. An
International Handbook of Linguistic Variation, Berlin, de Gruyter, 2010, pp. 865-877.
Urbane Ethnolekte am Beispiel von Berlin, in Földes C. (a cura di), Deutsch in soziolinguisti-
scher Sicht. Sprachverwendung in Interkulturalitätskontexten, Tübingen, Narr, 2010, pp.
1-27.
Pour une sociolinguistique constructiviste. La construction sociale du sens dans les parlers
jeunes et autres, in Gasquet-Cyrus M., Giacomi A., Touchard Y., Daniel V. (a cura di),
Pour la (Socio-) Linguistique. Pour Louis-Jean Calvet, Paris, L’Harmattan, 2010, pp.
125-144.
Comportement verbal et rupture sociale: propositions pour une méthodologie pragmatique
qualitative, in Boyer H. (a cura di), Pour une épistémologie de la sociolinguistique, Li-
moges, Editions Lambert-Lucas, 2010, pp. 143-154.
Con Seifert-Pironti M., The acquisition of topical and non-topical reference by an Italian
Learner of German, in Chini M. (a cura di), Topic, struttura dell’informazione e acquisi-
zione linguistica, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 159-176.
Zum Verhältnis von Form und (kommunikativer) Funktion in der mündlichen Rede am
Beispiel des Konnektors also, in Dittmar N., Bahlo N. (a cura di), Beschreibringen für
gesprochenes Deutsch auf dem Prüfstand. Analysen und Perspektiven, Frankfurt am
Main, Peter Lang, 2010, pp. 184-216.
Con Bahlo N. (a cura di), Beschreibungen für gesprochenes Deutsch auf dem Prüfstand.
Analysen und Perspektiven, Frankfurt am Main, Peter Lang 2010.
Sozio-semiotischer Homo Faber, in Fricke E., Maarten V. (a cura di), 68 Zeichen für Roland
Posner. Ein semiotisches Mosaik. 68 Signs for Roland Posner. A Semiotic Mosaic,
Tübingen, Stauffenburg, 2011.
Das Projekt “P-MoLL”. Die Erlernung modaler Konzeptes des Deutschen als Zweitsprache:
Eine gattungsdifferenzierende und mehrebenenspezifische Längsschnittstudie, in Ahren-
346 IMMACOLATA TEMPESTA