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DI LINGUISTICA E DI SOCIOLINGUISTICA

Studi offerti a Norbert Dittmar

a cura di
Immacolata Tempesta e Massimo Vedovelli

BULZONI EDITORE
Volume pubblicato con il contributo
dell’Università del Salento
Dipartimento di Studi Umanistici
e del Monte dei Paschi di Siena.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI


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la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-899-0

© 2013 by Bulzoni Editore S.r.l.


00185 Roma, via dei Liburni, 14
http://www.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it
Norbert Dittmar (Berlino, gennaio 2013).
INDICE

9 Saluto del Magnifico Rettore dell’Università del Salento (Prof. Ing.


Domenico Laforgia)
11 Saluto del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Siena
(Prof. Massimo Vedovelli)
13 Immacolata Tempesta, Presentazione. Di Linguistica e di Sociolingui-
stica
19 Tullio De Mauro (Università Sapienza-Roma), 1946: presagi di muta-
menti nella storia linguistica degli italiani
29 Gaetano Berruto (Università di Torino), Punti d’incontro fra socio-
linguistica e linguistica formale nello studio della variazione. Consi-
derazioni dal punto di vista italo-romanzo
49 Rosanna Sornicola (Università Federico II-Napoli), Abbiamo bisogno
di una linguistica delle emozioni?
77 Federico Albano Leoni (Università Sapienza-Roma), Delle parti e del
tutto: Jakobson, Husserl e la fonologia
93 Emanuele Banfi (Università degli Studi di Milano-Bicocca), Seman-
tizzazione della nozione di ‘città’: un confronto storico-linguistico tra
ambienti indo-europeo e cinese
107 Giuliano Bernini (Università di Bergamo), Il plurilinguismo emergente
nell’istruzione superiore italiana
117 Marina Chini (Università di Pavia), Scelte di lingua e reti amicali di
ragazzi di origine immigrata nel Pavese
149 Patrizia Cordin (Università di Trento), “With our best future in mind”.
Lo sviluppo bilingue di bambini con L1 minoritaria
167 Traute Taeschner, Sara Poliani, Sabine Pirchio (Università Sapienza-
Roma), Saper narrare a due anni
185 Miriam Voghera (Università di Salerno), Tipi di tipo nel parlato e
nello scritto
197 Claudia Caffi (Università di Genova), Stile e temperatura emotiva: il
caso del principe Myškin
215 Giovanna Alfonzetti (Università di Catania), Il “vizio dell’esotismo”
nel varietà della paleo-televisione
247 Gabriella B. Klein, Sergio Pasquandrea (Università di Perugia), Multi-
modalità nella comunicazione interculturale in contesti istituzionali:
la mitigazione dei tecnicismi
277 Karl Gerhard Hempel (Università del Salento), Multilinguismo nella
comunicazione scientifica. Il punto di vista degli archeologi classici
statunitensi
299 Massimo Vedovelli (Università per Stranieri-Siena), Lingua e emigra-
zione italiana nel mondo: per uno spazio linguistico italiano globale
323 Immacolata Tempesta (Università del Salento), I registri e la rete.
Vaghezza sociolinguistica dell’insulto
335 Immacolata Tempesta (a cura di), Bibliografia di Norbert Dittmar
Saluto del Magnifico Rettore dell’Università del Salento

Gli scambi (internazionali) sono vitali per la ricerca. E la ricerca è uno dei
fattori chiave per la crescita di un determinato territorio sia in termini di pro-
gresso “tecnologico” sia in termini di sviluppo economico, attraverso l’applica-
zione organizzata dei risultati ottenuti dalla comunità scientifica di quel determi-
nato territorio. Attraverso lo scambio questo potenziale di crescita territoriale si
allarga ad altri territori, altre nazioni, altri continenti, che possono usufruire di
quei risultati. Per le Università, luoghi preposti alla ricerca di qualità, gli scambi
internazionali rappresentano un fattore strategico per il loro sviluppo sia in ter-
mini di condivisione di esperienze sia in termini di riconoscimento internazionale
dello stesso Ateneo. Se ne accorsero anni fa i legislatori europei quando immagi-
narono i programmi Erasmus, Socrates, Leonardo, etc., che avevano proprio lo
scopo di favorire soggiorni all’estero di studenti e ricercatori in tutta Europa.
L’Università del Salento guarda sempre con grande attenzione alle opportu-
nità di scambi con colleghi di altre nazioni, perché portano linfa nuova e opportu-
nità di condivisione/confronto su tematiche di comune interesse. Ed è per noi
motivo di vanto annoverare collaborazioni ultradecennali con prestigiosi colleghi,
come Norbert Dittmar, già professore ordinario di Sociolinguistica presso la Freie
Universität di Berlino, diverse volte nostro ospite per conferenze e progetti co-
muni.
La continua collaborazione del prof. Norbert Dittmar con la nostra Univer-
sità ha portato un notevole contributo all’evoluzione della ricerca e degli studi nel
campo della Sociolinguistica, alla formazione dei nostri studenti, con lo svolgi-
mento di importanti attività didattiche, seminariali e congressuali, non ultima la
partecipazione al seminario di alta formazione tenuto proprio presso l’Università
del Salento nell’aprile del 2013. Ringrazio, dunque, i Colleghi Immacolata Tem-
pesta dell’Università del Salento e Massimo Vedovelli, Rettore dell’Università
per stranieri di Siena, curatori del presente volume per aver voluto lasciare traccia
tangibile di un patrimonio di esperienze, che altrimenti sarebbe andato perduto
nell’oblio del tempo.

10 giugno 2013 Prof. Ing. Domenico Laforgia


Rettore dell’Università del Salento
Saluto del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Siena

Pochi, pochissimi, studiosi delle scienze del linguaggio hanno incarnato la fi-
gura dello scienziato attento agli usi della lingua nei suoi contesti sociali come Nor-
bert Dittmar, e pochi hanno riscosso tante simpatie, amicizie, collaborazioni come
ne ha avute Norbert in Italia. Questo volume ne è una testimonianza, e si unisce a
quello edito nel 2008 da B. Ahrenholz, U. Bredel, W. Klein, M. Rost-Roth, R.
Skiba (Empirische Forschung und Theoriebildung. Beiträge aus Soziolinguistik,
Gesprochene-Sprache- und Zweitspracherwerbforschung. Festschrift für Norbert
Dittmar zum 65. Geburtstag, Frankfurt am Main, Peter Lang,), pubblicato per fe-
steggiare i suoi 65 anni.
Norbert è studioso la cui attenzione è stata sempre centrata sulla lingua nella
sua vita sociale, e proprio questa apertura alla complessità delle relazioni fra gruppi
e individui come attori sociali è la ragione della profonda simpatia, unita alla pari
stima, con cui la sua opera e la sua persona sono considerate dalla ricerca scientifica
italiana di linguistica. Il suo manuale di sociolinguistica, del 1975, è stato tradotto
quasi subito in italiano, nel 1978, e ha rappresentato un punto di riferimento per
tutti gli studiosi italiani in un momento in cui proprio gli approcci sociolinguistici
offrivano importanti strumenti per interpretare i profondi cambiamenti che investi-
vano gli assetti linguistici italiani.
Lo scrivente ha avuto la fortuna, molti anni or sono, di vivere un’esperienza di
ricerca accanto a Norbert Dittmar, che allora dirigeva un gruppo di ricerca presso
l’Università di Heidelberg. L’oggetto era costituito dalle questioni linguistiche
dell’emigrazione italiana in Germania, e l’attenzione teoretica di Norbert era soste-
nuta da una vera, profonda, umana conoscenza dei nostri emigrati in un momento di
svolta della condizione italiana come paese di migrazioni. Anche questo colpiva chi
collaborava con lui, oltre alle sue qualità di scienziato.
Così, gli scenari teorici e metodologici percorsi o aperti da Norbert rappresen-
tano modelli per i lavori di coloro che sono attenti a una realtà così fortemente di-
namica qual è quella linguistica italiana, dove le forme e le strutture, gli assetti
idiomatici e i contatti fra lingue sono il frutto e insieme il motore della complessa
relazione sociale. La lezione di rigore e di creatività, di profondità analitica e di vi-
sione strategica proposta da Norbert emerge quando la materia è costituita dagli in-
trecci fitti e mobili delle lingue e dei linguaggi nella vita dei loro utenti, come, in
modo elettivo, accade in Italia.
Coloro che presentano i propri contributi in questo volume intendono dare, per-
ciò, una testimonianza di come la presenza di Norbert sia stata costante nella ricerca
12 MASSIMO VEDOVELLI

scientifica italiana: a ciò si accompagna il ringraziamento per il suo essere stato ed


essere il testimone di un dialogo fra culture, dialogo la cui necessità appare ancor
più evidente in questo momento storico.

1 luglio 2013 Prof. Massimo Vedovelli


Rettore dell’Università per Stranieri di Siena
Presentazione: Di Linguistica e di Sociolinguistica

Questo volume vuol essere un omaggio ‘italiano’ allo studioso che fin dal
1976 è presente sulla scena italiana, scientifica e didattica, della sociolinguistica.
A lui è stato già dedicato, nel 2008, il vol., curato da B. Ahrenholz, U. Bredel,
W. Klein, M. Rost-Roth, R. Skiba, Empirische Forschung und Theoriebildung.
Beiträge aus Soziolinguistik, Gesprochene-Sprache-und Zweitspracherwerbsfor-
schung. Festschrift für Norbert Dittmar zum 65. Geburtstag, edito da Peter Lang,
Frankfurt am Main.
Poiché l’attività scientifica e didattica dello studioso si è svolta, in più occasioni,
in varie sedi universitarie italiane, si è voluto raccogliere e offrire al prof. Dittmar un
vol. che raccogliesse i saggi di un gruppo di amici e colleghi che hanno avuto il prof.
Dittmar come compagno di viaggio in percorsi di ricerca o di didattica, in Italia. La
produzione scientifica di Norbert Dittmar, come si può rilevare dalla bibliografia che
chiude il vol., è molto ampia e variata ed ha rappresentato una fonte di spunti e di co-
noscenze su più temi linguistici e sociolinguistici. Certamente molti altri colleghi
hanno avuto modo di collaborare con lo studioso nel suo lungo contatto con
l’università italiana. In questo quadro di forte e duratura incidenza della lezione di
Dittmar nel quadro degli studi sulla lingua e sulle sue variazioni, con questo volume i
curatori e gli autori hanno voluto esprimere allo studioso il proprio ringraziamento,
insieme agli auguri per il Settantesimo.
Nella lunga attività di ricerca del Nostro colpisce l’interesse per la ricerca sul
campo, per la raccolta di dati, per le sperimentazioni dirette, in una pratica continua
di osservazione partecipante, di immersione nella realtà oggetto di indagine, in cui
lo studioso si è calato totalmente, senza, però, esserne fagocitato. Uno studioso a
tutto tondo, osservatore sociolinguista a tempo pieno: tutto è stato ed è oggetto di
osservazione, senza che ciò significasse, o significhi, genericità o superficialità,
anzi. I suoi studi sono stati anche approfondimenti su specificità linguistiche e so-
ciolinguistiche.
Uno studioso attento ai vari aspetti del vivere civile, dello studio, della cultura.
Con una insuperata capacità di analisi del rapporto fra lingua e variazione sociale e
una grande umiltà nel rapporto umano.
La collaborazione dello studioso con le Università italiane è più che trentennale: è
passata tanta acqua sotto i ponti, le storie di vita, il volto dell’Università italiana si
sono modificati. La passione per la ricerca e l’impegno didattico hanno rappresentato
i punti di saldatura in un rapporto che ha visto nell’internazionalizzazione, sempre più
importante nel sistema universitario, il suggello di un connubio importante per gli stu-
denti e i docenti. Il Rettore dell’Università del Salento, Prof. Ing. Domenico Laforgia
14 IMMACOLATA TEMPESTA

e il Rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Prof. Massimo Vedovelli, hanno so-
stenuto fin dall’inizio la progettazione di questo volume, testimonianza della validità
dei rapporti internazionali nella ricerca e nella didattica.
L’opera raccoglie, oltre ai saluti introduttivi dei Rettori di Lecce e Siena, sedici
contributi, su temi di grande rilevanza di linguistica e sociolinguistica. Ne viene fuori
un quadro quanto mai aggiornato su vari focus, tutti centrali nella ricerca contempo-
ranea, con una delineazione, da parte degli eminenti studiosi dei temi trattati, delle più
recenti conquiste scientifiche, delle tendenze emergenti nella nuova configurazione
dei repertori linguistici in Italia o all’estero. Alcuni contributi, collocati nella prima
parte del vol., sono trattazioni su temi di carattere più generale, riguardanti aspetti e
problemi che attraversano interi comparti concettuali, se non disciplinari. Alcuni con-
tributi presentano un approfondimento su temi più specifici. In entrambi i casi si tratta
di temi quanto mai interessanti, centrali nella ricerca linguistica e sociolinguistica
contemporanea. Chiudono il volume i contributi dei due curatori, come vogliono le
regole dell’ospitalità editoriale, e la bibliografia di Norbert Dittmar.
Tullio De Mauro, con 1946: presagi di mutamenti nella storia linguistica degli
italiani, apre il vol. con una panoramica, storica e sociolinguistica, sugli anni che
portarono alla svolta istituzionale del 1946, al passaggio a un regime democratico,
ad una trasformazione profonda dell’assetto sociolinguistico della nuova Repub-
blica. Gaetano Berruto, in Punti d’incontro fra sociolinguistica e linguistica for-
male nello studio della variazione. Considerazioni dal punto di vista italo-romanzo,
tratta dell’avvicinamento fra due prospettive di ricerca che nella linguistica della se-
conda metà del Novecento risultavano del tutto separate: la sociolinguistica da un
lato, la linguistica formale di matrice generativista dall’altro. Il luogo empirico
principale della convergenza dei due approcci è la variazione intralinguistica, che
sta nell’interfaccia fra sistema e uso. L’Autore, che pone fra i punti di riflessione la
possibile tripartizione fra “grammatica”, “uso” e “sociale”, contro la semplice bi-
partizione fra “grammatica” da una parte e “uso sociale” dall’altro, si sofferma sulla
specificità della situazione italo-romanza, in cui importanti variabili sintattiche e
morfosintattiche presentano uno spiccato significato sociale. Rosanna Sornicola ri-
sponde alla domanda Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni?, che dà
anche il titolo al contributo, ponendo in evidenza le difficoltà di un approccio
scientifico alla linguistica delle emozioni. Non c’è, in psicologia, un consenso am-
pio su che cosa si debba intendere con “emozione”. I linguisti, fino agli inizi del XX
sec., si interessarono poco delle manifestazioni linguistiche e degli effetti delle
emozioni. Le emozioni e i fattori espressivi sono stati considerati soprattutto in al-
cuni ambiti, come la sintassi e la prosodia. Un importante momento di riflessione
sulle influenze delle emozioni su atteggiamenti e comportamenti linguistici è rap-
presentato dagli anni Sessanta, in particolare con la teoria di Halliday, in cui le
emozioni entrano a far parte della intelaiatura funzionale della grammatica. Parti-
colare attenzione è dedicata al tema delle emozioni negli studi sul multilinguismo.
Testimonianze preziose delle componenti emotive del linguaggio si ritrovano nelle
raffinate descrizioni di alcuni scrittori. L’Autrice evidenzia la lunga strada da fare
DI LINGUISTICA E DI SOCIOLINGUISTICA 15

per trovare un ponte tra linguistica e psicologia per lo studio dell’interazione tra
fattori emotivi e strutture linguistiche, anche se una linguistica delle emozioni sa-
rebbe quanto mai auspicabile per conoscere meglio il funzionamento delle lingue e
le abilità dei parlanti, per definire meglio le politiche linguistiche, i problemi di
identità e di appartenenza nelle società contemporanee. Federico Albano Leoni, in
Delle parti e del tutto: Jakobson, Husserl e la fonologia, considera alcuni aspetti del
pensiero fonologico di Jakobson e del rapporto con la fenomenologia husserliana.
L’Autore si sofferma, in particolare, sul saggio di Jakobson sulla struttura del fo-
nema e su un articolo riguardante il rapporto fra il tutto e le parti in linguistica. Da
un’attenta analisi delle contraddizioni e delle incertezze del binarismo e della teoria
dei tratti, risulta che la questione della natura asemantica del fonema continua ad
essere una questione irrisolta, anche perché l’adesione di Jakobson alla fenomeno-
logia husserliana sembra più di superficie che di sostanza. Emanuele Banfi, con
Semantizzazione della nozione di ‘città’: un confronto storico-linguistico tra am-
bienti indo-europeo e cinese, tocca un argomento tra i più appassionanti delle
scienze umane, quello relativo alla nozione di ‘città’. Anche se esistono elementi
comuni e ricorrenti, in ambienti diversi, di questa nozione, è interessante notare che
le difficoltà di definire il concetto vanno al di là del rapporto fra nozioni generali,
comuni, e contenuti variabili da civiltà a civiltà. L’analisi riguarda le modalità di
semantizzazione della nozione ‘città’ nell’ambiente indoeuropeo e in quello cinese:
in entrambi la città risulta un luogo di assembramento per scopi diversi, per scambi
commerciali o per difesa, ma in ambiente cinese con un modello più accentratore, la
città è, soprattutto, il luogo in cui si soddisfano i bisogni alimentari o il luogo depu-
tato alla gestione del potere amministrativo. Giuliano Bernini, in Il plurilinguismo
emergente nell’istruzione superiore italiana, partendo dalle Sette tesi per una poli-
tica linguistica democratica, in particolare dalla Quinta, dedicata al plurilinguismo
degli individui inteso come valore da tutelare e promuovere, tratta del plurilingui-
smo emergente nell’istruzione superiore italiana. Ne studia il valore, le politiche
linguistiche, con l’auspicio di una convergenza verso l’uso di una lingua pubblica e
ufficiale che garantisca il mantenimento della vitalità delle lingue nazionali. Marina
Chini, Scelte di lingua e reti amicali di ragazzi di origine immigrata nel Pavese,
mette a confronto i dati sulla presenza e gli usi dell’italiano con quelli delle lingue
di origine degli immigrati. I dati si riferiscono ad un’indagine condotta nel 2002 nel
Nord-Ovest italiano, con 171 adulti e 414 minori immigrati in Lombardia e in Pie-
monte, e a quelli ottenuti con la replica dell’indagine nel 2012, con 556 soggetti im-
migrati fra i 9 e i 17 anni, in provincia di Pavia. L’analisi si sofferma su alcuni dati
sociolinguisticamente rilevanti: sulla composizione delle reti amicali degli alunni
intervistati, sulle frequentazioni extrascolastiche, sui luoghi di incontro degli amici
italiani e di quelli connazionali, quindi, per i minori interpellati nel 2012, sulle lin-
gue parlate in famiglia, nelle reti amicali non italiane. Oltre ai dati raccolti con la
somministrazione del questionario si analizzano dei case study, basandosi su inter-
viste familiari. Patrizia Cordin, “With our best future in mind”. Lo sviluppo bilin-
gue di bambini con L1 minoritaria, ritorna sul tema del bilinguismo, ponendo come
16 IMMACOLATA TEMPESTA

oggetto del suo intervento l’evidenziazione dei collegamenti tra i vari aspetti dello
sviluppo linguistico dei bambini di famiglie migranti. Dopo aver presentato alcuni
dati quantitativi sulla presenza di bambini immigrati nella scuola italiana, l’Autrice
presenta i tre fattori che sembrano caratterizzare lo sviluppo linguistico: la
conservazione della L1 in famiglia, i comportamenti e gli atteggiamenti linguistici
della famiglia, l’alfabetizzazione. Propone, quindi, alcune strategie di intervento per
valorizzare il bilinguismo e rimuovere gli svantaggi. Lo studio assume come riferi-
mento un progetto canadese per l’istruzione dei bambini, a cui si riferisce la prima
parte del titolo del contributo. Traute Taeschner, Sara Poliani, Sabine Pirchio, con
Saper narrare a due anni, affrontano il tema della diagnosi del ritardo nel linguag-
gio dei bambini piccoli e degli interventi terapeutici e preventivi che si possono
progettare, basandosi su una ricerca empirica teoricamente fondata. Le sedi privile-
giate per gli interventi sono la famiglia e il nido, il modello di insegnamento lingui-
stico adottato è quello del Format narrativo. I materiali didattici utilizzati hanno
come base la narrazione e servono a creare un teatro mimico corale, in cui tutti i
bambini siano coinvolti. Nella ricerca condotta con 35 bambini di 24-36 mesi, nella
periferia nord di Roma, il confronto delle abilità linguistiche e narrative dei bambini
con sviluppo tipico e di bambini parlanti tardivi porta a verificare l’efficacia del
Format narrativo. Miriam Voghera, con Tipi di ‘tipo’ nel parlato e nello scritto,
sottolinea la sovrapposizione di ampie zone del lessico e della morfosintassi nel
parlato, la cui variazione può essere di tipo diamesico, ma anche diafasico e diato-
pico. I diversi usi linguistici vengono percepiti e attribuiti a diverse varietà non solo
a seconda delle caratteristiche formali e funzionali, ma anche sulla base dell’intera
organizzazione discorsiva. L’Autrice esamina quindi gli usi non nominali di ‘tipo’,
molto diffusi nell’italiano contemporaneo. Per ‘tipo’ si registra una progressiva tra-
sformazione da testa di SN a segnale discorsivo: gli usi nello scritto e nel parlato
non sono eguali e quindi il percorso di grammaticalizzazione può essere colto solo
tenendo conto delle due varietà diamesiche. Il contributo di Claudia Caffi, Stile e
temperatura dell’interazione: il caso del principe Myškin, si colloca in un’area di ri-
cerca di pragmatica interpersonale e riguarda, in particolare, le scelte stilistiche in-
tese come indici di monitoraggio delle distanze emotive tra gli interlocutori.
L’analisi concerne lo stile comunicativo del principe Myškin in una serata trascorsa
in casa degli Epančin, descritta nella parte quarta dell’Idiota di Dostoevskij. Il Prin-
cipe, nelle interazioni considerate, non pratica operazioni attenuative per salvaguar-
dare la faccia propria e altrui, ma nella ricerca della verità, rinuncia a tutte le sterili
convenzioni sociali. Caffi formula delle ipotesi generali sul funzionamento del si-
stema interattivo: l’interazione, in generale, tende all’omeostasi; il coinvolgimento
emotivo è regolato da un termostato controllato da entrambi gli interlocutori; vi può
essere un rapporto conflittuale tra faccia ed emotività. Del Principe si evidenziano
la violazione delle massime di Quantità e Qualità griceane, il tono e la temperatura
rovente del discorso. Giovanna Alfonzetti, Il “vizio dell’esotismo” nel varietà della
paleo-televisione, tratta del varietà, genere misto della paleo-televisione (1954-
1976). Si prendono in considerazione due varietà: 123 e Studio uno. Oltre a nume-
DI LINGUISTICA E DI SOCIOLINGUISTICA 17

rosi elementi delle varietà diastratiche e diafasiche alte, i due varietà presentano vari
forestierismi, che testimoniano il ricorso alle lingue straniere in contesti e con -
funzioni diverse. Gabriella B. Klein, Sergio Pasquandrea, in Multimodalità nella
comunicazione interculturale in contesti istituzionali: la mitigazione dei tecnicismi,
dopo aver sottolineato il fatto che l’uso del burocratese crea problemi non solo nei
testi scritti, ma anche nelle interazioni verbali, soprattutto con parlanti non nativi di
una lingua, analizzano 4 casi di interazioni burocratiche istituzionali in cui uno de-
gli interlocutori non è nativo. Si mostra come l’uso di diverse modalità semiotiche,
il gesto, lo sguardo, la manipolazione di oggetti, la postura, possono agevolare la
comprensione, soprattutto dei tecnicismi burocratici. I due Autori definiscono dieci
raccomandazioni dalle quali si possono trarre buone pratiche nell’uso di tutti i li-
velli della comunicazione, verbale, paraverbale, non verbale, visiva, tese a facilitare
la comprensione e l’interazione fra nativi e non nativi. Per Karl Gerhard Hempel,
Multilinguismo nella comunicazione scientifica. Il punto di vista degli archeologi
classici statunitensi, il multilinguismo è considerato il presupposto per una proficua
attività di ricerca in diversi ambiti di ricerca. Hempel tratta in particolare la situa-
zione in archeologia classica per quanto riguarda il tedesco, l’italiano e l’inglese. Si
esamina, da una parte, il prestigio attribuito all’uso delle diverse lingue in alcune di-
scipline, dall’altra la consapevolezza del carattere multilingue delle varie discipline.
I questionari si riferiscono a 28 studiosi di archeologia classica negli Stati Uniti
d’America, tutti madrelingua inglese. In sintonia con quanto già rilevato dall’Auto-
re in precedenti ricerche, gli archeologi classici statunitensi non sono particolar-
mente favorevoli al monolinguismo, anche se risulta che la letteratura archeologica
in inglese è più letta da ricercatori e studenti, il multilinguismo appare ancora in
buone condizioni di vita. Massimo Vedovelli, Lingua e emigrazione italiana nel
mondo: per uno spazio linguistico italiano globale, mette in evidenza che la consi-
derazione dell’emigrazione come fenomeno da rimuovere si può facilmente definire
a partire dalla scarsa rilevanza data a questo importante aspetto della storia e della
realtà italiana nelle manifestazioni celebrative del 150ennio di storia italiana unita-
ria. Vedovelli sottolinea i punti deboli di una politica, anche linguistica, che non ha
saputo valorizzare i movimenti migratori di cui l’Italia è stata protagonista, prima
come zona di fuga, poi come terra d’arrivo. La mobilità delle persone, non più emi-
granti o immigrate, ma semplicemente migranti, porta ad una sempre crescente in-
dustria delle lingue, nonostante la crisi. Partendo dal quadro storico dell’emigra-
zione italiana che ha visto vari processi di cambiamento degli usi dell’italiano fra le
diverse generazioni di emigranti, l’Autore assume il concetto di spazio linguistico
come centrale, e introduce il concetto di spazio linguistico italiano globale. Il primo
asse di questo spazio comprende i poli del contatto dell’italiano con le altre lingue,
con il dialetto e con la lingua del paese ospite, il secondo asse si basa sulle funzioni
dell’idioma selezionato, con i poli della lingua etnica, identitaria, nazionale, il terzo
asse è quello dei canali della comunicazione. Nello spazio linguistico sono
importanti anche i locutori e le funzioni che vengono assegnate allo spazio stesso.
Chiude il vol. il contributo di Immacolata Tempesta: I registri e la rete. Vaghezza
18 IMMACOLATA TEMPESTA

sociolinguistica dell’insulto, in cui si analizzano i vari usi pragmatici e interazionali


dell’insulto. Se si considera il gioco di faccia goffmaniano l’insulto rappresenta uno
dei mezzi più potenti per attaccare e distruggere l’immagine sociale dell’altro. Ma,
sociolinguisticamente, l’insulto appare più complesso, assumendo funzioni e moda-
lità d’uso così diverse da caricarsi, in alcuni contesti e in alcune fasce della rete so-
ciale, di un valore di rafforzamento del legame con l’interlocutore, o, con diffusione
crescente, di segnale di abbassamento del registro, di forte colloquialità, come mo-
strano i linguaggi giovanili sul web, oltre che nelle interazioni dirette.

Immacolata Tempesta
TULLIO DE MAURO
(Sapienza Università di Roma)

1946: presagi di mutamenti nella storia linguistica degli italiani

Nell’Italia dell’età della Repubblica coesistono continuità e discontinuità al-


trettanto forti, tenaci persistenze di tratti radicati in remote epoche preistoriche e
grandi innovazioni senza precedenti, e il loro coesistere segna il linguaggio, come
avviene del resto anche nelle mura, nel volto architettonico e nella struttura urbana
delle città. Una coesistenza simile non si trova in altri paesi d’Europa e, si può dire,
in ogni altro paese del mondo, tranne le due eccezioni notabili di India e Cina1. Di
ciò una testimonianza ma anche un simbolo significativo è una vicenda che sta agli
esordi della storia linguistica dell’Italia repubblicana e su cui val la pena soffer-
marsi.
Il 12 ottobre 1946 riunendosi in consiglio il governo italiano, il primo governo
ordinario della Repubblica nata da pochi mesi, aveva un’agenda fitta di questioni da
esaminare e decisioni da prendere. Un punto però richiedeva una delibera urgente.
Nei mesi precedenti era già stato decretato che la festa nazionale dello stato demo-
cratico dovesse cadere il 4 novembre, anniversario della vittoria del 1918 sugli au-
strotedeschi. Ed era previsto che in quella giornata celebrativa si svolgesse anche
una solenne cerimonia: gli ufficiali del nuovo esercito repubblicano dovevano giu-
rare fedeltà alla Repubblica, cosa non da poco perché si supponeva che molti uffi-
ciali fossero di sentimenti monarchici. Cipriano Facchinetti, ministro della guerra
(così si chiamava ancora quello che in anni seguenti, rispettando l’articolo 11 della
Costituzione, si sarebbe poi chiamato ministro della difesa), fece deliberare che uf-
ficiali non disposti a giurare dovessero essere radiati con effetto immediato. Una
questione restava però aperta: durante la cerimonia che inno dovevano suonare le
bande militari? I due inni ufficiali dello stato monarchico e fascista, una saltellante
Marcia reale e l’inno dei fascisti, Giovinezza, erano improponibili. Si discusse, si
decise che nei mesi seguenti sarebbe stata presentata una apposita legge
all’Assemblea Costituente, che funzionava anche da parlamento e intanto si deli-
berò che l’inno nazionale da eseguire fosse “in via provvisoria” il Canto degli Ita-
liani, più noto come Inno di Mameli. E così gli ufficiali giurarono e l’inno fu ese-
guito. Invece la legge promessa non fu più presentata né allora né poi e l’inno, col

1
Una prima discussione ho svolto in Per la storia linguistica dell’Italia repubblicana, in Mi-
glietta Annarita (a cura di), Varietà e variazioni: prospettive sull’italiano. In onore di Alberto A.
Sobrero, Galatina, Congedo, 2012, pp. 17-26.
20 TULLIO DE MAURO

suo linguaggio aulico, i suoi arcaismi lessicali e morfologici2, i suoi riferimenti sto-
rici non sempre chiari, è restato definitivamente e provvisoriamente l’inno nazio-
nale della nuova Italia democratica, Bisogna però dire che la scelta del governo
aveva un antefatto e ricostruirlo aiuta a capire come mai parole invecchiate e anti-
che memorie potessero assumere una risonanza nuova, un nuovo sapore.
“Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta”: con la sua robusta voce e con queste con-
suete parole iniziali dell’inno ottocentesco la mattina del 22 agosto 1943 Giuseppe
Di Vittorio, nell’adolescenza bracciante pugliese e poi in età adulta riconosciuto
capo sindacale e dal fascismo condannato al confino, dopo essersi arrampicato su
un muretto del porticciolo dell’isola di Ventotene, intonò il canto e subito fu seguito
da un improvvisato coro di altri ormai ex confinati e dagli isolani. Questi erano ve-
nuti a dare un saluto apertamente solidale agli antifascisti che, caduto un mese
prima il regime fascista, erano ormai liberi. Al molo era pronta un’imbarcazione di
fortuna, un vecchio veliero, che era stato preparato per l’occasione in sostituzione
della nave di linea affondata alcuni mesi prima da sottomarini inglesi. Con quel ve-
liero gli ex confinati poterono lasciare l’isola e navigare liberi verso la terraferma.
Poche ore dopo, all’arrivo del battello a Gaeta, il canto risuonò di nuovo. Lo intona-
rono inizialmente solo alcuni degli ex confinati, il gruppo dei comunisti, secondo la
testimonianza autorevole di Altiero Spinelli, ma, poi, dopo qualche esitazione, si

2
Tale il participio forte del non comunissimo verbo destarsi: a una bimbetta siciliana di que-
gli anni postbellici la cosa non appariva chiara, secondo la testimonianza di Rosa Calò, e il verso
era stato reinterpretato come l’Italia sedesta e sedesta come terza persona presente di un verbo
*sedestare “muoversi, agitarsi”. In riferimento a quegli anni sono parecchie le testimonianze e
memorie adulte di quiproquo infantili scaturenti dall’impatto tra la sopralingua aulica
dell’innologia ufficiale e la realtà linguistica di bambini immersi in un ambiente dialettale. Vittorio
Sermonti ha raccontato che per lui due versi dell’inno Fischia il sasso, il nome squilla detto Inno
del Balilla, suonavano così: Ma il balilla fu d’acciaio/ e la Patria di berò. Se un comune balilla
(con b minuscola) poteva essere d’acciaio, il *berò, di cui era fatta nientemeno che la Patria, do-
veva essere sì un metallo, ma assai più duro, tagliente, lucente dell’acciaio. Nell’Inno degli Arditi
un bravo giornalista, Marco Cesarini Sforza, raccontò una volta che leggeva un caso di sacrificio
eroico degno di Muzio Scevola davanti a Porsenna: il passo Avanti Ardito/ la fiamma nera/è nostro
simbolo/nostra bandiera lui se lo cantava, contaminandolo col suo dialetto romanesco, come
Avanti ar dito/la fiamma nera ecc. e immaginando che l’eroismo richiesto contemplasse
l’accensione di una fiamma nera da far bruciare all’estremità del dito. Altri ha raccontato di avere
supposto l’esistenza di un verbo *perbenire “lodare” o, forse, “arrivare felicemente” tratto dalla
reinterpretazione E perbenito Mussolini/eia eia alalà di Giovinezza. Ma soprattutto Luigi Mene-
ghello in Libera nos a malo ha offerto gli esempi più esilaranti, evocati con tutta la sua sapienza
letteraria e ironia, tra cui eccelle la complessa invenzione dei Vibralani, categoria o gruppo di sa-
lienti virtù eroiche cui ambivano i fanciulli canori di Malo e Vicenzai: Vibralani! Mane al petto/si
defonda di vertù./Freni Italia al gagliardetto/ e nei freni ti sei tu. In nota Meneghello ebbe la bontà
di dare il testo di partenza: Vibra l’anima nel petto/sitibonda di virtù:/ freme, o Italia, il gagliar-
detto/e nei fremiti sei tu.
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 21

unirono tutti, di tutte le varie tendenze presenti tra gli ex confinati antifascisti. E al
coro si unirono anche i marinai delle navi militari in sosta nel porto.
La ripresa del canto risorgimentale non era banale. L’inno era stato messo da
parte nelle cerimonie ufficiali dopo l’Unità e nel periodo fascista. Alla politica del
Regno neonato davano ombra gli accenti antiaustriaci e antitedeschi e infastidiva il
mazzinianesimo. Il fascismo gradiva poco gli affioramenti democratici presenti nel
testo. Tuttavia la scelta di prelevare di là il nome proprio di Balilla e attribuirlo ai
ragazzi delle organizzazioni giovanili fascistiche fece sì che in queste, diversamente
dall’ufficialità adulta, l’inno non fosse messo da parte, ma fosse spesso intonato e,
almeno per questa via, potesse restare nella memoria popolare. Certo è che dopo
l’episodio di Ventotene fu ripreso più volte anche altrove mentre ancora il conflitto
durava e tornò così a risuonare nelle zone d’Italia a mano a mano liberate mentre la
guerra volgeva al termine e il paese si andava aprendo un varco verso la democrazia.
Ebbe dunque la strada spianata il primo governo ordinario dello stato democratico
nello scegliere il canto come definitivamente provvisorio inno nazionale.
A Ventotene e Gaeta nell’agosto 1943 le vecchie parole del canto non volevano
né potevano servire a esprimere una retorica a cui era stato tolto ogni spazio dalla ca-
tastrofe militare e dalla brusca, fulminea dissoluzione del regime fascista col suo ar-
mamentario di canti e frasi famose. Altro poteva esprimersi nell’improvvisato uni-
sono. Forse c’era implicita anche l’idea che Italia non fosse solo un nome geografico
o l’etichetta d’uno stato, ma indicasse qualcosa di reale e durevole, e che il qualcosa
ora si destava dal sonno. Più esplicite e più certamente presenti erano l’idea e il pro-
posito di un affratellamento e la speranza d’un risveglio e di un nuovo inizio.
È quest’ultima l’idea e la speranza, questo il sentimento che trascorre in quegli
anni. Pochi mesi dopo il risuonare dell’inno a Ventotene e Gaeta, il 14 ottobre 1943
un grande storico, Adolfo Omodeo, appena nominato rettore, così diceva ai pochi
studenti raccolti per inaugurare l’anno accademico dell’Università di Napoli:
«Verrà giorno che molti di voi si ricorderanno di questa malinconica riunione
nell’atrio devastato come del grigio albore di una luminosa giornata»3. Ritroviamo
questo stesso sentimento di speranza e affratellamento nelle parole che l’anno se-
guente, nel settembre, in Roma appena liberata dal giugno, una valorosa scrittrice,
Alba de Cespedes, scrisse all’inizio della Premessa di «Mercurio», una rivista tanto
povera d’aspetto quanto all’epoca rilevante per la sua straordinaria ricchezza intel-
lettuale e lo spessore delle analisi politiche: «Usciamo come da una vita subacquea
(…). Ma ci sembra venuto, adesso, il momento di ritrovarsi, unirsi, riaffacciarsi in-
sieme a un balcone sul mondo, sorretti da quella solidarietà di patimento che è an-
cora stimolo di conoscenza, d’esperienza, di sopravvivenza». In quegli stessi mesi,

3
L’Acropoli ad Adolfo Omodeo, Napoli, Gaetano Macchiaroli editore, s.a. (ma 1947), p.
LVII: fascicolo di “commiato” della rivista (1945-47) promossa e diretta da Omodeo (Palermo
1889-Napoli 1946): l’inaugurazione dell’anno accademico è rievocata particolarmente da Giovanni
Malquori, Il Rettore, pp. LVII-LXIII.
22 TULLIO DE MAURO

sempre a Roma, simili sentimenti e propositi animavano gli amici e le amiche che
un’altra scrittrice, Maria Bellonci, accoglieva le domeniche pomeriggio nella sua
casa a discutere di libri e a ideare un modo che di libri facesse parlare e libri facesse
leggere il più largamente possibile4.
Certo in quegli anni la vita era non facile. Le truppe degli Alleati vincitori, an-
che finita la guerra, occupavano ancora il paese, esercitavano un pieno controllo
sulle regioni del Nord e battevano moneta, le am-lire. La allied military lire fu in-
trodotta nel 1943 nell’Italia liberata (o “occupata”, secondo il punto di vista della
parte di popolazione di persistenti sentimenti fascisti) e fu stampata fino al 1946. La
parola è ormai dimenticata, così come marginalizzate sono parole e cose allora po-
polarissime: il corned beef, il macinato di manzo compresso in lunghe scatole di
latta a sezione quadrata in uso tra le truppe americane e distribuito alle popolazioni
affamate; la peasoup, un verdognolo passato di farina di piselli altamente nutritivo
per chi accettava di nutrirsene. La fame era ancora tanta nelle grandi città e alle on-
date di entusiasmo popolare all’arrivo dei liberatori, come erano detti i militari al-
leati, accadeva che succedessero apprezzamenti più scettici, per esempio quello che,
fiorendo sui muraglioni del Tevere e altre mura della città, investì il governatore
degli Alleati a Roma: Colonnello Charles Poletti/ meno chiacchiere e più spaghetti.
Altre parole invece, pur testimoni di quel tempo in cui nacquero o si diffusero, sono
restate più saldamente nell’uso come carovita o camionetta (nome di quelle della
polizia dette jeep e di quelle che surrogavano i distrutti trasporti pubblici), agit-prop
o blitz (un accorciamento inglese e tedesco del tedesco Blitzkrieg, la guerra lampo
programmata e inizialmente realizzata da Hitler), sfollamento e sfollato o bughi-bu-
ghi, adattamento ironico di boogie woogie, il ballo american che fa impazzire,
come diceva Na vota che sì, na vota che no, una canzonetta semidialettale molisana
dell’epoca. Le città erano piene di cumuli di macerie. Ma nella pace che si annun-
ziava e fu ritrovata le speranze prevalevano e non solo tra quanti avevano fatto la

4
Annotava in un suo quaderno Maria Bellonci: «Cominciarono, nell’inverno e nella prima-
vera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella
partecipazione di un tempo doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno [libera-
zione di Roma] finito l’incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi
untiti per far fronte alla disperazione e alla dispersione. Prendiamo tutti coraggio da questo sentirci
insieme. Spero che sarà per ognuno un vivido affettuoso ricordo.». Nel 1946 gli Amici della Do-
menica, oltre 150, col sostegno finanziario dell’industriale Guido Alberti, avviarono il Premio
Strega, come ha rievocato la stessa Maria Bellonci in Come un racconto gli anni del Premio
Strega, Milano, Club del libro, 1970: «Uno spirito festoso e immune da ogni inibizione critica mi
spinse a mettere un fiore nei libri premiati. Ma io già da tempo cominciavo a pensare ad un nostro
premio, un premio che nessuno ancora avesse mai immaginato. L’idea di una giuria vasta e
democratica che comprendesse tutti i nostri amici mi sembrava tornar bene per ogni verso: dava
significato espressivo anche al gruppo che avrebbe manifestato così le sue opinioni e le sue
tendenze, anzi le avrebbe rivelate per mezzo di paragoni e discussioni: confermava il nuovo
acquisto della democrazia, ed era intonato al nostro stato d’animo».
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 23

Resistenza e per primi avevano cantato la rossa primavera e il sol dell’avvenire5 e


scrivevano sui muri Ha da venì Baffone o, come il leader socialista Pietro Nenni,
invocavano il vento del Nord, il Nord che più aveva dato alla Resistenza e più
avrebbe potuto pesare nel rinnovamento sociale e istituzionale.
Non erano solo alcuni gruppi intellettuali o persone di maggiore sensibilità ed
esperienza politica a sentire così, se, mentre il paese cominciava a riaversi dalla ca-
tastrofe, Piero Calamandrei annotava: «Tutti chiacchierano, discutono, polemiz-
zano: era vent’anni che si stava zitti!»6. In quel diffuso bisogno di esprimersi la lin-
gua comune fu chiamata a rispondere a una pluralità di impieghi e registri prima
sconosciuta e ciò, del resto, coinvolse in parte anche i dialetti parlati ancora in
modo esclusivo da almeno due terzi della popolazione. La volontà di nuovo e di
partecipazione era profonda e diffusa nell’intera società. Nacque anche da essa ed
esplose, come testimonianza e anche come risposta a un’esigenza comune, una
straordinaria fioritura artistica, di grandi film, romanzi, raccolte poetiche. Nacquero
fogli satirici popolari, settimanali di nuovo taglio e grande diffusione, dai livelli più
popolari del fotoromanzo ai settimanali d’attualità, moda e costume e, da un capo
all’altro dell’Italia, videro la luce numerose riviste di impegno intellettuale e civile,
non meramente specialistiche e accademiche, come le due già ricordate. Quella
stessa volontà di nuovo e di partecipazione si fece passione politica e di rinnova-
mento sociale e si tradusse subito nel dare o ridare vita a sindacato e partiti.
Già dall’inverno del 1943 e poi negli anni seguenti della Resistenza gli operai
nel Nord si erano impegnati attivamente per salvare macchine e impianti dal trasfe-
rimento in Germania. Mentre ancora la guerra durava e gli eserciti alleati risalivano
la penisola e la Resistenza si affermava nelle regioni centrali e settentrionali ancora
occupate dai tedeschi, i lavoratori ricominciarono a organizzarsi formalmente e
tornò a vivere liberamente il sindacato, che fu subito ed è restato un fattore impo-
nente di partecipazione concreta, non unidirezionale ma attiva, non locale ma pre-
sente in tutto il paese. E tornarono a vivere i partiti e con essi parole vituperate
quando non erano state messe da parte: democrazia, democratico, democristiano,
liberale, socialista, comunista. Alcuni partiti nacquero allora ex novo, come il Par-
tito d’azione, il PdA, fondato in clandestinità nel 1942, presto poi però disciolto (nel

5
Espressioni divenute quasi proverbiali della forse più famosa canzone partigiana il cui testo
fu scritto nell’autunno 1943 da un giovane, eroico medico chirurgo partigiano, Felice Cascione
nome di battaglia U mègu, “Il medico” (Porto Maurizio [poi Imperia], 2 maggio 1918-Val Penna-
vaira, 27 gennaio 1944). La musica riprendeva quella della russa Katjuša, originariamente canzone
scritta poco prima del conflitto mondiale da Matvei Blanter e Michail Isakovskij e diventata popo-
lare oltre fronti e frontiere (come del resto la tedesca Lili Marleen o, anche, comunemente, Mar-
lene). La canzone diventò immediatamente popolare tra le brigate partigiane del Nord (Battaglia
Roberto, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1970, p. 470). E come ogni testo popo-
lare si è arricchito di parecchie varianti diffuse e talora predominanti a cominciare dall’incipit (Sof-
fia il vento invece dell’originale Fischia).
6
Galante Garrone Alessandro, Calamandrei, Milano, Garzanti, 1987, p. 232.
24 TULLIO DE MAURO

1947) dopo risultati elettorali clamorosamente negativi. E tuttavia il Partito d’azione


ha lasciato tracce profonde nella cultura politica nazionale e nel suo stesso vocabo-
lario. Parole come azionista, in senso politico, e azionistico restano vive a evocare
quel misto di intransigenza morale e intellettuale nelle scelte da farsi e insieme di
astrattezza, ingenuità e dispute interne puntigliose, misto tipico di quel pugno
d’uomini indecisi a tutto7 raccoltosi in quel partito. Nacque ex novo ed ebbe invece
per qualche anno enorme fortuna il partito detto Fronte dell’Uq. Si diffuse tra 1944
e 1946 con la nascita e il gran successo del settimanale “Uomo qualunque” e ge-
nerò, con il largo uso pubblico di male parole (un voluto ammiccamento volgare
c’era anche nella sigla e nel dire “vogliamo difendere l’Uq”) anche l’aggettivo di
senso contrario a azionista, e cioè qualunquista, insieme con qualunquismo e qua-
lunquistico. Furono e restano vocaboli fortemente connotati: tratti dall’asettico e
neutro pronome indefinito qualunque servono tuttora a individuare, come dicono i
dizionari, «l’atteggiamento di sfiducia e scetticismo nei confronti delle forme tradi-
zionali di organizzazione della vita politica e dello stato, caratterizzato dal rifiuto di
qualsiasi presa di posizione ideologica e di ogni impegno civile» e, con senso più
esteso, «l’atteggiamento di indifferenza nei confronti di qualsiasi scelta ideologica e
morale anche in ambiti estranei alla politica». Difficili da tradurre in altre lingue (i
dizionari bilingui, in difficoltà, ignorano queste parole o devono tradurle con com-
plesse perifrasi), azionista (ovviamente in senso politico, non nella invece ben tra-
ducibile accezione finanziaria), azionismo, azionistico da una parte e, dall’altra,
qualunquista, qualunquismo, qualunquistico colsero in quegli anni e ancora ser-
vono a cogliere una polarità persistente della vita politica italiana.
Una parte essenziale nel rinnovamento che si profilava ebbero le donne8, certa-
mente anche perché chiamate a essere partecipi del nuovo assetto istituzionale che,

7
Espressione di paternità contestata. È stata diffusamente attribuita a Ennio Flaiano, di recente
anche da Raffaele La Capria nel convegno capitolino (6 marzo 2010) per il centenario della nascita
dello scrittore, e da Tommaso Russo Cardona, Le peripezie dell’ironia. Sull’arte del rovesciamento
discorsivo, Cosenza, Meltemi editore, 2010, p. 101. Ma è attribuita anche (altresì dallo stesso Raffaele
La Capria, Napolitan Graffiti. Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1992, p. 205) al grande amico di
Flaiano, disegnatore e satirico, Mino Maccari. Maccari la dà per propria in Con irriverenza parlando
(Bologna, Il Mulino 1993, p. 33). Decisivo è che a lui, a Maccari, la abbia attribuita lo stesso Ennio
Flaiano nel 1972, cfr. Satira è vita. I disegni del fondo Flaiano della Biblioteca Cantonale d Lugano,
con cinquanta brevi testi di E,F., a cura di Ruesch Diana, Milano, Hoepli, 2002, p. 40. Dunque, stando
alle carte, si deve attribuire l’espressione a Maccari..Per scrupolo di memoria devo dire che nei primi
anni cinquanta ho sentito più volte Carlo Antoni, storico della filosofia e filosofo, uomo probo non
sospettabile di sciocche vanità, attribuire la trovata dell’espressione a se stesso: Antoni, come Maccari
e Flaiano, era autorevolissimo assiduo collaboratore del “Mondo” di Pannunzio nel cui ambiente,
vicino all’azionismo, l’espressione comunque è certamente nata.
8
Alle donne si è talora attribuito in generale un ruolo di freno al mutare delle condizioni lin-
guistiche, la capacità, dunque, di un ruolo inerziale. Tra gli aspetti salienti e nuovi dell’Italia
linguistica nell’età della Repubblica c’è il profilarsi di contributi linguistici innovativi della parte
femminile della popolazione. Ad esempio, di fronte a un uso del dialetto avvertito come “virile”, ai
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 25

in forza di un decreto legge del 1945, prevedeva il suffragio pienamente universale.


Di conseguenza le donne furono chiamate al voto fin dalle elezioni amministrative
comunali della primavera del 1946 e poi il successivo 2 e 3 giugno per le votazioni
del referendum sulla forma monarchica o repubblicana dello Stato e per scegliere i
deputati all’Assemblea Costituente.
All’innovazione giuridica si accompagnò il fatto nuovo di una diffusa e aperta
partecipazione attiva delle donne alla vita collettiva. Nella tradizione culturale ita-
liana fino ad allora erano state escluse dalla vita politica e, si può dire, pubblica,
tranne figure isolate come nel primo Novecento erano state Maria Montessori o
Anna Kuliscioff, e come furono le staffette della guerra partigiana, quasi tutte, salvo
pochissime eccezioni, restate poi ignote poco oltre la cerchia familiare. Nell’Italia
del 1946 la partecipazione femminile fu un fatto di élite e di massa. Donne entra-
rono nelle assemblee rappresentative: pochissime allora (ventuno su 558 deputati, il
3,7%) e, del resto, poche anche poi, eppure il fatto fu straordinario per l’assenza di
precedenti9. Altre donne come Alba de Cespedes, la già ricordata direttrice di
«Mercurio», Maria Bellonci, animatrice del cenacolo degli “Amici della Domenica”
e del Premio Strega, Anna Lorenzetto, fondatrice dell’UNLA, Unione nazionale per
la lotta all’analfabetismo, Marguerite Caetani, fondatrice e direttrice della rivista
letteraria «Botteghe Oscure», Elena Croce, direttrice (con Raimondo Craveri) e
anima dello «Spettatore italiano», stavano alla guida di iniziative che polarizzavano
attenzioni intellettuali e politiche. Ma non erano loro sole. Il “tutti discutono” che
sorprendeva e rallegrava Calamandrei includeva in modo vistoso le donne a tutti i
livelli sociali e il fatto suscitava stupore e ironie tra i maschi egemoni10.
Con le donne l’intera società entrò in movimento. Dai tardi anni quaranta si
intensificarono i movimenti intraprovinciali, interprovinciali e interregionali della
popolazione, in stretto rapporto con il risveglio e poi con lo sviluppo intenso delle
capacità produttive e imprenditoriali, fenomeni che culminarono poi tra anni cin-
quanta e sessanta ed ebbero influenza decisiva sul comune parlare.

fini della diffusione dell’italiano parlato specie tra le generazioni poù giovani è stata decisiva la
precoce preferenza femminile per l’uso dell’italiano, accompagnata da una maggiore abitudine alla
lettura, e l’adesione allo standard: cfr. De Mauro Tullio, La cultura, in AA.VV., Come siamo,
come eravamo, Bari-Roma, Laterza, 1978, rist. in L’Italia delle Italie, 3a ed., Roma, Editori Riu-
niti, 1992, pp. 17-68, Marcato Gianna (a cura di), Donne e linguaggio, Padova, Cleup. 1995, in
particolare Cortelazzo Michele A., La componente dialettale nella lingua delle giovani e dei gio-
vani, pp. 581-586.
9
Ufficio comunicazione istituzionale del Senato, Le donne nell’Assemblea Costituente e nel
Senato della Repubblica, Roma, Senato della Repubblica, 2010.
10
Se ne faceva eco una fortunata canzonetta romanesca di quegli anni, Vecchia Roma, che
delle donne diceva: «Senza comprimenti/ nei caffè le senti/ de politica parlà./ Vanno a ‘gni comi-
zio/ chiedeno er divorzio/ mentre a casa se sta a diggiunà» (Borgna Gianni, Storia della canzone
italiana, Bari-Roma, Laterza, 1985, pp. 115-17).
26 TULLIO DE MAURO

Per l’Italia il 1946, insomma, segnò certo una svolta istituzionale. Ma il pas-
saggio alla forma statale repubblicana e a un regime democratico e parlamentare fu
preceduto e accompagnato dalla nascita di una diffusa volontà e nuova possibilità di
partecipazione alla vita sociale pubblica, sindacale e politica. Una volontà e una
possibilità tali erano state concesse per l’innanzi, e non soltanto nel ventennio fasci-
sta o nei decenni dello stato unitario ma nei secoli, solo a quelle minoranze esigue
che dalla piazza avevano potuto accostarsi alla vita del palazzo, per riprendere la
metafora o, meglio, la realistica immagine di Guicciardini rinverdita poi da Paso-
lini11. Già allora vi fu chi, come Adolfo Omodeo o l’allora giovanissimo Luigi
Meneghello12, ritenne di scorgere e temette che quella volontà e possibilità avreb-
bero stentato a realizzarsi appieno. E tuttavia non si può dimenticare che
quell’erompere di discussioni e quel coinvolgimento così attivo e largo di tanti e
tante nelle scelte costituzionali e politiche non avevano precedenti nella lunga storia
dell’intero insieme delle popolazioni italiane. Al complesso delle popolazioni vis-
sute nei secoli tra le Alpi e Lampedusa nessuno aveva detto, come disse la Costitu-
zione con la sua consapevole scelta di un linguaggio semplice e netto: «la sovranità
appartiene al popolo» (Cost. art.1, c.2), istruiti e ignoranti, gente ricca e povera

11
Francesco Guicciardini, Ricordi, Serie seconda 141, in Opere, a cura di Emanuella Sca-
rano Lugnani, vol.I, p.768: «…spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta, o uno muro sì
grosso, che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi go-
verna, o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India, e però si empie facilmente
el mondo di opinione erronee e vane». Pier Paolo Pasolini, Fuori del Palazzo, “Corsera”, 1° agosto
1975, poi in Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976: «Fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta
milioni di abitanti sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo
con la sua prima vera unificazione): mutazione che per ora lo degrada e lo deturpa. Tra le due
realtà, la separazione è netta, e al suo interno agisce il “Nuovo Potere”, che, con la sua “funzione
edonistica” riesce a compiere “anticipatamente” i suoi genocidi».
12
Adolfo Omodeo fin dall’inverno 1945 osservava nella sua rivista «Acropoli» (Preludio, I,
1, p. 7): «Tende a formarsi una saldatura tra un’amara conclusione scettica dell’avventura fascistica
e il discredito della vita politica ad arte diffuso dal fascismo». Luigi Meneghello, Il dispatrio, Mi-
lano, Rizzoli, 1993, rievocando gli anni 1946-48, scrive: «In Italia le cose si erano messe male. Si
veniva instaurando un regime che consideravo nefasto, e il panorama culturale mi sembrava parti-
colarmente deprimente. Si sentiva nell’aria l’arretratezza della nostra cultura tradizionale, comune
matrice degli indirizzi più palesemente retrivi a cui si appoggiava il nuovo regime, e di quelli vel-
leitari e in parte spuri che cercavano di contrastarlo. E lì in mezzo si distingueva appena il nucleo
striminzito delle idee e delle cose che approvavo: parzialmente, santo ai miei occhi, ma striminzito.
Ero convinto invece che “fuori” ci fosse un mondo migliore, migliore non solo di qualche grado,
ma incomparabilmente. E la chiave era la cultura dell’Europa moderna» La “saldatura” di Omodeo
e l’”aria” di Meneghello si tradussero anche nella grande fortuna dell’Uq (vedi sopra) e documento
ne resta anche, ancora una volta, la gran fortuna di una canzone: la scrissero in dialetto napoletano
Edoardo Nicolardi e E.A.Mario, e divulgò espressioni diventate proverbiali in tutto il paese: «Basta
ca ce sta ‘o sole/ ca c’è rimasto ‘o mare (…) / Chi ha avuto ha avuto ha avuto/chi ha dato ha dato
ha dato./ Scurdammoce ‘o passato/ simme ‘e Napule paisà».
1946: PRESAGI DI MUTAMENTI NELLA STORIA LINGUISTICA DEGLI ITALIANI 27

gente, maschi e femmine. E il popolo cercò e a più riprese, più d’una volta, ha con-
tinuato a cercare di rispondere all’invito. Avevano buone ragioni quelli che vissero
quegli anni sperando che fossero l’inizio di una novella istoria13.

13
Lo fu davvero? La risposta dipende in parte dallo strato o gruppo sociale e da quale delle
diverse Italie allora in gioco si assumono a riferimento, come ha mostrato Mario Isnenghi nelle sue
Dieci lezioni sull’Italia contemporanea. Da quando non eravamo ancora nazione… a quando fac-
ciamo fatica a rimanerlo, Roma, Donzelli, 2010, in particolare p. 240 sgg. Tuttavia anche se si
guarda alla sola Italia delle istituzioni pubbliche la risposta non è lineare. Dopo il 1946 gli eventi
politici e politico-amministrativi accentuarono il grado di continuità tra gli apparati del vecchio
Stato monarchico e fascista e il nuovo Stato o, diciamo meglio, la Repubblica che nasceva, magi-
stratura, amministrazione, la stessa scuola rimasero a lungo con il personale e con pratiche e nor-
mazioni di età monarchica e fascista. Ha scritto Sabino Cassese (Lo Stato fascista, Bologna, Il Mu-
lino, 2010, p. 24): «Il Ventennio fascista lascia all’Italia del secondo dopoguerra (…) una sfera
pubblica di grandi proporzioni; uno stato produttore di servizi e di beni, con un ruolo sociale do-
minante, i cui interessi vanno ad intrecciarsi con quasi ogni aspetto della vita civile del Paese;
un’amministrazione pubblica che legifera, giudica, amministra, esegue, negozia tutto insieme.
L’idea del fascismo come parentesi, di una cesura netta tra periodo fascista e Italia repubblicana,
dunque, è errata. O, meglio, corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una di-
stanza tra il fascismo e se stessi, che alla realtà dei fatti». Il proposito di un taglio netto con il pas-
sato oligarchico e fascistico ispirò la Costituzione, anche linguisticamente innovativa per il ricorso
a periodi lineari e di marcata brevità media (meno di 20 parole per frase) e il ricorso molto largo,
straordinario in testi giuridici, ma anche nel giornalismo, al vocabolario di base. Elaborata tra 1946
e 1947 dall’Assemblea Costituente e in vigore dal 1o gennaio 1948 la Costituzione restò a lungo
“congelata”, come ha altresì detto Sabino Cassese Qualche esempio: la Corte costituzionale, che,
prevista dalla Costituzione (artt.134-37), poteva operare per depurare dal corpo delle leggi le norme
repugnanti con i principi costituzionali del regime democratico, si insediò solo nel 1955; solo nel
1970 furono istituite le Regioni previste anch’esse dal 1948 (artt.114-133), ma solo vent’anni dopo,
nel 1977, vi fu un’effettiva devoluzione di competenze dallo stato centrale. E, per venire ad aspetti
più immediatamente vicini alla realtà linguistica, solo nel 1962 fu istituita la unitaria scuola media
dell’obbligo, ma nonostante ciò ancora negli anni settanta metà delle leve giovani non completava
gli otto anni di scuola che la Costituzione (art. 34) voleva obbligatori. Solo nel 1999, con cinquan-
tuno anni di ritardo, il Parlamento provvide a varare una legge di tutela delle minoranze linguisti-
che come richiesto dall’art.6 della Costituzione. Gli elementi di continuità nelle strutture e nelle
forme dello Stato erano e restarono insomma assai forti. Solo con grande lentezza e tra negligenze
e contrasti si è andato attuando in parte quell’articolo 3, comma secondo della Costituzione che as-
segnava all’intera articolazione delle strutture pubbliche il «compito» di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la parità effettiva di cittadine e cittadini in ogni materia, anche nella lingua. Per il lin-
guaggio, se si sceglie l’ottica istituzionalmente prevalente nell’ordinamento universitario e
nell’organizzazione delle corporazioni, cioè l’ottica della “storia della lingua”, può sembrare che
sia successo ben poco, l’arrivo di un po’ di neologismi, qualche stilema colloquiale che si affaccia,
accresciute influenze inglesi (cfr. Renzi Lorenzo, Come cambia la lingua, Bologna, Il Mulino,
2012), tutte cose che, con altre interne, relative all’inventario di forme e strutture dell’italiano,
meritano certo ricognizione e attenzione sistematiche. Se però si adotta l’ottica della “storia lingui-
stica” delle popolazioni, e dall’inventario delle forme si sposta l’attenzione al loro uso e al loro va-
28 TULLIO DE MAURO

Non è separabile da ciò, come in parte già si è accennato, quel che è avvenuto
nell’ambito del linguaggio. Un assetto sociolinguistico secolare, che nel 1946 an-
cora durava, è stato scosso e profondamente trasformato dai mutamenti innescatisi
nell’età della Repubblica.

riare statistico, alla storia di come e perché la popolazione italiana ha parlato, scritto, capito e non
capito grazie al complesso sia dei repertori di cui disponeva (italiano letterario e non, dialetti muni-
cipali e non, varietà regionali e varietà sociali, diastratiche, lingue di minoranza e lingue straniere)
sia delle competenze per accedervi (alfabetizzazione primaria, conservazione o perdita adulta delle
capacità alfabetiche, varia esposizione all’intreccio di tradizioni linguistiche, dal latino alle lingue
straniere, ai diversi dialetti ecc.) il 1946 rappresenta l’avvio di una svolta che, senza nessuna enfasi,
si può definire epocale.
GAETANO BERRUTO
(Università di Torino)

Punti d’incontro fra sociolinguistica e linguistica formale nello studio della


variazione. Considerazioni dal punto di vista italo-romanzo

1. INTRODUZIONE
Il nuovo secolo ha visto un fruttifero inizio di avvicinamento e cooperazione
fra due anime o prospettive di ricerca che nella linguistica della seconda metà del
Novecento tendevano a presentarsi come ambiti delle scienze del linguaggio fra
loro agli antipodi se non del tutto incompatibili: la sociolinguistica da un lato e la
linguistica formale di matrice generativista dall’altro. L’approccio sociolinguistico
si è ovviamente contrassegnato in primo luogo per la sua presa in considerazione
dei fattori sociali interagenti con l’uso della lingua (o la lingua in uso) come ingre-
diente essenziale dell’analisi e della spiegazione, mentre altrettanto ovviamente la
linguistica generativa per la sua stessa natura ha escluso del tutto, motivatamente e
programmaticamente, la sfera dei correlati sociali dei fatti linguistici dal proprio
raggio d’azione, assumendo come unico proprio oggetto d’analisi e spiegazione la
competenza interiorizzata del sistema formale della lingua (la cosiddetta Lingua-I).
Pareva che tra queste due anime fosse destinata a permanere totale incomuni-
cabilità; ma da qualche tempo le cose sono cambiate1. Un avvicinamento tra le due
direzioni è stato evidente in ambito internazionale, nella stessa linguistica teorica
anglosassone nella quale la divisione fra le anime pareva particolarmente netta; ed è
avvenuto, nel suo piccolo, ma con particolare vigore, anche nella linguistica prati-
cata in Italia. La convergenza di interessi fra sociolinguisti e linguisti formali e il
senso dell’avvicinamento in atto sono per es. ben esplicitati da Benincà, Damonte
(2009, p. 185), che, partendo dall’ovvia, ma importante, assunzione che «approcci
formali e sociolinguistici alla variazione linguistica non si escludono a vicenda, ma
spiegano aspetti diversi dello stesso fenomeno», auspicano che

1
Una quindicina d’anni fa Wilson, Henry (1998, p. 19) notavano che «the history of the
theoretical and practical relationship between sociolinguistics and core linguistics has not always
been a happy one. Each approach has been seen as alternative to the other» e che lo svilupparsi
della teoria dei parametri nella linguistica generativa offriva per lo meno un’opportunità di discus-
sione su un terreno comune. Hasty (in stampa, p. 19) può ora constatare che «the study of syntactic
variation must of necessity unite the efforts of theoretical syntacticians and variationist sociolin-
guists if it is to allow us to fully understand and model the variation apparent in syntax».
30 GAETANO BERRUTO

questo approccio ‘integrativo’ […] possa da una parte offrire alla linguistica formale
modelli sociolinguistici che permettano di comprendere meglio le dinamiche della va-
riazione […], dall’altra fornire alla sociolinguistica fenomeni linguistici analizzati in
modo preciso per essere utilizzati nella rilevazione dei correlati sociolinguistici della
variazione (p. 192)2.

Il luogo empirico focale e sostanziale della convergenza è ovviamente la va-


riazione intralinguistica, che, essendo concepibile come sutura fra sistema lingui-
stico e società3, «sta nell’interfaccia fra sistema e uso» (Berruto, 2009a, p. 18) e ri-
chiede quindi di essere studiata in sinergia fra linguistica del sistema (linguisti for-
mali) e linguistica dell’uso (sociolinguisti). Vorrei trattare, in omaggio al collega e
amico Norbert Dittmar che è sempre stato di una sensibilità rara anche per le que-
stioni teoriche generali, teorico-metodologiche e di sviluppo metateorico della ri-
cerca sociolinguistica (temi sui quali ci ha fornito più di un lavoro illuminante), al-
cuni aspetti sottesi a, o sollevati da, questo incontro di prospettive.

2. VARIAZIONE E GRAMMATICHE
Il crescente interesse mostrato dalla linguistica formale verso la variazione ha
naturalmente avuto il suo fulcro nello studio della variazione in sintassi, campo
elettivo di lavoro della linguistica generativa. Una tappa importante nella consape-
volezza teorica dei rapporti fra sintassi formale e analisi della variazione sociolin-
guistica (cfr. sul tema generale Berruto, 2009b) è rappresentata dai lavori raccolti in
Cornips, Corrigan (2005), in cui si fronteggiano diverse prospettive di matrice for-
male, a vivace testimonianza della diversità di vedute sul fenomeno che permea lo
stesso campo generativista. Il problema fondamentale in questa prospettiva è così
formulato da Adger, Smith (2005, p. 149): «how is the mental grammar (the I-lan-
guage of Chomsky 1986) organized so that such variation arises?»; compito del ge-
nerativista è spiegare come le varianti semanticamente equivalenti siano derivate
dal sistema sintattico «in a principled way». Gli stessi autori riassumono, dal punto
di vista della linguistica formale, fondamentalmente tre approcci per rispondere a
questa domanda (Adger, Smith, 2005, p. 162): a) il ricorso a regole variabili; b) il
ricorso a grammatiche multiple o all’«intra-language parameter setting»; c) il ri-
corso a codificazioni diverse delle proprietà morfosintattiche degli items lessicali
(tipico del modello minimalista).

2
Analogamente, dal versante dei sociolinguisti, Cheshire (2005, p. 101): «a new alliance be-
tween variationists and generativists might lead to generative linguistics becoming more interested
in externalized, performed language-not simply in order to find new data against which to test the
theory but also to apply the rigour of the generative approach to discovering the structure of spoken
language».
3
«La variazione […] è […] un carattere rilevante della lingua, attivato quando si attua la su-
tura, per così dire, fra il sistema linguistico, l’uso e la società» (Berruto, 2009a, p. 14).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 31

Nello stesso Cornips, Corrigan (2005) sono peraltro rappresentati anche altri
approcci formali circa l’interazione fra teoria sintattica e teoria variazionista. Per
es., per Henry (2005, p. 120) si imporrebbe anche un ritorno al concetto di regola,
reintroducendo la possibilità delle regole di variare non solo in base a tratti lingui-
stici ma anche in base a caratteri extralinguistici; Barbiers (2005, p. 258) pratica in-
vece un approccio in cui «optionality […] is considered to be an inherent property
of the grammatical system»; e in una prospettiva un po’ diversa è stata proposta
come approccio particolarmente utile per l’analisi della variazione la teoria
dell’ottimalità (cfr. Guy, 2007, pp. 21-22; Green, 2007, pp. 25-27). Le prospettive
avanzate e discusse in Cornips, Corrigan (2005) sono state riprese, ampliate e arric-
chite in un fascicolo monografico di «Lingua», annata 120 (2010), in cui gli autori,
appoggiandosi anche su approfondite analisi empiriche di fenomeni nello spazio di
variazione morfosintattica dell’inglese, aggiornano il panorama delle posizioni rap-
presentate nel campo formalista circa la trattazione della variazione.
Ampliando un po’ il discorso, si potrebbe riassumere come nello schema 1 il
rapporto fra modelli grammaticali e variazione (intralinguistica) così come si è svi-
luppato nel decorso cinquantennio.
SCHEMA 1

[anni ’60-’70] [anni ’80-2000] [inizi del XXI sec.]


(A) grammatica (B1) grammatiche mul- (C) grammatica (D) grammatica unica,
unica, con regole tiple (competing gram- universale parame- con reintroduzione di re-
opzionali > regole mars) trica gole opzionali (Henry,
variabili (Kroch, 1994) → (Kayne, 1996, Be- 2005), o con movimenti
(Labov, 1969) → nincà, 1994) → connessi alla selezione
(B2) Varietätengram- degli items lessicali
matik (Adger, Smith, 2005,
(Klein, 1998) Barbiers, 2005), o con
input opzionali gover-
Word Grammar
nati dall’’ottimalità’
(Hudson, 1986) (Green, 2007, Guy,
… 2007)

Le quattro fasi grossolanamente schematizzate mostrano un movimento ondi-


vago fra due concezioni fondamentali: quella che la variazione vada spiegata
all’interno di una sola, unica grammatica (com’era nel modello delle “regole varia-
bili” di Labov che ha dato origine all’importante campo della sociolinguistica va-
riazionista; e com’è di nuovo, pur su basi ben diverse e in diversa direzione, negli
approcci recenti basati sul modello minimalista) e quella che la variazione vada
spiegata con la compresenza di grammatiche diverse nello stesso parlante. E mo-
strano anche un progressivo perdere di rilevanza, nelle ricerche sul tema specifico,
delle impostazioni prettamente sociolinguistiche europee, di impianto funzionalista,
32 GAETANO BERRUTO

neo- e post-strutturalista, a favore di quelle generativiste. Da una grammatica unita-


ria, con scelte variabili al suo interno, come nella fase A, si è passati a grammatiche
multiple, come nella fase B1 (che prevede tante grammatiche, una per ogni scelta),
coesistenti peraltro con modelli a grammatica unica con inclusione di fatti di fre-
quenza contestuale (Varietätengrammatik, cfr. Klein 1998) o addirittura con codifi-
cazione di informazione sociale nei tratti grammaticali (la cosiddetta Word Gram-
mar, Hudson, 1986 e 2007; che tuttavia non spiega la variazione), sviluppatisi
nell’ambito della linguistica non formale (fase B2); e poi di nuovo a una gramma-
tica unica, dapprima con variazione parametrica (fase C) e in seguito con regole op-
zionali, o con carico della variazione sulla selezione delle entrate lessicali, o con
principi governati dalla cosiddetta ottimalità, che pone gerarchie diverse fra le re-
strizioni in diverse situazioni (fase D).
Occorre dire tuttavia che in molti degli approcci di matrice formalista, genera-
tivista, che si sono sviluppati dalla metà degli Ottanta è presente una certa ambi-
guità circa la questione cruciale se quella che è oggetto di studio sia variazione in-
terlinguistica o intralinguistica. Tali approcci infatti si sono in genere concentrati
sullo studio della variazione dialettale, ed è noto che la nozione di dialetto copre
ambiti diversi in diverse situazioni sociolinguistiche: se per es. si hanno in mente gli
American dialects e si lavora su di essi, si tratterà soprattutto di variazione intralin-
guistica, ma, se si hanno in mente e si lavora su dialetti romanzi, risulta piuttosto
trattarsi di variazione interlinguistica. Così, una grande opera come Savoia, Manzini
(2005) in buona parte tratta di variazione interdialettale, interlinguistica (dialetti lo-
cali diversi, quindi ciascuno con la sua grammatica).
Un aggiustamento significativo di direzione nel campo della linguistica for-
male si è recentemente avuto in Italia con i lavori di P. Benincà e della scuola pado-
vana da un lato, e di A. Cardinaletti (Cardinaletti, Munaro, 2009; Cardinaletti,
2011) dall’altro, che hanno affrontato secondo i principi, le categorie e i metodi
della teoria generativa la variazione interna all’italiano (in particolare, in riferi-
mento agli italiani regionali, visti come luogo di contatto fra l’italiano e i dialetti) e
ai dialetti italo-romanzi sullo sfondo della situazione sociolinguistica italiana. E an-
che in lavori recenti di Savoia e Manzini (cfr. oltre, § 5) è presente l’attenzione alla
variazione intralinguistica. Si sono dunque aperte interessanti prospettive di colla-
borazione e sinergia con i sociolinguisti. Si tratta evidentemente di una collabora-
zione molto benvenuta. Mi pare quindi valga la pena di discutere alcuni dei fonda-
menti, dei presupposti e delle implicazioni di questa collaborazione, e dei problemi
che essa può mettere a fuoco.

3. SULLA NATURA DELLA VARIAZIONE


Comincerei con l’elencare temi che, a priori, si presentano, ad un livello piut-
tosto alto, come possibili punti di sinergia fra formalisti e sociolinguisti circa lo stu-
dio della variazione. Per esempio, i seguenti: (1) qual è la natura e l’estensione,
l’ammontare della variazione? (2) qual è il rapporto tra variazione interindividuale e
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 33

variazione intraindividuale? (3) quali sono le interrelazioni fra le variabili (quello


che per i generativisti si presenta come il problema del clustering4 e per i sociolin-
guisti come il problema della solidarietà, cooccorrenza e addensamento di varianti)?
(4) come si distingue ciò che è sensibile ai fattori sociali e ciò che sembra dipendere
esclusivamente dal sistema (da cui anche: come avviene la scelta delle varianti? con
quale meccanismo?)5. Si tratta di questioni che interessano parimenti, sia pure per ra-
gioni e finalità diverse, gli uni e gli altri, e in cui quindi la cooperazione, con i risultati
congiunti delle due impostazioni, può portare a risultati molto significativi. Fra i temi
più trattati nella letteratura internazionale in argomento, sembrano invece fondamen-
talmente tipici dell’approccio generativista problemi come: (5) si può dare conto della
variazione in un’unica grammatica, che la ammetta e comprenda al suo interno, senza
distruggere i postulati della teoria che non la vorrebbero? (6) quale (versione del) mo-
dello nell’evoluzione della teoria generativa è più adatta a dar conto della variazione?
Mentre pare un problema più sentito dai soli sociolinguisti il fatto stesso (7) che si
possa costruire un modello grammaticale della variazione.
Una questione centrale per stabilire un terreno solido d’incontro è allora natu-
ralmente quella della natura della variazione, com’è vista da generativisti e sociolin-
guisti. In generale, si può dire a questo proposito come la prospettiva generativa tenda
in fondo a ridurre la portata della variazione. Una parte della variabilità riconosciuta
dai sociolinguisti risulta infatti solo apparente (Benincà, Tortora, 2011), quando, po-
stulato che ogni parlante ha la sua grammatica interiorizzata, viene definita come pro-
priamente tale solo la variazione intraindividuale. Questo, specie nel caso che si adotti
una trattazione a grammatiche multiple come in Kroch (1994), in cui

l’apparente opzionalità delle regole della grammatica […] deriva dal fatto che il par-
lante ha una scelta lessicale (che Kroch suppone sia regolata da fattori sociolinguistici);
ma una volta scelta una forma, la regola si applica senza eccezione. Questo modo di
trattare la variabilità sintattica dà un contenuto teorico specifico alla nozione di ‘due di-
verse grammatiche’: sarebbero rappresentate nella mente del parlante come scelte lessi-

4
Vale a dire di come individuare fatti diversi tra loro interdipendenti, che costituiscano un
cluster, raggruppamento o «conglomerato di fenomeni»: «il concetto di parametro, una proprietà
astratta della grammatica, porta ad aspettarci, sia in sintassi che in fonologia, che insiemi di feno-
meni superficiali siano solidali nel confronto interlinguistico, perché sono il risultato di un com-
plesso di proprietà unificate da una proprietà di livello più astratto» (Benincà,Tortora, 2011, p.
239). Tortora (in stampa, p. 4) sottolinea che «one of the goals of the theory of parameters is to ac-
count for syntactic phenomena that are linked to one another».
5
Fra i cinque problemi rilevanti in un approccio formalista alla variazione sintattica elencati da
Haddicon, Plunkett (2010, p. 1058), tre coincidono con quelli qui isolati o vi sono grosso modo
riconducibili: «What is the relationship between intra-speaker and inter-speaker variation in syntax?
What formal and syntactic mechanisms best explain the existence of intra-speaker variation? Are
frequencies of variants (partially) predictable from the formal properties (e. g. features) involved?».
Gli altri due riguardano l’importanza rispettiva della variabilità nei bambini e della variazione negli
adulti per innescare il mutamento, e il ruolo dei parametri nella intra-speaker variation.
34 GAETANO BERRUTO

cali che, una volta fatte, hanno conseguenze grammaticali e producono risultati distinti
(Benincà, Tortora, 2011, pp. 238-239).

Circa la questione del rapporto fra variazione interindividuale e intraindivi-


duale, Benincà, Damonte (2009) distinguono dal punto di vista della spiegazione
teorica, e in riferimento alla situazione italiana, tre casi diversi. Quando c’è varia-
zione interindividuale, si tratta in gran parte di variazione fra grammatiche diverse,
«cioè variazione in alcuni punti precisi di due grammatiche altrimenti uguali» (p.
186): i parlanti possiedono varietà (leggermente) diverse. Quando c’è variazione
intraindividuale, si può anche qua avere una variazione fra grammatiche diverse,
qualora un parlante possieda due (o più) varietà (leggermente) diverse (per es., una
varietà locale e una koinè provinciale o regionale di un dialetto): ma si hanno anche
situazioni in cui «la variazione intra-individuale sembra corrispondere a una sola
grammatica» (p. 189). In quest’ultimo caso, che è naturalmente quello problematico
per i generativisti, la spiegazione va cercata nel fatto che «una lingua possieda più
di una forma lessicale per lo stesso identico significato funzionale, e che quindi si
abbia variazione senza per questo avere alternanza tra due grammatiche diverse».
Per es. (Benincà, Damonte, 2009, pp. 190-191), nella parlata emiliana di
Zocca esistono due forme equivalenti alternative di negazione post-verbale, menga
e brisa. Le due frasi a n mang menga la cherna / a n mang brisa la cherna (‘non
mangio la carne’) non presentano nessuna differenza di significato, sono pure va-
rianti: si avrebbe dunque «una sola grammatica con due forme lessicali diverse per
la negazione di frase» (p. 190). Non si tratterebbe peraltro di variazione libera, neu-
tra e casuale, totalmente priva quindi di interesse e pertinenza sociolinguistica, in
quanto la prima forma mostrerebbe un orientamento di prestigio verso la varietà
dialettale di Modena (che ha menga) e la seconda verso la varietà dialettale di Bo-
logna (che ha brisa). Analogo discorso per es. per la coesistenza nel dialetto di
Cairo Montenotte (a base piemontese ma con influssi liguri) di tre diversi patterns
della posizione dei pronomi clitici con tempi verbali composti (Parry, 2005, pp.
176-179). I clitici possono essere realizzati in questo contesto o come enclitici sul
participio passato, o come proclitici sulla forma verbale flessa dell’ausiliare, o con
reduplicazione (combinazione di enclisi sul participio passato e proclisi sulla forma
verbale flessa). Secondo Benincà, Damonte (2009, p. 192), si potrebbe trattare an-
che qui di variazione lessicale all’interno di una sola grammatica, se si interpretano
i clitici come «particelle che […] compaiono oppure no in posizioni che sono indi-
pendentemente presenti nella struttura e vengono attivate in presenza di determinate
costruzioni»: la grammatica del parlante presenta «un’unica struttura sintattica, con
le stesse caratteristiche funzionali, ma per le diverse posizioni attivate ha la scelta
fra un elemento nullo e un elemento fonologicamente realizzato»; e le tre alterna-
tive si orienterebbero al modello di prestigio rispettivamente della varietà torinese,
del piemontese italianizzante e di varietà piemontesi meridionali. Secondo questa
prospettiva la grammatica ammette dunque variazione individuale sociolinguisti-
camente condizionata. Il meccanismo che permette la variazione è in primo luogo a
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 35

livello dell’individuo, mentre i fattori influenzanti sono sia a livello dell’individuo


che della comunità.

4. SPIEGAZIONI MINIMALISTE E ASPETTI PROBABILISTICI NELLA GRAMMATICA


Benincà, Tortora (2011) riconoscono comunque la possibilità, o esigenza, di
utilizzare modelli esplicativi diversi a seconda del tipo di variazione, interindivi-
duale e intraindividuale. Ci si collega qui con il problema (6) dell’elenco nel § 3.
Benincà, Damonte (2009) ammettono, come abbiamo visto, almeno due diverse
possibilità esplicative per la variazione all’interno di una grammatica formale: (a) la
compresenza nel parlante di grammatiche diverse, e (b) la presenza di un’unica
grammatica con possibilità di scelte lessicali diverse per la stessa posizione funzio-
nale. In Benincà, Tortora (2011) c’è però una posizione molto meno netta circa
questa seconda possibilità, e risulta privilegiata la concezione di due grammatiche
con sottili differenze contestuali. La prospettiva (b) è invece fortemente sostenuta
fra gli altri da Adger, Smith (2005), secondo cui la sorgente della variazione sta ap-
punto nella scelta dell’item lessicale. In questa prospettiva, ci sarebbe un solo si-
stema grammaticale invariante, e il meccanismo della variazione dipende dalla se-
lezione effettuata all’interno del lessico, nel senso generativista (cioè, del lessico
come insiemi di tratti o proprietà astratte da associare a una forma fonica che li
esprime), che in ciascun parlante è interrelato al sistema ‘computazionale’ che ge-
nera le strutture. L’attivazione, in base a una certa configurazione di tratti, di un
certo elemento lessicale invece che un altro genera varianti dentro la grammatica, e
fra queste ne viene attualizzata una in relazione a fattori extralinguistici (sociali,
psicologici, pragmatico-contestuali) indipendenti. La nozione di scelta di una va-
riante non è quindi vista qui come parte della specificazione del sistema sintattico in
sé, bensì come un meccanismo separato che interagisce con la sintassi:

localizing morphosyntactic variation in choice of lexical items means that we do not


have to posit any special mechanism to deal with variation. […] the orderly patterns of
variation seen across (groups of) individuals reduces to the lexical choice by an indi-
vidual speaker of functional elements with particular feature specifications (Adger,
Smith, 2005, p. 164, 173).

A parte questa caratterizzazione interna alle questioni dibattute dalla lingui-


stica formale, l’approccio di Adger è uno dei più interessanti e promettenti dal
punto di vista delle sinergie fra generativisti e sociolinguisti variazionisti, in quanto
arriva non solo a generare la variabilità all’interno di un quadro teorico ben stabilito
(il framework minimalista di Chomsky, 1995), ma anche a voler prevedere nella
grammatica gli aspetti probabilistici presenti nell’uso, e quindi a “generare” col
meccanismo formale una componente lato sensu sociale, o comunque relativa
all’uso. Adger (2006) e Adger, Smith (2010) sviluppano infatti su queste basi un
modello combinatorio della variazione (Combinatorial Variability) secondo cui le
36 GAETANO BERRUTO

differenze di frequenza delle varianti nei vari contesti d’uso potrebbero essere al-
meno parzialmente predicibili in base ai tratti coinvolti nel paradigma che le genera,
a loro volta sensibili alle restrizioni sociali sulla variazione.
In particolare, viene trattato il caso dell’accordo verbo-soggetto nel passato di
to be nella varietà di inglese parlata nella cittadina di Buckie (Scozia nord-orien-
tale), sulla base di un corpus ricavato da trentotto parlanti e comprendente anche
giudizi dei medesimi, da cui risulta il seguente paradigma: I was, You was/were,
He/she/it was, We was/were, You (ones) was/were, They were. A questi dati empi-
rici viene applicato un apposito algoritmo di Seek Maximal Generalization, che,
operando sui tre tratti assunti come rilevanti per la specificazione dell’accordo sul
verbo in inglese [± singolare], [± partecipante], [±autore], ed evitando l’opzionalità
e la sinonimia, genera per es. per la seconda persona singolare il seguente pool di
varianti, ammesso fra le sei uscite lessicali (a-f) possibili: [+ singolare, + partecipante,
-autore]: (a) was (c) was (d) were. Semplificando molto6, una “funzione di scelta” U
seleziona un elemento all’interno di questo pool. «If U applies to the pool of variants x
times, then the surface form of the variant will be was 0.66x times and were 0.33x
times» (Adger, Smith, 2010, p. 1112): e nel corpus considerato in effetti la percen-
tuale di was con il pronome di seconda singolare è del 69% (su 161 casi). La propor-
zione di due terzi circa di forme was prevista dalla grammatica trova quindi ottima ri-
spondenza nei dati osservati, la concreta percentuale risultante dal corpus. Analoghe
corrispondenze si dànno nel caso delle varianti nella marcatura verbale di terza per-
sona del presente, con –s o senza –s (Adger, Smith, 2010, p. 1125).
Hudson (2007) però critica dal punto di vista statistico l’analisi fornita, osser-
vando che, se si vanno a disaggregare i dati all’interno del corpus di Buckie, si nota
che l’età e il sesso dei parlanti hanno influenza sulle percentuali di realizzazione, e
che solo in alcuni sottogruppi di parlanti si trovano rapporti all’incirca di 2:1 per
was su were. In realtà, tuttavia, a mio avviso va riconosciuto come nella prospettiva
formalista il rapporto debba essere calcolato sull’interezza del corpus, giacché, ri-
guardando l’insieme delle lessicalizzazioni di un fascio di tratti, deve dar conto
della totalità dei dati per la comunità parlante, e non della dispersione delle singole
realizzazioni fatte in situazioni soggette a condizionamenti extralinguistici:

in any particular utterance situation, various factors will impact on the selection of one
of the members of the pool of variants, so that […] the sociolinguistic status of the vari-
ant, its recency, etc., might all in principle have an effect on which variant is chosen
(Adger, Smith, 2010, p. 1112).

Ancor più chiaramente si pronunciano sul tema dell’accoglimento di fatti pro-


babilistici nella grammatica Nevins, Parrott (2010), che applicano il modello della

6
Anche, purtroppo, in ragione della scarsa padronanza che dei dettagli tecnici dei modelli
generativisti ha chi scrive queste note.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 37

morfologia distribuita, in termini di una Teoria dell’Impoverimento (Impoverish-


ment Theory), all’analisi di fenomeni di livellamento dei paradigmi di accordo in
diverse varietà di inglese: la variazione vi è spiegata come risultante da regole post-
sintattiche di cancellazione di tratti che operano variabilmente, e quindi incorporano
aspetti probabilistici nella grammatica. Si tratterebbe dunque di una ripresa del con-
cetto di regole variabili alla Labov, aggiornato dagli autori in un contesto che vede
regole morfologiche applicabili probabilisticamente. Nevins, Parrott (2010, p. 1155)
rilevano però giustamente che «we must always leave open the possibility that lan-
guage-external social and volitional factors can change variant frequencies in actual
usage», e che, nel caso specifico,

the valued application probabilities for variable Impoverishment rules are located in a us-
age module distinct from grammar, where they can be freely influenced by myriad social,
volitional, frequency and recency of use, and other language-external factors (p. 1156),

affermando in conclusione che «we are unsure whether models of grammar should
explicitly attempt to predict exact usage frequencies at all».
È comunque molto significativo che nel dibattito dei formalisti sulla variazione
sia oggi ben presente la rivisitazione di un vecchio problema, per decenni molto di-
battuto e caro ai sociolinguistici specie variazionisti, vale a dire appunto «the question
of how/whether probabilistic constraints in production data should be understood in
formal terms» (Haddicon, Plunkett, 2010, p. 1059). Il fatto che si cerchi di generare la
probabilità nella grammatica è però un assunto molto forte, che, oltre a ritrovarsi di
fronte problemi già appunto discussi, e senza arrivare a conclusioni non dico defini-
tive ma anche solo convincenti, negli anni Settanta dai variazionisti7, implica che non
esistano in effetti regole opzionali. Occorre però aggiungere che nel campo generati-
vista si fronteggiano vedute assai diverse circa questo punto: per es., «contra current
minimalist views», come si è già accennato nel § 2, Barbiers (2005, p. 258), ritor-
nando ai primordi della teoria generativa (cfr. Haddicon, Plunkett, 2010, p. 1058),
considera l’opzionalità «an inherent property of the grammatical system. The system
allows a number of syntactically equivalent structures». Diametralmente opposta è in-
vece la posizione di Manzini, Savoia (2005, p. 29):

all’interno di una grammatica minimalista, in cui l’opzionalità interna ad uno stesso si-
stema linguistico è chiaramente esclusa da considerazioni di economia, ogni apparente
opzionalità deve essere costruita nei termini della coesistenza di più lingue.

7
Fra cui essenzialmente il problema di come, e secondo quali vie, la probabilità di occor-
renza, e quindi di realizzazione di una variante invece che di un’altra, si possa considerare far parte
delle conoscenze implicite della lingua-I, vale a dire la competenza in senso chomskyano, del sin-
golo parlante.
38 GAETANO BERRUTO

La discussione su questo punto cruciale del rapporto fra grammatica formale e


variazione sociolinguistica è dunque lungi dall’essere arrivata a un punto fermo; e
probabilmente si tratta di una controversia destinata a non giungere mai a una solu-
zione definitiva, anche per le ragioni intrinseche che si accenneranno in seguito.

5. APPROCCI MINIMALISTI E MICROPARAMETRICI


Una prospettiva simile a quella di Adger e Smith nell’assunzione di base che la
variazione sintattica consista in un fenomeno essenzialmente lessicale, nel senso del
modello minimalista8, ma diversa nella conclusione circa la natura microparame-
trica del fenomeno, che porta necessariamente a una spiegazione in termini di com-
presenza di grammatiche differenti, è adottata da Savoia, Manzini (2007), secondo
cui appunto «l’alternanza fra strutture sintattiche diverse […] si correla a modi di-
versi di lessicalizzare la computazione sintattica» (p. 87)9. Studiando per es. le va-
rianti di realizzazione del piuccheperfetto nella parlata arbëresh di Portocannone,
che conosce forme diverse quanto alla presenza o assenza di una particella preparti-
cipiale ǫ e alla posizione di un clitico oggetto, Savoia, Manzini (2007, p. 93) giun-
gono a concludere che

la grammatica di alcuni parlanti ma non quella di altri dispone di una particella ǫ dotata
di proprietà lessicali specializzate per l’incassamento del participio; inoltre alcune
grammatiche dispongono di clitici specializzati per il dominio del verbo matrice, altre
di clitici specializzati per quello del verbo;

la variazione sarebbe pertanto «riportabile a microparametri di tipo lessicale piutto-


sto che a macroparametri» (ibid.), e quindi «questo tipo di variazione non sembra
qualitativamente diverso da quello che vale fra lingue distinte, rientrando in un qua-

8
Che peraltro riprende e sviluppa la posizione di Chomsky (1995), che colloca la variazione
(interlinguistica) essenzialmente a livello morfologico, come dipendente dalla scelta delle parti di
una “computazione” che vengono realizzate con materiale di superficie: una lingua ha «un lessico
comprendente basi lessicali e formativi funzionali che lessicalizzano un particolare insieme di in-
formazioni morfosintattiche, dalle cui differenze dipende la variazione parametrica» (Savoia, Man-
zini, 2007, p. 93). Manzini, Savoia (2011, p. 263) chiariscono come segue la versione del modello
minimalista adottata: «our analysis depends on a representational version of minimalism […]. In
such a model, notions of, say, transitivity and voice […] can be stated directly in terms of LF [logi-
cal form, G.B.] primitives. Crucially, the LF primitives we employ […] are independently availa-
ble within a minimalist grammar as defined by Chomsky (1995) - with which the approach we take
is in this sense compatible».
9
Già molto chiaramente Manzini, Savoia (2007, p. 76): «optionality must be treated as an in-
stance of (micro-)bilingualism» («i.e. as the coexistence of several I-languages», Loporcaro, 2007,
p. 333; che critica severamente l’inaccettabile moltiplicazione di grammatiche che così deriverebbe
dalla combinazione di valori dei tratti opzionali, in cui ciascuna diversa combinazione vuol dire
un’altra grammatica).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 39

dro di differenziazioni interlinguistiche di natura microparametrica» (Savoia, Man-


zini, 2007, p. 85)10. Manzini, Savoia (2011, p. 225) ribadiscono che

in the internalist (i.e. ‘biologically, individually grounded’) perspective that we adopt,


variation between two or more dialects (linguistic communities) is in fact not qualita-
tively different from variation within the same dialect (community), or even within the
productions of a single speaker.

Le analisi condotte su fatti di bilinguismo e variazione portano peraltro Savoia


e Manzini a cambiare un connotato importante del modello minimalista, che in va-
rie versioni condivide per lo più l’assunzione che teste funzionali e teste lessicali
siano categorie diverse nei loro caratteri. Tale assunzione si rivelerebbe inadeguata
«a rendere conto dei normali fenomeni di microvariazione linguistica» e indurrebbe
a criticare «in particolare l’ipotesi che le categorie funzionali abbiano uno statuto
diverso dalle altre categorie lessicali» (Savoia, 2008, p. 64). Infatti,

none of our findings implies that the distinction between lexical and functional catego-
ries has any import for variation. Thus all syntactic structures can be projected from
lexical terminals, and there is neither a specialized morphological component, nor spe-
cialized lexicalization principles applying to abstract functional nodes. The mechanisms
that determine variation in so-called functional categories […] are the same responsible
for variation in the substantive lexicon; […] since the lexical/functional divide is not
necessary, it can be dispensed with (Manzini, Savoia, 2011, p. 262).

Sviluppando questo loro approccio, gli stessi autori approdano a una decisa ri-
valutazione teorica, dal punto di vista della linguistica formale, della posizione della
variazione nel sistema linguistico:

The relation of the syntax [..] to interpretation […] is crucial in our view to under-
standing the role of language variation in the overall economy of the faculty of lan-
guage. If our construal of syntax and its relation to interpretation is correct, the syntax
restricts interpretation, but does not ‘contain’ it […]. Thus the boundary between syntax
and interpretation is a loose one, allowing for a number of different matchings of syn-
tactic form to (inferentially determined) meaning. […] Lexical items are at the core of
language variation simply because they represent the core unit of this loose interface
between syntax and interpretation. In this sense variation is not an accidental property
of the faculty of language (Manzini, Savoia, 2011, p. 263).

10
Nel senso che Manzini, Savoia (2011, p. 262) così specificano: «it is evident that to the ex-
tent that the primitives of variation are macrocategories like transitivity or voice, we could equally
describe our approach as macroparametric - though the fact that the unit of variation can be as
small as single lexical item qualifies it as microparametric».
40 GAETANO BERRUTO

A differenza di approcci, sempre in un quadro di fondo minimalista, quali


quelli accennati nel § 4, il modello di analisi di Savoia e Manzini non mira però ad
accogliere le probabilità nel campo di predizione della grammatica. Questo rimane in
sostanza un problema ampiamente aperto, anche in termini deduttivi: può/deve un di-
spositivo fatto per generare oggetti linguistici formali, generare oggetti non linguistici
concreti come la probabilità di occorrenza? Ad avviso di chi scrive c’è infatti da chie-
dersi se ciò non sia intrinsecamente incongruente, in linea di principio.
Analogamente di tipo microparametrico, quindi fondata sulla diversità di gram-
matiche, è la posizione di Tortora (in stampa, p. 3)11, la cui assunzione è «to take each
variant in a pair as the reflex of a different grammar». Secondo tale approccio, che è
sostanzialmente quello di Kroch (1994) e che l’autrice definisce come ‘Multiple
Grammars’ hypothesis, un parlante che ammetta entrambe le varianti di una variabile
sintattica sarebbe “bidialettale” (cfr. anche Benincà, Tortora, 2011, pp. 238-239).
Sempre assumendo che la variazione parametrica sia un riflesso delle proprietà di sin-
gole teste funzionali, la variazione sarebbe da ricondurre ad opzionalità. Si tratta tut-
tavia di una opzionalità solo apparente, derivante dal fatto che i parlanti hanno scelte
lessicali (dipendenti da fattori sociolinguistici): «however, once the lexical choice is
made, the grammatical consequence is exceptionless. This approach to syntactic vari-
ability gives specific theoretical content to the notions of ‘two different grammars’»
(Tortora, in stampa, p. 14). Tortora peraltro è particolarmente interessata alla que-
stione del clustering, cioè del trovare e analizzare “grappoli” di fenomeni diversi (cfr.
nota 4 sopra) che appaiano interrelati nella fenomenologia della variazione sintattica,
e siano cioè interpretabili come riflessi di superficie di uno stesso parametro soggia-
cente, appartenendo quindi a una stessa grammatica. Un esempio classico di cluster è
dato dalla concomitanza in inglese fra l’anteposizione al verbo di avverbi come never
e always, e il fatto che «nell’interrogativa diretta un verbo lessicale non può comparire
adiacente al pronome interrogativo, o più generalmente non può precedere il sog-
getto» (Benincà, Tortora, 2011, p. 240).
Nonostante l’almeno apparente condivisione di prospettive con una tale impo-
stazione microparametrica, Manzini, Savoia (2011, p. 262) sono invece
dell’opinione che i cluster non abbiano rilevanza per la spiegazione formale della
variazione:

What is clear is that the empirical evidence at our disposal appears to be entirely in-
compatible with macroparameters […] i.e. structural parameters with cascading effects
over much of grammar. If there is a tendency for certain parameter values to cluster to-
gether, its explanation appears to essentially external to linguistics, in the sense in
which typological or functional explanations are.

11
Ringrazio l’autrice di avermi gentilmente messo a disposizione, attraverso Paola Benincà,
il testo dell’articolo in stampa.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 41

Sarebbe comunque del tutto da compiere un confronto specifico fra le istanze del
clustering in grammatica generativa, basato su fattori interni della lingua, e quelle
della solidarietà e co-occorrenza fra le varianti di una variabile teorizzate dai sociolin-
guisti per definire una varietà di lingua, basate sull’osservazione dei dati e del loro si-
gnificato sociale. È un confronto in un campo sinora ben poco esplorato (ma cfr.
Auer, 1997), e che forse porterebbe a enucleare novità interessanti per i sociolinguisti
in termini di motivazioni strutturali interne a fatti constatati esternamente.

6. IL SOCIALE E IL LINGUISTICO
Un punto cruciale aperto, di fondamentale rilevanza per il sociolinguista, ri-
guarda naturalmente l’interazione effettiva fra il sociale e il linguistico, e quindi
l’accoglimento, e la trattazione, del lato o versante “sociale” dei fenomeni, che co-
stituisce assieme al versante linguistico la biplanarità inscindibile dei fatti sociolin-
guistici, dunque anche delle varianti di variabili (Berruto, 1998). Da questo punto di
vista, non può anzitutto non essere messo in primo piano il fatto che gli aspetti so-
ciali, il côté propriamente sociale, risultano in genere del tutto assenti, o comunque
messi fra parentesi, nelle trattazioni dei formalisti.
Nei recenti approcci si configura infatti un’analisi della variazione, che questa
sia libera, contestuale o sociolinguisticamente condizionata, priva di ogni correlato
sociale: emblematica è per es. un’affermazione quale «there is no rule within our
model that makes reference to the social meaning of a variant» (Nevins, Parrott,
2010, p. 1138). Le variabili studiate dai formalisti risultano in effetti per lo più, a
prima vista, desolantemente prive di significato sociale rilevante o interessante.
Questo può apparentemente rappresentare una delusione per il sociolinguistica, ma
a ben vedere dal punto di vista epistemologico non può essere che così (anzi, è in
buona misura ovvio e scontato): un metodo formale non può per la sua stessa natura
e i suoi obiettivi dare conto di fatti soggetti all’ermeneutica, all’interpretazione,
rappresentazione e intenzionalità dei soggetti parlanti (Dittmar 1989, pp. 146-153),
che non possono essere compresi e spiegati in base ai modelli nomologici tipici
delle scienze esatte e della natura. Mi pare in effetti ancora pienamente da condivi-
dere la posizione espressa in proposito da Dittmar (1989, p. 153): «sono convinto
che, a lungo andare, non saranno i criteri formali […] a giudicare sull’adeguatezza o
correttezza delle nostre analisi, ma piuttosto la nostra conoscenza dei risultati alla
luce della nostra storica esperienza umana».
Ulteriori riflessioni su questo problema potrebbero indurre a mio avviso a
porre una tripartizione fra “grammatica”, “uso” e “sociale” e non la semplice bipar-
tizione solita fra “grammatica” da una parte e “uso/sociale” dall’altra. L’approccio
formale arriva dalla grammatica all’uso, ma non raggiunge il sociale. In secondo
luogo, è interessante notare che una carenza di “significato sociale” per quel che ri-
guarda proprio la variazione sintattica, che è al centro del dibattito fra formalisti e
variazionisti, viene affermata nello stesso campo variazionista. Meyerhoff (2013, p.
33), infatti, nota a proposito della «relationship between social factors and syntactic
42 GAETANO BERRUTO

variables» che, a differenza della variazione fonetica, «often there is a complete ab-
sence of social constraint on syntactic variation»; e riporta tale caratteristica
all’essere la sintassi situata a un livello più profondo che non la fonetica: «syntactic
knowledge lies below our levels of conscious awareness» ed è poco soggetta
all’attenzione sociale (p. 34).
Ma a me pare che questa scarsa sensibilità al sociale della variazione sintattica
sia ben lungi dall’essere un fatto veramente acquisito. Si tratta presumibilmente di
una generalizzazione che dipende anche dalla natura e fenomenologia che assume
la variazione in inglese. Non si può infatti non constatare che le indagini formaliste
sulla variazione hanno come oggetto centrale situazioni anglofone, e, prendendo
come paradigmatico il caso dell’inglese, trascurano in genere il fatto che la varia-
zione può assumere connotati ben diversi a seconda delle lingue e delle comunità
linguistiche considerate. Per restare nella situazione italo-romanza, è invece evi-
dente come numerose e importanti variabili sintattiche e morfosintattiche (quali la
costruzione della proposizione relativa, il doppio complementatore, la negazione
doppia/semplice, accordi abnormi, costrutti frasali con tema sospeso, vari fenomeni
riguardanti i pronomi clitici, e via discorrendo)12 manifestino spiccato significato
sociale. La concentrazione sull’inglese e su comunità anglofone può quindi da un
lato facilmente oscurare tipi di fenomeni che semplicemente vi appaiono poco o
non appaiono, e portare a iperinterpretare i tratti caratteristici della dispersione e
della collocazione sociale della variazione tipica di Gran Bretagna e Stati Uniti; e
dall’altro condurre a generalizzazioni assolute basate appunto sull’esame della sola
situazione dell’inglese assunta tacitamente come paradigmatica13. Su questo punto
c’è quindi da concordare perfettamente con quanto osservano Manzini, Savoia
(2011, p. 225):

the view we take is that it is the linguistic situation of, say, Britain that represents a
somehow misleading picture of variation, reflecting not only the internal shaping forces
of language development but also external mechanisms of social and political stand-
ardization.

7. ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE


Una cosa non può non colpire il sociolinguistica, in questo dibattito del primo
decennio del ventunesimo secolo: la ripresa dello stesso genere di temi e problemi –
e la riproposizione di soluzioni nella stessa chiave – che conobbe ampio dibattito

12
In Cerruti (2009) è trattata la distribuzione sociale di una serie di fenomeni morfosintattici
che si riscontrano nell’italiano di Torino.
13
Un esempio per altri versi di tale distorsione ottica è dato da alcuni dei contributi in Filp-
pula, Klemola, Paulasto (2009), che, sulle orme di Chambers (2004), postulano e trattano di Ver-
nacular Universals (universali delle varietà vernacolari, substandard) unicamente in riferimento
all’inglese, con una palese contraddizione circa il termine “universali”.
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 43

negli anni Settanta e primi anni Ottanta fra i sociolinguisti angloamericani, prima di
tutti ovviamente Labov, e poi Bailey, D. Sankoff, Romaine e altri, circa le regole
variabili e la loro integrazione nella grammatica. Vengono infatti rimessi in auge e
riproposti su tutt’altra base e con diverso approccio assunti del dibattito avutosi nel
campo del variazionismo di matrice laboviana sulla realtà grammaticale delle regole
variabili e sul loro fare parte della competenza linguistica (cfr. Berruto, 1995, pp.
173-182). Una differenza sostanziale è però che nel presente le variabili trattate ap-
partengono alla sintassi, mentre negli anni Settanta dominavano le variabili fone-
tico-fonologiche, con qualche excursus nella morfologia.
Da tutto questo fervore di riscoperta vengono indubbiamente guadagni reci-
proci per i formalisti e per i sociolinguisti. Che cosa guadagnano i sociolinguisti da
ciò che fanno i formalisti? Anzitutto, vedono riconosciuta in principio l’importanza
della variazione nel sistema linguistico, non più relegata a epifenomeno di superfi-
cie; ed è indubbiamente un risultato notevole. In secondo luogo, l’interazione fra
teoria sintattica e analisi variazionista fa sì che i sociolinguisti possano avere a di-
sposizione analisi di fenomeni di variazione condotte in maniera dettagliata e raffi-
nata, in termini di linguistica interna, con grande guadagno di precisione e di rigore
nella descrizione, e di approfondimento nella definizione stessa della natura della
variazione. Un aspetto esterno potenzialmente molto interessante per i sociolinguisti
è poi che l’approccio qualitativo dei formalisti rappresenta sicuramente un utile an-
tidoto contro un eccessivo impiego di metodi quantitativi, molto e forse troppo cor-
renti nella sociolinguistica variazionista.
Che cosa guadagnano invece i formalisti da ciò che fanno i sociolinguisti?
Hanno input di dati reali raccolti con cura metodologica adeguata e “interpretati”
anche in termini “sociali”; e con la presa in considerazione della fenomenologia
della variazione sociolinguistica possono migliorare e affinare il loro apparato teo-
rico e descrittivo. Cardinaletti (2011), per es., analizzando la variazione presente in
italiano regionale veneto circa la sintassi del soggetto, che con i verbi transitivi e
intransitivi «può occupare la posizione preverbale anche quando rappresenta il fo-
cus della frase» (p. 262), mostra la necessità di riconsiderare la nettezza della di-
stinzione fra lingue cosiddette pro-drop e lingue non pro-drop introducendo una
terza categoria, le lingue a pro-drop non totale14.
Rimane però fra le due prospettive un certo scollamento presumibilmente in-
sanabile: in virtù del necessariamente scarso peso che hanno le componenti pro-
priamente sociali nel lavoro dei formalisti, non c’è infatti una vera co-azione nel
migliorare e determinare un aumento delle conoscenze delle interrelazioni proprie
fra lingua e società. Non c’è peraltro da stupirsi se gli approcci formali non cercano
il significato sociale nei loro dati, poiché in effetti questo non interessa loro vera-

14
Un raffinamento, quando non un cambiamento, di categorie del modello è proposto anche
in altri apporti italiani della linguistica formale allo studio della variazione, per es. in lavori di P.
Benincà.
44 GAETANO BERRUTO

mente. La innegabile grande novità di questi studi per il campo formalista sta infatti
nello studiare la lingua anche nell’uso, anche, e anzi in primo luogo, in corpora
empirici di produzioni e giudizi linguistici. Sono gli approcci sociolinguistici, ov-
viamente, ad essere per principio interessati al significato sociale e a focalizzarsi su
questo. Col che si torna al punto di partenza, che vede ragionevole in tema di studio
della variazione una corretta divisione di compiti fra linguisti interni e sociolinguisti
in base alla natura degli oggetti da esplorare e spiegare e agli obiettivi della spiega-
zione. La grammatica generativa analizza e spiega delle competenze; la sociolingui-
stica analizza e spiega dei comportamenti. I sociolinguisti non possono essere com-
petitori “interni” nella formulazione di modelli formali della variazione.
Dietro i problemi che abbiamo discusso c’è poi, in ultimo, anche la grande
questione generale che oppone il biologico e il sociale nella lingua, e più ampia-
mente il formalismo e il funzionalismo in linguistica. Mi rendo conto che prendere
una posizione netta in proposito può anche essere il frutto, o presentare aspetti, di
scelta ideologica, o anche di professione di fede, invece che il riconoscimento e
l’accettazione di prove empiriche incontrovertibili o di modelli esplicativi inattac-
cabili. Dal punto di vista qui pertinente, insomma, si porrebbe la domanda seguente:
che il modulo mentale del linguaggio (cioè, tout court, la grammatica) non possa
includere informazione non linguistica è un atto di fede, una posizione ideologica, o
un risultato indiscusso confortato dai dati empirici? In ogni caso, mi paiono però da
condividere gran parte degli argomenti addotti per es. da Newmeyer (2003) per
motivare ancora una volta la separazione fra grammatica e uso. In particolare, per il
problema che ci interessa qui, concordo che «for some purposes […] statistical in-
formation can be extremely valuable», ma che questo non autorizza affatto a dire
che «corpus-derived statistical information is relevant to the nature of the grammar
of any individual speaker» e tanto meno che «grammars should be constructed with
probabilities tied to constructions, constraints, rules, or whatever» (Newmeyer,
2003, p. 695).
Mi sembra invece capziosa una parte degli argomenti avanzati per es. da Lom-
bardi Vallauri (2012) per respingere l’approccio formale a vantaggio di quello fun-
zionale; ma qui il discorso diventerebbe lungo, e non strettamente congruente con il
tema della presente discussione15. Considero comunque la lingua e il comporta-
mento linguistico – e non ho incontrato nei quarantacinque anni dacché frequento
territori della linguistica alcun argomento inconfutabilmente valido contro questa
concezione – un insieme particolarmente complesso di diversi piani e di diversi
fattori, biologici, culturali, sociali, tra loro intimamente fusi e ciascuno meritevole
di attenzione e indagine. C’è posto per tutti, nella divisione compartecipativa del la-
voro che è auspicabile nella linguistica – e tutte le prospettive possono utilmente

15
Una vivace ed equilibrata presentazione di pregi e difetti dei due approcci, formalista vs.
funzionalista, con individuazione dei rispettivi campi elettivi e della conseguente divisione del
lavoro, è in Bertinetto (1998).
PUNTI D’INCONTRO FRA SOCIOLINGUISTICA E LINGUISTICA FORMALE 45

contribuire al progresso della disciplina e all’avanzamento delle conoscenze, purché


cerchino di dire cose fondate.

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ROSANNA SORNICOLA
(Università Federico II-Napoli)

Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni?

1. OPPORTUNITÀ E POSSIBILITÀ DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI


Qualche anno fa un amico e collega catalano, Josep Nadal, mi ha invitato a ri-
flettere con lui e un gruppo di ricerca dell’Università di Girona sull’impatto dei fat-
tori emotivi nel funzionamento delle lingue e nei problemi di politica linguistica.
Credo che questo sia un tema difficile e appassionante, e sono consapevole dei ri-
schi di incompletezza e di imprecisione a cui si può andare incontro nella discus-
sione. Per un linguista si tratta di un terreno minato, poiché corre il pericolo di en-
trare da outsider o da semplice dilettante in un campo già abbastanza controverso
per gli specialisti della psicologia.
Non sarebbe possibile tentare l’esame di un problema per cui non ci sono rotte
ben tracciate, senza una sia pur rapida introduzione sull’uso del termine “emozioni”
e sul posto che i concetti ad esso associati hanno avuto nello sviluppo delle idee
della linguistica moderna. Per chi come me crede nell’importanza dell’approccio
storico nel delineare orientamenti di ricerca non solo passati, ma anche presenti, una
tale ricognizione è indispensabile. In generale, si potrebbe dire che l’emergere della
dimensione emotivo-affettiva del linguaggio sia stato lento e faticoso, ingombrato
dai problemi interni alla riflessione psicologica sul concetto di “emozione” e dalle
sorti stesse della linguistica generale durante il secolo scorso, su cui a lungo hanno
esercitato una influenza decisiva i modelli delle scienze della natura.
Comincio con l’osservare che non c’è affatto un consenso ampio su che cosa si
debba intendere con “emozioni” in psicologia1. Alcune teorie, più antiche, ne danno
una rappresentazione in termini di correlati fisiologici e di modifiche che si verifi-
cano a livello viscerale e periferico oppure nel sistema nervoso centrale, ma la col-
locazione esatta è motivo di opinioni divergenti. Altre, le cosiddette teorie cogniti-
viste, respingono tutte le spiegazioni in termini di modifiche fisiologiche e sottoli-
neano il ruolo fondamentale dei meccanismi cognitivi intesi come processi di inter-
pretazione di situazioni da parte degli individui, mentre le modifiche determinate
dall’attivazione del sistema simpatico sarebbero un aspetto secondario. In effetti,
negli ultimi decenni sembra essersi fatta strada la consapevolezza che lo studio
delle emozioni comporti necessariamente l’esplorazione congiunta di una pluralità
di dimensioni che interagiscono l’una sull’altra: cognizione, motivazione, adatta-
mento e attività fisiologica. Questo punto di vista è stato espresso, ad esempio,

1
Rinvio, al riguardo, alla voce “emozione” dell’Enciclopedia Treccani.
50 ROSANNA SORNICOLA

dall’importante lavoro dello psicologo olandese Frijda, secondo cui l’emozione può
essere rappresentata come una modifica della prontezza all’azione, che ha per fine
la modifica della relazione tra l’individuo e l’ambiente. Queste alterazioni sono in
rapporto a cambiamenti degli stati di motivazione e di comportamento, a loro volta
associati ad eventi esterni di diverso grado di desiderabilità per l’individuo, che agi-
scono in maniera positiva o negativa sul soddisfacimento dei suoi interessi e sono
più o meno congruenti con i suoi schemi cognitivi e le sue aspettative2.
Ma fino a dove si può avventurare il linguista nell’esame di dinamiche così
complesse e che richiedono ancora esplorazioni da parte degli psicologi? Forse è
destinato a non andare molto lontano ma, quantomeno, attraverso un rapido quadro
delle idee sulle emozioni nel suo campo di indagine può cercare di comprendere
opportunità e limiti del problema su cui ci interroghiamo. Una osservazione però si
impone subito: la domanda sull’opportunità di una linguistica delle emozioni non
può eluderne un’altra: se si concludesse che abbiamo bisogno di una tale lingui-
stica, sarebbe possibile realizzarla? La storia della linguistica, come cercherò di ar-
gomentare tra poco, mostra che non è scontato che entrambe le domande poste ab-
biano una risposta facile, e tantomeno positiva.

2. I FATTORI EMOTIVI NELLA STORIA DEL PENSIERO LINGUISTICO


Le “emozioni” hanno avuto uno strano destino nella storia della linguistica. Il
loro trattamento riflette il modo in cui si è costituita la disciplina attraverso il
tempo. Esse sono presenti nella riflessione teorica di quegli ambienti mitteleuropei
che tanta importanza ebbero nell’articolazione primo-novecentesca delle scienze del
linguaggio, e rivestono un ruolo particolare nello sviluppo del fondamentale con-
cetto di ‘funzione’: si pensi ai modelli di filosofia del linguaggio elaborati da
Bühler, e al ruolo del linguaggio emotivo come complemento e contraltare del lin-
guaggio intellettuale nel Circolo di Praga. La terza Tesi asserisce che «[l]’étude
d’une langue exige que l’on tienne rigoureusement compte de la variété des fonc-
tions linguistiques et de leurs modes de réalisation dans le cas considéré», e che
«[d]es indices importants pour la caractérisation de la langue sont l’intellectualité

2
All’inizio della sua monografia sulle emozioni, Frijda (1986, p. 2) parte da una definizione
del tutto preliminare: «Emotion can be provisionally defined as the inner determinant of non-in-
strumental behaviour and non-instrumental aspects of behaviour… Emotional behaviour can provi-
sionally be defined as that behaviour itself». Tuttavia alla fine del lavoro egli elabora tre definizioni
di livello crescente di restrittività. Per la prima «emotion is action readiness change», per la
seconda «emotion proper is relational action tendency and change in relational action tendency in
general», per la terza «emotion can be defined as action readiness change in response to
emergencies or interruptions and this action readiness change itself might be restricted to
activations and deactivations of actual, overt, response» (Frijda, 1986, p. 474).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 51

ou l’affectivité des manifestations linguistiques. Les deux indices en question ou


s’entrepénètrent ou prédominent l’un sur l’autre» (Thèses, p. 14).
Ma la definizione del linguaggio emotivo e della sua funzione ha un certo
margine di indeterminatezza e ambiguità: «Le langage intellectuel manifesté a sur-
tout une destination sociale (relations avec autrui), le langage émotionnel ou bien a
également une destination sociale quand il se propose de susciter chez l’auditeur
certaines émotions (langage émotif), ou bien est une décharge de l’émotion, opérée
sans égard à l’auditeur» (Thèses, p. 14).
In queste concettualizzazioni prevale il momento della tipificazione della
componente emotivo-espressiva del linguaggio. Le emozioni sono considerate delle
forze all’opera dietro i fatti linguistici, ma non sono assunte come oggetto di studio
diretto, bensì solo per quanto attiene alla loro manifestazione strutturale. E non po-
trebbe forse esser diversamente, se si pensa al fatto che, pur sottolineando il legame
fondamentale tra lingua e individui parlanti, lingua e contesto dei loro bisogni
espressivi, i modelli struttural-funzionali dell’inizio del XX secolo assegnavano
preminenza assoluta alla centralità della rappresentazione linguistica. Le teorie del
Circolo di Praga si inseriscono infatti in un ampio dibattito antipsicologistico che si
svolse tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Una formulazione chiara
di un punto di vista condiviso da alcuni degli esponenti del Circolo, benché non da
tutti, è quella di Mathesius (1924, p. 137), il quale sostiene che «la psicologia è
indubbiamente capace di stimolare la linguistica, persino di soccorrerla, ma il lin-
guista può aspettarsi la soluzione dei problemi linguistici anzitutto e soltanto dalla
linguistica… La soluzione dei problemi linguistici non deve basarsi però sulle teo-
rie psicologiche, bensì sul materiale linguistico». Questo ridimensionamento della
psicologia riguardava essenzialmente le concezioni positivistiche della disciplina
(in particolare quella di Wundt) e le applicazioni che ne erano state fatte in ambienti
di linguistica anch’essi segnati dal positivismo. A fasi alterne, durante il Novecento
la linguistica è stata percorsa da orientamenti contraddittori: il ricorso a diverse teo-
rie psicologiche per descrivere fenomeni e strutture delle lingue e della comunica-
zione umana e la negazione dell’importanza di questo ricorso. È una contraddizione
irrisolta, come quegli amori impossibili il cui destino è segnato dalla massima “né
con te né senza di te”. L’ennesima rinascita dello psicologismo, negli ultimi anni,
sotto le spoglie del cognitivismo difficilmente può scioglierla.
Il ridimensionamento della psicologia ha influenzato a lungo la linguistica
strutturale della prima metà del secolo scorso. Del movimento antipositivistico, in
cui il punto di vista antipsicologistico costituiva un motivo conduttore, fecero parte
studiosi che, da posizioni diverse, avevano sviluppato dei programmi di ricerca tra
loro in sintonia nel richiamare la necessità di una “linguistica della vita”. Questo
programma era stato formulato da Wegener, Jespersen e Sweet, e vi si riconosce-
vano Charles Bally, con la sua linguistica della parole ed Edward Sapir, che ebbe
tra i suoi temi di ricerca prediletti il rapporto tra lingua e personalità del parlante. È
un programma che, nelle sue linee salienti, può essere ricapitolato con quanto Otto
Jespersen afferma in un passo della sua recensione al Cours de linguistique géné-
52 ROSANNA SORNICOLA

rale di Ferdinand de Saussure, in cui lo studioso danese criticava il professore gine-


vrino per la sua costruzione di “una linguistica del regolo e del compasso”3:

Mais ici comme ailleurs, je trouve un certain penchant à tracer des séparations si rigou-
reuses qu’elles ne répondent pas entièrement à la vie concrète de la langue, avec ses
nuances infinies qui, en dernière analyse, reposent sur le fait que les hommes, même en
parlant, sont loin de se montrer rationnels et pleinement conséquents (Jespersen, 1933, p.
113).

In maniere diverse, tutti i linguisti precedentemente menzionati tentarono di


costruire una scienza del linguaggio che rendesse ragione piena alle condizioni reali
della vita degli individui parlanti, mantenendo però al centro dei loro interessi le ca-
ratteristiche di struttura linguistica. Si potrebbe dire che si trattò di tentativi di con-
ciliazione molto parziali, che produssero esperimenti diversi e che dovevano alla
fine rivelarsi difficili. Le emozioni furono, per così dire, sfiorate tangenzialmente,
ne fu asserita l’importanza in maniera programmatica, ma l’esplorazione del vasto
campo delle loro manifestazioni linguistiche e degli effetti che possono avere sulle
lingue e sui parlanti rimase solo in minima parte tentata.
Eppure, la linguistica della fine del XIX e degli inizi del XX secolo aveva
partecipato al vasto movimento storicistico che aveva coinvolto le scienze umane.
L’interesse per la ricchezza di manifestazioni della vita storica e per i soggetti
umani suoi protagonisti, considerati nelle loro caratteristiche fisiche, psicologiche,
ambientali, era diventato un aspetto costitutivo della riflessione di vari movimenti
scientifici. Tuttavia, si potrebbe dire che, nonostante i vari tentativi di assegnare ri-
lievo all’individuo parlante, più o meno programmaticamente enunciati, dapprima
dalle correnti del positivismo storico (i Neogrammatici) e poi da esponenti
dell’idealismo, come Bally, e del funzionalismo, come i praghesi4, la rappresenta-
zione dei soggetti parlanti rimaneva ancorata ad una visione astratta e generaliz-
zante, segnata da una temperie illuministica. L’uomo di carne e sangue della storia,
di cui tanta parte sono le emozioni, restava al di là dei tentativi di comprensione.
Nonostante tutto, la strada che sarebbe stata predominante fu quella di una lingui-
stica “del regolo e del compasso”. Sull’arco di più di un secolo, alle emozioni e ai
fattori espressivi si è fatto ricorso, in maniera più o meno diretta ed esplicita, per
trattare problemi tecnici di vario livello di analisi. Ma essi sono stati considerati
nient’altro che condizioni contestuali che concorrono alla definizione di strutture,
processi e usi linguistici. Ciò è particolarmente vero per alcuni ambiti, come la sin-
tassi e la prosodia, i cui fenomeni – per essere descritti – richiedono la considera-
zione dei fattori emotivi. Per quanto riguarda la sintassi, si pensi alla storia degli

3
Jespersen mutua la definizione della linguistica di Saussure come una linguistica “del re-
golo e del compasso” da Meillet (1952-1965, 2, p. 177, p. 222).
4
Esistevano tuttavia differenze tra gli appartenenti al Circolo di Praga, su questo e su altri
aspetti: si veda Sornicola (1995); Vachek, Sornicola (2003).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 53

studi sull’ordine delle parole, e in particolare su quei processi che oggi sono chiamati
di focalizzazione, o alla ricerca sulle particelle enfatizzanti e amplificanti. Per la pro-
sodia si può ricordare lo stretto rapporto tra altezza, intensità, durata e i comporta-
menti espressivi dei parlanti. Ma possono essere influenzati anche ambiti come la
morfologia e il lessico, come è evidenziato dai morfemi diminutivi, dal “grading” ag-
gettivale5 e dagli impieghi di queste strutture nei contesti di uso affettivo.
Non è privo di interesse, inoltre, che al principio di espressività si appelli lo
stesso Meillet, uno studioso che non era certo a sfavore di una linguistica del regolo
e compasso. Nel suo importante articolo sull’evoluzione delle forme grammaticali,
che ha segnato una tappa iniziale importante della moderna teoria della grammati-
calizzazione, tale principio costituisce la chiave esplicativa del processo parallelo di
indebolimento di forma e significato delle parole, che dà luogo alla loro perdita di
valore lessicale e al loro sviluppo in morfemi grammaticali, liberi o legati:

A chaque fois qu’un élément linguistique est employé, sa valeur expressive diminue et
la répétition en devient plus aisée. Un mot n’est ni entendu ni émis deux fois exacte-
ment avec la même intensité de valeur. C’est l’effet ordinaire de l’habitude. Un mot
nouveau frappe vivement la première fois qu’on l’entend; dès qu’il a été répété, il perd
sa force, et bientôt il ne vaut pas plus qu’un élément courant depuis longtemps (Meillet,
1952-1965, 1, p. 135).

Questa spiegazione della dinamica del processo riposa sul principio psicolo-
gico del decadimento dell’espressività nella comunicazione, sia per quanto riguarda
il parlante che l’ascoltatore. Sebbene lo studioso francese menzioni entrambi come
attori in campo, l’ascoltatore sembra giocare implicitamente un ruolo di maggior
importanza nell’indebolimento di espressività. Non si tratta, peraltro, dell’unico
punto alquanto nebuloso. Meillet non definisce con chiarezza che cosa sia
l’espressività. Come si vede dal passo citato, essa sembra sinonimo di ‘valore inten-
sivo’, ma potrebbe essere interpretata anche come una non meglio identificata forza
emotiva dell’emittente che colpisce l’ascoltatore durante la comunicazione. D’altra
parte, l’espressività si potrebbe intendere come un principio opposto a quello della
‘abitudinarietà’, e in tal senso essa si contrapporrebbe alle frasi fatte e ai clichés che
usano la maggior parte dei parlanti e degli scriventi6.
Ma il problema di indeterminatezza della definizione è più generale. In verità,
si deve osservare che le definizioni dei fattori emotivi fornite nello studio descrit-
tivo e teorico di problemi di ambiti e natura così diversi, come quelli precedente-
mente menzionati, soffrono tutte di una notevole mancanza di chiarezza. Talora il
termine “emotivo” è usato in maniera intercambiabile con “affettivo”, talaltra sem-
bra coincidere con “espressivo” (in alcuni esponenti del Circolo di Praga, come

5
Il concetto di “grading” fu elaborato da Sapir: rinvio a Sapir (1949).
6
Si veda Meillet (1952-1965, 1, p. 135).
54 ROSANNA SORNICOLA

Mathesius e Jakobson, la commistione di questi termini è costante)7. Abbiamo visto


inoltre che in Meillet esiste un rapporto tra espressività e intensificazione8. Bisogna
menzionare poi una ulteriore fonte di ambiguità nella assegnazione di una compo-
nente emotiva e di valori affettivi ad alcuni atteggiamenti proposizionali in rapporto
al modo e alla modalità (Bally, 1932, §30-§54). In merito alla sinonimia di ‘emo-
tivo’ e ‘affettivo’, Burke (2006, p. 127) ha osservato che si tratta di una sovrapposi-
zione in controtendenza con gli assunti della psicologia cognitiva, in cui «‘emotion’
usually refers to an intense, brief moment of felt experience, while ‘affect’ tends to
be used as a more general term».
I cambiamenti di orientamento all’interno della linguistica, intervenuti a partire
dagli anni ’60 del Novecento, hanno rimesso in discussione, da prospettive diverse,
i modelli di linguistica teorica strutturalisti e generativisti. Lo sviluppo di discipline
quali la sociolinguistica, l’etnografia della comunicazione, la linguistica testuale,
l’analisi del discorso e la pragmalinguistica, che cominciò a realizzarsi in quegli
anni, permise una critica serrata del concetto di ‘competenza linguistica’ e una con-
vergenza verso la più ampia nozione di ‘competenza comunicativa’, intesa come in-
sieme di saperi e abilità dei parlanti in rapporto al funzionamento della lingua9.
Nella nuova atmosfera scientifica del primo Novecento, la costellazione di concetti,
‘linguaggio emotivo’/‘funzione emotiva’, ‘linguaggio affettivo’/‘funzione affet-
tiva’, ‘linguaggio espressivo’/‘funzione espressiva’ aveva costituito il nucleo di una
visione non puramente intellettualistica delle reali capacità dei parlanti e del reale
funzionamento delle lingue. Tale costellazione concettuale sarebbe stata ripresa e
sviluppata in varie direzioni: si pensi alla nozione di ‘chiave’ di discorso e
all’interesse per gli ‘stili’ testuali10, quest’ultimo peraltro già delineato come cen-
trale in Bally e in Mathesius11. Anche la riflessione sull’atteggiamento proposizio-
nale assunse nuove fattispecie all’interno della semantica e della pragmalinguistica,
grazie all’analisi più sofisticata dei testi scritti e parlati e alla maggiore consapevo-
lezza della complessità dei fattori in gioco12. Nella teoria di Halliday, che assimi-
lava l’esperienza della prima e seconda scuola di Praga e il cui primo sviluppo ri-
sale agli anni ’60 del Novecento, le emozioni (feelings) vennero a far parte della più
ampia intelaiatura funzionale che sottostà alla grammatica. Insieme al vedere e al
pensare esse sono considerate costitutive della metafunzione ideazionale. In questa

7
Si veda Mathesius (1924); per Jakobson rinvio alle osservazioni in Burke (2006, p. 127).
8
Su questo rapporto tra “emotivo” e “affettivo” si veda Burke (2006, p. 127).
9
Per la definizione complessiva di questa nozione si veda Hymes (1972).
10
Si veda Hymes (1974, specialmente pp. 57-58 e p. 62).
11
Per un esame del pensiero di Bally e Mathesius al riguardo rinvio a Sornicola (2001).
12
Sono interessanti le discussioni di questo tema in Lyons (1977, 1, pp. 190-191). Si veda
anche l’esame dei concetti di “modulation” e “attitudinal colouring” condotto dallo studioso in-
glese all’interno del trattamento dei fenomeni paralinguistici (Lyons, 1977, 1, pp. 64-65). Per la
teoria del modo e della modalità di Halliday rinvio ad Halliday (1976). Per un punto di vista più
recente su tutti questi problemi si veda l’importante articolo di Caffi, Janney (1994).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 55

modellizzazione si può ravvisare non solo l’effetto di un mutato panorama della


linguistica, ma anche l’avvio di un diverso approccio al problema dello studio delle
emozioni13. In definitiva, l’insieme di cambiamenti ora ricapitolati costituì una con-
giuntura favorevole all’approfondimento di quei fattori contestuali capaci di in-
fluenzare atteggiamenti e comportamenti linguistici, e in particolare le componenti
cognitive, le motivazioni e i sentimenti dei parlanti reali.
In questa pur rapida ricognizione bisogna sottolineare che il vasto fronte di in-
dagini che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, avrebbe reso più compiuto
l’interesse per le componenti emotivo-affettive ed espressive del linguaggio era
stato preceduto da una tradizione di pensiero linguistico che a tali componenti
aveva assegnato particolare attenzione e rilievo, in una dimensione che forse si po-
trebbe definire di “osservazione fenomenologica”, piuttosto che teorica. Penso alla
dialettologia romanza francese, svizzera e di alcuni ambienti italiani, e ricordo al ri-
guardo l’importante modello metodologico costituito dal volume Der Sprachatlas
als Forschungsinstrument, di Karl Jaberg e Jacob Jud, che costituisce la premessa
all’Atlante italo-svizzero. Le interpretazioni degli atteggiamenti e degli stati emotivi
dei parlanti intervistati hanno avuto un ruolo rilevante nella metodologia
dell’inchiesta sul campo dell’Atlante. Ma si devono ricordare anche le importanti
riflessioni metodologiche che hanno accompagnato la ricerca dialettologica fran-
cese di Albert Dauzat e Antonin Duraffour e quella italiana di Benvenuto Terracini
e della sua scuola torinese14. I dialettologi svizzeri, francesi e italiani sono stati, e
sono tuttora, grandi conoscitori della fenomenologia emotiva dei parlanti.
Non è forse un caso che questa tradizione sia rimasta attiva non solo nelle più
moderne esperienze dialettologiche del mondo romanzo, ma anche negli studi di
parlato, sia mono- che plurilingue (pluridialettale), delle lingue neolatine, sviluppa-
tisi in centri di ricerca dialettologici. Chiunque abbia fatto ricerca sul campo in ma-
niera seria e approfondita non può fare a meno di affrontare il problema di una os-
servazione “fenomenologica” degli atteggiamenti e comportamenti emotivi e affet-
tivi dei soggetti che intervista e analizza, dal momento che essi hanno un ruolo cen-
trale nella produzione di parlato (si pensi alle esitazioni, ai mutamenti di progetto,
alle topicalizzazioni e focalizzazioni, ai fenomeni di innalzamento del pitch, di au-
mento dell’intensità, etc.). Esiste, io credo, una affinità naturale tra gli specialisti di
parlato e i clinici che si occupano di speech therapies, gli insegnanti che quotidia-
namente si confrontano con i comportamenti e gli atteggiamenti linguistici dei loro
allievi, in una parola tutti gli esponenti di quelle professioni che si occupano dei
parlanti reali. In questa dimensione dell’osservazione “clinica” si è accumulato un
notevole bagaglio di dati, esperienze e metodi, che mi sembra però non siano mai
stati sistematizzati in maniera organica.

13
Si veda Burke (2006, p. 127).
14
Per un esame di queste tradizioni e della loro importanza per i problemi che stiamo qui di-
scutendo rinvio a Sornicola (2002a); Sornicola (2002b).
56 ROSANNA SORNICOLA

Certo, è opportuno distinguere concetti diversi come “emozioni” e “senti-


menti” dei parlanti. Le prime agiscono forse più direttamente sulla produzione e
comprensione di strutture linguistiche, i secondi influenzano comportamenti e atteg-
giamenti più complessivi. Ma la linea di confine esatta tra i due ordini di fattori me-
riterebbe di essere ulteriormente discussa e approfondita in maniera organica. Nella
tradizione dialettologica francese, svizzera e italiana, a livello di riflessione teorica è
stata assegnata notevole importanza alla dimensione del “sentimento” linguistico,
che tuttavia non ha una definizione unitaria. Per alcuni tale “sentimento” è soprat-
tutto in rapporto all’attaccamento alle radici culturali e alla parlata locale (dialet-
tale), si tratta quindi propriamente di una reazione emotiva (affettiva)15. Per altri,
come Benvenuto Terracini, il “sentimento linguistico” è specialmente «il senti-
mento intuitivo che i parlanti hanno della propria lingua e che, quando è aiutato
dalla riflessione, si eleva a coscienza» (Grassi, 2002, p. 10). In questo caso, dunque,
la nozione di ‘sentimento’ è in rapporto a dei saperi linguistici più o meno esplici-
tabili da parte dei parlanti, e pertanto mostra maggiori affinità con la nozione di
‘competenza’ che non con quella di ‘reazione emotiva’.

3. IL TEMA DELLE EMOZIONI NEGLI STUDI SUL MULTILINGUISMO


Un altro ambito importante in cui si possono trovare interessanti descrizioni
fenomenologiche della consistenza, complessità e incidenza dei fattori emotivi è
costituito dagli studi sul multilinguismo. Nella bibliografia che si è sviluppata
sull’arco di molti decenni, è stato ripetutamente affrontato il tema del “disagio” o
“malessere” che scaturisce come condizione individuale caratteristica della compe-
tenza multipla. Si tratta, è bene notarlo, di descrizioni che hanno una forte compo-
nente empirica, legate come sono ad osservazioni di fenomeni reali. Vale la pena,
anche in questo caso, tentare un rapido bilancio dello stato dell’arte.
In alcuni orientamenti recenti, che talora sembrano segnati da assunzioni pre-
costituite, si è cercato di ricondurre il tema del disagio o malessere dei parlanti ad
una distorta e superata ideologia del monolinguismo nazionale. Nella loro introdu-
zione allo Handbook of Multilingualism and Multilingual Communication, Auer e
Wei sostengono:

The idea (which can still be found in the public debate about multilingualism today, and
had respectable supporters within linguistics even 50 years ago) that multilingualism is
detrimental to a person’s cognitive and emotional development can be traced back to this
ideology, as can the insistence on ‘pure’ language and ‘pure’, ‘non-mixed’ speech: it goes
back to the purism debate which accompanied the emergence of the European standard
languages, above all in the 17th, 18th, and 19th centuries (Auer, Wei, 2007a, p. 3).

15
Questo tipo di atteggiamento è stato descritto in numerosi studi dialettologici.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 57

Secondo i due studiosi i problemi causati dal multilinguismo «are not ‘natural’
problems which are inherent to multilingualism itself: rather, they arise out of a
certain context in which this multilingualism is seen as a problem, or rather creates
a problem» (Auer, Wei, 2007a, p. 3). Può darsi che, nel tentativo di superare le
ideologie che concepiscono il monolinguismo come una situazione desiderabile,
questo punto di vista ecceda in senso opposto, dando vita ad una sorta di “mistica”
del multilinguismo.
Il multilinguismo è un bene o un male? Posta così la questione, è difficile che
possa trovare risposte scientificamente attendibili. Sembra semplicemente un pro-
blema mal posto. Le tesi secondo cui l’esposizione a più lingue e la pratica in pa-
rallelo di queste provocherebbe danni appaiono ingenue e prive di solidità scienti-
fica, ma una cosa è rigettarle, un’altra negare che il multilinguismo possa indurre
problemi emotivi e cognitivi, oltre che sociali16. Bisogna ammettere con franchezza
che, accanto ad aspetti positivi, il multilinguismo comporta anche non poche diffi-
coltà. Negare che un individuo bilingue (multilingue) e il suo contesto familiare e
sociale siano spesso più esposti a difficoltà emotive e di interazione sociale equivar-
rebbe a chiudere gli occhi su realtà che hanno una forza e una consistenza empiri-
camente verificabili attraverso l’esame di situazioni storiche, geografiche e culturali
diverse. Ciò non vuol dire che tali difficoltà costituiscano di per sé uno svantaggio,
e tanto meno un danno. Come è noto, le tensioni emotive possono innescare nei
soggetti che le vivono positive reazioni dinamiche, che si traducono in prassi van-
taggiose sia sul piano personale che sociale. Una celebrazione acritica e per così
dire “trionfalistica” del multilinguismo dovrebbe essere respinta, non meno dei pre-
giudizi sugli effetti negativi del bilinguismo eletti a generalizzazioni scientifiche.
Bisognerebbe anche evitare, mi sembra, di assegnare a fenomeni come il code-swit-
ching e il code-mixing valori funzionali positivi in assoluto. È innegabile che le ri-
cerche sociolinguistiche condotte sull’arco di vari decenni abbiano dimostrato il ca-
rattere non casuale, ma strutturato, di questi fenomeni. Ed è possibile che essi ab-
biano una funzionalità positiva all’interno degli eventi comunicativi. Lascia però
perplessi la tesi più generale secondo cui in contesto multilingue «code-switching
as a conversational strategy… can frame (contextualise) utterances in the same way
in which monolinguals use prosody or gesture to contextualise what they say»17.

16
Auer e Wei hanno richiamato l’attenzione sull’importanza e la complessità di alcuni
problemi relativi all’educazione scolastica bi- e multilingue (“bi- and multi-literacy”), di cui si dis-
cute in uno dei capitoli dello Handbook: «The crucial question here is whether schooling in the mi-
nority (mother) language only will enable the children to transfer the literacy skills acquired during
this period to the majority language in which they are needed to be successful in the monolingual
school system in the long run, and whether schooling in the majority language only will lead to
‘semilingualism’ in the minority language, which in turn will also negatively influence L2 skills»
(Auer, Wei, 2007a, p. 6).
17
Auer, Wei (2007a, p. 8). I due studiosi esprimono un punto di vista sulla positività del
code-switching come strategia conversazionale che è difeso anche da Gafaranga (2007).
58 ROSANNA SORNICOLA

Soprattutto discutibile mi sembra la conclusione che «the two or more languages of


bi- or multilingual speakers provide an additional resource for meaning-construc-
tion in interaction which monolinguals do not have at their disposal» (Auer, Wei,
2007a, p. 8). Questo è un modo astrattamente mercantile di guardare alle “risorse”.
Il concetto di “risorsa” è relativo alla soggettività degli individui che si trovano a
comunicare, in primo luogo come parlanti e, in secondo luogo, come ascoltatori, ed
è inoltre relativo ai complessi equilibri e disequilibri dell’ecologia della comunica-
zione di una società. Chi può poi, in assoluto, comparare e valutare la preferibilità
dei mezzi di commutazione e commistione di lingua rispetto a quelli a disposizione
di un monolingue? Infine, quand’anche si provasse che davvero di “risorse” si
tratta, se ne dovrebbero considerare i “costi”, per rimanere in una metafora mercan-
tile, in termini psicologici ed emotivi. Una certa astrattezza in rapporto ad una opi-
nione precostituita si può ravvisare anche nel trattamento dei problemi relativi al
rapporto tra multilinguismo e processi di globalizzazione. Questo rapporto costitui-
sce un tema di primario interesse, le cui implicazioni vanno ben al di là del pur im-
portante aspetto scientifico. Esso investe più ampie e cruciali questioni sociali, eco-
nomiche e politiche. Non dovrebbe pertanto essere affrontato con prese di posizione
ideologiche, ma nell’attenta e realistica considerazione critica di tutte le numerose e
complesse dimensioni che lo compongono18.
Una tale prospettiva era stata lucidamente prescelta e seguita da Nels Ander-
son, studioso formatosi alla Scuola sociologica di Chicago, che attraverso varie
esperienze scientifiche e culturali sviluppò anche interessi per il multilinguismo19.
Le sue analisi equilibrate e acute mostrano una profondità di comprensione dei pro-
blemi in gioco nella dimensione sociale e psicologica, che a mio avviso le rende an-
cora oggi esemplari. Nel suo studio The Uses and Worth of Language, pubblicato
negli anni ’60 del Novecento, Anderson parte dalla considerazione che i drammatici
cambiamenti demografici, industriali, economici e tecnologici in atto stavano
provocando effetti anche sugli equilibri linguistici planetari. Conflitti e tensioni
erano, a suo avviso, assolutamente da mettere nel conto20, ma non è detto che ciò
dovesse necessariamente sfociare in violenze, anche se non si è mai abbastanza
realisti nel riflettere sui conflitti linguistici, che non possono essere spazzati sotto il
tappeto. La descrizione degli aspetti psicologici che possono essere scatenati da
queste tensioni è singolarmente acuta:

18
Sembrano ad esempio convincenti le considerazioni problematiche avanzate da Stroud
(2007).
19
Gli studi di Anderson al riguardo furono collegati ad un progetto dell’Institute for Social
Sciences dell’Unesco, con sede a Colonia, che si protrasse dalla fine degli anni ’50 ai primi anni
’60 del secolo scorso.
20
«Throughout the world, wherever languages meet, people are confronted with communica-
tion problems, and these make for tensions» (Anderson, 1969, p. 1).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 59

Compared with other types of social conflict, those concerning language are of a special
order. They are painful and harsh in the most intimate sense. Such an issue touches
people vitally and completely. For the man of learning, language disturbance is far less
serious than for one of little learning. It is the ordinary people who are most hurt if their
language is threatened, and their reactions are likely to be extreme. For the peasant or
the unskilled worker language change is like turning back the clock and beginning the
learning process anew (Anderson, 1969, p. 2).

Per Anderson, le ragioni della fenomenologia descritta risiedono nel fatto che
la lingua è parte fondamentale di quella creazione sociale che è la personalità, anzi
essa è «the most permeating element in all internalized thought and habitual beha-
vior» (Anderson, 1969, p. 2). Il carattere pervasivo dell’esperienza di apprendi-
mento linguistico è paragonato all’“ingresso in una nuova esistenza” (Anderson,
1969, p. 3). Questa profonda interpenetrazione di lingua e personalità, il cui svi-
luppo procede di pari passo, ha delle conseguenze di capitale importanza, che sono
descritte dal sociologo americano con felice incisività e notevole senso psicologico.
Nessun linguista dotato di sensibilità umana, e che abbia avuto lunga espe-
rienza di osservazione e analisi di parlanti esposti a condizioni di diversità lingui-
stica, potrebbe fare a meno di concordare: l’apprendimento di una lingua è il primo
compito difficile con cui ognuno si confronta nella vita e chiedere alle persone di
cambiare lingua comporta necessariamente una sorta di sradicamento da una situa-
zione precedente e una ricollocazione nella nuova. Anderson richiama l’attenzione
su un ampio spettro di importanti dinamiche cognitive, emotive e sociali. Per
quanto riguarda le dinamiche emotive, in particolare, egli ricorda la sofferenza che
può provocare la percezione dell’imperfetto apprendimento e la sensazione di disa-
gio e inadeguatezza nell’uso di una nuova lingua. Altro sentimento che può scattare
è l’orgoglio offeso, quando i parlanti abbiano la sensazione che la loro lingua madre
sia considerata di minore prestigio rispetto ad un’altra che le si oppone in un deter-
minato contesto21.
Sul piano sociale, Anderson sottolinea l’importanza del rapporto tra lingua e
aspetti culturali più ampi, come il folklore e la letteratura orale. Queste forme sim-
boliche in cui una lingua trova espressione in maniera vitale hanno spesso un’alta
valenza affettiva per un intero popolo, che riconosce in esse delle manifestazioni di
memoria e identità collettiva per le quali sente un attaccamento profondo. Tali
aspetti culturali che fanno da collante di una comunità possono avere un ruolo nelle
“sfere della vita e del godimento”, come testimoniano alcuni interessanti casi di
studio discussi da Anderson: l’uso dell’armeno come lingua degli incontri e delle
riunioni di festa delle comunità armene della diaspora, il radicamento del tedesco
nelle minoranze linguistiche della Danimarca, favorito anche dall’attaccamento al

21
Su tutti questi problemi si veda Anderson (1969, p. 3).
60 ROSANNA SORNICOLA

valore simbolico della tradizione musicale tedesca22. Sembrano dunque del tutto
persuasive le conclusioni che «a language is not destroyed merely because it does
not dominate political affairs. It may continue to have a voice in politics… Nor is a
language destroyed merely because it is not the principal medium of communica-
tion in the sphere of work» (Anderson, 1969, p. 10). Specialmente persuasive ap-
paiono le seguenti considerazioni, che assegnano un ruolo fondamentale ai fattori
sentimentali ed espressivi nella sopravvivenza di una lingua, anche in condizioni
socio-politiche svantaggiate, come quelle degli Armeni o della popolazione au-
striaca del Tirolo italiano, tenacemente attaccata alla sua lingua e alla sua cultura:

For any language, the satisfactions that count relate to the enjoyment aspects of living;
fantasy, romance, tall tales that amuse, the ordinary banter that goes on between friends,
the subtle and biking humor that often pervades conversation, the double talk that finds
expression in gossip, the fine art of indirection by which men make their wants known
or by which they reject or accept the advances of others. These skills one learns to dis-
play in the use of language are his to the full when he uses his mother tongue. One
learns them from childhood. They cannot be easily and naturally transferred to a second
language, unless that language too is used in childhood (Anderson, 1969, p. 5).

A parte Anderson, che pure era un sociologo piuttosto che un linguista, sem-
brerebbe che sino a poco tempo fa i linguisti siano stati incapaci di maturare sinto-
nia e consapevolezza profonde per quanto riguarda i fattori emotivi, affettivi ed
espressivi intrecciati a situazioni di bi- e multilinguismo. Se anche questi fattori
sono stati menzionati in vari studi, hanno latitato analisi complessive che rappre-
sentassero adeguatamente l’ampio spettro di casistiche al riguardo e, soprattutto,
che dai risultati traessero tutte le implicazioni possibili per i problemi di pianifica-
zione linguistica. Occupati ad usare il regolo e il compasso sui dati linguistici e a ri-
durre le persone a statistiche, non di rado gli studiosi di multilinguismo hanno
messo in secondo piano dietro i dati gli individui, il loro vissuto emotivo ed imma-
ginativo.
In un certo senso si potrebbe dire che sino a tempi relativamente recenti sono
stati piuttosto alcuni scrittori a produrre raffinate descrizioni della fenomenologia
emotiva ed affettiva dei parlanti multilingui. Ricordo ad esempio i bellissimi passi
de La lingua salvata di Elias Canetti, in cui questa fenomenologia costituisce il ba-
ricentro attorno a cui si dipana la narrazione. Il racconto si può considerare
l’autobiografia linguistica di un ebreo sefardita, vissuto tra mondi e lingue diverse,
che in questa particolare condizione esistenziale ha trovato la cifra unica della sua
personalità e di un destino condiviso con altri ebrei sefarditi: «Delle lingue si di-
scuteva spesso, solo nella nostra città si parlavano sette o otto lingue diverse e tutti

22
Si veda Anderson (1969, pp. 4-5). Ognuno di questi casi è analizzato in maniera articolata
da singoli autori in un capitolo del volume. L’articolo di Anderson anticipa le varie analisi partico-
lari all’interno di una riflessione teorico-metodologica di più ampio respiro.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 61

capivano qualcosa di ciascuna; soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non
sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide. Ognuno enumerava
le lingue che conosceva; era importante padroneggiarne parecchie, con la cono-
scenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui» (Ca-
netti, 1977, p. 45). L’ebraico era la lingua del rito e della tradizione culturale:

A capotavola sedeva il nonno e leggeva la Haggadah, la storia dell’Esodo degli ebrei


dall’Egitto… Essendo il più piccolo della famiglia, avevo anch’io la mia funzione non
priva di importanza: dovevo pronunciare il Ma-nischtanah… Così anche per me era
una grande serata, mi sentivo molto importante, indispensabile addirittura, era una vera
fortuna che non ci fosse un cuginetto più piccolo in grado di spodestarmi. Benché se-
guissi con attenzione ogni parola e ogni gesto del nonno, per tutto il tempo della lettura
non aspettavo altro che finisse. Perché allora arrivava il bello: d’improvviso tutti gli
uomini si alzavano in piedi e si mettevano a ballare per la stanza, e ballando cantavano
in coro “Had gadja, had gadja” – “un agnellino, un agnellino”. Era una canzoncina
molto allegra che io conoscevo a memoria, ma faceva parte del rito che, non appena fi-
nita, uno zio mi chiamasse a sé con un cenno e me la traducesse in spagnolo parola per
parola (Canetti, 1977, pp. 38-39).

Le fiabe dell’infanzia, ascoltate in bulgaro, sono state conservate nella memo-


ria in tedesco, con un sorprendente effetto di trasposizione che può far comprendere
al linguista quanta complessità inesplorata ci possa essere nelle biografie degli indi-
vidui multilingui:

Di tutte le favole che mi furono raccontate, mi sono rimaste impresse soltanto quelle dei
lupi mannari e dei vampiri… Le ho ascoltate in bulgaro, ma le conosco in tedesco, e
questa misteriosa trasposizione è forse la cosa più singolare che io possa raccontare
della mia infanzia… le ragazzine che lavoravano in casa parlavano soltanto bulgaro ed
è probabile che questa lingua io l’abbia imparata soprattutto con loro. Ma poiché non
frequentai mai una scuola bulgara e lasciai Rustschuk23 quando avevo solo sei anni, il
bulgaro l’ho ben presto completamente dimenticato. Tutti gli eventi di quei miei primi
anni si svolsero dunque in spagnolo o in bulgaro. In seguito mi si sono in gran parte tra-
dotti in tedesco. Solo eventi particolarmente drammatici, delitti e morti, per intenderci,
nonché i più grandi eventi della mia infanzia, mi sono rimasti impressi nella loro fra-
seologia spagnola, ma in modo estremamente preciso e indistruttibile. Tutto il resto,
vale a dire il più, e specialmente ciò che era bulgaro, come appunto le favole, me le
porto in testa in tedesco (Canetti, 1977, p. 22).

Rimangono impresse anche le pagine in cui Canetti racconta la curiosità,


l’ansia di comprensione, il sentimento di gelosia ed esclusione verso il padre e la
madre, quando usavano il tedesco come codice segreto tra marito e moglie. Per il
bambino che si nascondeva per spiare i genitori e carpire le loro parole incompren-

23
Rustschuk è una città portuale sul Danubio, in Bulgaria.
62 ROSANNA SORNICOLA

sibili, il tedesco era “la lingua incantata”, che si contrapponeva al giudeo-spagnolo


comunemente usato in famiglia, «la nostra vera lingua quotidiana» (Canetti, 1977,
p. 22)24:

Avevo dunque i miei buoni motivi per sentirmi escluso quando i miei genitori comin-
ciavano quei discorsi. Quando parlavano così si facevano molto allegri e vivaci e io
collegavo questa trasformazione che percepivo con grande acutezza, al suono della lin-
gua tedesca. Stavo ad ascoltarli con la massima concentrazione e poi domandavo il si-
gnificato di questo e di quello. Loro ridevano e dicevano che era troppo presto, quelle
cose le avrei capite solo più avanti. Era già tanto che mi concedessero la parola “Wien”.
Io pensavo che discorressero di cose meravigliose, che si potevano dire soltanto in
quella lingua. Quando alla fine smettevo di mendicare invano una spiegazione, me ne
scappavo via infuriato, andavo in un’altra stanza che si usava raramente, e lì, cercando
di riprodurre esattamente il tono della loro voce, ripetevo tra me e me le frasi appena
ascoltate, e le pronunciavo come formule magiche esercitandomi più e più volte: tutte le
frasi e anche le singole parole che ero riuscito a captare, non appena ero solo le buttavo
fuori una dopo l’altra, ma talmente in fretta che certo nessuno avrebbe potuto capirmi.
Mi guardavo bene però dal farmi sentire dai miei genitori e, al loro segreto, contrapposi
il mio… Neppure per un attimo pensarono di sospettarmi, ma fra i molti intensi desideri
di quel tempo, il più intenso rimase per me quello di capire la lingua segreta dei miei
genitori. Non riesco a spiegarmi perché non ce l’avessi con mio padre. In compenso co-
vai un profondo rancore nei confronti di mia madre, un rancore che svanì soltanto
quando, alcuni anni più tardi, dopo la morte di lui, fu lei stessa ad insegnarmi il tedesco
(Canetti, 1977, p. 41).

Se ho riportato queste lunghe citazioni è perché, da linguista, sono colpita dalla


precisione e finezza delle descrizioni. Nell’esperienza di Canetti, che rielabora un
ricco vissuto emotivo segnato dall’esposizione a più lingue, ricomposto nella di-
mensione rasserenata del ricordo e della narrazione letteraria, le lingue multiple
sono la naturale condizione vitale entro cui, come in una sorta di destino, si articola
il bell’affresco di una famiglia di ebrei sefarditi. Altre testimonianze narrative,
come il racconto Lost in Translation di Eva Hoffman, pur filtrate e ricomposte nella
distanza della memoria, sono più drammatiche25. La narrazione mostra una analisi
sorprendentemente attenta alle minime sfumature delle reazioni emotive ed intel-
lettuali innescate dalle difficoltà e tensioni esistenziali dell’esperienza di espatrio,
vissuta come “esilio”, e al cambio di lingua. È un libro esemplare, che molti stu-
diosi di multilinguismo e linguisti tout court dovrebbero leggere. Le trasformazioni
della personalità, spesso non indolori, che si accompagnano al cambio di lingua
sono analizzate attraverso l’auto-percezione, con un livello di dettaglio che impres-
siona e che può essere paragonato a quello delle recenti ricerche sulle biografie di

24
Canetti descrive la lingua usata comunemente in famiglia come «uno spagnolo piuttosto anti-
quato che ho udito spesso anche in seguito e non ho mai più dimenticato» (Canetti, 1977, p. 22).
25
Sul racconto di Hoffman ha richiamato l’attenzione anche Dewaele (2007, pp. 111-112).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 63

individui multilingui. L’autrice, un’ebrea polacca emigrata da Cracovia al Canada


nell’infanzia, descrive la dissociazione tra parole e cose, la nostalgia, gli aspetti
pratici e le conseguenze emotive della scelta dell’inglese per il registro scritto e il
progressivo abbandono del polacco, la percezione di estraniamento da parte della
madre per una figlia che sta perdendo la sua lingua e la sua personalità polacca e si
sta trasformando in un’inglese, il doloroso senso di goffaggine e inappropriatezza
nell’uso della nuova lingua, l’acquisizione di una nuova cultura e di un nuovo in-
conscio attraverso gli ossessivi processi di osservazione degli altri e di auto-osser-
vazione, il mescolarsi di queste nuove realtà alla cultura e all’inconscio della vita
precedente, e infine il lentissimo sviluppo dell’abilità forse più difficile di tutte, es-
sere in grado di parlare d’amore nella nuova lingua26.
Come ho già accennato, le descrizioni della fenomenologia emotiva del multi-
linguismo da parte di scrittori che hanno fatto di questo tema il centro di vibranti
narrazioni trovano degli interessanti punti di convergenza in ricerche scientifiche
degli ultimi anni, che alle componenti emotive del linguaggio, e in particolare del
multilinguismo, hanno assegnato una notevole importanza27. Nonostante le diffe-
renze di tematiche affrontate e di approcci metodologici, questi studi sembrano
spesso convergere su risultati simili o, quantomeno, istruttivamente confrontabili
nelle loro divergenze. Le domande poste dai ricercatori riguardano i sentimenti dei
parlanti rispetto alle loro lingue, le percezioni che essi hanno di se stessi, i modi in
cui gli individui bi- e multilingui producono e comprendono espressioni e discorsi
emotivi, la rappresentazione delle parole emotive nel lessico mentale dei parlanti
che hanno competenza di più lingue28. I metodi seguiti sono stati qualitativi (e tra
questi le autobiografie linguistiche hanno costituito una strada molto battuta)29 o
quantitativi (con la costruzione di banche dati), o hanno contemperato entrambi.
Particolarmente importante è la problematizzazione di che cosa si debba inten-
dere con “bilinguismo”, che si fonda sulla valorizzazione delle forme di bilingui-
smo imperfetto e instabile (Dewaele, 2007, pp. 103ss.), e su quella che a me sembra
una idea fondamentale, ovvero che il bilinguismo deve essere concepito come un
“never-ending process”, che può implicare sia lo sviluppo che l’arretramento della
L2 (Dewaele, 2007, p. 122). Del tutto condivisibile dal punto di vista teorico (e pie-
namente in linea con i risultati ottenuti mediante l’osservazione dei dislivelli lingui-
stici nel parlato dei monolingui) mi sembra anche l’idea secondo cui «linguistic sy-

26
Rinvio a Hoffman (1998, specialmente pp. 106, 115, 121, 146-147, 221, 245).
27
Dati interessanti relativi a biografie di migranti sono stati raccolti da Stavans (2001) e
Kinginger (2004).
28
Si veda Dewaele (2007, p. 102).
29
Si veda Pavlenko (2002) per una presentazione degli studi che seguono l’impostazione
delle autobiografie linguistiche. Tali studi, oggi piuttosto numerosi, hanno ben esplorato i muta-
menti di personalità e di identità associati al contatto e cambiamento di lingua a livello individuale.
64 ROSANNA SORNICOLA

stems are permanently in a state of flux… and that this variation is linked to envi-
ronmental factors as well as affective and emotional factors»30.
Per quanto riguarda la gestione di lingue diverse rispetto alla funzione emotiva,
sembra esistere un ampio consenso sul fatto che i parlanti bi- e multilingui abbiano
una compartimentalizzazione del repertorio, che si manifesta in vario modo. Alle
lingue in contatto sono associati stili emotivi diversi, che chiamano in causa com-
ponenti diverse della personalità31. La seconda lingua di adulti bi- e multilingui è
spesso descritta come più intellettuale, più precisa, più distaccata. Queste dinamiche
non sorprendono: i ricordi sono strutturati attraverso la lingua, che esercita un ruolo
decisivo anche nel processo di archiviazione delle sfumature emotive dell’espe-
rienza32. In base all’auto-osservazione del suo comportamento di bilingue, la stu-
diosa polacca Anna Wierzbicka, che al tema della codifica linguistica e culturale
delle emozioni ha dedicato interessanti lavori, ha rilevato l’incompatibilità della sua
L2, l’inglese, per esprimere il rapporto emotivo con la nipote, rapporto che è sem-
pre collegato al polacco (Wierzbicka, 2004, p. 100). Questa testimonianza trova ri-
scontri in altri risultati di ricerche da cui emerge che molti parlanti hanno notevoli
difficoltà a tradurre le espressioni emotive da una lingua all’altra (si veda Dewaele,
2007, p. 112). Il fattore principale che sembra guidare le scelte compiute per espri-
mere le funzioni emotive è la “lingua dominante”, che nella grande maggioranza
dei casi è la L133.
Tuttavia, per quanto forte sia la correlazione tra lingua dominante ed espres-
sione della emotività sarebbe erroneo ritenere che tale correlazione sia una “legge di
natura”. In particolari condizioni di acquisizione ed uso della L2 in contesto fami-
liare è possibile che le lingue che si sono venute a sovrapporre a quella materna
siano percepite dai parlanti come mezzi di validità uguale o persino superiore alla
L1, ai fini dell’espressione di emozioni. Richiamando l’attenzione su questa circo-
stanza, Pavlenko (2004, p. 200) ha osservato che i genitori bi- e multilingui che di-
chiarano di effettuare con i loro bambini commutazioni di codice in funzione emo-
tiva mostrano di avere repertori linguistici ampi e contesti culturali di scelte lingui-
stiche fluide. Più in generale, come nota Dewaele (2007, p. 122), «the preference
for particular languages to express emotions is linked to a myriad of independent
variables. Among the most important factors are the frequency of use of a language,
and – linked to that – the proficiency in that language». Per quanto riguarda le
scelte di termini con rilevanza emotiva, in particolare, è possibile che la situazione
di bilinguismo comporti un arricchimento delle potenzialità espressive: due mondi

30
Dewaele (2007, p. 109). L’affinità tra le dinamiche dei bi- e multilingui e quelle dei
monolingui è esplicitamente affermata da Dewaele (2007, p. 109).
31
Si veda ad esempio quanto sostiene al riguardo Besemeres (2004).
32
Questa tesi è stata sostenuta da Dewaele (2007, p. 119).
33
Studi condotti con metodi qualitativi e quantitativi integrati, come quelli di Dewaele, Pa-
vlenko (2001) indicano che per il 90% di un campione di circa 400 parlanti bilingui la lingua do-
minante è la L1. Si veda inoltre Dewaele (2004); Pavlenko (2006).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 65

emotivi vengono a trovarsi in relazione, e all’interno di questo doppio universo


esperienziale il parlante può effettuare delle scelte che gli consentono una più sottile
modulazione delle emozioni. Questa tesi, che è stata sostenuta da Panayiotou
(2004), in base all’esame delle percezioni di bilingui in greco e in inglese, sembra
corroborata da interessanti dichiarazioni dei parlanti stessi.
Un fattore tradizionalmente ritenuto cruciale, sia dal punto di vista cognitivo
che emotivo, è costituito dall’età in cui si è appresa la L2, ma i risultati che emer-
gono dalle varie ricerche al riguardo si prestano ad un ripensamento critico. Pavlenko
(2002) osserva che apprendere delle lingue seconde dopo l’inizio dell’adolescenza ha
un diverso impatto emotivo. In questo caso le lingue sono sentite in maniera più
distante e distaccata, la dimensione emotiva è meno coinvolgente. Altri studiosi
tuttavia, come Kosinski e Teicholz (1993, specie pp. 46-47), sono convinti che se le
lingue seconde (o terze) si apprendono relativamente tardi, ciò abbia un impatto
meno traumatico sull’autopercezione dei sistemi in contatto da parte dei parlanti.
Harris, Gleason e Ayçiçeǧi (2006), inoltre, hanno dimostrato che qualora
l’acquisizione precoce di una L2 nell’infanzia sia accompagnata dal raggiun-
gimento di abilità superiori a quelle nella L1, ciò possa comportare che i parlanti
considerino la L2 un veicolo più potente o di pari potenza rispetto alla L1 ai fini
dell’espressione di emozioni. Questi risultati implicano che il fattore età non sia di
per sé significativo, ma che sia invece importante il contesto emotivo associato alla
lingua nei vari stadi di acquisizione e uso di questa.
Il rapporto tra sviluppo di un’altra lingua e i mutamenti di personalità, e in
particolare lo sviluppo di una personalità stratificata o multipla, costituisce indub-
biamente un tema di fondamentale importanza. Il carattere stratificato del sé dei bi-
lingui è stato osservato e discusso in varie indagini. Esso può emergere in rapporto
a contesti diversi34. Analizzando le autopercezioni di un ampio campione di parlanti
bi- e multilingui, Pavlenko (2006) ha richiamato l’attenzione sul fatto che i due terzi
dei soggetti intervistati avvertono un cambiamento di personalità quando passano
da una lingua all’altra. Una correlazione tra personalità introverse e nervose e una
più elevata probabilità di autopercepirsi come diversi quando si commuta la lingua
è stata segnalata da varie ricerche35. D’altra parte, esistono studi che sembrano
corroborare la tesi secondo cui alcuni parlanti si sentano più fiduciosi e meno con-
dizionati quando usano una lingua diversa dalla L136. In ogni caso, non è semplice
esplorare le dinamiche di mutamento di personalità, il cui carattere complesso può
essere esemplificato dalla testimonianza di una parlante intervistata da Pavlenko: «I
think in some ways I have become a different person through using other langua-
ges, but this is difficult to differentiate from the experience of living a different
culture» (Dewaele, 2007, p. 115).

34
Si veda ad esempio Panayiotou (2004).
35
Questi risultati sono discussi da Dewaele (2007, p. 117).
36
Si veda Dewaele (2007, p. 117).
66 ROSANNA SORNICOLA

A questo punto, per quanto mi riguarda, credo di poter dare una risposta affer-
mativa alla domanda: “Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni?” Più
difficile sarebbe affrontare l’altra questione posta inizialmente, ovvero se una lin-
guistica delle emozioni sia possibile. Gli studi sul multilinguismo, e più in generale
gli studi di sociolinguistica, dimostrano che esistono forse strade percorribili, anche
se non agevoli, empiricamente fondate su protocolli di osservazione di casi singoli e
costruzione di corpora di dati. Le ricerche dovrebbero però giustificare il fonda-
mento psicologico delle descrizioni fenomenologiche o delle analisi condotte a par-
tire da auto-osservazioni o auto-dichiarazioni dei parlanti. A livello teorico sarebbe
ancora più complesso trovare un ponte tra linguistica e psicologia per lo studio
dell’interazione tra fattori emotivi e strutture linguistiche. Questo passaggio non è
stato trovato per decenni, e a mio avviso comporta problemi la cui soluzione non
sembra essere a portata di mano.
La risposta alla domanda sull’opportunità di una linguistica delle emozioni, ad
ogni modo, è di per sé insufficiente. Credo che ci si potrebbe porre una terza que-
stione: “Abbiamo bisogno di una linguistica delle emozioni, ma con quali obiet-
tivi?” Una prima risposta, ovvia, potrebbe essere che essa ci serve per approfondire
la conoscenza del funzionamento delle lingue e delle abilità dei parlanti. Lo ab-
biamo visto nel rapido esame della bibliografia recente presentato poco fa. Ma c’è
un’altra dimensione di ricerca in cui uno studio del multilinguismo che tenga conto
dei fattori emotivi ed affettivi potrebbe essere particolarmente utile: le politiche lin-
guistiche e i problemi di identità e appartenenza nel mondo globale contemporaneo.

4. EMOZIONI, SENTIMENTI E SENTIMENTALISMI NELLA RIFLESSIONE SULLE POLITICHE


LINGUISTICHE E SULLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

La questione del ruolo dei fattori emotivi ed affettivi associati alle lingue oc-
cupa uno spazio non trascurabile, e in certi casi centrale, nella riflessione contempo-
ranea sugli aspetti linguistici della costruzione degli stati nazionali, dell’integra-
zione europea e dei processi di globalizzazione economica e culturale. Non si tratta
solo di una tendenza recente. Nell’età moderna, in Europa la dimensione del senti-
mento di attaccamento ad una lingua ha fatto parte della definizione dell’identità
nazionale e, in epoche più recenti, ha costituito uno dei possibili criteri per la con-
cessione della cittadinanza. Come ricorda Sue Wright, al criterio di “territorialità”,
formulabile come «you are there, therefore you are x or must become x», che
esprime il principio di cittadinanza di paesi come Francia, Inghilterra e Spagna, si
contrappone il criterio del “sangue e appartenenza”, radicato in paesi come la Ger-
mania e l’Italia: «One is born x, one cannot become x because membership of the
nation can only be inherited» (Wright, 2000, pp. 41 e 47). Il possesso di una cultura
e di una lingua condivisa riveste un ruolo particolarmente importante nelle tradi-
zioni culturali tedesca e italiana, e in qualche modo riflette dei valori emersi nei
processi di formazione dei relativi stati, attraverso complesse dinamiche di defini-
zione dell’identità nazionale. In ambienti di ricerca diversi trova ampi consensi
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 67

l’opinione che assume un concetto di identità multipla e mutevole, intesa come una
costruzione degli individui che può essere non solo vissuta a livello immaginativo
ed emotivo in maniera molto variabile, ma che può essere continuamente manipo-
lata nell’interazione con gli altri, con operazioni di “recita” di valori effettivamente
sentiti o dissimulati o finti37.
Quanto i già di per sé difficili concetti di identità culturale e di identità nazio-
nale siano in corso di ripensamento alla luce delle trasformazioni economiche, so-
ciali e politiche degli ultimi decenni, lo si può vedere nel dibattito sulla crisi educa-
tiva e linguistica che investe da tempo l’Unione Europea. Sembra molto interes-
sante al riguardo il concetto di “identité réflexive” di Pierre Judet de la Combe, una
identità concepita come “pratica” e non come “stato”: «C’est une manière ouverte,
questionnant, de se rapporter aux traditions, et non une appartenance à un ensemble
constitué» (Judet de la Combe, 2007, p. 32). L’identità riflessiva dunque non do-
vrebbe essere concepita come una “sostanza” che si oppone ad altre, ma come «un
intérêt commun, partagé par une culture, pour ce travail réflexif et critique portant
sur l’histoire» (Judet de la Combe, 2007, p. 32).
Un aspetto particolarmente interessante del dibattito sulle politiche linguistiche
in Europa riguarda il rapporto tra una concezione “utilitaristica” o “razionale” delle
lingue, in cui queste sono intese come strumenti delle funzioni denotativa e comu-
nicativa, e una concezione che vede le lingue come mezzi di espressione delle di-
versità culturali (la cui organizzazione profonda riposa, in ultima analisi, proprio
sulle diversità linguistiche) e come veicoli del legame viscerale che i parlanti hanno,
a livello cognitivo ed emotivo, con tali diversità. Questa polarizzazione interseca il
tema della dimensione emotiva ed affettiva del multilinguismo, caricandolo di
nuove implicazioni. Il legame tra le diversità culturali e linguistiche e la sfera dei
“sentimenti” dei parlanti si pone in contrasto con l’apprendimento utilitaristico e
razionale delle lingue, che conduce allo sviluppo di abilità meramente denotative.
All’astratto universalismo, che potrebbe favorire una massificazione culturale e lin-
guistica su scala planetaria, si contrappone la ricchezza delle ragioni storiche, che
sono la linfa vitale di ogni società e la base del tenace permanere delle particolarità
locali. Queste condizioni storiche, in cui rientrano anche i sentimenti dei parlanti,
non sono necessariamente, come alcuni ritengono, dei fattori di conservatorismo
deteriore, ma possono diventare veicolo attivo di soluzioni realistiche ed innovative
di numerosi problemi del mondo contemporaneo, come ad esempio quelli giuridici
e politici sovra-nazionali. Le opinioni diverse devono poter essere confrontate a
partire dalle specificità dei valori culturali e linguistici in cui esse si esprimono in
forma originaria, ovvero attraverso il mezzo di una lingua che sia quella della tradi-
zione storica dei parlanti.

37
Si veda de Swaan (2007, p. 90). Una critica serrata del concetto di identità come una “so-
stanza” è stata condotta dall’antropologo italiano Remotti (si veda Remotti, 2001; Remotti, 2010).
68 ROSANNA SORNICOLA

Con diversa scelta di temi e argomentazioni, tali punti di vista sono stati chia-
ramente formulati dal filologo classico Judet de la Combe e dal romanista e filosofo
del linguaggio Jürgen Trabant, in un recente volume dal titolo Politiques et usages
de la langue en Europe. Nell’indicare i limiti della concezione utilitaristica ed
astrattamente razionale delle lingue, Judet de la Combe sottolinea il carattere sem-
plicistico e conservatore di questo approccio, capace di far interagire le persone solo
su oggetti e problemi già noti, ma non di trovare soluzioni nuove a problemi com-
plessi, che richiedono la non facile elaborazione di norme universali le quali tra-
scendano le differenze culturali senza appiattirle (Judet de la Combe, 2007, p. 38).
Per lo studioso francese la chiave che può permettere di trovare mediazioni «entre
un passé culturel, nécessairement particulier, et un avenir commun possible» (Judet
de la Combe, 2007, p. 38) è una competenza linguistica particolare, che «s’appuie
sur une langue qui ne peut être conçue comme étant seulement fonctionnelle, mais
comme langue de culture, c’est-à-dire historique, constituée par l’ensemble des res-
sources sémantiques qui, au cours de l’histoire se sont déposées en elle et qui peu-
vent servir pour des usages inédits, nouveaux, de la langue» (Judet de la Combe,
2007, p. 39).
Il punto di vista che sottolinea quanto sia stata importante la formazione delle
competenze delle lingue di cultura trova sintonia profonda nel saggio di Trabant, su
cui avremo modo di tornare tra poco. Ma non tutti sono d’accordo. Sempre nella
raccolta di saggi sulle politiche e gli usi delle lingue in Europa, una voce diversa si
è levata con il sociologo olandese Abram de Swaan. In un articolo polemico, a tratti
persino graffiante, questo studioso si esprime contro ciò che viene definito “il sen-
timentalismo delle lingue”. A suo avviso, «il ne convient… pas d’examiner l’aban-
don des langues dans les termes d’une consternation invariable», dal momento che
«par fois cet abandon entraine un soulagement, une liberté et un enrichissement, un
allègement qui profite aux langages» (de Swaan, 2007, p. 83). Per lui linguisti e so-
ciolinguisti che preparano manifesti contro la morte di lingua sono persone che
hanno una falsa coscienza (predicano bene e razzolano male, dal momento che di-
chiarano di battersi per la sopravvivenza di tale o talaltra lingua minoritaria, ma
conducono queste operazioni politiche nelle lingue dominanti, di cui non sapreb-
bero fare a meno), e in maniera indiscreta si arrogano decisioni che non competono
loro, ma alle comunità dei parlanti (de Swaan 2007, pp. 82, 84). In definitiva, le
preoccupazioni e lamentele per le lingue minacciate sarebbero solo manifestazioni
di “sentimentalismo linguistico”, inteso come «un appel exagéré aux sentiments fa-
miliers visant à susciter la traditionnelle réponse de compassion» (de Swaan, 2007,
p. 86), e al pari di tutte le forme di sentimentalismo, sarebbe «fondamentalement
fallacieux» (de Swaan, 2007, p. 94).
Non mancano, nell’articolo ora menzionato, alcune prese di posizione di un
certo interesse, anche se non sempre condivisibili. Si può essere d’accordo con lo
studioso olandese quando critica la mancanza di fondamenti teorici di molte discus-
sioni in difesa delle lingue minacciate, in particolare la diffusa idea secondo cui il
monolinguismo coinciderebbe con l’omogeneità culturale e la diversità linguistica
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 69

con quella culturale (de Swaan, 2007, p. 84), realtà che a suo avviso non sono in
stretto rapporto. Si può essere d’accordo, inoltre, con il fatto che il multiculturali-
smo non sia l’esito obbligato di una condizione di multilinguismo, e sul fatto che
nelle scelte linguistiche i parlanti si orientano verso la lingua che ha maggiore pre-
dominanza (la lingua cioè che permette di comunicare con il maggior numero di
persone) e la maggiore centralità (la lingua cioè che possiede la percentuale più alta
di parlanti multilingui) (de Swaan, 2007, p. 93). Infine, de Swaan non ha tutti i torti
quando osserva che le comunità linguistiche possono anche essere anguste ed asfis-
sianti, anche se questa tesi richiederebbe di essere relativizzata secondo i diversi
contesti storici e sociali38.
Altre opinioni espresse nell’articolo lasciano invece perplessi, come quella se-
condo cui «le multiculturalisme n’est en soi ni désiderable ni détestable. Il s’agit
d’un fait social qui est une partie intégrante de la vie» (de Swaan, 2007, p. 88). Al-
tra opinione che sembra discutibile, in quanto formulata in maniera troppo drastica,
è che le lingue non siano una parte costitutiva dell’identità culturale degli individui
(de Swaan, 2007, p. 90). Lascia perplessi anche l’idea che i caratteri culturali di un
gruppo sociale si possano perfettamente mantenere, anche senza la lingua origina-
riamente associata a quei valori (de Swaan, 2007, p. 89). Può darsi che ciò sia vero,
ma non è così scontato, e quanto meno sarebbero richieste delle distinzioni più sfu-
mate. Del tutto speculativo e privo di fondamento poi è il modello di pianificazione
linguistica secondo cui il francese sarebbe l’alternativa all’inglese nei paesi
dell’Europa meridionale, mentre nell’Europa orientale tale ruolo potrebbe essere as-
sunto dal tedesco (de Swaan, 2007, p. 93). Bisogna notare, infine, che de Swaan di-
fende il punto di vista, comprensibile e sostenuto da altri, ma forse non del tutto in-
controvertibile, secondo cui i valori culturali elaborati dall’Occidente nel corso
della sua storia, dall’Illuminismo ad oggi, ovvero i diritti umani, la libertà di pen-
siero, sentimento ed espressione, siano universali etici assoluti (de Swaan, 2007, p.
88). Egli esprime anche un’altra opinione spesso formulata nel dibattito sulle politi-
che linguistiche europee, quando osserva che la difesa ad oltranza di tutte le diver-
sità si ritorce a boomerang proprio contro chi lamenta l’indebolimento e la perdita
delle lingue minoritarie a vantaggio dell’inglese, considerato con pregiudizio ideo-
logico come la lingua della globalizzazione, dell’imperialismo capitalista e del con-
sumismo39. La difesa ad oltranza della diversità, in effetti, finisce col condurre pro-
prio alla indiscussa affermazione dell’inglese (de Swaan, 2007, pp. 92-94). È una
osservazione realistica, ma da cui non si possono trarre conclusioni di politica lin-
guistica definitive.

38
«La préservation de la langue d’une communauté signifie très souvent l’oppression perma-
nente des femmes, des enfants, des jeunes, des personnes sans ressources, des déviants et des dissi-
dents» (de Swaan, 2007, p. 89). L’esempio principale che viene fornito è quello del bretone.
39
Inutile sottolineare che per de Swaan questa rappresentazione dell’inglese è del tutto di-
storta.
70 ROSANNA SORNICOLA

In breve, lo studioso olandese dà prova di notevole realismo nella sua conce-


zione delle dinamiche culturali del multilinguismo, ma questo realismo è spesso
spinto alle estreme conseguenze, sino a trasformarsi in astratte speculazioni prive
del necessario approfondimento storico, che richiederebbe analisi ben più sfaccet-
tate e problematiche. La sua critica agli eccessi ideologici dei difensori delle lingue
minacciate e della diversità linguistica avrà pure degli aspetti convincenti, ma il
sentimentalismo che egli assume come bersaglio su cui esercitarsi è un obiettivo
polemico di comodo. Io credo che nell’affrontare le difficili questioni di politica
linguistica dell’Unione Europea le emozioni e i sentimenti debbano essere tenuti nel
giusto conto, senza facili scorciatoie o demonizzazioni. Il fatto è che de Swaan
sembra privilegiare completamente il punto di vista della funzione denotativa e uti-
litaristica nell’apprendimento delle lingue, e mette in secondo piano gli aspetti sto-
rico-culturali legati alle identità dei parlanti.
La polarizzazione concettuale tra questi due punti di vista coglie senza dubbio
una questione cruciale, di rilievo generale per le politiche educative di paesi di varie
parti del mondo, ma in special modo importante nell’Europa contemporanea, in cui
si carica di valori simbolici peculiari che sono il portato della plurimillenaria storia
del continente40. Sembra molto interessante al riguardo la posizione di Jürgen Tra-
bant che, come Judet de la Combe, sottolinea l’importanza di politiche linguistiche
che partano dall’esperienza di reinterpretazione e riappropriazione continua del pas-
sato, attraverso i testi delle tradizioni linguistiche e culturali di ciascun paese, una
esperienza che deve essere intesa non come processo in sé concluso, ma come per-
corso aperto ad altre tradizioni linguistiche e culturali. Mi sembra del tutto condivi-
sibile perciò l’idea che il lavoro sulla tradizione possa avere un valore autentica-
mente cosmopolitico e trovo suggestiva la proposta di creazione di un trivium come
tronco comune della educazione europea. In questa posizione non vedo alcun “sen-
timentalismo”, ma una robusta consapevolezza della specificità storico-culturale del
contesto europeo e della ricchezza della riflessione sulle lingue e sull’uomo che in
esso è maturata attraverso i secoli.
La doppia rappresentazione delle lingue come veicolo della funzione denota-
tiva e strumento di comunicazione nelle pratiche sociali, da un lato, e come espres-
sione di tradizioni culturali, con il loro retaggio di idee e sentimenti, dall’altro, trova
una eco profonda nel pensiero filosofico del Vecchio Continente. Se in periodi e
ambienti diversi è stata messa in rilievo piuttosto l’una o l’altra, è fondamentale te-
nere conto – come ci ricorda Trabant – di una linea di riflessione che non solo am-
mette ma sostiene la necessità che le due rappresentazioni abbiano pari legittimità a
livello teorico e convivano armonicamente nelle loro manifestazioni a livello indi-
viduale e sociale. Una formulazione importante di questa concezione si può trovare
in Humboldt e ciò acquista un significato di particolare interesse ricordando che il

40
Dei problemi scolastici si occupa anche de Swaan (2007, p. 88), con osservazioni pedagogi-
che non prive di interesse, ma infirmate dal suo approccio di realismo acritico ed estremizzante.
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 71

grande studioso tedesco vedeva il dispiegamento del vero “carattere” delle lingue
nelle loro manifestazioni letterarie e colte, manifestazioni da cui una lingua «reçoit
jeunesse et puissance et dont dépend la vie intellectuelle de la nation»41. A partire
da questa concezione, la duplicità di dimensioni delle lingue, la dimensione pratica,
uniformizzante e universalistica e quella culturale e affettiva in rapporto alle diver-
sità linguistiche nazionali e locali, può essere considerata come una “antinomia”
consapevolmente vissuta, come una tensione fonte di difficoltà, ma anche di espe-
rienze individuali e sociali ricche di valore. Il modello del bilinguismo come anti-
nomia da cui ci si deve lasciare attraversare ha trovato una espressione esemplare
nel lavoro di Brigitte Schlieben-Lange42, di cui giustamente Trabant sottolinea la
ricchezza di contenuti e implicazioni. Per Trabant da tale antinomia discende la
necessità del bilinguismo: «Une langue n’est pas plus vraie qu’une autre. Il faut sa-
voir les parler toutes les deux» (Trabant, 2001, p. 9).
Nelle posizioni di Schlieben-Lange e Trabant si può ravvisare un punto di vi-
sta autenticamente europeo sul valore della coesistenza culturale e linguistica. Col-
piscono in esse la conoscenza lucida e profonda della dimensione affettiva, che mi
pare vada ben al di là della semplice emotività. Non è forse un caso che questi con-
tributi vengano da intellettuali di un paese che ha vissuto l’esperienza della “cata-
strofe del nazismo”. Come altri loro connazionali, da questo trauma e dalle sue con-
seguenze politiche e sociali essi hanno imparato a conoscere, nella solitudine della
coscienza, ciò che davvero conta. Trabant è consapevole che la battaglia perché le
lingue nazionali mantengano una posizione universalizzante nei domini referenziali
delle scienze della natura o della tecnologia è persa e che in questi ambiti le lingue
nazionali si stanno riducendo al rango di lingue locali. Ma da uomo di cultura, e da
tedesco che ha vissuto il disagio di vedere scomparire dal dibattito sulle politiche
scolastiche del suo paese termini come “Muttersprache”, “Nationalsprache”, “Lan-
dessprache”, a vantaggio dei più asettici “Verkehrssprache”, “rationale Sprache”,
che negano il ricorso ai valori intimi e affettivi dell’appartenenza ad un paese, egli co-
nosce l’importanza dell’“amore delle lingue”43 e delle pratiche culturali che ad esso si
accompagnano (Trabant, 2007, p. 78). Questo amore è il fattore più importante che
garantisce la possibilità di sopravvivenza delle lingue nazionali: «Tant que les langues
nationales évoqueront chez ceux qui les parlent ce sentiment, elles ne sont pas per-
dues» (Trabant, 2007, p. 78), ma se al contrario «l’amour de la langue abandonne la
langue nationale, la langue nationale est perdue» (Trabant, 2007, p. 79).
L’amore della lingua di cui parla Trabant non è una emozione superficiale ed
effimera, ma un’esperienza che viene da lontano e che fa parte della nostra storia di
europei e dell’Europa delle nazioni. La sua formulazione racchiude un invito a noi
linguisti a tentare di ricomporre in un unico ampio dominio di studio tutte le mani-

41
Trabant (2001, p. 8); si veda inoltre Sornicola (2001, pp. 32-33).
42
Per questa concezione si veda Schlieben-Lange (1996, specialmente pp. 110-111).
43
L’espressione è del letterato ed erudito italiano del XVI secolo Sperone Speroni.
72 ROSANNA SORNICOLA

festazioni della vita emotiva, affettiva e immaginativa dei parlanti e delle lingue. Il
ricordo di Hannah Arendt che, alla domanda su ciò che rimaneva dopo il nazismo,
risponde: “la lingua tedesca”44, tocca una corda profonda in molti europei. Attra-
verso percorsi diversi, che riflettono le storie dei vari paesi, esiste un diffuso sentire
che la lingua nazionale o la lingua locale siano gli strumenti in cui si è autentica-
mente “a casa”, e che in queste è depositato un patrimonio culturale che è a fonda-
mento delle identità. Punto di arrivo da poco raggiunto come bene più ampiamente
condiviso in un paese la cui unità è recente e precaria, come nel caso dell’Italia, o
eredità preziosa di un grande passato, non dispersa da cambiamenti politici che
hanno condotto identità nazionali diverse sotto un unico dominio politico sovraor-
dinato, e per questo ancora più cara, come nel caso del paese catalano, la lingua è la
sede di enormi forze dell’emozione e del sentimento. In essa riposa in alto grado ciò
che si potrebbe definire la “funzione consolatoria della cultura”, che può rimargi-
nare o attutire ferite del passato, e mettere in condizione di affrontare opportunità e
rischi del futuro. Trabant ha ragione, a mio avviso, nel ritenere che la tanto temuta
globalizzazione non sia necessariamente una minaccia, finché sopravviverà
l’attaccamento alle diversità linguistiche e ai contenuti culturali e valori simbolici
che esse esprimono.
Con la concezione dell’antinomia linguistica formulata da Schlieben-Lange e
ripresa da Trabant il cerchio si chiude. Torniamo al fondamento humboldtiano della
linguistica europea, con la sua sintesi attiva e faticosa dell’accettazione delle diver-
sità e il suo modello di coesistenza di particolare e universale nelle lingue e nelle
culture. Quanto sono rilevanti le emozioni e gli affetti nella comunicazione umana?
Io credo che lo siano molto, ma credo anche che la strada per renderli compiuta-
mente un tema degno della massima attenzione scientifica sia difficile e piena di
ostacoli, non solo per le ragioni epistemologiche menzionate nella prima parte di
questo lavoro, ma anche perché molte circostanze del dibattito scientifico e della
vita politica del mondo contemporaneo conducono in altre direzioni. Emozioni, af-
fetti e sentimenti sono anche esperienze umane che attraverso la storia hanno spesso
dimostrato il loro carattere di realtà incandescenti, la loro terribile potenzialità di
trasformazione e manipolazione a scopi politici. È nel senso indicato da Schlieben-
Lange e Trabant che possiamo trovare una risposta a queste difficoltà e alle nostre
domande.

44
Si veda Trabant (2007, p. 78).
ABBIAMO BISOGNO DI UNA LINGUISTICA DELLE EMOZIONI? 73

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FEDERICO ALBANO LEONI
(Sapienza Università di Roma)

Delle parti e del tutto: Jakobson, Husserl e la fonologia*

1. PREMESSA
Roman Jakobson è un insigne rappresentante della linguistica del Novecento,
trait d’union fra quella europea (dove Jakobson nasce, come linguista, tra Mosca e
Praga) e quella americana, e, in quanto strutturalista, si colloca all’interno di un
universo complesso perché il termine e il concetto di «struttura» attraversano molte
discipline del Novecento1.
Si può dire, semplificando, che il concetto di struttura rinvia all’idea di un in-
sieme ordinato, un tutto che non è la semplice somma o giustapposizione di com-
ponenti, di parti dotate ciascuna di autonoma esistenza propria, ma, al contrario, è
tale che queste non gli preesistono e ciascuna è anzi determinata solo dalle relazioni
con le altre parti.
Detta la questione in questi termini, si vede che il concetto di “struttura”, come per
certi versi quello di “Gestalt”, sono declinazioni diverse del problema del rapporto fra
le parti e il tutto, e appare dunque ovvio un richiamo alle Logische Untersuchungen di
Husserl e in particolare alla terza. Come indica il titolo che ho scelto per questo arti-
colo, vorrei appunto proporre qualche considerazione su alcuni aspetti del pensiero
fonologico di Jakobson e sui suoi rapporti con la fenomenologia.
L’accostamento non è peregrino, non solo perché si sa (Raynaud, 1990, pp.
73-75 e passim; De Palo, 2010 a, b, 2013) che Husserl è presente, direttamente (con
una celebre conferenza a Praga nel 1935, della quale peraltro non si sa molto: cfr.
Raynaud, 1990, p. 74) o indirettamente, nella fase aurorale degli strutturalismi eu-
ropei, a Praga, nei «Travaux», con gli articoli di Bühler (1931, 1936) e di Pos
(1939)2, e a Copenaghen, nel manifesto della rivista «Acta linguistica» (Brøndal,

*
Nel corso della stesura di questo articolo ho avuto la fortuna di poterne discutere con Giu-
seppe Di Salvatore, Lia Formigari e Savina Raynaud dai quali ho ricavato molti suggerimenti e che
qui ringrazio.
1
La bibliografia è sterminata. Per il concetto di struttura mi limiterò a ricordare, oltre al
fondamentale saggio di Piaget (1968), i lavori di Bastide (1962) e Pomian (1981) per l’insieme
delle scienze umane e sociali (e per la biologia); di Cassirer (1946), Eco (1968), Boudon (1968),
Holenstein (1974) e Petitot-Cocorda (1985:19-26, 40-43) per gli aspetti semiotici e filosofici; di
Brøndal (1939), Benveniste (1962, in Bastide), Lepschy (1966) e Ducrot (1968) per lo strutturali-
smo in linguistica. Lepschy (1962) traccia la preistoria del termine struttura dall’organicismo fino
alla linguistica neogrammatica.
2
Pos (1939), rappresenta, a quanto ne so, la prima e più esplicita riflessione sullo strutturali-
78 FEDERICO ALBANO LEONI

1939), ma soprattutto perché esiste una linea interpretativa del pensiero di Jakob-
son, rappresentata da Holenstein (1974), da Petitot-Cocorda (1985) e da Coquet
(2007), secondo la quale nell’opera del linguista russo si ravviserebbe una impor-
tante presenza di Husserl, al punto che si è parlato di uno strutturalismo fenomeno-
logico, anche se, naturalmente, si ricorda che questo accostamento va visto con
cautela (Holenstein, 1974, p. 11).
L’argomento è complesso3, e mi riprometto di approfondirlo in una prossima
occasione, limitandomi qui a qualche osservazione su un paio di punti. Penso infatti
che ci siano elementi che inducono a mettere in discussione la fondatezza di questo
accostamento4. Preciso comunque, in apertura, che il quadro che mi accingo a trac-
ciare riguarda lo Jakobson linguista e fonologo stricto sensu e non, per esempio, lo
Jakobson lettore di letteratura.
Non c’è dubbio che, almeno per quanto riguarda le citazioni esplicite, Husserl è
effettivamente molto presente nell’opera di Jakobson, come appare già a uno spoglio
dei Selected Writings5. Ma è anche vero che in genere queste citazioni sono generiche,
per lo più limitate a menzioni fuggevoli e legate a discussioni sulla storia del pensiero
linguistico più che a questioni di descrizione e interpretazione di fenomeni linguistici.
Ci sono tuttavia due casi, direttamente o indirettamente riferibili alla fonologia,
sui quali mi soffermerò e nei quali il rinvio a Husserl si presta a qualche considera-
zione puntuale. Il primo è un ampio saggio sulla struttura del fonema (Jakobson,

smo e sulla fonologia praghesi da parte di un filosofo fenomenologo.


3
Osservo tuttavia che la questione della presenza di Husserl nello strutturalismo in generale
e in Jakobson in particolare non è affatto segnalata in due pur acutissimi osservatori: Lepschy
(1966) la ignora; Heilmann (1966) la menziona in modo fuggevole.
4
A questo proposito c’è da osservare un punto preliminare non del tutto marginale. Jakobson
(1962 [1939], p. 301) cita Pos solo su un punto che riguarda il concetto di opposizione, sul quale
tornerò più avanti, e non raccoglie nessuno dei punti salienti della sua riflessione: sono ignorati il
rinvio alla coscienza del parlante, alla introspezione e all’intersoggettività, garantita dai types
idéaux trascendentali a cui devono conformarsi i parlanti, e il rinvio a un finalismo incosciente
della lingua (che ricorda forse il teleologismo di Jakobson in relazione al cambiamento linguistico).
A parere di Coquet (2007, pp. 19-20) il tema dell’intersoggettività, così come lo presenta Pos, sa-
rebbe da vedere nelle riflessioni di Jakobson sulla comunicazione. L’affermazione è sorprendente
perché il modello di comunicazione di Jakobson è decisamente più vicino a quello di Shannon che
a qualsivoglia modello husserliano.
5
«Si l’on suit les citations explicites, on constate une influence directe de Husserl […]» (Ho-
lenstein, 1974, p. 9). L’osservazione è verissima. Non so quanto peso si possa dare al fatto che, a
partire dall’inizio degli anni Quaranta, questa presenza si rarefà, fino a sparire e si osserva invece
una curva di andamento opposto nelle frequenza delle citazioni di Peirce. Lia Formigari, che rin-
grazio, mi segnala che secondo Koerner (Remarks on the Sources of R. Jakobson’s Linguistic In-
spiration, «Cahiers de l’ILSL», n° 9, 1997, pp. 151-168) le citazioni husserliane di Jakobson te-
stimoniano casomai la scoperta a posteriori di una affinità di modelli, piuttosto che apporti costitu-
tivi per la teoria di Jakobson stesso.
DELLE PARTI E DEL TUTTO 79

1962 [1939]); il secondo è un breve articolo sul rapporto fra il tutto e le parti in lin-
guistica (Jakobson, 1971 [1963]).

2. LA STRUTTURA DEL FONEMA


In questo saggio (1962 [1939]), che è la summa del pensiero fonologico di Ja-
kobson al termine dell’esperienza praghese, e nel quale sono già nettamente deli-
neati i successivi sviluppi binaristici, lo studioso, fra le altre cose, pone coraggio-
samente una questione in genere trascurata dalle fonologie: se è vero che nella pro-
spettiva saussuriana (verso la quale Jakobson è spesso critico ma di cui sembra ac-
cettare gli aspetti semiotici generali) le unità linguistiche sono solo i segni, cioè en-
tità che consistono nella unione inscindibile di un significante e di un significato,
come si può considerare il fonema una unità linguistica dato che esso è privo di si-
gnificato? Il problema nasce evidentemente da un passo saussuriano molto noto:

L’entità linguistica non esiste che per la associazione del significante e del significato;
appena si considera uno solo di questi elementi, essa svanisce; invece d’un oggetto con-
creto ci si trova dinanzi una pura astrazione. In ogni momento si rischia di non perce-
pire che una parte soltanto dell’entità credendo di abbracciarla nella sua totalità; è ciò
che accadrebbe, per esempio, se si dividesse la catena parlata in sillabe; la sillaba ha
valore soltanto in fonologia. Una sequenza di suoni è linguistica soltanto se è il sup-
porto di un’idea; presa in se stessa non è altro che materia di uno studio fisiologico
(Saussure, 1962 [1916], p. 125 [144]).

Le strategie possibili per rispondere a questa domanda sono due: o si rinuncia


drasticamente a considerare il fonema una unità linguistica, come, a mio parere e
contrariamente a quanto sostenuto soprattutto da Jakobson (Albano Leoni, 2007),
aveva fatto lo stesso Saussure, o si deve trovare il modo di aggirare il problema. La
prima risposta è evidentemente un adynaton per uno dei padri della fonologia del
Novecento e dunque Jakobson deve cercare di seguire la seconda. La sua argomen-
tazione si articola in due punti.
Nel primo punto Jakobson, che pure prende spesso le distanze dal Genfer Mei-
ster e dalla sua scuola, riconosce a Saussure (e a Baudouin de Courtenay) il merito
di aver sottratto la fonetica al caos della infinita variabilità della materia fonica at-
traverso il riconoscimento di una sua funzione significativa, riconducendo quindi la
Lautform alla sua funzione prima e primordiale che è quella della significazione:

Dieser Weg drohte zu einer trostlosen Verwilderung der Verslehre, und jeder Lautlehre
überhaupt, und zu einer restlosen Ausschaltung der Lautlehre aus der sprachlichen, d.h.
vor allem zeichenartigen, semiotischen Problematik zu führen.
Das abschreckende Bild der chaotischen Vielheit bedurfte des antithetischen Prinzips
der ordnenden Einheit. Zwei geniale Sprachforscher, Baudouin de Courtenay und Fer-
dinand de Saussure, rollten die Frage nach dem Zwecke der Sprachklänge auf, und das
Studium des lautlichen Feldes der Sprache unter dem Gesichtspunkt der sprachlichen
80 FEDERICO ALBANO LEONI

Funktionen wurde von ihren Schülern und Nachfolgern eingeleitet. Die Lautform der
Sprache, die bis dahin ein blosser Gegenstand der Sinnespsychologie und -physiologie
war, wurde endlich der Linguistik im wahren Sinne des Wortes einverleibt, d.h. die
Lautform wurde unter dem Gesichtspunkt ihres Zeichenwertes und vor allem ihrer be-
deutungsverleihenden Funktion [corsivo mio] untersucht. Die massgebliche Frage, das
“wozu” der Sprachlaute, d.h. ihre unmittelbare raison d’être kam endlich zur Geltung
(Jakobson, 1962 [1939], pp. 280-281).

Jakobson menziona la Lautform (cioè quella che in anni più tardi avrebbe chia-
mato sound shape), che è, per restare a Saussure, il signifiant nel suo complesso.
Alla Lautform viene attribuita una bedeutungsverleihende (Funktion), cioè una
«(funzione) che conferisce un senso» ed è qui evidente il riferimento alla termino-
logia di Husserl, sulla quale tornerò tra breve. Tale riferimento è forse plausibile
anche se non se ne vede l’utilità.
Con questa scelta terminologica husserliana Jakobson anticipa il secondo punto
della sua argomentazione che riguarda direttamente non più la Lautform in generale
ma il fonema in senso tecnico che, come certamente egli sa bene, è un’altra cosa.
Così, dopo aver liquidato come sterile la discussione sull’ontologia del fonema (pp.
281-282), Jakobson propone di risolvere il nodo teorico posto dal fatto che il fonema,
pur essendo irrimediabilmente privo di significato, deve essere considerato una entità
linguistica, appropriandosi esplicitamente di una distinzione husserliana e applica al
fonema quello che, evocando Husserl, aveva detto della Lautform:

Auch ein Phonem ist in diesem Sinne doppelseitig, doch das Eigenartige und Seltsame
liegt hier darin, dass dem bestimmten und konstanten lautlichen Unterschied zweier
Phoneme die blosse Tatsache eines potentiellen Bedeutungsunterschiedes, keinesfalls
aber ein bestimmter und konstanter Bedeutungsunterschied entspricht. Um mit Husserl
zu sprechen, ist im Phonem der bedeutungsverleihende Akt, keineswegs aber der be-
deutungserfüllende Akt gegeben (Jakobson, 1962 [1939], p. 292).

Il riferimento è evidentemente a Husserl (2005 [1922] vol. I, pp. 304-305) che


effettivamente distingue tra “atti conferitori di senso” e “atti che riempiono il signifi-
cato”. Vale la pena di leggere direttamente qualche passo delle pagine in questione.
Scrive Husserl (p. 304):

Se ci poniamo sul terreno della descrizione pura, il fenomeno concreto dell’espressione


animata del senso si distingue da un lato nel fenomeno fisico nel quale l’espressione si
costituisce nel suo aspetto fisico, e dall’altro, negli atti che le conferiscono il significato
ed eventualmente la pienezza intuitiva, e nei quali si costituisce il riferimento ad una
oggettualità espressa.

E a p. 305 precisa:

Se prendiamo come base questa fondamentale distinzione tra intenzioni significanti in-
tuitivamente vuote e riempite, saranno da distinguere – dopo aver messo da parte gli atti
DELLE PARTI E DEL TUTTO 81

sensibili nei quali si manifesta l’espressione come complesso fonetico – due generi di atti
o di serie di atti; da un lato quelli che sono essenziali all’espressione, in quanto essa è an-
cora espressione, cioè un complesso fonetico animato da un senso. Noi definiamo questi
atti come atti conferitori di senso o anche intenzioni significanti. Dall’altro lato, gli atti che
pur non essendo essenziali all’espressione come tale si trovano con essa in una relazione
logica fondamentale per il fatto che riempiono (confermano, rafforzano, illustrano) con
maggiore o minore adeguatezza la sua intenzione significante, rendendo così attuale il suo
riferirsi all’oggetto. Noi definiamo questi atti […] atti che riempiono il significato.

È legittima e sensata l’estensione di questo concetto husserliano alla categoria


strutturalistica del fonema? Sembrerebbe di no.
Infatti c’è da osservare che Husserl, parlando degli atti conferitori di senso,
non prende mai in considerazione unità cosiddette minime asemantiche, perché tali
atti hanno per oggetto il «fenomeno concreto dell’espressione animata di senso»
(avendo egli esplicitamente messo da parte «gli atti sensibili nei quali si manifesta
l’espressione come complesso fonetico», i quali non sembrano essere altro che la
materia fonica non formata e non segmentata). Inoltre Husserl intende qui gli «atti
[…] che sono essenziali all’espressione, in quanto essa è ancora espressione, cioè
un complesso fonetico animato da un senso». Mi sembra difficile estendere al fo-
nema, quale che sia la definizione tecnica che se ne voglia dare, la proprietà di es-
sere animato da un senso, né mi sembra che il fonema possa essere considerato un
“complesso” (a meno che non si intenda “complesso” come “fascio di tratti distin-
tivi”, cosa ancora meno plausibile, come si vedrà più avanti).
Insomma, mentre sembrerebbe lecito istituire una qualche analogia tra la
Lautform di Jakobson e il Wortlaut o, meglio, il Wort di Husserl, non sembra sussi-
sterne alcuna tra il fonema di Jakobson e degli strutturalisti, da un lato, e l’apparato
6
concettuale di Husserl, dall’altro .
Infine, dalla lettura della Prima ricerca: espressione e significato (Husserl,
(2005 [1922] vol. I, pp. 291-374), e in particolare del cap. II (Per una caratteristica
degli atti che conferiscono il significato, ivi, pp. 329-345), appare impossibile che il
fonema rientri in una delle fattispecie lì analizzate e che possa quindi essere consi-
derato un “atto”. Per convincersene basta leggere le righe di apertura di questo ca-
pitolo (p. 329):

Noi abbiamo orientato il concetto di significato, o di intenzione significativa, secondo il


carattere fenomenologico che è essenziale come tale all’espressione e lo abbiamo distinto
nella coscienza, e quindi descrittivamente, dal puro e semplice complesso fonetico. In base
alla nostra teoria, questo carattere è possibile ed è abbastanza spesso effettivamente realiz-
zato, senza che l’espressione si trovi in una funzione conoscitiva e in un rapporto, per
quanto debole e lontano, con le intuizioni che lo traducono in dati sensibili.

6
Giuseppe Di Salvatore (comunicazione privata) mi fa osservare che Jakobson non sa (o non
può) coordinare una bedeutungsvolleLautform con un bedeutungslosesPhonem.
82 FEDERICO ALBANO LEONI

L’idea quindi che il fonema (che peraltro non è affatto il «complesso fonetico»
menzionato nel passo citato) possa entrare in questo universo di discorso e dunque
conferire un significato, idea in sé peregrina e che peraltro nessun fonologo ha mai
sostenuto, appare del tutto estranea al pensiero di Husserl.
Quindi l’aporia insita nel voler considerare i fonemi come unità linguistiche,
sembra rimanere irrisolta anche in una prospettiva fenomenologica.
Da quanto vengo dicendo trarrei la conclusione che questo riferimento a Hus-
serl è tanto superficiale da essere improponibile. E infatti in questo stesso articolo
Jakobson abbandona rapidamente lo spunto husserliano e passa ad utilizzare il con-
cetto bühleriano di «Zeichen am Zeichen» sul quale non mi soffermerò qui perché
ci porterebbe verso un altro nodo problematico, e cioè quello dell’uso che Jakobson
fa del pensiero di Bühler.
Il fatto è che Jakobson non si confronta veramente con il grande problema del
rapporto fra il tutto e le parti, ma lo affronta solo superficialmente, come cercherò di
mostrare nel prossimo paragrafo.

3. IL TUTTO E LE PARTI
C’è un secondo caso in cui il riferimento a Husserl è puntuale, ed è rappresen-
tato da un breve articolo del 1963 (Jakobson, 1971 [1963]), dal titolo esplicitamente
husserliano (Parts and Wholes in Language), nel quale Jakobson sembra applicare,
sia pure solo per cenni, principi husserliani a procedure di descrizione di caratteri
generali delle lingue. Jakobson si riferisce alla terza ricerca logica di Husserl (2005
[1922]), dedicata appunto agli interi e alle parti, e a un importante saggio di Ernest
Nagel (1963 [1952], 1979).
L’articolo di Jakobson si apre con una esplicita dichiarazione di fede fenome-
nologica, nella quale lo studioso rimprovera alla linguistica di non aver prestato suf-
ficiente attenzione al problema generale del rapporto fra le parti e il tutto.
In the second part of Edmund Husserl’s Logische Untersuchungen, still one of the most
inspiring contributions to the phenomenology of language, two studies devoted to
“Wholes and Parts” introduce the philosopher’s meditations on “the Idea of Pure Gram-
mar”. In spite of the manifold aspects of interdependence between wholes and parts in
language, linguists have been prone to disregard this mutual relationship (p. 280).

Non sono sicuro che il rimprovero sia del tutto fondato ma, almeno in linea di
principio, non si può non condividere l’esortazione a considerare con attenzione la
relazione tra gli elementi (le parti) che costituiscono una lingua (il tutto) o tra enun-
ciati o testi (il tutto) e gli elementi di cui sono costituiti (le parti). Resta tuttavia da
vedere se lo stesso Jakobson abbia veramente introdotto questa riflessione nel suo
lavoro e se l’abbia sviluppata con conseguenza7.

7
Ci sarebbe da osservare che in questo stesso articolo, Jakobson rimprovera alla linguistica
DELLE PARTI E DEL TUTTO 83

Tuttavia, poiché non è difficile capire che la distanza tra le Logische Unter-
suchungen di Husserl (e la sua idea di una grammatica pura) e una qualsivoglia de-
scrizione, strutturale o di altro orientamento, di un aspetto o meccanismo fonico
delle lingue è molto grande, Jakobson abbandona subito Husserl e passa, nel pro-
sieguo dell’articolo, alla traccia fornitagli da un lavoro di un autorevole epistemo-
logo (Nagel, 1963 [1952]), adattando a possibili fattispecie linguistiche le varie ti-
pologie di relazioni parti/tutto (nella dimensione spaziale o in quella temporale, o
nel rapporto tra insiemi e oggetti che ne fanno parte), che Nagel descrive.
Così, nella relazione tra processo e parti di un processo (che sono a loro volta
processi) Jakobson vede la relazione tra un evento linguistico (il tutto) e i suoi com-
ponenti psicofisici (le parti).
Nella relazione tra un tutto come estensione temporale e parti che ne sono por-
zioni, pure con estensione temporale, vede la stessa relazione che si trova nell’ana-
lisi di un enunciato (il tutto) in costituenti immediati (le parti) del distribuzionali-
smo americano.
Nella relazione tra classi e oggetti che ne fanno parte Jakobson vede analogie
p. es. con le categorie linguistiche (classi) e gli oggetti che vi si raggruppano8 e, in-
fine, nella relazione tra un oggetto (il tutto) e le sue proprietà (le parti) vede la rela-
zione tra un fonema e i suoi tratti.

From the sentence model as a whole we pass to various syntactic patterns of sentences,
on the one hand, and to the grammatical constituents of the sentence, on the other.
When we reach the level of the word, then either word classes or, again the morpho-
logical constituents of the word serve as parts. Gradually we arrive at the ultimate stage
- the analysis of the smallest meaningful units into distinctive features. An important

altre gravi omissioni: infatti egli lamenta che ci sia una «nearly unexplored question of the interre-
lation between message and context» (p. 282), e che «the structural laws of ellipsis have not yet
been subjected to a thorough analysis» (ibid.). Le due affermazioni sono sorprendenti. Infatti, è
molto difficile credere che Jakobson ignorasse le opere di Wegener (1885), Brugmann (1904),
Malinowski (1923), Gardiner (1932), Bühler (1934), tutte centrate proprio sul fatto che il contesto,
la situazione sono parte integrante degli atti linguistici (e non esiterei a definire clamorosa la di-
menticanza di Bühler, al quale Jakobson deve molto più di quanto non riconosca). Lo stesso vale
per la questione dell’ellissi, per la quale Jakobson sembra dimenticare, o ignorare, non solo, e an-
cora una volta, Bühler (che sull’ellissi ha scritto pagine di grande acutezza), ma anche le Philoso-
phische Untersuchungen di Ludwig Wittgenstein (1953). Altrove (Albano Leoni, 2011) ho avuto
modo di osservare che l’atteggiamento di Jakobson nei confronti di Bühler non è del tutto limpido.
Sul tema dell’ellissi e su quello della presenza di Husserl nel pensiero strutturalista si vedano ri-
spettivamente anche Mulligan (2004) e De Palo (2010 a, 2013). Mathesius (1911) poco letto in Eu-
ropa occidentale (ma recentemente riproposto all’attenzione degli studiosi in Raynaud, 2012),
avrebbe potuto invece essere noto a Jakobson.
8
È opportuno segnalare che questa terza relazione presenta una discontinuità rispetto alle
precedenti, perché mentre le relazioni tra le parti e il tutto dei primi due tipi sono in praesentia, la
terza è una relazione in absentia.
84 FEDERICO ALBANO LEONI

structural particularity of language is that at no stage of resolving higher units into their
component parts does one encounter informationally pointless fragments (Jakobson,
1971 [1963], p. 283).

Sorvolo qui sul fatto, sorprendente, che Jakobson qualifichi come meaningful
le unità minime, cioè i fonemi, perché si tratta forse di un lapsus. Osserverò invece
che nel costruire queste analogie Jakobson fa alcune semplificazioni o, meglio,
omette di far emergere il nocciolo problematico e alcune difficoltà molto serie. In-
fatti, se si chiama in causa la mereologia, bisogna rispettarne le regole.
A titolo di esempio mi servirò di una considerazione fatte da Hammond (2001-
2002), in un articolo in cui passa in rassegna alcuni problemi che emergono dai la-
vori di tre grandi studiosi di questi problemi, che sono appunto Nagel (1963 [1952],
1979), Polanyi (1958) e Simons (1987).
La considerazione nasce dalla osservazione di una possibile analisi di un og-
getto concreto, che Hammond illustra con un esempio divertente e provocatorio: un
barattolo di zuppa (un tutto) può essere diviso in porzioni (le parti); ogni porzione
(un tutto) può essere divisa in cucchiaiate (le parti); la zuppa (il tutto) può essere
analizzata nei suoi componenti (le parti), fra cui p. es. una patata; la patata (un tutto)
può essere analizzata nei suoi componenti chimici (le parti), fra cui, p. es. i carboi-
drati; arrivati a questo punto si incontra una questione indecidibile, e cioè se i car-
boidrati siano una parte della patata, o la patata concorra, come parte, a formare
l’insieme dei carboidrati (come classe, cioè come tutto).
La trafila che porta dal barattolo di zuppa ai carboidrati è del tutto analoga a
quella rappresentata da Jakobson nel passo che ho appena citato. Ma, nel suggerire
la sua trafila, Jakobson si ferma ante portas perché il suo è un mero esercizio di
scomposizione meccanica, senza nessun riguardo allo statuto ontologico o fenome-
nologico degli elementi che sono di volta in volta tutto o parti. Infatti è vero che ap-
plicando questo procedimento all’analisi di un enunciato si può arrivare ai tratti, ma
cosa succede quando ci si arriva? Nasce da qui un’altra considerazione.
Prendiamo ad esempio il caso di un’opposizione privativa (Trubeckoj, 1939, p.
89; Belardi, 1970): questa, come si sa, è caratterizzata dal fatto che uno dei due
termini dell’opposizione è privo del tratto presente nell’altro ed è perciò detto ‘non
marcato’. Quindi, la coppia di fonemi italiani /p/-/b/ (presente, per esempio nella
cosiddetta coppia minima it. para/bara) è caratterizzata dal fatto che, nello schema
binario di Jakobson, il termine marcato /b/ è [+sonoro] (realizzato quindi mediante
la presenza di una vibrazione glottidale che genera una oscillazione quasi-periodica
di molecole d’aria), mentre l’altro termine /p/ [-sonoro], non marcato, è privo di
questa vibrazione.
Detto in altre parole, la realizzazione del presunto fonema it. /p/ è un oggetto
fisico con sue proprietà (nella fattispecie [consonantico], [occlusivo], [bilabiale]) e
l’ascoltatore lo percepisce e riconosce per queste sue proprietà; la realizzazione del
presunto fonema it. /b/ è un altro oggetto fisico con sue proprietà (nella fattispecie
[consonantico], [occlusivo], [bilabiale], [sonoro]) e l’ascoltatore lo percepisce e ri-
DELLE PARTI E DEL TUTTO 85

conosce per queste sue proprietà e non perché l’ha confrontato con l’altro termine
della coppia (tranne naturalmente che nei casi, rari o innaturali, in cui all’ascoltatore
venga somministrata la coppia isolata, per esempio nel corso di un test).
Si potrebbe obiettare che, nel momento in cui si ribadisce che la percezione e il
riconoscimento avvengono sulla base di proprietà positive del percetto, si viene a
negare la natura differenziale e oppositiva delle unità linguistiche9. Ma in realtà
quello che si viene a negare è solo che tale natura possa essere attribuita a pezzi di
materia fonica di per sé asemantica e che questi siano percepiti e riconosciuti in
quanto tali solo dopo che si è accertato che essi non sono un’altra cosa10.
Ma, tornando all’interpretazione (husserliana?) del rapporto fra il tutto e le
parti, così come la propone Jakobson, credo che sia lecito domandarsi, sempre ri-
manendo all’esempio qui in discussione, quale sia lo statuto del tratto [-sonoro],
cioè di un tratto che non ha alcun corrispettivo fisico positivo e che trae la sua legit-
timazione solo da una costruzione logica di livello meta-metalinguistico. Infatti non
è facile capire come una parte che non c’è (il tratto [-sonoro] nella rappresentazione
di Jakobson) possa essere parte di un tutto: una opposizione privativa, come quella
qui presa ad esempio, non può avere consistenza sul piano ontologico né, direi, su
quello cognitivo. Né infine si può accettare che alcune delle parti di un tutto (cioè
alcuni dei tratti che concorrerebbero a formare un fonema) godano di proprietà po-
sitive e altre di proprietà solo correlative.
Inoltre, tornando alla fenomenologia, è pur vero che Husserl, nella Terza ri-
cerca, prende in considerazione anche

necessità analitiche come: non vi possono essere padroni, padri se non vi sono sudditi,
servi, figli ecc.
In generale si vuol dire qui che elementi correlativi si postulano reciprocamente: essi non
possono essere pensati -non possono essere- l’uno senza l’altro (Husserl, 2005 [1922],
vol.II, pp. 42-43),

9
Come è noto, si tratta di un principio saussuriano. Si legge infatti nel Corso: «Per classifi-
care questi ultimi [scil. i fonemi, nel senso saussuriano di segmenti di materia fonica], importa as-
sai meno sapere in che consistono e assai più ciò che li distingue gli uni dagli altri. Ora per la clas-
sificazione un fattore negativo può avere più importanza che un fattore positivo» (Saussure, 1968
[1916], pp. 57-58). Ma è bene osservare che Saussure si riferisce qui a un mero criterio di classifi-
cazione descrittiva: «È secondo tale principio che classificheremo i suoni. Si tratta di un semplice
schema di classificazione razionale» (ivi, p. 59). Ancora più netti sono gli appunti degli studenti
(Saussure, 1967-68, fasc. I, 817-818: D67, SM III 104; S. 1.36; J. 59) concordi nel riportare
l’affermazione che ciò è privo di qualsiasi interesse teorico.
10
Ritengo inoltre (Albano Leoni, 2012) che la pertinenza, cioè appunto la proprietà differen-
ziale e oppositiva di una unità linguistica, non sia localizzata esclusivamente in un punto della unità
(cioè in un fonema o in un suo tratto, secondo il punto di vista corrente), ma che essa sia diffusa
sulla intera fisionomia acustica delle parole e che essa agisca sempre in stretta connessione con il
contesto e con la capacità ermeneutica dell’ascoltatore, che vanno ben oltre l’informazione conte-
nuta nel segnale.
86 FEDERICO ALBANO LEONI

ma questa presupposizione reciproca non può in alcun modo essere accostata alla
logica della opposizione privativa, o binaria in generale, non fosse altro che per il
fatto che un ipotetico ‘non padre’ non è uguale a ‘figlio’ (laddove per Jakobson,
almeno in linea di principio, [-sonoro] non può che correlarsi a [+sonoro] e, in ge-
nerale, ogni tratto positivo non può che correlarsi al suo negativo e viceversa).
Si noti per inciso che lo stesso Jakobson (1962 [1939], p. 301), che pure faceva
propria un’affermazione di Pos sulle opposizioni («[…] ein wirkliches Opposition-
sglied kann nicht ohne das andere Glied gedacht werden. L’un implique l’autre,
nach dem treffenden Satz des hervorragenden holländischen Sprachphilosophen H.
J. Pos»), era poi invece molto cauto nell’accettare le conseguenze logiche del prin-
cipio oppositivo binario. Infatti, riprendendo esplicitamente gli esempi di Pos sulle
coppie polari del tipo «bello»/«brutto»11, si esprimeva con cautela a proposito di op-
posizioni fonologiche del tipo /a/ vs /u/, che sono più complesse:

Die mannigfaltigen Oppositionsbegriffe sind in einer Hinsicht gleich: die Begriffe Va-
ter und Mutter, Tag und Nacht, teuer und billig, gross und klein setzen einander voraus.
Bei den Phonemen /u/ und /a/ ist das nicht der Fall. Soll das bedeuten, dass man das
Phonemverhältnis nur ungenau als Opposition bezeichnet, und das man hier mit blossen
Differenzen, dualités contingentes, und keineswegs mit echten Oppositionen zu tun
hätte? Ich lasse einstweilen diese Frage offen (p. 301).

La riflessione che sto proponendo sullo statuto del binarismo e sui tratti con-
trassegnati dal valore negativo induce a manifestare qualche perplessità su quanto
scrive Petitot-Cocorda (1985, p. 38-39), quando cerca di interpretare, a mio avviso
in maniera impropria, i tratti binari di Jakobson come l’applicazione fonologica del
principio husserliano della fondazione.
Scrive Petitot-Cocorda (1985, p. 36):

Quest’ultimo problema [cioè quello delle parti non isolabili da un tutto] cioè quello dei
rapporti di dipendenza (detti anche di fondazione) tra un momento e il tutto di cui esso è
il momento inscindibile, è stato oggetto di indagini approfondite tanto da parte di
Stumpf e di Meinong quanto da parte di Husserl. […] È una questione di grande rilievo
poiché […] essa è all’origine della fonologia jakobsoniana, dove i tratti distintivi sono
dei momenti dipendenti per eccellenza: i fonemi non sono né delle classi di equivalenza
di allofoni, né degli artifici descrittivi, né degli abstracts, ma delle unità formali e rela-
zionali costituite da rapporti di fondazione che sono rapporti reali nel senso di una au-
tonomia ontologica del livello fonologico (p. 36)12.

11
Osserverei che peraltro opposizioni di questo genere hanno il loro fondamento negli usi del
linguaggio ordinario e nel senso comune perché, come si vedrà anche più avanti, dal punto di vista
logico binaristico l’opposto di «bello» non è «brutto» ma è «non bello».
12
Sorvolo qui sul concetto di « autonomia ontologica del livello fonologico », che è
un’aporia se, come presumo, l’Autore usa con cognizione di causa la terminologia della fonologia
DELLE PARTI E DEL TUTTO 87

Mi sembra che questo sia il passo chiave per la sua costruzione di una fonolo-
gia fenomenologica. Esso si basa sull’ipotesi che fra i tratti binari che costituiscono
un fonema sussista un rapporto di fondazione. Ma questo passo richiede qualche
commento.
Innanzi tutto penso che sia bene ricordare cosa intende Husserl (2005 [1922],
vol. II, p. 52) con Fundierung:

Se un α come tale può esistere soltanto in una unità comprensiva che lo connette ad un
µ, noi diciamo che un α come tale ha bisogno di essere fondato [strutturalmente] da un
µ, o anche: un α come tale ha bisogno di essere integrato da un µ. Se percio α e µ sono
casi particolari determinati dai generi puri α e µ, che si realizzano in un unico intero e
che si trovano nel rapporto indicato, noi diciamo che α e fondato [strutturalmente] da µ,
e soltanto da µ, se il bisogno di integrazione di α viene soddisfatto unicamente da µ.

Ci troviamo qui di fronte a una relazione di presupposizione ed è stato osser-


vato che volendola trasporre alle categorie linguistiche, essa è applicabile in senso
forte solo al concetto di segno, ma non certo alle relazioni tra i tratti in una qualsi-
voglia matrice binaria.
In secondo luogo, penso che il punto di partenza per una interpretazione del
pensiero e del modello di Jakobson debba essere il testo in cui tale modello è pre-
sentato nella sua forma matura e definitiva (cioè in Jakobson e Halle 1956, che ri-
prendono e sviluppano i precedenti Preliminaries to Speech Analysis, scritti nel
1952 in collaborazione con Gunnar Fant). È questo il testo in cui la teoria generale
dei tratti, nonché i singoli tratti, vengono presentati analiticamente.
Ora c’è da osservare in primo luogo che il modello generale che Jakobson e
Halle considerano valido è quello di Bloomfield, per il quale i tratti sono proprietà
fisiche e i fonemi sono insiemi di tratti, nel senso però di aggregati o fasci (bundle)
e non di strutture. Scrivono infatti Jakobson e Halle (1956, p. 8):

This so-to-speak inner, immanent approach [cioè quello di Bloomfield], which locates
the distinctive features and their bundles within the speech sounds, be it on their motor,
acoustical or auditory level, is the most appropriate premise for phonemic operations,
although it has been repeatedly contested by outer approaches which in different ways
divorce phonemes from concrete sounds13.

classica. Che la materia fonica abbia una sua autonoma consistenza è fuori di dubbio. Ma nel mo-
mento in cui questa materia è formata, appunto nella dimensione fonologica, essa non ha più al-
cuna autonomia perché in quanto forma linguistica esiste solo perché è indissolubilmente intrec-
ciata a un senso.
13
Che si tratti di fasci di tratti è ribadito, p. es., a p. 20: «The distinctive features are aligned
into simultaneous bundles called phonemes».
88 FEDERICO ALBANO LEONI

Mi sembra qui che terminologia e concettualizzazione siano molto lontane da


ogni prospettiva husserliana.
In secondo luogo c’è da osservare che la natura binaria dei tratti, cioè quella
per cui ogni tratto è in opposizione al suo contrario, è affermata con decisione
(senza i dubbi che Jakobson aveva manifestato nel 1939) e tale opposizione pertiene
al sistema (p. 26):

[…] both alternatives of an inherent feature co-exist in the code as two terms of an op-
position, but do not require a contrasting juxtaposition within one message. Since the
inherent feature is identified only through the comparison of the alternative present in
the given position with the absent alternative, the implementation of an inherent feature
in a given position admits less variability than that of the prosodic features.

Ma questa geometria regolare è solo apparente perché i tratti e le loro opposi-


zioni binarie non hanno tutti lo stesso statuto: a coppie effettivamente binarie, come
quelle fra i cui termini sussiste una opposizione privativa, si affiancano quelle che
rinviano a gradienti della proprietà indicata dall’opposizione.
Esempi di questo secondo tipo sono i tratti vocalico/non-vocalico e consonan-
tico/non-consonantico che consentono una descrizione di fatto in contrasto con il
principio binario perché il sistema prevede fonemi caratterizzati come [+vocalico,
+consonantico] e altri caratterizzati come -vocalico, -consonantico]:

Vowels are vocalic and non-consonantal; consonants are consonantal and non-vocalic;
liquids are vocalic and consonantal (with both free passage and obstruction in the oral
cavity and the corresponding acoustical effect); glides are non-vocalic and non-conso-
nantal (p. 29).

Analoga è la situazione del tratto grave/acuto che non è in grado di rappre-


sentare le vocali intermedie e deve perciò essere sdoppiato in grave/non-grave e
acuto/non-acuto, con il risultato asimmetrico che nessun fonema può essere
[+grave, +acuto] ma ci sono fonemi vocalici [-grave, -acuto]. Come si vede, la lo-
gica binaria, mutuata probabilmente da quella del comportamento della cellula di
base del computer (circuito aperto/chiuso), è un modo, fra altri possibili, di rappre-
sentare un oggetto, ma non riesce a rappresentare le complesse manifestazioni foni-
che delle lingue.
Ci si deve domandare se tutto questo sia compatibile con il concetto husser-
liano della fondazione. Si può dire delle relazioni tra i tratti, così come si configu-
rano realmente, quello che Husserl (2005 [1922], vol. II, pp. 23-26), citando
Stumpf, dice del rapporto di fondazione, illustrato, per esempio, nella relazione tra
colore, oggetto e superficie14? Direi di no, per due motivi.

14
Questo noto esempio di Husserl era stato ripreso anche da Holenstein (1974, p. 91), là dove
sosteneva l’equivalenza di questa relazione di fondazione con la relazione che sussiste tra i tratti.
DELLE PARTI E DEL TUTTO 89

Il primo è dato dalla difformità nello statuto (onto)logico dei tratti rispetto a
quello di categorie come ‘colore’ e ‘superficie’. L’accostamento, trasferito alla ma-
teria fonica e alle sue proprietà, potrebbe valere solo per la relazione tra frequenza e
ampiezza di una oscillazione (non si può avere e non si può conoscere frequenza
senza ampiezza e viceversa), ma non per i tratti. Infatti ‘colore’ e ‘superficie’ di un
tessuto sono categorie generiche (il colore può essere rosso o verde, la superficie
può essere grande o piccola, triangolare o quadrata) come anche generiche sono le
categorie di frequenza (alta, bassa ecc.) e di ampiezza. I tratti sono invece categorie
specifiche riferite a proprietà che si definiscono solo se misurate (p. es. nell’op-
posizione acuto/grave il rinvio non può essere a una frequenza generica ma deve es-
sere a una frequenza specifica, misurata e confrontata con un’altra).
Il secondo motivo è che l’equiparazione della relazione tra i tratti a quella di
un rapporto di fondazione urta contro una precisazione chiarissima dello stesso
Husserl. Questi, nel § 48 della Sesta ricerca (Caratterizzazione degli atti categoriali
come atti fondati) afferma a questo proposito:

La percezione intende cogliere l’oggetto stesso, e questo suo “afferramento” deve perciò
cogliere in e con l’oggetto intero tutti i suoi elementi costitutivi.
Naturalmente si tratta qui soltanto di elementi costitutivi dell’oggetto, così come si manife-
sta nella percezione e sussiste in essa, e non, ad esempio, di quegli elementi che apparten-
gono all’oggetto in quanto è nella “realtà oggettiva” e che vengono messi in luce solo da
conoscenze e da esperienze successive, dalle scienze (Husserl, 2005 [1922] vol. II, p.
455).

Infatti nessuno dei tratti distintivi può essere colto come elemento costitutivo
dell’oggetto fonema (perché le loro proprietà articolatorie e fisico-acustiche non
sono percepibili analiticamente ma risultano solo da un’analisi strumentale) e dun-
que non rientrano nella categoria degli elementi costitutivi dell’oggetto tra i quali si
stipuli un rapporto fondativo, così come si stipula tra colore e estensione nella per-
cezione dell’oggetto ‘tessuto’. Sarebbe come affermare che tale rapporto esiste tra
gli atomi di idrogeno e gli atomi di ossigeno quando si uniscono a formare una
molecola d’acqua. Che l’acqua sia un composto è un problema chimico ma non
certo un problema fenomenologico o epistemologico e non diversa è la situazione
del fonema.

4. CONCLUSIONI
La prima considerazione da fare è che lo statuto del fonema rimane incerto an-
che rispetto ai tentativi di fornirgli un sostegno fenomenologico. Rimane infatti irri-
solta la questione cruciale della natura asemantica di questa unità, perché il tenta-
tivo di vedere nel fonema non una unità dotata di significato ma un atto che conferi-
sce significato appare poco fondato.
Le seconda considerazione è che lo statuto logico del binarismo e della teoria
90 FEDERICO ALBANO LEONI

dei tratti, pur fortunati e per certi versi eleganti, appare, se osservato da vicino, ricco
di contraddizioni e di incertezze e comunque per quanto interessa qui, inadeguato a
rappresentare il concetto fenomenologico di ‘fondazione’.
La terza considerazione, che verte sul tema principale di questo articolo e che
si riflette nel titolo, è che l’adesione di Jakobson alla fenomenologia sembra più di
superficie che di sostanza, più basata sulla ricerca, o sulla esibizione, di una legitti-
mazione teorica che su una accettazione reale dei suoi presupposti nell’ambito di
una teoria della conoscenza. Ciò appare con evidenza sia nei tentativi, condotti da
esegeti di Jakobson, di individuare nel principio husserliano della fondazione la
base della fonologia binarista, sia in quello condotto dallo stesso Jakobson di tra-
durre in una teoria e una pratica descrittive i principi mereologici così come sono
illustrati nell’opera di Nagel (1963 [1952]).
La causa principale dell’inadeguatezza di questo accostamento è, a mio parere,
da cercare nel fatto, particolarmente evidente a proposito della fonologia, che le ri-
cerche logiche di Husserl ruotano intorno alla questione centrale di riuscire a ren-
dere conto del legame fondativo tra materiale espressivo, espressione e ciò che è
espresso. Esse sono cioè una teoria della conoscenza e del soggetto conoscente e
non i preliminari di una pratica analitica, linguistica o di altro genere.

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EMANUELE BANFI
(Università degli Studi di Milano-Bicocca)

Semantizzazione della nozione di ‘città’: un confronto storico-linguistico tra


ambienti indo-europeo e cinese*

1. Il fenomeno ‘città’ è tra i più appassionanti e i più studiati nell’ambito delle


scienze umane; anzi, uno dei loro oggetti primari, insieme all’uomo stesso, alla sua
evoluzione e, più in generale, ai connessi concetti di ‘civiltà’ e di ‘civilizzazione’.
Molto si è scritto nel tentativo di definire, sul piano teorico, la nozione di ‘città’,
intesa ora come uno degli acceleratori della storia (una forma -o meglio, la più an-
tica e la più rivoluzionaria delle forme- di divisione del lavoro), ora come l’or-
ganizzazione sociale votata a massimalizzare l’interazione sociale; molto si è
scritto, in verità, anche nel tentativo di mettere in discussione la presunta universa-
lità del fenomeno urbano, inteso nella sua natura ambigua, ora come dispositivo di
sopruso e di sfruttamento di un segmento sociale su altri segmenti, ora come foco-
laio di liberazione di energie prometeiche e di progresso tecnico e civile: su questi
aspetti sono fondamentali i classici lavori di Mumford (1963), di Remy (1966), di
Roncayolo (1978), di Claval (1981).
Manca tuttavia una definizione universale e astratta del fenomeno ‘città’, in-
terpretabile come paradigma nozionale valido per culture diverse. Il che -va detto-
non è, di per sé, un male: esso è anzi e piuttosto la dimostrazione della complessità
caleidoscopica del fenomeno ‘città’, realtà fenomenica che acquista significato e
sensi diversi solo alla luce delle peculiari civiltà in cui è inserita e che, se pur pre-
vede elementi comuni e ricorrenti in ambienti diversi, tali elementi potrebbero es-
sere individuati in concetti quali ‘centralità’ (Roncayolo 1978, pp. 3 e 22-26; Claval
1981, pp. 3-73; ‘nodi permanenti e focali di un sistema sociale’ (Remy 1966, p. 44
ss.; Claval 1981, p. 79 ss.); ‘incontro di strade, persone e idee all’interno di uno
spazio separato rispetto al mondo esterno’1; ‘luogo dove si manifesta il potere so-

* A Norbert Dittmar, che tanto e con tanta passione ha indagato, in lavori mirabili, il farsi delle
dinamiche linguistiche in ambito urbano, non spiacerà -mi auguro- una descrizione dei processi di
semantizzazione della nozione di ‘città’ così come essi si sono realizzati in due ambienti – quello
indo-europeo e quello cinese – nei quali la rete delle città ha contributo, in modo essenziale, a
determinarne i singoli quadri.
È, questo, un mio piccolo omaggio rivolto ad un collega caro e stimato.
Il testo di questo contributo si basa su materiali che sono stati presentati e discussi in occasione
di un Seminario dedicato alla nozione di ‘città’ svoltosi presso l’Università di Napoli ‘L’Orientale’ il
30 novembre 2012.
94 EMANUELE BANFI

cio-economico su ciò che città non è o le lotte per conquistare tale potere’; persino
‘uno stato d’animo’, ossia la convinzione autofondante da parte di coloro che abi-
tano entro uno spazio delimitato di essere diversi, superiori agli altri; ma, anche e
infine, ‘città’ intesa come ‘anomalia del popolamento’ (Braudel 1977, p. 380): una
agglomerazione che rompe la continuità di un territorio e il cui carattere- ‘anomalo’,
appunto- balza immediatamente all’occhio dell’osservatore.
Le difficoltà definitorie vanno al di là del rapporto tra nozioni generali -pur
ammettendo che esse possano avere comunque un valore oggettivo- e contenuti, va-
riabili questi tra civiltà e civiltà. Superati i vecchi problemi definitorii tra urbs ‘città
di pietra’ e civitas ‘città vivente’ -coppia di termini risalenti a letture più o meno
letterali di un celebre passo della Civitas Dei agostiniana, ripreso anche da Isidoro
di Siviglia (VI-VII sec.), poi da Brunetto Latini e perfino da Jean Jacques Rous-
seau; termini sottolineanti il ruolo della comunità cittadina rispetto all’aspetto mate-
riale della città-, occorre concentrare l’attenzione sulle ‘funzioni’ esercitate da una
città, nella consapevolezza, tuttavia, che, anche a tal proposito, non sembra esistere
una funzione propriamente ed esclusivamente ‘urbana’, tale per cui, in presenza di
essa, si possa definire ‘città’ un agglomerato di edifici e di individui: la stessa fun-
zione ‘politica’ -o, meglio, la serie di funzioni (religiosa, militare, giuridico-giudi-
ziaria, amministrativa, economico-finanziaria, ecc.) riassumibili entro l’ampio attri-
buto di ‘politico’- risultano variare nel tempo e nello spazio: moltissimi i casi in cui
il potere ‘politico’, in senso lato, risiede(va) altrove rispetto alla ‘città’: basti pen-
sare ai castelli altomedievali, ai principati territoriali o a diversi momenti delle mo-
narchie inglesi e francese; o, nel mondo islamico, alla funzione ‘politica’ di santuari
religiosi, pur potentissimi, ancorché lontani dal fragore dei centri urbani.

2. Ciò che mi propongo in questo breve contributo è presentare e discutere le


modalità attraverso le quali la nozione di ‘città’ è stata semantizzata in due macro-
ambienti linguistici: l’ambiente indo-europeo e quello cinese. Dal punto di vista
metodologico muoverò da un’analisi di diversi lessemi veicolanti, nei due ambienti,
la nozione di ‘città’, evidenziandone le strategie di semantizzazione. Ricorrerò, per
quanto si riferisce all’ambiente indo-europeo, al contributo derivante da un’inda-
gine etimologica intesa in senso ‘olistico’2 e, per quanto si riferisce all’ambiente ci-
nese, facendo ricorso alla cosiddetta ‘etimologia grafica’: un modello di analisi che
permette di cogliere, attraverso l’evoluzione storica dei caratteri cinesi -potenti
macchine di significazione logografia- i princìpi di natura (latamente) cognitiva che

1
Come per altro ben simbolizzato nella forma del geroglifico per ‘città’ propria dell’Egitto
faraonico.
2
Coniugante, cioè, secondo l’insegnamento di grandi maestri della linguistica storica -da Pi-
sani (1975), Zamboni (1976), Belardi (2002)- indagini di tipo fonologico e micro-morfosintattico,
in prospettiva ricostruttiva, con osservazioni di carattere antropologico e storico-culturale.
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 95

risultano sottesi alla loro codificazione, come ben illustrato da Bottéro (1996), da
Schuessler (2007).
Porrò in luce, in alcuni casi, simiglianze tra i processi di semantizzazione do-
cumentati nei due ambienti: il che non significa -sia chiaro- pensare a rapporti di-
retti tra mondi indeuropeo e cinese3 quanto, piuttosto, invita a considerare, nelle due
macro-comunità linguistiche oggetto d’indagine, l’azione di processi di semantizza-
zione ‘paralleli’, interpretabili quali riflesso di probabili ‘universali semantici’, se-
condo la nozione ampia che ne hanno dato tanto Wierzbicka (1992) quanto i cura-
tori del WALS (Haspelmath et al., 2005).
La liceità di un confronto tra dati provenienti dai due ambienti si basa, infine,
su una serie di fattori di natura squisitamente extralinguistica: la profondità crono-
logica delle attestazioni ricorrenti nell’una e nell’altra realtà e i loro ‘caratteri’ so-
cio-culturali ‘originari’ ove il fenomeno ‘città’ ha avuto, da sempre, ruolo e fun-
zione essenziali.

2.1. Muoverò dall’analisi di parole di lingue indo-europee relative alla nozione


di ‘città’, raccolte sotto singole rubriche riferentisi a radici indo-europee distin-
guenti la nozione di ‘città’ rispetto a quella di unità inferiori, comprese nella no-
zione di ‘villaggio’4: delle singole parole darò, quando possibile, una interpreta-
zione in termini etimologici, accompagnata da riferimenti al valore semantico (ai
valori semantici, in alcuni casi), all’estensione areale e alla profondità diacronica di
singole forme. Là dove possibile, evidenzierò eventuali ‘universali’ di significa-
zione, interpretabili, in lingue e in culture diverse, come riflesso dell’azione di per-
corsi di semantizzazione potenzialmente confrontabili.

2.1.1. Di seguito segnalo una serie di rubriche relative alla nozione di ‘città’
incentrate su radici proprie dell’ambiente indo-europeo.
˗ Il tipo ‘mercato’ > ‘piazza’ > ‘città’:

3
Rapporti che pure sono esistiti: come hanno opportunamente mostrato Bauer R.S., Sino-Ti-
betan *kolo “wheel”, «Sino-Platonic Papers», XLVII, 1994; Sagart L., The roots of Old Chinese,
Amsterdam, Benjamins, 1999; Pulleyblank E., Early Contact between Indo-Europeans and Chi-
nese, «International Review of Chinese Linguistics», I/1, 1996, pp. 1-24; Schuessler A., Multiple
Origins of the Chinese Lexicon, «Journal of Chinese Linguistics», XXXI/1, 2003, pp. 1-35;
Wiebusch T., Tadmor U., Loanwords in Mandarin Chinese, in Haspelmath M., Tadmor U. (a cura
di), Loanwords in the World’s Languages. A Comparative Handbook, Berlino, De Gruyter
Mouton, 2009, pp. 575-598.
4
In ambiente indo-europeo: gr. κώµη, ἡ; lat. vīcus, got. haims, weihs, a.nord. þorp, byr, lit.
sodžius, lett. sādža ‘insediamento’, lit. kaimas / kiemas ‘corte, fattoria’, a.sl. selo, scr. grāma, av.
vīs/vĭs, ecc.; in ambiente cinese xiāng 鄉 /乡 (d’ora in poi, nella citazione di caratteri cinesi, il ca-
rattere posto a sinistra della sbarra obliqua indica il carattere tradizionale, quello posto a destra
della sbarra obliqua il carattere semplificato).
96 EMANUELE BANFI

˗ *age(i)r- / *ago(i)r- ‘mettere insieme’ > ‘aggregare’ (cfr. gr. ἀγείρειν) >
‘luogo di assembramento’ >‘mercato’ > ‘piazza’: riscontri probabili tra
scr. nagara ‘città’ (e, forse, anche con scr. grāma ‘villaggio’ e agāra-
‘casa’) e gr. ἄγορος, ὁ ‘riunione’, ἄγυρις, ἡ ‘assembramento’ (πανήγυρις,
ἡ ‘riunione generale’ > ‘festa collettiva’), ἀγορά, ἡ ‘mercato, piazza’.
˗ Il tipo ‘città’ come ‘comunità politica’ vs. (semplice) ‘insediamento’:
*pǝ- ‘essere numeroso’ / ‘riempire’ > ‘luogo dove stanno molte persone’ >
‘luogo fortificato’/’fortezza’ > ‘città’: riscontri probabili tra scr. pura- ‘città’ (< pūr-
‘luogo fortificato, fortezza’), lingue baltiche (lit. pilis, lett. pils ‘castello’) e (forse!)
gr. πόλις, ἡ: inizialmente ‘cittadella, fortezza’ (cfr. Th. II, 15), esattamente come in
sanscrito e in ambiente baltico; in greco omerico ricorre anche il doppione πτόλις,
ἡ, il cui etimo è inspiegato (forse un fatto di sostrato), raro nei tragici e però atte-
stato in cipriota (ove ricorre un πτόλιFι ), in tessalico (in forma assimilata, nel com-
posto: ττολίαρχοι), in arcadico (indicante il nome di Mantinea) e in miceneo. Ini-
zialmente πόλις, ἡ indicava la fortezza ove, nel cuore della città, stavano i santuari
(oltre che nel già citato Thuc. II, 15, anche in Thuc.V, 23, 47; in Ar. Lys. 245, ove,
in tutti i luoghi citati πόλις, ἡ = ἀκρόπολις). Ma già in Omero (Il. 6,88; 20,52)
l’acropoli di Troia è chiamata πόλις ἄκρη, contrapposta a πόλις designante in modo
generico ‘città’ intesa in quanto comunità politica e religiosa: dunque, la città-stato;

*wes- ‘essere, stare; abitare’: scr. vás-a-ti ‘rimanere, abitare’ (scr. ved. vástu-
‘residenza’/scr. vāstu ‘luogo di abitazione, casa’), got. wis-an ‘rimanere, essere’,
a.ingl. wes-an ‘rimanere, essere’, (forse) itt. ḫuiš-zi ‘egli vive’, gr. ἄεσα (aor.) ‘id.’,
tok.A waṣt, tok.B ost ‘casa’) e, ovviamente, gr. Fάστυ > ἄστυ, τό. In ambiente ita-
lico è interessante il confronto con il solo messapico vastei (dat.). Quanto a gr.
ἄστυ, la forma con digamma iniziale (Fάστυ) è assicurata, oltre che dal miceno
(watu / wato = Fαστός) e dalla metrica omerica, anche dal beotico Fάστιος (gen.;
attestato in IG VII 3170): ἄστυ, τό indicava ‘città, agglomerazione urbana’, in senso
concreto, contrapposta ad ἀγρός, ὁ ‘campagna’ e, anche, a πόλις, ἡ / ἀκρόπολις, ἡ
indicanti la nozione di ‘città’ in senso politico. Onde, in greco, alcuni interessanti
derivati: ἀστός, ὁ / ἀστή, ἡ ‘abitante (m. e f.) di una città’, ἀστυβοώτης, ὁ ‘araldo
pubblico’, ἀστυνόµος, ὁ ‘capo delle guardie civiche’ (ancora attuale, quest’ultimo,
quale prestito dotto, in neogreco: ἀστυνόµος, ὁ è ‘il poliziotto’!); anche in ambito
onomastico. Uno per tutti: Ἀστυάναξ.
˗ Il tipo ‘luogo recintato’/ ‘escludente’ (per motivi sacrali):
*wer-ǵ- ‘assembrare > comprimere, premere’ (cfr. gr. εἴργειν): ‘assembrare >
rinchiudere > tenere fuori, escludere’, lat. urg-ēre, lit. verž-iù, verž-ti ‘comprimere’.
Interessanti i confronti con scr. vjána- (n.) ‘recinto’/vrajá- (m.) ‘recinto’, scr. av.
varǝzāna- ‘comunità’/vardana ‘città’ (> come prestito nel scr. vardhana- ‘id.’);

*u(o)rbh-(i-): ‘recingere, rinchiudere’, valore ben mantenuto in tok.A wärp-


SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 97

‘circondare’, tok.B wārp ‘rinchiudere’; tok.A warpi, tok.B werwiye ‘giardino’. La


radice, attestata anche in itt. ṷarpa- (n.) ‘recinto’, sta assai probabilmente alla base
di lat. urbs, urbis5. Così come le voci di lingue italiche imparentate (cfr. u. uerfale,
loc. o abl. sing.), lat. urbs, urbis indicava ‘area sacra ove si traevano auspici’: ini-
zialmente, quindi, un luogo recintato, dedicato alla aurispicina, venuto ad indicare
poi l’insediamento abitato posto accanto all’originario templum.
˗ Il tipo ‘luogo recintato’/’escludente’ (per motivi difensivi):
*ped-/pod-: ‘passo/piede > unità di misura spaziale > spazio territorialmente de-
finito > luogo (pianeggiante)’ sta alla base di lat. oppidum ‘luogo fortificato, piazza-
forte’ (indicante ‘barriere’ nel circo e ‘fortezza’, da Nevio in poi < i.e. *op-pedo ‘ciò
che, opponendosi al passo, ostruisce il cammino’ con riscontri in ambiente italico: u.
peřum/ peřu, perso (acc. sing.) < *ped-o ‘luogo gradinato’; e, altrove, in itt. peda- (n.)
‘luogo’, scr. padá- ‘orma, porzione di un terreno’, a.avest. pada-, Yav. paδa- ‘orma’,
gr. πέδον ‘terreno pianeggiante, terra’, arm. het ‘orma’, a.pruss. pedan ‘vomere’, lit.
pėdà (dial.) pédas ‘orma di un piede’, lett. pệda ‘orma’, a.isl. fet ‘passo’;
*bhǵh-: ‘luogo elevato’ > ‘fortezza’ (cfr. scr. bṛh-ant-, av. bǝrǝz-ant- ‘alto’),
ampiamente attestato in ambiente germanico: got. baurgs, a.nord. borg, a.ingl.
burg, a.a.td. burg, ecc. indicanti ‘luogo fortificato, fortezza, rifugio’ (> a.nord, byr
‘villaggio, città’, dan. by, sved. by, ecc);
*ǵhor-tó- / ghor-tó- (< *ǵher-/ ǵhor- ‘afferrare, tenere saldamente’: cfr. gr. χείρ,
ἡ, arm. jern, alb. dorë ‘mano’) ‘luogo recintato’ > ‘fortezza’ > ‘città’: gr. χόρτος, ὁ
‘recinto’, lat. hortus, osco húrz (acc. húrtúm) ‘recinto sacro’, a.irl. gort (forma-
zioni in *-to derivate dalla radice con vocalismo *o, come gr. κοῖτος, νόστος,
φόρτος), tok.B kerccīye ‘palazzo reale’. Ben attestato in ambiente baltico e slavo:
lit. žaȓdis ‘pascolo recintato’; a.sl. gradŭ ‘castello, giardino’, scr. grad, rus. gorod,
ceco hrad, pol. gród ‘castello, fortezza’ > ‘città’. Discusso è se in ambiente slavo la
serie corrispondente ad a.sl. gradŭ sia nativa, oppure prestito dal germanico (< got.
gards ‘giardino, casa, corte’: cfr. a.ingl. geard, ingl. yard, ecc.);
*dheǝ-/dhoǝ-: ‘porre, collocare’, onde celtico e germanico *dō-no-m (forma-
zione di antico participio passato in *-no) indicante ‘ciò che è frapposto >terrapieno
> recinzione > mura’ alla base di gall. dinas (< medio gall. din ‘fortezza’)
corrispondente a irl. dūn ‘fortezza’ (a. ingl. tūn ‘terreno recintato; recinto’, m.ingl.
toun, ingl. town; a.a.td. zūn ‘terreno recintato, recinto’), ricorrente in numerosissimi
toponimi di origine celtica (secondo il tipo Lugdunum).
˗ Il tipo ‘insediamento (generico)’ > ‘città’:

5
Risultano ormai inaccettate le etimologie tradizionali che volevano lat. urbs, urbis riflettere
un i.e. *u(o)rbh/dh-(i-) connesso con orbis, orbis ‘cerchio’; o riflettere un i.e. *bhrģh- ‘fortezza’.
98 EMANUELE BANFI

*ḱei- ‘giacere’: cfr. gr. κείσθαι ‘giacere’. La forma sta alla base di lat. cīvitas,
cīvitātis ‘città’, derivato da cīvis ‘cittadino’ (attestato a partire dal lessico delle
Leggi delle XII Tavole: nella forma arcaica ceivis) e passato, assai probabilmente,
in osco (cēus< lat. *cēvis): la flessione del tema in -i è dovuta, assai probabilmente,
ad analogia con hostis. Alla base di cīvis è da porsi una probabile base aggettivale
i.e. *ḱei-uo- ‘vicino’< * ḱei- ‘giacere’, confrontabile con scr. śivá- ‘che è prossimo
>favorevole’, lett. siẽva ‘moglie’, got. heiwa-frauja ‘capo della famiglia’, a.ingl.
hīwan (pl.) ‘membri di una casa’, aa.td. hīwo ‘marito’;
*st(h)a-ǝ-: ‘stare’ > ‘insediarsi’ > ‘luogo di insediamento’, alla base di numero-
se forme toponimiche germaniche, del tipo got. staϸs ‘luogo’, dan., sved, ol. stad,
a.a.td. sta, n.a.td. stadt, ted. Stadt, ecc.;
*me(i)th ‘abitare, stare’: av. maeθana ‘casa’, mitayaiti ‘egli vive’, lit. maĩstas,
a.sl. město, rus. mesto (Berneker, 1924, pp. II-51), pol. miasto ‘luogo’ > ‘città’.

2.2. Per quanto si riferisce all’ambiente cinese prenderò in esame le parole (e i


relativi caratteri/logogrammi) indicanti la nozione di ‘città’ segnalando, per ognuno
di essi, gli elementi che li compongono con riferimento alle loro forme originarie,
primitive.

2.2.1.
˗ xiāng 鄉 / 乡 ‘villaggio o città dove uno è nato’6: il carattere, nella forma
non semplificata (鄉 鄉), rappresenta iconicamente due individui (乡 e 阝)
seduti l’uno di fronte all’altro e intenti a mangiare (l’elemento centrale -良
- è ciò che ricorre nella parte inferiore del carattere 食 shí ‘mangiare’ (la
parte superiore di tale carattere -人- indica un coperchio posto sopra un
contenitore - 良 - pieno di cibo).
L’esame delle forme più antiche del carattere xiāng 鄉/乡 confermano tale in-
terpretazione: nelle iscrizioni su ossa oracolari (jiǎgǔwén 甲骨文), risalenti ai secc.
XIII-XI a.C. il carattere xiāng 鄉 / 乡 mostra in modo iconico due individui, posti
l’uno di fronte all’altro, nel cui mezzo sta un pesce, alimento essenziale per le genti
stanziate nella culla della antica civiltà cinese, le regioni bagnate dai grandi fiumi:

6
Xiāng 鄉 / 乡: Yancheng (鹽城, Mandarino) [ɕiã31], Jieyang (揭 , Min) [ hiõ33], Taiwa-
nese (台語, Min) [hiũ55], Pucheng-Nanpu (浦城南浦, Wu) [xiãŋ45], Xinyu (新余, Gan) [ʃoŋ34].
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 99

Nelle iscrizioni in bronzo (jīnwén 金文 ), risalenti ai secc. VIII-III a.C.,


l’immagine del carattere xiāng 鄉/乡 è ancora più evidente: due individui che trag-
gono da un calderone del cibo (un pesce?):

Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小 篆, sec. III a.C.) l’immagine è
nuovamente e vistosamente iconica: come nelle iscrizioni su ossa oracolari
(jiǎgǔwén 甲骨文), sono presenti due ‘individui’ intenti a mangiare (probabilmente,
di nuovo, un pesce):

Nelle iscrizioni su ossa oracolari (jiǎgǔwén 甲骨文), secc. XIII-XI a.C.: = 邑


yì ‘città’, ‘borgo’. E poi, in cinese antico, 大邑 dàyì ‘grande città’ > ‘città capitale’;
anche, per estensione’ ‘possedimento reale’ (per un raggio di 500 里 lǐ dalla capitale)
> ‘feudo’ > ‘distretto amministrativo’; anche, con valore verbale, ‘amministrare i
quartieri (di una città)’ (Ricci, 2011, pp. 841-842). Va osservato che il segno , rap-
presentante un individuo, è la forma antica del carattere moderno 邑 yì ‘città’: là dove
la nozione di ‘città’ è resa, in senso figurato, dall’immagine di un essere umano signi-
ficante, per estensione, l’insieme degli abitanti di una realtà urbana.

˗ Il tipo cūn 村 ‘villaggio’ > ‘città’:

cūn 村: ‘villaggio’. Il carattere, identico sia nella forma complessa che sempli-
ficata (e con scarsa differenziazione, a livello di resa fonetica, in punti geolinguistici
diversi dello spazio cinese), è formato da due elementi: 木 mù ‘legno, albero’ e 寸
cùn ‘unità di misura, pollice’ (qui con valore puramente fonetico).
Il primo valore del morfo, in cinese antico, era ‘villaggio’ e poi, per estensione
‘campagna’, ‘piccola circoscrizione’. Anche, per il noto fenomeno del plurisemanti-
smo di un morfo, anche, con valore aggettivale ‘rozzo’ > ‘stupido’/’limitato’; anche
‘malvagio’/’brutto’; come verbo vale ‘umiliare qualcuno con le parole’ > ‘offendere’
(Ricci, 2011, pp.1976-1977).

Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小 篆, sec. III a.C.) la forma è
100 EMANUELE BANFI

La parte sinistra è la forma antica di 木 mù ‘legno, albero’; la parte destra ri


prende il segno di cui si è detto sopra. Interessante è osservare che la parte de-
stra del carattere non è uguale a 寸 cùn (nelle iscrizioni del piccolo sigillo è evi-
dente l’immagine dalle dita di una mano con il pollice sporgente):

˗ Il tipo ‘mura della città + mercato’ > ‘città’:


chéngshì 城市 ‘città’: bisillabo7 (identico sia nella resa mediante caratteri complessi
e semplificati), composto da due caratteri indicanti, il primo – chéng 城 - le mura
della città (e, poi, per traslato, la città), il secondo - sh 市 - indicante il mercato (e,
poi, per traslato, la città).

Chéng 城 è formato, a sua volta, dall’unione di due caratteri: 土 tǔ ‘terra’ e 成


chéng ‘diventare’. Chéng 城 vale, nelle prime attestazioni’, ‘cinta di mura’ /
‘piazzaforte’ (e, anche, come morfo con valore di verbo ‘costruire una cinta
muraria’). Ampiamente attestato nei testi antichi nei valori di ‘muraglia’, ‘fortezza’,
‘città cinta da mura’; poi, per estensione ‘città (capitale)’ e, in generale ‘città’ in
quanto contrapposta alla ‘campagna’; come verbo ‘rafforzare una cinta murale’.

Nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.) il carattere ha
la forma seguente:

7
La cui resa varia in punti geolinguistici diversi dello spazio cinese: chéng 城: Huizhou (惠
州, Hakka) [siaŋ11], Xichang (西昌, Hakka) [ȿaŋ13], Canton (廣州, Yue/cantonese) [ʃeŋ21], Panyu-
Shiqiao (番禺市橋, Yue/cantonese) [ʃɛŋ31], Zhongshan-Longdu (中山隆都, Min) [ʃiɛŋ33],
Danyang (丹陽, Wu) [səŋ55], Wenshan (文山, Mandarino) [ts’ə n42]; shì 市: Suzhou (蘇州, Wu)
[zɿ31], Teochew (潮州, Min) [tsua11], Zhangping (漳平, Min) [ts’i53].
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 101

A sinistra, la terra (土 tǔ); a destra 成 chéng ‘diventare’ (qui in funzione pura-


mente fonetica).

A sua volta semplificazione di / 茂 mào ‘fiorente’, ove ‘fiorente’ rende


‘avere successo > portare a compimento > diventare’ e ove l’elemento interno è la

forma antica - - di 丁 dīng.

Il secondo elemento shì 市 ‘mercato’ è di incerta interpretazione: in cinese an-


tico shì 市 valeva: ‘mercato’, ‘fiera’, ‘piazza pubblica’, ‘quartiere commerciale’;
come verbo il morfo valeva anche ‘vendere’ / ‘acquistare’. Dal valore di ‘mercato’,
‘fiera’, per estensione shì 市 ‘mercato’ > ‘città’, ‘municipalità’ (la città e la sua peri-
feria governate da un’amministrazione indipendente rispetto al governo centrale)
(Ricci, 2011, p. 9739).
Secondo Zhifang Ren (2008, p. 591), shì 市 sarebbe formato da miè ⼌ ’re-
cinto chiuso da mura’ + zhī 之 ‘andare’ e indicherebbe inizialmente ‘a simple buil-
ding where people go for selling and buying’. Le forme antiche del carattere sono,
rispettivamente, le seguenti:

nelle iscrizioni su bronzi (jīnwén 金文, secc. XI-VIII a.C.):

nella scrittura del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.):

Il tipo dū 都 ‘città capitale’. Il carattere è composto da 者 zhě ‘terza persona s. o pl.’


(di incerta interpretazione) e da 阝(邑 yì) ‘città’ (poi > ‘capitale’ > ‘tutto’, dōu).
Nelle forme antiche del carattere ricorre comunque sempre 邑 yì. Il valore origina-
rio di dū 都 era ‘città (fortificata)’, ampiamente attestato nei testi classici; poi, per
estensione ‘città’ / ‘città (capitale)’; come verbo il morfo dū 都 valeva ‘riunirsi,
raccogliersi (di persone)’ > ‘occupare (un luogo)’ > ‘fondare una città’. (Ricci 2011,
pp. 1992-1993).
102 EMANUELE BANFI

Nelle iscrizioni su bronzo (jīnwén 金文, secc. XI-VIII a.C.)

(ove 邑 yì era reso );

nelle iscrizioni del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.)

(ove 邑 yì era reso ).

In composizione con shǒu 首 ‘testa, capo’ si ha shǒudū 首都 ‘città capitale’8:


bisillabo, il cui primo elemento - shǒu 首 - è carattere iconico rappresentante, a par-
tire dalle iscrizioni su bronzo, una testa. Nelle iscrizioni oracolari il morfo vale
sempre ‘testa’, ‘capo’ (anche, con valore verbale ‘tagliare la testa’); anche, per
estensione ‘sovrano’, ‘imperatore’ (Ricci, 2011, p. 1688).
Nelle iscrizioni su ossa oracolari (jiǎgǔwén 甲骨文, secc. XI –VIII a.C.)
l’immagine della testa appare assai stilizzata:

Nelle iscrizioni in bronzo (jīnwén金文, secc. XIII-XI a.C.) l’immagine della


testa, resa evidente da un occhio vistosamente segnalato, suggerisce anche la pre-
senza dei capelli:

Nelle scritture del piccolo sigillo (xiǎozhuān 小篆, sec. III a.C.), infine, la stiliz-
zazione della testa è portata all’eccesso:

8
Segnalo rese di dūshǒu 首都 proprie di alcuni punti geolinguistici della Cina: il carattere
shǒu 首 è reso nello Xiamen (廈門, Min) [siu53] / [ts’iu53], a Nanchino (南京, Mandarino)
[ȿəɯ212], a Chengdu (成都, Mandarino) [səu53], a Canton (廣州, Yue/cantonese) [ʃɐu35]; il ca-
rattere 都 dū, invece, non presenta significative variazioni nei dialetti cinesi.
SEMANTIZZAZIONE DELLA NOZIONE DI ‘CITTÀ’ 103

zhèn 鎮 ‘città’9: carattere complesso formato da jīn 金 ‘metallo’ e zhēn 真 (compo-


nente fonetico) indicante la nozione del ‘premere mediante oggetti pesanti (= pesi)’
> ‘reprimere/assoggettare > governare’ > ‘luogo dove si esercita il comando’ >
‘città’; anche ‘borgo’, ‘mercato’, ‘circoscrizione amministrativa’; anche ‘fonda-
menti, basi dello Stato’ (Ricci, 2011, p.108).

La forma più antica del carattere risale alle scritture in piccolo sigillo (xiǎoz-
huān 小篆, sec. III a.C.)

ed è strutturalmente simile alla forma moderna.

3. CONCLUSIONI
3.1. In ambiente indo-europeo la nozione di ‘città’ risulta veicolata da lessemi il
cui semantismo fa riferimento ad una serie di radici esprimenti tre nozioni principali:

˗ il riunire, l’assembrare: la città è intesa quale il luogo deputato alle attività


e agli scambi di natura commerciale: il mercato (cfr. *age(i)r- / *ago(i)r-);

˗ il riunire, l’assembrare in un luogo recintato, escludente: la città è intesa


come di uno spazio conchiuso (cfr. *ǵhor-tó- / ghor-tó-); o come’esten-
sione’ di uno spazio originariamente sacro (cfr. *werǵ; *w(o)rbh-); o
come ‘estensione’ di un luogo teritorialmente eminente (cfr. *bhǵh-), di
una fortezza , di un sistema difensivo (*ped-/pod-; *dheǝ-/dhoǝ-: ‘porre,
collocare’, onde celtico e germanico *dō-no-m);
˗ lo stabilirsi in un luogo: la città, intesa come la sede di uno stanziamento
(cfr. *wes-; *kei-; *st(h)a-ǝ-; *me(i)th-).

3.2. In ambiente cinese la nozione di città è resa, così come risulta dall’esame
dei caratteri, secondo le seguenti strategie semantiche:

9
Il carattere zhèn 鎮 risulta reso, foneticamente, in modo diverso in punti geolinguistici della
Cina: Xiamen (廈門, Min) [tin21], Jieyang (揭 , Min) [teŋ213], Xuzhou (徐州, mandarino) [tȿə
51].
104 EMANUELE BANFI

˗ il luogo dove gli appartenenenti alla comunità soddisfano il bisogno ele-


mentare del nutrirsi (cfr. xiāng 鄉 /乡);
˗ il luogo fortificato (cfr. chéng 城 ‘mura’ > ‘città (fortificata)’ dove si svol-
gono le funzioni degli scambi commerciali (cfr. shì 市 ‘mercato’);
˗ il luogo ove si esercita il potere politico-amministrativo (reso metaforica-
mente mediante la nozione della ‘testa’ (shǒu首 首 + dū 都 ‘testa’ + ‘città’
>‘città capitale’); e del simbolo della autorità pubblica, il ‘timbro’ (zhèn 鎮).
Notevoli -e in un certo senso attese- le simiglianze riscontrabili nei processi di
semantizzazione verificatisi nei due ambienti (la città, come luogo di assembra-
mento di individui, per scopi diversi: per scambio commerciale o per difesa). E però
va osservato che, oltre alla maggiore numerosità di parole indicanti la nozione di
‘città’ attestate nella realtà indo-europea (dovute, assai probabilmente, al maggiore
‘frazionamento’ dell’ambiente linguistico-culturale tipico delle genti indo-europee
rispetto al modello maggiormente ‘accentratore’ della realtà cinese), in ambiente ci-
nese la nozione di ‘città’ appare resa con riferimento ora al luogo -in modo del tutto
originale nella fase antica- ove si soddisfano essenziali bisogni alimentari (cfr.
xiāng 鄉/乡), ora come il luogo primariamente deputato alla gestione del potere
amministrativo (cfr. zhèn 鎮).

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GIULIANO BERNINI
(Università degli Studi di Bergamo)

Il plurilinguismo emergente nell’istruzione superiore italiana*

1. INTRODUZIONE
Il Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche (= GSPL, cfr. http://www.sli-
gspl.net) ha elaborato “Sette tesi per una politica linguistica democratica”, che rap-
presentano un punto di riferimento imprescindibile per la riflessione sui tanti aspetti
che occorre considerare per tentare di regolare gli usi delle lingue che i parlanti
fanno in comunità plurilingui e non, in modo che sia garantito a tutti pari sviluppo
cognitivo e sociale evitando che la maggior competenza in una delle varietà o
lingue di un repertorio dia luogo a discriminazioni nei domini della famiglia, della
scuola, del lavoro, dell’integrazione sociale in generale1.
La quinta delle Sette Tesi, qui di seguito riportata, è dedicata in particolare al
plurilinguismo degli individui e al multilinguismo delle società dei paesi e merita di
essere presa in considerazione oltre l’orizzonte di condivisione culturale e di risul-
tati scientifici riconosciuti relativi al tema che tratta.

Tesi 52
Il plurilinguismo degli individui e il multilinguismo delle società e dei paesi è un valore
da tutelare e promuovere in una prospettiva che voglia essere democratica: a esso dun-
que occorre ispirare analisi e proposte in materia di pratiche educative, politiche lingui-
stiche implicite o esplicite e promozione di studi e ricerche, fatta salva l’opportunità

*
Dedico con affetto questo contributo a Norbert Dittmar, che ha segnato la mia carriera di
studioso anzitutto nei tempi dello studio dell’acquisizione di lingue seconde, e poi come maestro nei
progetti di ricerca nati dalla collaborazione tra la Freie Universität Berlin e l’Università di Pavia negli
anni ‘90 del secolo scorso e ancora nell’ambito del gruppo europeo coordinato dal Max-Planck-
Institut für Psycholinguistik di Nimega (progetto Structure of the Learner Language) per tutti i primi
anni 2000. Il tema qui trattato è ancora relativo alle lingue seconde, ma nell’ottica delle politiche
linguistiche che occorre elaborare per regolare in maniera ordinata l’alternarsi di italiano -nel caso qui
in esame- e inglese nei percorsi di studio universitario. Il lavoro qui presentato è parte del progetto
di ricerca interuniversitario “Lingua seconda/lingua straniera nell’Europa multilingue: acquisi-
zione, interazione, insegnamento”, finanziato con fondi PRIN 2009 del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca assegnati all’Università degli Studi di Bergamo.
1
Le Sette Tesi sono consultabili all’indirizzo telematico: http://www.sli-gspl.net/home/gspl-
le-sette-tesi/. Alla loro discussione è stato dedicato un incontro a Roma nei giorni 3 e 4 maggio
2013. In quell’incontro è stata presentata una prima versione di questo lavoro.
2
Corsivi di chi scrive.
108 GIULIANO BERNINI

storica e civile di assicurare e promuovere altresì, per quanti lo vogliano, la conver-


genza dei cittadini di uno stesso paese multilingue verso l’apprendimento e l’uso di una
stessa lingua negli usi pubblici e ufficiali.

La proposizione di tesi con l’auspicio di una loro validità generale, se non uni-
versale, comporta implicitamente la verifica preliminare della bontà della loro for-
mulazione, pur nella difficoltà di operare generalizzazioni di un livello di astrazione
più basso di quello del testo, attraverso la ricca varietà di situazioni cui esse si ap-
plicano.
Tenterò di affrontare questo compito in una prospettiva applicata e limitan-
domi alla quinta tesi, sottoponendo i suoi contenuti a una sorta di prova di trazione,
costituita dal plurilinguismo emergente nell’istruzione superiore italiana. La prova
di trazione toccherà i tre nuclei della quinta tesi, evidenziati in corsivo nel testo qui
sopra riportato, ovvero il valore rappresentato dal plurilinguismo degli individui e
dal multilinguismo delle società, le politiche linguistiche che ad esso occorre ispi-
rare3, l’auspicio di una convergenza verso l’apprendimento e l’uso di una stessa lin-
gua a fini pubblici e ufficiali nel contesto multilingue di un paese.
Nel testo della quinta tesi si possono leggere in filigrana gli insegnamenti tratti
dalla storia linguistica dell’Italia postunitaria, compiutamente descritta in De Mauro
(1963). Questi vengono proposti in termini positivi: si riconosce il ruolo dell’ita-
liano come lingua di convergenza rispetto ai dialetti e alle lingue minoritarie e si ri-
conosce il contributo dei dialetti alla ricchezza del repertorio multilingue del territo-
rio della Repubblica e plurilingue dei suoi cittadini, pur nell’assenza di adeguate
linee di pratica educativa e politica lungimirante già invocate da Graziadio Isaia
Ascoli (1873, in particolare le pp. 13-14 e 30 della ristampa del 1975). Le scelte di
politica linguistica invece perseguite sono ora ripercorse in Orioles (2011), che
sottolinea la mancanza di attenzione pubblica anche nella attuale ristrutturazione dei
rapporti interlinguistici indotti in tempi recentissimi dall’integrazione economica,
tecnologica e socioculturale a largo raggio e che ha visto l’emergere dell’inglese
come lingua veicolare di maggior diffusione. Ciò ha comportato l’allargamento an-
che funzionale di quello che Kachru (1985) ha definito l’ “expanding circle”
dell’inglese, cioè l’area di diffusione di questa lingua come lingua veicolare oltre il
cosiddetto “outer circle”, dove essa si è sovrapposta a diverse lingue locali soprat-
tutto negli stati ex-colonie del Regno Unito. Lo “outer circle” è secondo Kachru il
primo anello di espansione dell’inglese, originariamente limitato ai paesi dello “in-
ner circle”, dove è parlato dalla stragrande maggioranza della popolazione come
lingua nativa.
La ristrutturazione in atto nei rapporti interlinguistici coinvolge ora l’istruzione
superiore italiana con la diffusione dell’inglese come lingua dell’insegnamento e dello

3
Comprendo nella nozione di “politica” ogni pratica che ad essa può essere ricondotta a co-
minciare da quelle educative.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 109

studio, che nell’anno accademico 2011/12 ha coinvolto ben 359 corsi di studio tra
baccellierato, lauree magistrali e dottorati secondo i dati pubblicati dalla CRUI (Ber-
nini, 2012, pp. 161-162). Il fenomeno tocca tutti i paesi europei e molti paesi extra-eu-
ropei come la Turchia, ed è anche all’attenzione dell’ultimo numero dell’«AILA Re-
view» (cfr. Smit, Dafouz, 2012). Questo processo di plurilinguismo emergente si pre-
sta dunque bene alla verifica della bontà della formulazione della quinta tesi.

2. VALORE
La quinta tesi si apre con l’affermazione del valore intrinseco di plurilingui-
smo degli individui e multilinguismo dei paesi, correlandone tutela e promozione
con l’impostazione della democrazia. La formulazione idealista qui adoperata pre-
suppone rapporti equilibrati tra le varietà di un repertorio, ancorché esse non siano
in posizione equipollente nell’uso che i parlanti possono o debbono farne nella so-
cietà in cui si trovano a convivere, come è ampiamente noto dalle situazioni di di-
glossia e, nella realtà italiana attuale, di dilalìa (Berruto, 2012, ma 1987).
Nell’ambito dell’istruzione superiore qui in esame l’utilizzo dell’inglese nei
corsi di studio di diverso livello riconfigura il repertorio linguistico, introducendo
una lingua veicolare a largo raggio di comunicazione accanto alla lingua nazionale
e a una o più varietà locali con minore raggio di comunicazione, almeno nelle scelte
individuali degli studenti e dei docenti coinvolti e almeno in quell’ambito. L’arric-
chimento del repertorio e delle potenzialità comunicative costituisce un valore nel
quadro dell’internazionalizzazione delle università, promossa dalla European Uni-
versity Association e definita “the process of integrating an international, intercultu-
ral or global dimension into the purpose, functions or delivery of higher education”
(Knight, 2009). Si tratta di un complesso di processi obbligati nella formazione
dell’area europea dell’istruzione superiore avviata dalla Dichiarazione di Bologna
del 19 giugno 1999 con l’obiettivo di formare i futuri cittadini dell’Unione europea.
I corsi in inglese dell’università italiana si aggiungono con un certo ritardo ai 2400
attivati fino al 2007 in 401 università di diversi paesi europei, ma principalmente
nei Paesi Bassi, in Germania, in Finlandia e in Svezia, secondo le statistiche pubbli-
cate in Wächter, Maiworm (2008, p. 19).
Con la sua adozione come lingua di insegnamento e di studio, lo status della
lingua inglese viene a cambiare: da materia di studio nella scuola e nell’università al
di fuori del repertorio linguistico della comunità sociale, essa diventa parte di que-
sto repertorio come lingua di relazione e di studio. Conseguentemente lo status
dell’inglese cambia anche nella pratica didattica: il suo utilizzo nell’insegnamento
di qualsiasi disciplina per favorirne l’apprendimento incidentale nella pratica nota
come CLIL (Content Language Integrated Learning) muta ora nel suo utilizzo
come mezzo di trasmissione di contenuti disciplinari nella EMI (English Medium
Instruction).
La differenza di status della lingua seconda nella pratica CLIL e nella pratica
EMI incide però negativamente sul valore del plurilinguismo emergente. Per la sua
110 GIULIANO BERNINI

natura, focalizzata sul contenuto, la pratica CLIL si presta a favorire il plurilingui-


smo degli allievi, in quanto la didattica disciplinare in lingua seconda si accompa-
gna a quella in lingua prima; la pratica EMI, con il suo cambio di prospettiva, favo-
risce invece il monolinguismo, imponendosi come unico mezzo di trasmissione
delle conoscenze.
Inoltre, come messo in luce da Airey (2012, p. 64), a ogni processo di apprendi-
mento disciplinare è sotteso un processo di apprendimento linguistico. L’introduzione
dell’inglese innesta quindi un conflitto nella delicata fase finale del percorso di forma-
zione dei giovani cittadini, interferendo con il coronamento dell’acquisizione
dell’italiano lingua prima iniziato in tenera età e ora affinata con l’esposizione alle
strategie di discorso delle tradizioni scientifiche4. Tale situazione incide negativa-
mente sul valore del plurilinguismo e del multilinguismo per le conseguenze che esso
può avere sulla formazione, per la quale verrebbero a mancare adeguati mezzi lingui-
stici di comprensione, elaborazione ed esibizione se affidata a una lingua seconda la
cui competenza non può che essere inferiore a quella dell’italiano.
L’incidenza negativa sul valore affermato dalla quinta tesi di questi aspetti
specifici del plurilinguismo emergente nell’università italiana è consolidata e ag-
gravata dal contesto più generale di pratiche e concezioni linguistiche orientate sul
prestigio dell’inglese. Ne hanno trattato Baldi, Savoia (2006) con attenzione alla
lingua come veicolo di identità e ai processi della cosiddetta globalizzazione, e più
recentemente Claude Hagège (2012) nell’intervento polemicamente appassionato
intitolato Contre la pensée unique, dove si distingue tra globalisation, ovvero la dif-
fusione mondiale di merci industriali e culturali a partire da certe regioni del mondo
(2012, p. 88), e mondialisation, ovvero “l’établissement, entre des territoires ou des
parties de leurs industries, d’interdépendances économiques que l’on peut définir
comme asymétriques” (2012: 85). L’inglese è una delle manifestazioni della mon-
dialisation.
Il rapporto asimmetrico dell’inglese, insieme a una concezione dell’interna-
zionalizzazione più simile alla mondialisation di Hagège, è illustrata dal seguente
frammento di cronaca locale tratto da un’intervista de l’Eco di Bergamo del 20
marzo 2013 (p. 27) al direttore generale del nuovo ospedale Papa Giovanni XXIII5:

[…] ma anche chi sceglie di essere curato qui venendo per esempio dai Paesi dell’Est o
dai Paesi emergenti. E accogliere questa utenza significa avere personale con una voca-
zione internazionale: sarà necessario che sappiano parlare inglese, per esempio.

Il rapporto asimmetrico è evidente nei dati ISTAT del 2006 relativi alla dichia-
razione di conoscenza dell’inglese e del francese, presentati da Lorenzo Còveri

4
Si veda a questo proposito l’illustrazione di alcuni dettagli di questo conflitto in Bernini
(2012, pp. 155-158).
5
Corsivi di chi scrive.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 111

(2013) nel recente convegno fiorentino sulle Città d’Italia: dichiara di avere una
qualche conoscenza dell’inglese il 43% degli intervistati, contro il 29,1% che di-
chiara una qualche conoscenza del francese, dato sul quale pesa però l’82% degli
intervistati della valle d’Aosta.

3. POLITICHE LINGUISTICHE
La fragilità del valore di plurilinguismo e multilinguismo, qui mostrata per il
caso della nostra prova di trazione, è presupposta dalla quinta tesi, che sottolinea la
necessità di consolidarlo con una serie di misure, tra le quali centrale è l’elaborazione
di politiche linguistiche. Questo compito richiede la considerazione di tre fattori:
˗ le pratiche effettive dei parlanti, come p.es. la scelta dell’inglese come lin-
gua dell’istruzione superiore,
˗ le loro concezioni circa il valore o il prestigio delle varietà disponibili,
come p.es. quella che traspare dall’intervista al direttore generale del
nuovo ospedale di Bergamo riportata in 2,
˗ l’impegno di “gestori” che sappiano proporre e controllare i comporta-
menti linguistici auspicati, come descritto in Wilkinson (2011) per
l’università di Maastricht e in Salö (2010) per molte università svedesi.

Sono queste le componenti di “politica linguistica” nel senso di una condotta


politica relativa alle lingue, per le quali è difficile assestare una teoria capace di
“account for the language choices made by individual speakers on the basis of rule-
governed patterns recognized by the speech community (or communities) of which
they are members”, come propone Bernard Spolsky (2009, p. 1) nell’introduzione
del suo recente libro Language management.
L’emergere del plurilinguismo nell’istruzione superiore italiana è il risultato
della pressione esercitata da fattori in sé non relativi all’uso delle lingue: la forma-
zione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore da una parte, l’adeguamento
ai criteri di costruzione delle graduatorie tra università, che misurano anche
l’attrattività per docenti e studenti stranieri, dall’altra parte.
L’affermazione del valore positivo del plurilinguismo ricade quindi nella re-
sponsabilità delle autorità accademiche che introducono l’inglese nei propri corsi di
studio. Il richiamo a questa responsabilità può essere più efficace se formulato in
termini di raccomandazioni propositive e meno efficace se formulato in termini di
semplici affermazioni astratte o ancora di richieste negative. Esempio di questa se-
conda linea di condotta è la petizione presentata in Francia dall’Association histori-
que de didactique du français langue étrangère al Ministero dell’istruzione supe-
riore e della ricerca al fine di mantenere l’utilizzo del francese come lingua
dell’istruzione superiore di contro all’introduzione dell’inglese (cfr. “Pétition Pour
le maintien de l’usage du français dans l’enseignement supérieur” all’indirizzo te-
112 GIULIANO BERNINI

lematico http://www.petitionpublique.fr/PeticaoVer.aspx?pi=UFS2013).
Nel caso qui in esame, una linea di condotta propositiva può essere articolata
in cinque punti, in relazione alle tre componenti di una politica linguistica, come qui
indicato.

Dal punto di vista delle scelte, si può prevedere:


1. l’introduzione graduale dell’inglese a partire dai corsi di laurea magistrale
in modo da innestarsi su una competenza solida in italiano acquisita nel li-
vello inferiore del baccellierato;
2. l’introduzione differenziata dell’inglese tra aree disciplinari in relazione
alla struttura della conoscenza in esse elaborata e al tipo di struttura discor-
siva che in esse si pratica. L’inglese potrà essere più diffuso nelle aree a
struttura gerarchica della conoscenza, come la fisica, meno diffuso in
quelle a struttura orizzontale della conoscenza, come la sociologia e, nono-
stante tante proposte, anche la linguistica (Airey, 2012, pp. 67-69).

Per quanto riguarda poi la concezione delle lingue e del loro uso, si può preve-
dere:
3) la libertà di scelta della lingua di istruzione, offrendo gli stessi corsi e inse-
gnamenti nelle due lingue coinvolte, italiano e inglese;
4) la costituzione di un ambiente realmente multilingue con insegnamenti te-
nuti in inglese da docenti italiani e stranieri per studenti sia italiani sia
stranieri; l’inglese acquisisce così lo status di lingua veicolare e dello stu-
dio e il suo uso non risulta affettato, come lo sarebbe nelle interazioni tra
soli italofoni.

Infine, per quanto riguarda il management, ovvero la gestione dei comporta-


menti linguistici, si può prevedere:
5) l’adozione di misure di osservazione delle condizioni delle interazioni
multilingui da parte di studenti e docenti e dei loro effetti sui risultati
dell’apprendimento disciplinare.

Queste misure sono anche preliminari a misure di pianificazione linguistica in


senso stretto, relative al tipo di inglese utilizzato e ai livelli di competenza in entrata
e in uscita. Solo in base all’osservazione delle effettive interazioni sarà possibile in-
dividuare l’addensarsi di tratti specifici di varietà di apprendimento in quello che è
ormai definito inglese lingua franca, descritto compiutamente da Barbara Seidlhofer
(2011) e, per l’istruzione superiore in particolare, da Ute Smit (2010).
Misure di pianificazione potranno poi incidere sul plurilinguismo dell’univer-
sità al di là della competenza nella lingua inglese e promuovere la conoscenza di
altre lingue in base a obiettivi didattici specifici, evitando così la deriva verso il bi-
linguismo sbilanciato (e il monolinguismo) evidente dalla tabella 1, che riporta le
inserzioni delle otto lingue straniere nei piani di studio dei sei dipartimenti
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 113

dell’università di Bergamo. Come si evince dalla tabella 1, al di fuori del diparti-


mento di lingue straniere il 93,5% delle inserzioni riguarda l’inglese6.

Lingue e let-
Lettere e fil.

Sc. Umane.
Giurisprud.
Ingegneria

Economia

e sociali

ter. str.

Totale
arabo 0 0 0 0 0 99/100 99/1,41
cinese 0 0 0 0 0 230/100 230/3,27
inglese 447/9,22 177/3,65 904/18,66 276/5,69 1266/26,14 1773/36,60 4843/68,98
francese 0 35/7,36 35/7,36 30/6,31 11/2,31 364/72,84 475/6,76
giapponese 0 0 0 0 0 153/100 153/2,18
spagnolo 0 22/3,23 53/7,79 0 3/0,44 602/88,53 680/9,68
russo 0 0 0 0 0 134/100 134/1,90
tedesco 0 7/1,72 11/2,70 5/1,23 0 383/94,33 406/5,78
Totale 447/6,37 241/3,43 1003/14,28 311/4,43 1280/18,23 3738/53,24 7020

Tabella 1: Università di Bergamo. Inserzioni nei piani di studio nell’a. a. 2012/13

4. CONVERGENZA
Le parole che nella quinta tesi introducono l’opportunità della convergenza
verso una stessa lingua negli usi pubblici e ufficiali, pur prudenti, sembrano costi-
tuire un contrappeso riduttivo all’asserito valore del plurilinguismo e del multilin-
guismo. In effetti le esigenze comunicative in campo educativo e pubblico rappre-
sentano fattori di grande peso specifico che possono interagire in maniera anche
opposta con le scelte linguistiche personali, come mostra da una parte l’attrazione
esercitata dallo ‘ivrit’ nello Stato d’Israele e dall’altra parte la marginalità dell’irlan-

6
Le percentuali sono riferite all’ultima casella di ogni riga, mentre quelle dell’ultima colonna
sono riferite al totale degli studenti considerati riportati nella casella in basso a destra. Quindi i 99
studenti che hanno scelto arabo nel solo Dipartimento di Lingue e letterature straniere rappresen-
tano la totalità (100%) delle inserzioni di arabo nei piani di studio dell’intera università. Gli stessi
99 studenti, tuttavia, rappresentano solo l’1,41% del totale di 7020 inserzioni di lingue straniere
dell’università. Le 4843 inserzioni di inglese rappresentano il 68,98% del totale di 7020; percen-
tualmente, le inserzioni di inglese si distribuiscono come segue tra i vari dipartimenti: 9,22% a In-
gegneria, 3,65% a Giurisprudenza, 18,66% a Economia, 5,69% a Lettere e filosofia, 26,14% a
Scienze umane e sociali, 36,60% a Lingue e letterature straniere.
114 GIULIANO BERNINI

dese nella Repubblica d’Irlanda a parità di passione nazionale dei cittadini (cioè dei
parlanti) dei due paesi.
Anche nel caso qui in esame le esigenze comunicative tendono a instaurare un
rapporto asimmetrico tra le varietà in esso presenti e a condizionare le scelte di co-
dice a favore dell’inglese come lingua di maggior raggio comunicativo nel reperto-
rio dell’istruzione superiore.
L’asimmetria è presente nella maggior parte delle interazioni per via telema-
tica o telefonica o a faccia a faccia con non-italofoni anche quando il repertorio lin-
guistico a disposizione dei parlanti comprenda altre lingue oltre l’inglese, come è
già stato rilevato per le sedi da più tempo impegnate nell’internazionalizzazione,
come quella di Maastricht (Wilkinson, 2011, p. 5).
Nella comunicazione verso il grande pubblico le esigenze comunicative giusti-
ficano la costruzione di siti telematici delle università anche in inglese, che è soli-
tamente la versione direttamente accessibile da postazioni al di fuori dei confini na-
zionali. Ciò è massimamente evidente per i siti originariamente costruiti in lingue
che non utilizzano l’alfabeto latino e per i quali maggiore è la pressione esercitata
dall’efficacia di consultazione in favore della scelta di una lingua a più ampio rag-
gio comunicativo
L’utilizzo dell’inglese per una più efficace comunicazione a vasto raggio com-
porta anche una conseguenza per l’identità delle università stesse, le cui denomina-
zioni vengono trasposte in inglese, come in University of Bergamo, o Misr Univer-
sity for Science and Technology al posto di 9:;<=<>?@=‫<م وا‬EFE= GHI JFI9; 7.
Queste traduzioni si configurano non tanto come glosse esplicative per chi non
conosce la lingua originaria, ma come nomi propri alternativi della medesima entità
in funzione delle relazioni instaurate con interlocutori di lingue diverse8. Si incide così
anche in senso antropologico sull’identità delle istituzioni universitarie, naturalmente
quelle al di fuori di Regno Unito, Stati Uniti d’America, Canada e Australia.
Lo scivolamento dal rapporto asimmetrico qui cursoriamente esemplificato
fino al monolinguismo indotto dalla convergenza verso una lingua per gli usi pub-
blici, è già in atto nella produzione scientifica, come è stato ampiamente discusso da
più voci e per la quale basti il rimando al numero 20 di «AILA Review» curato da
Augusto Carli e Ulrich Ammon nel 2007.

5. IL RISULTATO DELLA PROVA DI TRAZIONE


La prova di trazione a cui è stata sottoposta la quinta tesi ha messo in luce una

7
Ovvero, in trascrizione in caratteri latini: ǧāmiʕatu miṣra li-l-ʕulūma wa-li-l-taknūlūǧiya.
8
In maniera analoga a quello che avviene con i nomi propri (cognomi, nomi, nomignoli e so-
prannomi), come messo in luce da Cardona (1982, pp. 5-6), per cui la persona registrata all’anagra-
fe comunale col nome di battesimo Maria Antonietta è nota come Mita nella cerchia di pari e come
Nietta in quella familiare.
IL PLURILINGUISMO EMERGENTE 115

certa contraddizione tra la terza delle sue componenti fondamentali, cioè la conver-
genza verso una lingua ufficiale, e la prima, cioè il valore del plurilinguismo e del
multilinguismo individuale e sociale. La tesi meriterebbe quindi di essere riformu-
lata sulla base delle prime osservazioni delle evoluzioni internazionali del plurilin-
guismo, riconciliando l’opportunità della convergenza verso una stessa lingua per
usi pubblici e ufficiali con l’asserzione del valore del plurilinguismo. Le ultime tre
righe della quinta tesi potrebbero essere riformulate come qui indicato:

L’opportunità storica e civile di assicurare e promuovere la convergenza dei cittadini di


uno stesso paese multilingue verso l’apprendimento e l’uso di una stessa lingua negli
usi pubblici e ufficiali va commisurata alla vitalità di ogni varietà del repertorio, così
come la convergenza verso lingue veicolari a più ampio raggio comunicativo anche nei
contesti di plurilinguismo e multilinguismo sovranazionali va commisurata al manteni-
mento della vitalità delle lingue nazionali.

La riformulazione, oltre a renderne il testo più efficace nei confronti di una più
vasta gamma di situazioni di multilinguismo, mette la quinta tesi in un rapporto più
coerente con la terza, relativa all’apprendimento della prima lingua, e con la quarta,
relativa all’accesso a varietà di lingua con funzioni socialmente dominanti.
Della quinta tesi delle sette, coerentemente denominate anche Heptàlogos, ri-
sulta così più evidente la correlazione con la quinta formula del ben più autorevole
e importante Dekàlogos:
‫א תִּ דְ צָח‬S (20,13 ‫)שטות‬
Non uccidere (Esodo 20, 13).

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MARINA CHINI
(Università di Pavia)

Scelte di lingua e reti amicali di ragazzi di origine immigrata nel Pavese

1. INTRODUZIONE
Nell’ultimo decennio la sociolinguistica della migrazione in Italia ha svilup-
pato diversi filoni di ricerca1 che hanno arricchito la precedente focalizzazione
quasi esclusiva degli studi sul repertorio d’arrivo degli immigrati, sostanzialmente
sull’italiano L2 e sulle modalità della sua acquisizione spontanea (sintesi e riferi-
menti in Giacalone Ramat, 2003, 2007; Bernini, 2010)2, e vi hanno aggiunto
prospettive nuove sia di sociologia del linguaggio, relative alle lingue d’origine
(L1) e all’intero repertorio degli immigrati, con le sue dinamiche di mantenimento
di L1 e shift linguistico (es. Berruto, 2009; Valentini, 2009), sia di linguistica del
contatto e sociolinguistica variazionistica applicate alle varietà (soprattutto di L2)
parlate dagli immigrati (Vietti, 2005, 2009). Alcune altre indagini si sono soffer-
mate sui loro atteggiamenti linguistici (Guerini, 2009, Chini, 2007, 2009), sulle
modalità della gestione delle competenze plurilingui di immigrati all’interno del di-
scorso, nel quale le varie lingue del repertorio si alternano e intrecciano con diverse
funzioni (Guerini, 2006), altri lavori si sono infine ispirati al paradigma pluridisci-
plinare e multimodale del “paesaggio linguistico” (Bagna, 2009 e riferimenti).
Risale al 2002 una delle prime indagini quantitative sulla presenza e gli usi
dell’italiano e delle lingue di origine degli immigrati, coordinata da chi scrive e
svolta nell’area nordoccidentale del Paese, più precisamente nella Provincia di Pa-
via e a Torino. Essa è stata condotta all’interno del Progetto nazionale “Le lingue
straniere immigrate in Italia”, sostenuto dal CNR-Agenzia 2000 (Chini, 2004) e
coordinato da Massimo Vedovelli (Università Stranieri di Siena), e si basava sulle
risposte a un questionario compilato, in modalità guidata, da 414 minori (di cui 309
in Provincia di Pavia) e 171 adulti3. L’indagine era stata preparata da una serie di

1
Per alcune linee di sintesi su quest’area di ricerca ci permettiamo di rimandare a Chini
(2009a, 2011).
2
Sono ancora pochissimi gli studi sulla presenza e gli usi di varietà regionali e dialettali ita-
loromanze fra gli immigrati (es. D’Agostino, 2004; cfr. però Villa, in stampa).
3
I suoi principali risultati, oltre che nella monografia a cura di chi scrive (Chini, 2004), sono
stati esposti e spesso pubblicati in varie sedi nazionali (es. Chini et al., 2004; un numero di SILTA
a cura di Chini, 2009c) e internazionali (brevemente in Chini, 2011, 2013). Ci è qui gradito ricor-
dare che proprio su invito del festeggiato ne abbiamo riferito anche presso la Freie Universität di
Berlino in una conferenza su “Migration to Italy and the acquisition of Italian as a second lan-
118 MARINA CHINI

interviste qualitative svolte in Lombardia e Piemonte dal 2000 al 2002, sulle quali si
era in parte riferito in occasione di un Congresso della Società di Linguistica Ita-
liana (Chini, 2003). Tali interviste avevano mostrato all’opera alcune tendenze che
in gran parte i dati quantitativi confermavano (cfr. Chini, 2003, pp. 241-244, con
Chini, 2004, cap. 8).
Dieci anni dopo, nel 2012, l’indagine è stata replicata con uno strumento quasi
identico, un questionario distribuito fra oltre 500 studenti di origine immigrata dai 9
ai 15 anni ca. in Provincia di Pavia (a cura della sottoscritta e con la collaborazione
di colleghi, laureandi e dottorandi pavesi), e quindi fra oltre 1300 alunni in alcune
province del vicino Piemonte (a cura di Cecilia Andorno, già membro dell’Unità
pavese della ricerca del 2002 e ora docente nell’Ateneo di Torino). Le elaborazioni
sono ancora in corso, ma disponiamo già di analisi relative ad alcuni aspetti del
campione pavese, in particolare le modalità di apprendimento dell’italiano (Chini,
in stampa a) e gli usi linguistici in famiglia (Chini, in stampa b), oltre che di studi
parziali di laureandi dell’Università di Pavia4 relativi ad alunni immigrati di alcuni
centri della Provincia pavese o piemontesi (Vigevano, Voghera, Mortara; Alessan-
dria per il Piemonte). Nell’ultimo decennio numerose sono state pure le interviste
qualitative condotte presso famiglie immigrate dell’area nordoccidentale, soprat-
tutto pavese e lombarda, specie in occasione di tesi specialistiche, di dottorato o
Master che abbiamo seguito, lavori che hanno consentito di indagare più da vicino
le dinamiche sociolinguistiche di famiglie o individui immigrati residenti nell’area
lombarda (o piemontese) pure negli anni successivi al 2002, nella pluralità delle
esperienze e dei contesti di vita che li caratterizzano.
In questo contributo intendiamo da un lato fornire alcuni dati quantitativi
nuovi, emersi dall’indagine pavese del 2012, relativi alle scelte di lingua di ragazzi
immigrati nel contesto familiare e soprattutto in quello amicale, finora non esami-
nato, un dominio con forti valenze relazionali e talora identitarie (tanto in senso ge-
nerazionale che etnico), dall’altro desideriamo arricchire il quadro con spunti qua-
litativi tratti da studi di caso individuali o familiari relativi alla stessa area lom-
bardo-pavese, potenzialmente utili a identificare fattori rilevanti per l’inter-
pretazione degli esiti dell’indagine quantitativa.
Non ci soffermiamo in questa sede su aspetti generali di tipo socio-demogra-
fico relativi all’immigrazione italiana, per i quali rimandiamo al ricco Dossier Ca-
ritas/Migrantes del 2012, oltre che, per una sintesi, a Blangiardo (2010) e ai para-
grafi iniziali di nostri recenti lavori (Chini, in stampa a, in stampa b); sulla popola-
zione scolastica di cittadinanza non italiana si vedano i recenti rapporti MIUR

guage” (6 luglio 2005), nell’ambito di una Giornata di studio dell’“Interdisziplinäres Zentrum Eu-
ropäische Sprachen” vertente sul tema “Migrationslinguistik”.
4
In particolare ricordiamo le tesi di Eleonora Piangerelli, Luca Paganetti, Antonella Pino e
Valentina Cipolla per il Pavese; Martina Amisano per l’Alessandrino.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 119

(MIUR, 2011, 2012). Ricordiamo solo che, alla fine del 2011, la popolazione di
origine straniera presente in Italia per immigrazione regolare consta di 5 milioni di
soggetti (ca. l’8% della popolazione totale), di cui quasi un quarto è costituito da
minorenni (23.9%), mentre circa la metà sono donne (49.5%). Si tratta pertanto di
una popolazione spesso giovane e dinamica, in via di stabilizzazione o in molti casi
stabilizzata. Le provenienze sono molto variegate, essendo comunque più rappre-
sentati immigrati giunti da Romania (19% del totale degli immigrati), Albania
(14%), Marocco (13%), in misura minore da Cina (4.5%), Moldavia, India e Filip-
pine (tutte sul 3%). Le mete di migrazione sono sparse su tutto il territorio italiano,
ma soprattutto si trovano nelle seguenti regioni: Lombardia (per il 23.5% degli im-
migrati), Lazio, Emilia Romagna e Veneto (ognuno ca. 11-12%), Toscana e Pie-
monte (entrambe 8-9%). Le due aree da noi recentemente indagate, Lombardia e
Piemonte, sono pertanto nel novero delle regioni più toccate dal fenomeno, nelle
quali stanno verosimilmente iniziando a costituirsi comunità linguistiche immigrate,
forse “nuove minoranze”, di una certa consistenza (cfr. discussione in Chini, 2009a).
In tale quadro, in particolare nell’area lombardo-pavese (su cui, cfr. ORIM, 2011;
Blangiardo, 2012), vanno collocate le riflessioni che seguono, che potenzialmente
possono tuttavia identificare dinamiche all’opera pure in altre aree del Paese,
soprattutto del Nord-Ovest.

2. PRESENTAZIONE DELLE INDAGINI


Forniamo ora un breve inquadramento delle due tipologie di dati, quantitativi e
qualitativi, su cui baseremo la nostra analisi.
La ricerca quantitativa svolta nel 2012, intitolata “Le lingue degli immigrati
stranieri in Italia”, si colloca dieci anni dopo quella condotta nell’àmbito del Pro-
getto nazionale CNR-Agenzia 2000 sopra menzionato (Chini, 2004) e sonda gli
stessi temi. Il focus dell’indagine verte sui repertori linguistici, le dinamiche di mi-
grazione, integrazione socioculturale e soprattutto di mantenimento e shift di lingua
in alunni di origine immigrata presenti in scuole primarie/elementari (IV e V classe)
e in scuole secondarie di I grado/medie (I-II-III classe), residenti nella Provincia di
Pavia. Sono ragazzi di norma di cittadinanza straniera, nati all’estero o in Italia da
uno o, molto più spesso, da due genitori stranieri. Non abbiamo considerato nello
studio alunni adottati o nomadi, perché eccentrici rispetto a tale tipologia e non con-
siderati nella ricerca del 2002.
Dato che uno dei principali scopi di tale ricerca è l’evidenziazione dei princi-
pali cambiamenti intervenuti nei repertori e nelle pratiche linguistiche dei minori
immigrati (e delle loro famiglie) fra 2002 e 2012, lo strumento utilizzato, un que-
stionario, è rimasto sostanzialmente lo stesso rispetto a quello del 2002 (che è pub-
blicato in Chini, 2004, pp. 363-369). Sono state apportate lievi modifiche, fra cui
alcuni aggiornamenti e l’aggiunta finale di 5 domande relative ad atteggiamenti e
preferenze di tipo latamente culturale. L’indagine parallela in Piemonte, coordinata
da Cecilia Andorno, ha adottato lo stesso strumento pavese del 2012 con pochissimi
120 MARINA CHINI

adattamenti. Ci concentreremo qui esclusivamente sui dati pavesi per i quali le ela-
borazioni sono più avanzate.
Il questionario, anonimo, comprende 60 domande, in parte chiuse in parte aperte,
riguardanti i principali dati socioanagrafici dei soggetti e dei loro familiari, le loro
esperienze scolastiche e migratorie, le reti amicali, gli usi di L1 (cioè la prima varietà
di lingua appresa in famiglia nell’infanzia), dell’italiano (L2) e di altre varietà lingui-
stiche, praticati con vari interlocutori, prima e dopo la migrazione. È inoltre richiesta
ai soggetti una autovalutazione delle proprie competenze in L1, in italiano e in altre
lingue, e sono comprese domande circa gli atteggiamenti verso L1, l’italiano e i ri-
spettivi contesti di vita, verso il bilinguismo e circa gli usi delle lingue con alcuni
mezzi tecnologici (internet, skype, mail, sms, chat). Il questionario, steso in un italia-
no piano, è stato somministrato nelle scuole dalla scrivente e/o da suoi collaboratori a
gruppi in media di 5-15 soggetti, secondo un protocollo concordato che mirava a gui-
dare da vicino la compilazione dello stesso, dopo aver ottenuto l’autorizzazione delle
autorità scolastiche e dei genitori dei soggetti. Non sono stati coinvolti alunni neo-arri-
vati che si sarebbero verosimilmente trovati in difficoltà nella compilazione. La durata
della somministrazione guidata collettiva è andata di norma dai 60 ai 90 minuti5.
Le indagini qualitative cui faremo riferimento sono invece interviste indivi-
duali o familiari a soggetti immigrati di varia origine, residenti in Provincia di Pavia
o in aree confinanti, che hanno seguito in modo libero un canovaccio normalmente
concordato con chi scrive sulle stesse tematiche toccate dal questionario. L’intervi-
statore (nei casi riportati al par. 4, un’intervistatrice), un laureando o laureato, ha
avuto cura, quando possibile, di incoraggiare approfondimenti e riflessioni perso-
nali degli interpellati sull’esperienza migratoria e sul relativo vissuto linguistico.
Come in genere nelle ricerche qualititative, lo scopo finale delle interviste è stato
quello di “accedere alla prospettiva del soggetto studiato: cogliere le sue categorie
mentali, le sue interpretazioni, le sue percezioni ed i suoi sentimenti, i motivi delle
sue azioni” (Corbetta, 1999, pp. 405), in particolare in relazione al suo vissuto lin-
guistico e migratorio. Naturalmente non sempre e non tutti i soggetti hanno for-
nito riflessioni articolate ed esaustive, anche in dipendenza dall’età, dalla compe-

5
L’indagine ha potuto svolgersi grazie alla buona volontà e all’impegno di molti e alla collabo-
razione di scuole, associazioni presenti sul territorio, ricercatrici, docenti, giovani laureandi e
dottorandi. Siamo pertanto molto grati, in particolare, alle autorità scolastiche pavesi (dott. Giuseppe
Bonelli, prof. Caterina Mosa), ai Presidi e docenti delle scuole coinvolte (fra cui Monica Lardera), alle
colleghe Federica Da Milano, Caterina Mauri, Michela Biazzi, a studenti, laureandi o dottorandi per lo
più dell’Ateneo pavese (F. Pecorari, L. Stefanini, E. Piangerelli, L. Pedrini, L. Paganetti, V. Cipolla,
L.W. Leon Trujillo, K. Duka, A. Pino, A. Troccoli), a operatori della cooperativa pavese Progetto
Contatto (coordinati da Valentina Brunati e Andrea Cerioli) e dell’Associazione Babele (Maristella
Leone). Per le spese vive abbiamo fruito di un contributo dell’ex Dipartimento di Linguistica Teorica
e Applicata dell’Università di Pavia e di fondi PRIN 2009 (“Lingua seconda/lingua straniera
nell’Europa multilingue: acquisizione, interazione, insegnamento”, coord. nazionale G. Bernini;
responsabile dell’Unità di Pavia chi scrive).
Soggetto o fa- L1 Paese Età dei genitori Età dei figli (= Anni in Italia Residenza Nati all’ Nati in
miglia; anno d’origine P=padre F) (genitori-figli) italiana estero Italia
dell’ intervista M=madre

Famiglia D albanese Albania P. 34, M 32 a. 11 10-9 a Pavia P, M, 1 F -


(2003)
Tabella A: Famiglie e soggetti dell’indagine qualitativa

Cugine A e B cinese Cina 40-45 a. 14 a. B da 9 a Pavia B A


(2002) (entrambe)

Famiglia B spagnolo Ecuador P 40 a., M ? 13 a 5a Frazione P, M, 1 F -

SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI


(2004) Prov. PV

Famiglia A panjabi India P 45 a., M 15 a. , 7 a. P da 12 a. BZ Pavia P, M, 2 F -


(2005) (Panjab) poi PV; M e F
da 6 mesi

Famiglia romena romeno Romania P. 50 a., M 46 a. 20 a., emigrato P da 12 a. Frazione P, M, 1 F -


(2013) a 14 a. (prima in D), M Prov. PV (ALE)
e F da 8 a.
Studente egiziano dialetto Egitto (P deceduto, 18 a., emigrato 6 a. Pavia P, M, 4 F, -
SAA (2013) arabo M?) a 12 a. fra cui
egiziano SAA
Famiglia wolof Senegal M 42 a., P 43-45 24, 20, 13, 10 P 25 a., M e 2 F Pavia P, M, 3 F la F di
senegalese a. a. 13 a., poi altri 2 10 a.
(2013) F

121
122 MARINA CHINI

tenza in italiano, lingua franca di tali colloqui (tranne nel caso di alcuni immigrati
africani francofoni), dal grado di fiducia e di apertura verso l’interlocutore, dalla
consuetudine a tale tipo di riflessioni nell’esperienza precedente, e da altri fattori
ancora. I soggetti intervistati vivono in contesti differenziati, in città o anche in
centri piccoli e medi, e appartengono ad alcune delle principali comunità immigrate
presenti in Italia. Da queste interviste ricaveremo alcune osservazioni relative ai
loro usi (e talora ai loro atteggiamenti) linguistici, senza alcuna ambizione di rap-
presentatività. Nella seguente tabella forniamo alcuni dati socioanagrafici dei sog-
getti intervistati e della loro famiglia (ulteriori dettagli al par. 4).
Si tratta dunque tipicamente di nuclei con i due genitori connazionali (non
sono incluse qui coppie miste), con figli per lo più nati all’estero, in una condizione
in cui il mantenimento di L1 è più probabile che in altre. Ci torneremo al par. 4.

3. IL CAMPIONE DELL’INDAGINE QUANTITATIVA PAVESE


Prima di descrivere le pratiche linguistiche del campione pavese del 2012, so-
prattutto nei contesti amicali, presentiamo la sua composizione e alcuni aspetti so-
cio-relazionali. Si tratta di 556 soggetti di origine immigrata, di norma di cittadi-
nanza straniera e fra i 9 e i 17 anni (nel 96% dei casi l’età è compresa fra i 10 e i 15
anni). Sono dunque per lo più preadolescenti e adolescenti. Costituiscono il 10%
dell’intera popolazione di alunni stranieri (5.589) frequentanti le scuole primarie
(3.518) e secondarie di I grado (2.071) della Provincia di Pavia. Il campione è bi-
lanciato per sesso (come nel 2002) e, rispetto a quello del 2002, comprende una
percentuale decisamente maggiore di nati in Italia, cioè di seconde generazioni: dal
6-9% del 2002 si passa infatti al 40% nel 2012 (tabb. 1 e 2). Ciò consegue al gene-
ralizzato aumento delle seconde generazioni in Italia (Ambrosini, Molina, 2004),
che verosimilmente avrà riscontri non trascurabili pure su usi e atteggiamenti lin-
guistici dei soggetti studiati, probabilmente più orientati verso l’italiano di quelli di
chi vi è giunto in età adulta o durante la fanciullezza o l’adolescenza. Per un con-
fronto forniamo in seguito anche i dati del campione del 2002.
Spesso nel campione del 2012 entrambi i genitori degli alunni sono stranieri e
connazionali (90%), mentre solo il 7.2% è figlio di coppie miste, cioè ha padre o,
meno spesso, madre italiano/a e altro genitore straniero (il trend era simile nel 2002,
con una percentuale un po’ maggiore: 10.9%). Nella maggioranza dei casi lavorano
entrambi i genitori (56% dei rispondenti), ma è pure alta la quota di chi ha solo il
padre che lavora (38%), mentre per pochi l’unica persona ad avere un’occupazione
in famiglia è la madre (4%). Il quadro familiare si completa molto spesso con la
presenza in Italia di fratelli (per l’89% dei rispondenti, il 74% del campione), espo-
nenti della stessa generazione, anche se talvolta nati in un altro Paese rispetto al
soggetto interpellato. Ci si può attendere che fratelli e sorelle condividano atteg-
giamenti e aspettative, oltre che stili e contesti di vita, con i soggetti interpellati, il
che ci induce a non trascurare il loro ruolo nelle dinamiche linguistiche e nelle
scelte di lingua, odierne e future, dei minori.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 123

Sesso n. 2012 % 2012 Cfr. % 2002 Età n. 2012 % 2012


Maschi 286 52.2 54.8 9-10 anni 124 22.5
Femmine 262 47.8 45.2 11-12 anni 196 35.6
Totale va- 548 100.0 100.0 13-14 anni 174 31.6
lido
Mancanti 8 15-17 anni 57 10.4
Totale 556 Totale 551 (+ 5 100
mancanti)

Tabella 1: Composizione del campione pavese per sesso (2012, 2002) ed età (2012):
numeri assoluti (n.) e percentuali (%)

n. 2012 % 2012 n. Provincia % Provincia n. totale 2002 % totale


Pavia 2002 Pavia 2002 (PV+TO) 2002
Nati all’estero 329 60.0 289 93.5 376 90.8
Nati in Italia 219 40.0 20 6.5 38 9.2
Totale valido 548 100 309 100 414
Mancanti 8
Totale 556

Tabella 2: Luogo di nascita degli alunni di origine immigrata interpellati


(confronto 2012-2002)

Qui hai degli amici n. %


Solo di altri Stati 10 1.9
Solo italiani 78 14.6
Italiani e di altri Stati 98 18.4
Italiani e del Paese d’origine 122 22.8
Italiani, del Paese d’origine e di altri Stati 213 39.9
Solo del Paese d’origine 8 1.5
Del Paese d’origine e di altri stati 4 0.7
Nessun amico 1 0.2
Totale rispondenti 534 100.0

Tabella 3: Composizione della rete amicale


124 MARINA CHINI

Dal punto di vista relazionale, oltre all’ambito della famiglia, si segnala per
molti minori (già nel 2002 e ancora nel 2012) la diffusa frequentazione di reti ami-
cali miste, fattispecie che riteniamo anch’essa potenzialmente interessante per i suoi
risvolti linguistici e sociali, in quanto può verosimilmente innescare dinamiche di
integrazione sociale, culturale e linguistica nel contesto di arrivo, soprattutto se tali
reti comprendono anche amici italiani e non solo amici del Paese d’origine. Ve-
diamo più nel dettaglio la composizione delle reti amicali dei soggetti nel campione
pavese del 2012, su cui ci concentreremo nel prosieguo del lavoro. Ci baseremo
sulle risposte alla domanda 27 del questionario (“Qui hai degli amici (puoi mettere
più crocette)”).
Il quadro che esce è piuttosto differenziato e nel complesso incoraggiante, dal
punto di vista della socialità. Coloro che hanno solo amici non italiani (e che poten-
zialmente rischiano un vissuto di marginalizzazione rispetto al contesto di arrivo)
sono decisamente pochi, circa il 4% dei rispondenti, di cui meno della metà (1.5%)
ha solo amici connazionali. Fortunatamente solo un soggetto dichiara di non avere
amici. Quasi tutti gli altri (96%) dichiarano di avere pure amici italiani, con i quali
verosimilmente potranno (o dovranno) usare (anche) l’italiano. Non è marginale
inoltre la quota di chi ha solo amici italiani, quasi uno su sei (15%), mostrandosi
pertanto fortemente orientato (per forza o per scelta) verso il contesto di arrivo. Ci
pare al contempo significativo che la maggioranza dei soggetti (61%) frequenti pure
amici stranieri di altra origine, non connazionali (e spesso, ma non sempre, di altra
lingua). Con questi pari stranieri (oltre che con amici italiani) è molto probabile
l’uso dell’italiano come lingua franca, accanto a quello di altri possibili lingue fran-
che o idiomi d’origine condivisi (pensiamo allo spagnolo per ragazzi di vari Paesi
latino-americani). Lo potremo verificare nel par. 3.
Tali primi dati sembrano delineare, per la maggioranza dei minori interpellati, un
ambito relazionale contrassegnato dalla molteplicità e dall’apertura sia verso il conte-
sto d’arrivo che verso coetanei di altre origini e con altre esperienze migratorie. Il
quadro può essere completato considerando le risposte alla domanda “Con chi stai
quando non sei a scuola?” (domanda 28), risposte che ci consentono di evidenziare le
opzioni praticate nel tempo extrascolastico dai minori, di norma più esente da vincoli
ed obblighi e aperto a scelte più libere (pur non in assoluto, data la giovane età).
Come ci si poteva attendere, vista anche l’età dei soggetti, è decisamente mag-
gioritaria (ca. 80%) l’esperienza di trascorrere (anche) con i familiari il tempo ex-
trascolastico, il che comporta per questi minori la possibilità di essere esposto alla/e
lingua/e (oltre che alla cultura) d’origine (almeno) in questo frangente. Tuttavia va
osservato che la frequentazione esclusiva, nel tempo libero, di persone legate al
Paese d’origine (familiari e amici connazionali) è bensì significativa (oltre un
quarto dei minori: 27.4%), ma non costituisce la norma. Segnala infatti di frequen-
tare (anche) amici italiani almeno il 56% del campione e frequenta pure amici di
altri Stati diversi dal proprio almeno il 25% dei soggetti (trascuriamo qui le varie
“altre combinazioni” testimoniate da meno del 3% del campione). Si conferma
dunque l’esperienza “plurale” emersa dalla tab. 3.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 125

Con chi stai quando non sei a scuola? n. %


Solo con la mia famiglia 123 22.2
Con la mia famiglia e con amici italiani 89 16.1
Con la mia famiglia, con amici italiani e di altri Stati 48 8.7
Con la mia famiglia e con amici del mio Stato d’origine 29 5.2
Con la mia famiglia e con amici del mio Stato d’origine e italiani 59 10.7
Con la mia famiglia e con amici del mio Stato d’origine, italiani, di 86 15.6
altri Stati
Solo con amici italiani 26 4.7
Altre combinazioni (< 3%) 93 16.8
Totale rispondenti 553 100.0

Tabella 4: Frequentazioni extrascolastiche

Dove incontri i tuoi amici italiani? n. %


A scuola 89 16.3
A scuola e altrove 41 7.5
A scuola e a casa 23 4.2
A scuola a casa e altrove 19 3.5
A scuola, a casa e per strada 46 8.4
A scuola, a casa, per strada e altrove 87 15.9
A scuola e per strada 117 21.4
A scuola, per strada e altrove 89 16.3
Altre combinazioni 35 6.4
Totale rispondenti 546 100.0

Tabella 5: Luoghi di incontro degli amici italiani

Incrociando queste risposte con il sesso dei soggetti, non emergono grosse dif-
ferenze, se non che le femmine sono decisamente sottorappresentate nel piccolo
gruppo di chi ha solo amici italiani: nel complesso ha solo amici italiani il 4.6% del
totale, ma fra le femmine solo il 1.5%, fra i maschi il 7.4%. Neanche opponendo i
nati in Italia ai nati all’estero in relazione alle frequentazioni nel tempo libero emer-
gono risultati chiari e significativi; i nati all’estero, per esempio, non sembrano fre-
quentare più la famiglia e meno i soli amici italiani dei nati in Italia, come ci si po-
trebbe attendere; in ogni caso entrambi i sottogruppi si distribuiscono sulle varie ri-
sposte in modo proporzionale, secondo le tendenze generali rinvenibili nella tab. 4.
126 MARINA CHINI

I comportamenti registrati sembrano dunque condizionati da altri fattori rispetto alle


variabili ‘sesso’ o ‘nascita in Italia/all’estero’, fattori che potremo approfondire in
analisi successive.
Il questionario sonda pure i luoghi di incontro con amici italiani, connazionali
e di altri Stati (domanda 29), distinguendo scuola, casa, strada e altri luoghi (da spe-
cificare). Ci soffermiamo in particolare sui luoghi in cui si frequentano amici ita-
liani che, come visto, quasi tutti hanno.
La scuola si conferma dunque per questi soggetti (e in genere per i minori) il
luogo elettivo di incontro quotidiano non solo con coetanei, ma spesso con amici,
un ambito in cui probabilmente nascono e si coltivano molte delle amicizie italiane
dei ragazzi immigrati. Solo per uno su sei però essa è l’unico luogo di incontro con
gli amici italiani. Per il resto del campione vi sono almeno due o più luoghi di in-
contro che si aggiungono. Al secondo posto per importanza va segnalato il contesto
pubblico della strada (62%), di solito combinato con altri luoghi, mentre relativa-
mente meno diffusa è la frequentazione di amici italiani all’interno delle mura do-
mestiche, ambito che segnalerebbe un contatto più intimo fra il mondo immigrato e
quello di arrivo e che concerne comunque un minore su tre (32%), una quota non
indifferente. Quasi la metà dei rispondenti (47%) menziona poi altri spazi di incon-
tro, più precisamente (tab. 6):

In quali altri luoghi incontri i tuoi amici n. % su chi menziona % sul totale (n. 546)
italiani? altri luoghi
Al parco 56 21.8 10.2
In impianti sportivi 48 18.7 8.8
In oratorio 35 13.6 6.4
In luoghi pubblici 18 7.0 3.3
Nei negozi 13 5.0 2.4
Al parco e in oratorio 7 2.7 1.3
Al parco e in impianti sportivi 6 2.3 1.1
Altri luoghi (menzionati ognuno meno 74 28.8 13.6
del 2%)
Totale rispondenti 257 100.0 100.0 (= n. 546)

Tabella 6: Altri luoghi di incontro degli amici italiani

Fra gli altri spazi più significativi troviamo pertanto il parco (oltre il 12% del
campione, il 27% di chi menziona altri luoghi), gli impianti sportivi (risp. 10% e
21%) e l’oratorio (risp. 8% e 16%), luoghi tipici della socializzazione, del diverti-
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 127

mento e anche dell’educazione di adolescenti e preadolescenti italiani, ora comu-


nemente frequentati da molti minori immigrati. Vediamo adesso se vi sono diffe-
renze significative in relazione ai luoghi di incontro con amici connazionali (tab. 7).

Dove incontri i tuoi amici connazionali? n. %


A scuola 29 6.2
A scuola e altrove 15 3.2
A scuola e a casa 15 3.2
A scuola, a casa e per strada 33 7.0
A scuola, a casa, per strada e altrove 47 10.0
A scuola e per strada 38 8.1
A scuola, per strada e altrove 23 4.9
A casa 58 12.4
A casa e per strada 41 8.7
A casa, per strada e altrove 25 5.3
A casa e altrove 24 5.1
Per strada 62 13.2
Altrove 40 8.5
Totale rispondenti 469 100.0

Tabella 7: Luoghi di incontro degli amici connazionali

I primi 7 luoghi si ritrovano anche nella tabella 5, pur con cifre un po’ diverse.
In particolare è più ridotta, come luogo di ritrovo con amici connazionali,
l’importanza della scuola (43%), che invece è praticamente per tutti luogo di in-
contro con gli amici italiani. Si conferma, ma in misura un po’ minore (56% vs.
62%), la strada come luogo di incontro con gli amici connazionali, per oltre la metà
dei soggetti. Decisamente maggiore l’importanza della casa come ambito di fre-
quentazione di amici connazionali (52%): per taluni è l’unico luogo della frequen-
tazione di amici connazionali (12%), per altri si combina ad altri (ca. 40%), mentre,
lo ricordiamo, per gli amici italiani la percentuale complessiva di chi li frequenta in
casa è inferiore, 32%. Ciò rimanda quasi simbolicamente a una certa distanza e dif-
ferenza di intimità sussistente fra rete amicale italofona e rete amicale connazionale.
Quasi 200 soggetti inoltre aggiungono altri luoghi in cui si ritrovano con amici
dello stesso Paese d’origine, secondo quanto riportiamo nella tabella seguente (tab. 8).
Sono in parte gli stessi luoghi (pubblici) menzionati per gli amici italiani
(parco, impianti sportivi, oratorio; cfr. tab. 6), ma in misura decisamente minore,
128 MARINA CHINI

mentre si aggiungono altri contesti, sia pubblici (i locali), che privati (case altrui), a
conferma della relativamente maggiore intimità che caratterizza relazioni con con-
nazionali rispetto a rapporti con amici italiani6.

In quali altri luoghi n. % su 192 % su totale Cfr. amici italiani: Cfr. amici it.:
incontri i tuoi amici risp. (n. 469) % su chi menziona % sul totale
connazionali? altri luoghi (n. 546)

Al parco 29 15.1 6.2 21.8 10.2


In impianti sportivi 17 8.9 3.6 18.7 8.8
In oratorio 10 5.2 2.1 13.6 6.4
In luoghi pubblici 9 4.7 1.9 7.0 3.3
Nei negozi 15 7.8 3.2 5.0 2.4
A casa di altri 13 6.8 2.8
Nei locali 12 6.3 2.6
Al Paese d’origine 25 13.0 5.3
Altri luoghi (menzionati 62 32.3 13.2 28.8 13.6
ognuno da meno del 2%)

Totale rispondenti 192 100.0 100.0 100.0 (= n.


546)

Tabella 8: Altri luoghi di incontro degli amici italiani

Ci pare che l’insieme di questi primi dati sociorelazionali delineino profili, pur
differenziati, di (pre)adolescenti immigrati o figli di immigrati contrassegnati nella
grande maggioranza dei casi da una significativa relazionalità con il mondo dei
coetanei italiani/italofoni (e non solo), che essi frequentano non solo a scuola, ma
spesso anche in altri contesti meno istituzionali, legati al divertimento o pure
all’educazione (sportiva, religiosa). Importante anche la frequentazione di amici
connazionali o di altri Paesi, in gran parte negli stessi contesti (scuola, strada, luoghi
pubblici), con una maggiore intimità segnalata da più abituali visite domestiche nel
caso di amici connazionali.

6
Le risposte relative al Paese d’origine non vengono qui considerate perché fuorvianti ri-
spetto alla domanda, che intendeva sondare il luogo della frequentazione di amici di varia origine
in Italia.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 129

Delineato il quadro relazionale, vediamo ora quali siano gli usi linguistici dei
minori.

4. USI LINGUISTICI DEI MINORI IMMIGRATI CON FAMILIARI E AMICI: ASPETTI


QUANTITATIVI

Ci soffermiamo ora sugli usi linguistici dei minori di origine immigrata inter-
pellati in Provincia di Pavia, nel loro quotidiano, in famiglia e con gli amici. Il que-
stionario permette anche di indagare altri ambiti sia pubblici, legati alle transazioni
(negozianti) e alla scuola (docenti e compagni), verosimilmente caratterizzati dal
ricorso all’italiano (come alcuni primi sondaggi confermano), sia privati (adulti
connazionali residenti in Italia, parenti rimasti nello Stato di origine), potenzial-
mente più legati a L1. In quanto segue tuttavia ci occupiamo di ambiti che più da
vicino segnano la vita affettiva e relazionale dei minori, appunto la famiglia e gli
amici, e nei quali è ipotizzabile tanto il ricorso a L1 o a lingue del repertorio di ori-
gine, quanto quello all’italiano (L2), essendo essi sia domini intraetnici che interet-
nici. Accanto ai dati del 2012 offriremo anche qualche indicazione relativa
all’indagine del 2002 al fine di evidenziare i cambiamenti sopraggiunti nelle prati-
che linguistiche di ragazzi di origine immigrata presenti in quest’area dell’Italia
nordoccidentale.
Forniamo dapprima un’idea sulle principali lingue usate solitamente in famiglia
(domanda 15 “Quali lingue o dialetti si parlano di solito nella tua famiglia?” (puoi
metterne più di uno/a)) e in seguito consideriamo le scelte di lingua del minore.

Lingua n. %
Italiano 390 70.1
Rumeno 112 20.1
Albanese 88 15.8
Spagnolo 84 15.1
Arabo (marocchino) 76 13.7
Dialetto/i 82 14.7
Altre lingue 206 37.1

Tabella 9: Lingue o dialetti parlati di solito nella famiglia dei soggetti (2012)

La tabella ci testimonia un primo dato molto significativo, cioè la forte presenza


dell’italiano in queste famiglie, nel 70% dei casi (ricordiamo che solo nel 7% si tratta
di coppie miste con uno dei due coniugi italiano), di norma accanto ad altre lingue.
Abbiamo pure l’indicazione di quale sia il peso delle principali “lingue immigrate”,
conseguente alle cittadinanze di origine più rappresentate (nel campione e nell’area):
rumeno, albanese, spagnolo (di diverse varietà dell’America Latina) e varietà di
130 MARINA CHINI

arabo, per lo più del Nord Africa. Sotto l’etichetta generica di “dialetto/i” stanno di
solito varietà locali e poco prestigiose delle lingue d’origine (57 casi, 10.3%), più ra-
ramente dialetti italoromanzi (20, 3.6%). Le lingue parlate in famiglia sono una qua-
rantina (come nel 2002); oltre a quelle della tab. 9, le principali sono francese (41
soggetti), inglese, altre varietà di arabo e lingue slave (una trentina per tipo), cinese
(25). Ma sul fronte del repertorio e della gamma delle lingue d’origine non inten-
diamo qui soffermarci oltre, interessandoci soprattutto le scelte di lingua dei minori.
Per rilevare meglio le tendenze al mantenimento di L1 o allo shift verso
l’italiano L2, abbiamo distinto tre situazioni: chi in famiglia usa solo l’italiano (shift
completo), chi usa solo altre lingue (mantenimento di L1), intendendo con “altre
lingue” la lingua materna o questa combinata con un’altra lingua diversa
dall’italiano (e dal dialetto italiano, menzionato molto raramente), e chi attinge alle
due o più lingue del repertorio disponibile (italiano + altre lingue), in un’ottica bi-
lingue. Privilegiamo qui la prospettiva del minore, cioè le scelte di lingua che egli
dichiara di fare quando si rivolge ad altri interlocutori, ma disponiamo anche dei
dati, simili ma talora non coincidenti, sulle scelte di lingua che secondo il minore
gli stessi interlocutori fanno con lui (su cui, cfr. Chini, in stampa a e in stampa b);
sono in grassetto le percentuali più significative.

Lingue usate (2012) Tu con papà Tu con mamma Tu con i fratelli


n. % n. % n. %
Solo italiano 96 18.1 83 15.1 145 31.6
Solo altre lingue 225 42.4 241 44.0 141 30.7
Entrambe le lingue 210 39.5 224 40.9 173 37.7

Tabella 10: In che lingue o dialetti parli tu a queste persone?


Scelte di lingua con i familiari (Provincia di Pavia 2012)

Lingue usate (2002) Tu con papàTu con mamma Tu con i fratelli


% PV % TO % PV % TO % PV % TO
Solo italiano (esclusa L1) 15.9 12.4 10.7 20.0 20.0 24.8
Solo altre lingue (escluso italiano) 50.7 53.3 50.4 50.5 29.5 32.4
Entrambe le lingue (+ ev. altre lingue) 27.2 27.6 37.2 27.6 37.3 23.9

Tabella 11: In che lingue o dialetti parli tu a queste persone? Scelte di lingua del minore con i
familiari (Provincia di Pavia e Torino, 2002; elaborazione su Biazzi, Chini, 2004, p. 157)8

8
Non sono incluse le percentuali delle risposte non pertinenti o non rilevanti (dal 2-6% per i
genitori, che non sempre sono presenti, dal 13 al 18% per i fratelli, che non tutti hanno).
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 131

Nel 2012 troviamo un pattern analogo a quello del 2002, pur con alcune diffe-
renze quantitative: in sostanza si ha per molti un uso conservativo di “altre lingue”
con i genitori e una distribuzione più omogenea sulle tre possibilità con i fratelli,
con una maggiore apertura verso l’italiano. Le principali differenze fra 2012 e 2002
consistono nel fatto che le scelte bilingui sono più attestate nel 2012 che nel 2002,
con i fratelli (38% nel 2012 vs. 37% a Pavia, e solo 24% a Torino nel 2002), ma so-
prattutto con i genitori (40% vs. 27-28% a Pavia nel 2002). Nel 2002 l’opzione
“conservatrice” per L1 è più accentuata, soprattutto con i genitori ma, in misura mi-
nore, anche con i fratelli (“solo altre lingue”, risp.: 51% e 32%). La quota di minori
che dichiara solo scelte di lingua “conservatrici” con i genitori pare pertanto in calo
negli ultimi 10 anni (dal 51% ca. al 42-44%), a favore del comportamento bilingue,
adottato dai minori con i genitori nel 28% dei casi nel 2002, nel 40-41% del 2012.
In queste famiglie immigrate si assiste dunque a un rafforzamento del ruolo
dell’italiano nel discorso rivolto dai minori ai genitori, nella forma dell’aumento dei
comportamenti bilingui e in misura minore delle scelte monolingui in italiano del
minore (dall’11-16% del 2002 al 15-18% del 2012). Nella direzione inversa, dal
genitore al minore, il ricorso al solo italiano con il figlio è un po’ più ridotto (10-
12% vs. 15-18%), mentre è un po’ più alto il mantenimento della sola L1 (48% vs.
42-44%). Comprensibilmente padre e madre si mostrano linguisticamente più con-
servatori dei figli e tuttavia ugualmente disposti ad accogliere e praticare la lingua
italiana in famiglia, soprattutto accanto a L1 ed altre lingue, più oggi che 10 anni fa
(ca. 40% dei casi nel 2012; 27-37% nel 2002).
Lo shift completo verso l’italiano è invece minoritario, seppur in ascesa dal
2002 al 2012: dal 12 al 18% con il papà, dall’11% al 15% (Pavia) con la madre.
Rimandiamo a successivi approfondimenti la verifica di correlazioni fra le tendenze
evidenziate e variabili socioanagrafiche quali sesso, età, luogo di nascita, prove-
nienza, frequenza scolastica in Italia o altre ancora (per il 2002, cfr. Biazzi, Chini,
2004; Chini, 2004, cap. 8; Chini 2009b; per il 2012, qualche primo incrocio in
Chini, in stampa a e in stampa b).
Veniamo ora agli usi linguistici nelle reti amicali dei soggetti di origine immi-
grata. I dati socioanagrafici illustrati al par. 2 ci hanno consentito di conoscere al-
cuni loro aspetti significativi (in particolare composizione, luoghi di ritrovo).
Dall’indagine del 2002 e dai primi sondaggi del 2012 su Vigevano e Voghera,
come del resto ci si poteva attendere, è emerso che la rete di amici italiani offre ai
nostri soggetti ovvie e proficue occasioni di uso (e apprendimento) della lingua ita-
liana, presumibilmente nelle sue varietà meno formali. Nel 2002 infatti, con alcune
lievi differenze fra la Provincia di Pavia e Torino, l’uso dell’italiano con gli amici
italiani era quasi totalizzante e arrivava al 96-97% del campione (compreso un 3-
6% di italiano combinato con lingue diverse da L1), di cui l’89-93% per il solo ita-
liano (punte superiori del 97-98% a Torino; Biazzi, Chini, 2004, p. 185). Nel 2012 a
Vigevano le cifre sono simili (93-97% di solo italiano da e con amici italiani) e lo
stesso vale per Voghera (98%; cfr. Paganetti, 2012; Piangerelli, 2012). Il contesto
amicale italiano offre dunque (fortunatamente) a moltissimi alunni di origine immi-
132 MARINA CHINI

grata occasioni extrafamiliari e extrascolastiche (non scontate, del resto) di pratica e


apprendimento dell’italiano, sicuramente preziose non solo dal punto di vista lin-
guistico, ma anche affettivo, culturale e sociale.
Più interessanti dal punto di vista del plurilinguismo e di possibili dinamiche di
mantenimento o shift sono tuttavia le reti di amici non italiani, dando per scontata la
presenza schiacciante dell’italiano nel discorso rivolto ad amici italiani. I dati del
2002, riferiti a un questionario in cui purtroppo non si distinguevano amici non italiani
connazionali da amici stranieri di altri Paesi, fornivano il seguente quadro analitico
(cfr. Biazzi, Chini, 2004, p. 184, Tab. 5.18), cui poi accosteremo il dato recente del
2012, questa volta suddiviso fra amici dello stesso Paese d’origine e amici di altri
Paesi (visto che il questionario del 2012 consente di farlo). Per il 2002 aggiungiamo ai
dati della Provincia di Pavia (PV) quelli della metropoli di Torino (TO), dove dina-
mica e composizioni delle reti amicali potevano essere molto diverse.
Nel gruppo misto di amici non italiani, anche del proprio Paese, la L1 svolge
nel 2002 un ruolo importante: oltre un terzo dei soggetti (più a Torino che a Pavia)
usa solo L1 con amici stranieri, verosimilmente connazionali o della stessa area lin-
guistica (per es. ispanofona), ma molti usano L1 accanto ad altre lingue, italiano
compreso. Complessivamente nel 2002 coloro che parlano (anche) L1 con amici
non italiani sono ben il 79% a Torino, il 63% in Provincia di Pavia. Si tratta per-
tanto di un dominio conservativo, seppure non impermeabile all’italiano. Il divario
di 16 punti fra Torino e Pavia si spiega verosimilmente con il fatto che nella metro-
poli piemontese sono più frequenti reti di connazionali o di immigrati della stessa
L1 che non nel territorio provinciale pavese, dove si ha (o almeno si aveva) una
maggiore dispersione sul territorio degli immigrati e quindi anche minori occasioni
di incontrare connazionali.

Da amici non italiani Con amici non italiani


Lingue usate
Totale PV TO Totale PV TO
Solo L1 34,5% 33,3% 38,1% 35% 33,7% 39%
Solo italiano 23,7% 24,6% 20,9% 28,3% 29,1% 25,7%
Solo altre lingue 1,7% 2,3% 0,5% 0,6%
L1+italiano 25,8% 24,6% 29,5% 25,4% 24,6% 27,6%
L1+altre lingue 3,1% 3,9% 1% 1,9% 2,6%
Italiano+altre lingue 1% 1,3% 0,2% 0,3%
L1+italiano+altre lingue 2% 1,3% 3,8% 1,7% 1,7% 2%
Nr 8,2% 8,7% 6,7% 7% 7,4% 5,7%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%

Tabella 12: Usi linguistici nelle reti amicali (amici non italiani) nel 2002 (domande 16 e 17)
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 133

Lingue usate Amici connazionali Amici non italiani di Cfr: Amici non
in Italia con te altri Stati in Italia italiani in Italia
(2012) con te (2012) con te (Pavia
2002)9
n. % n. % %
Solo italiano (ed ev. altre lingue, 150 32.0 318 64.5 25.9
diverse da L1)
Solo altre lingue (compresa L1) 168 35.8 136 27.6 39.5
Entrambe le lingue (ed ev. altre) 151 32.2 39 7.9 25.9
Totale 469 100.0 99.0

Tabella 13: In che lingue o dialetti parlano con te queste persone?

In ogni caso, già nel 2002 l’italiano è tutt’altro che marginale nella rete ami-
cale straniera, coprendo ca. un quarto dei casi in modalità esclusiva (24-28%) e una
porzione di poco superiore (27-28% di altri soggetti) in modalità combinata con al-
tre lingue, L1 compresa. Quindi oltre la metà del campione del 2002 parla (anche)
italiano con amici stranieri che vivono in Italia, sia in Provincia di Pavia che a To-
rino, mentre oltre un terzo parla solo lingue del repertorio di origine, di solito L1,
con gli amici stranieri.
Nel campione del 2012, che consente di distinguere amici stranieri connazionali
e non, un primo sondaggio mostra un aumento percentuale del ruolo dell’italiano in
tali contesti amicali. Nella prossima tabella, come fatto per le lingue usate in famiglia,
in prima approssimazione uniamo in un’unica voce tutte le lingue diverse dall’italiano
(“altre lingue”) e distinguiamo chi opta per uno shift completo (“solo italiano”, even-
tualmente con altre lingue diverse da L1) da chi esibisce un mantenimento completo
di L1 (“solo altre lingue”, escluso l’italiano). Il paragone fra 2002 e 2012 è purtroppo
approssimativo, soprattutto perché nel 2002 (ultima colonna a destra della tab. 13),
come detto, non venivano distinti gli amici stranieri connazionali dagli altri; è tuttavia
possibile rilevare alcune tendenze in atto. Consideriamo anche qui le due direzioni
dello scambio: lingue scelte dall’amico straniero con il minore e viceversa.
Dal 2002 al 2012 il ruolo dell’italiano cresce sia nelle scelte di lingua di amici
connazionali (dal 26% al 32%) che soprattutto nelle scelte di amici non italiani di
altri Stati (64.5%), mentre cala il peso delle “altre lingue” (L1 compresa), specie per
amici stranieri di altri Stati (28%), ma anche per connazionali (dal 40% al 36%
circa). Si consolida decisamente al contempo, anche in tale dominio in parte in-
traetnico, l’opzione bilingue, già emersa in famiglia, in misura quantitativamente
simile (32% con amici connazionali; 38% con i fratelli); essa è invece ridotta (8%)
con amici stranieri di altri Stati, che spesso hanno altre lingue materne e con cui
quindi la scelta dell’italiano come lingua franca è spesso quasi obbligata e comun-
que maggioritaria (due casi su tre).
Considerando ora le scelte di lingua del minore verso tali amici, l’altra dire-
134 MARINA CHINI

zione dello scambio, otteniamo i seguenti dati (nell’ultima colonna forniamo per un
confronto il dato pavese del 2002).
Le tendenze sono simili a quelle relative alle scelte di lingua operate dagli
amici con il minore, ma per quanto riguarda gli amici connazionali il minore sem-
bra optare per uno shift verso l’italiano un po’ di più di quanto facciano i suoi amici
(secondo quanto riferisce), mentre sceglie L1 un po’ meno degli amici; uguale e
simmetrica invece l’opzione bilingue (31-32%).
Anche con amici stranieri di altri Stati le scelte del minore sono simili a quelle
degli amici stranieri, decisamente orientate all’italiano in due casi su tre, con una
preferenza lievemente maggiore, anche qui, per il ricorso al solo italiano di quanto
facciano gli amici (66 vs. 64.5%), a scapito del repertorio alloglotto (23% vs. 28%).
Si osserva dunque un certo ridimensionamento del peso delle lingue diverse
dall’italiano nel dominio amicale straniero, già con gli amici connazionali (dal
37-39% del 2002 al 32-36% del 2012), ma soprattutto con amici di altri Paesi (dal
37-39% al 23-28%), mentre cresce il peso dell’italiano anche in queste reti stra-
niere, nella forma del solo italiano o combinato con L1. La tendenza lievemente
maggiore verso l’italiano del minore interpellato rispetto ai suoi amici potrebbe
essere letta come esibizione di convergenza verso il rilevatore, italofono, e verso
la società di arrivo.

Lingue usate Tu con amici connazionali in Tu con amici non italiani Cfr. Tu con amici
Italia (Pavia 2012) di altri Stati (Pavia 2012) non italiani in
Italia (Pavia
2002)
n. % n. % %
Solo italiano 182 36.6 336 66.1 29.4
Solo altre 159 32.0 115 22.6 36.9
lingue
Entrambe le 156 31.4 57 11.2 26.3
lingue
Totale 497 100.0 508 99.9

Tabella 14: In che lingue o dialetti parli tu a queste persone? (Pavia 2012 e Pavia 2002)

Si sono inoltre studiate le correlazioni fra le lingue parlate con gli amici stranieri
connazionali o di altri Paesi e parametri come il sesso e la nascita in Italia o altrove.
Quanto alla variabile ‘sesso’, pur non essendoci differenze abissali né statisti-
camente solide, emerge che le scelte preferite dai maschi tendono più spesso al mo-
nolinguismo, in L1 o in L2 (risp. 36%), mentre quelle preferite dalle femmine vol-
gono maggiormente verso l’italiano, esclusivo (38%) o combinato con L2 (35%); è
più ridotta fra le ragazze la scelta conservativa di L1 con amici connazionali (28%
vs. il 36% dei maschi). Ciò conferma tendenze generali già riscontrate nei dati del
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 135

2002, che vedono le ragazze (e le madri) più propense a scelte miste dei ragazzi (e
dei padri; Chini, 2009b).
Anche quanto al luogo di nascita, Italia o altro Stato, non vi sono differenze ecla-
tanti e tutte le tre opzioni possibili sono solidamente rappresentate. Tuttavia fra i nati
in Italia lo shift verso il solo italiano con amici connazionali è di quasi 6 punti supe-
riore a quello dei nati all’estero, che invece optano per scelte più conservatrici della
sola L1 con 10 punti percentuali in più dei nati in Italia. Dunque la prima generazione
(minori nati all’estero) risulta mantenere L1 parlando con amici connazionali più della
seconda (minori nati in Italia), il che non stupisce, in realtà però con uno scarto non
enorme (di 6 punti percentuali), come emerge dalla seguente tabella. Ciò delinea uno
sviluppo in corso, ma piuttosto graduale, che tende a includere l’italiano sempre più
anche nel repertorio intracomunitario, soprattutto con il passare delle generazioni, ma
che al contempo non prevede l’espulsione da esso delle lingue d’origine.

Lingue usate secondo Solo italiano con Solo altre lingue con Sia italiano che altre
il sesso (2012) amici connazionali in amici connazionali in lingue con amici con-
Italia Italia nazionali in Italia
n. % n. % n. %
Maschi 89 36.3 89 36.3 67 27.3
Femmine 92 37.6 68 27.8 85 34.7
Totale 181 157 152

Tabella 15:
Scelte di lingua con amici connazionali in Italia e sesso dei rispondenti

Stato di nascita Solo italiano con amici Solo altre lingue con Italiano e altre lingue
connazionali in Italia amici connazionali in con amici connazionali
Italia in Italia
n. % n. % n. %
Italia 80 39.6 53 26.2 69 34.2
Altro Paese 99 34.0 105 36.1 87 29.9
Totale 179 158 156

Tabella 16:
Scelte di lingua con amici connazionali in Italia e luogo di nascita (Italia/Altro Paese)

Soffermandoci sugli Stati esteri di nascita più rappresentati nel campione, Al-
bania, Romania e Marocco (risp. 36, 79 e 26 soggetti), constatiamo scelte di lingua
con amici connazionali non molto divaricate, tuttavia si osserva uno shift maggiore
verso l’italiano in ragazzi albanesi (47%) che negli altri, mentre più spesso l’opzio-
136 MARINA CHINI

ne bilingue è scelta da ragazzi rumeni (35.4%) e marocchini (38.5% vs. 27.8% di


albanesi). Rumeni e marocchini tuttavia non raramente passano anch’essi all’ita-
liano rivolgendosi a pari connazionali, in un caso su tre (risp. 32.9% e 34.6%). Con-
siderando lo shift verso l’italiano (usato da solo o con altre lingue) con amici conna-
zionali (shift secondario), otterremmo la seguente scala (1), da verificare su più ampie
messi di dati. Essa può essere confrontata con quella, sostanzialmente parallela, rela-
tiva alle lingue scelte con i fratelli da minori delle stesse provenienze (2):
(1) Scala dello shift intraetnico verso l’italiano con amici (pari) connazionali
(2012):
albanesi (75%) > marocchini (73%) > romeni (68%)
(2) Scala dello shift intraetnico verso l’italiano con fratelli (2012):
albanesi (72%) > marocchini (64%) > romeni (60%).
Per quanto riguarda invece le scelte di lingua con amici di altri Paesi, contesto
di norma interetnico in cui l’italiano è più forte (tab. 14), abbiamo studiato il ruolo
del fattore ‘sesso’ e del luogo di nascita. Il primo non pare incidere in misura molto
significativa: si ha solo uno scarto di ca. 4 punti in più per il solo italiano nei maschi
(65% vs. 61.4%) e per altre lingue nelle femmine (23.7% vs. 19.6% dei maschi),
secondo un trend rovesciato rispetto a quello osservato con amici connazionali, con
i quali le femmine erano relativamente più innovative dei maschi.
Considerando poi il luogo di nascita, non emergono associazioni statistica-
mente significative, tuttavia, a sorpresa, i nati in Italia dicono di usare un po’ meno
il “solo italiano” con amici stranieri di altre origini rispetto ai nati all’estero (59.5%
vs. 65%), e di ricorrere un po’ di più all’opzione mista dei nati all’estero (19.5% vs.
13.3%). La scelta “conservativa” (solo) per altre lingue riguarda comunque almeno
un soggetto su cinque, sia fra i nati all’estero che fra i nati in Italia (21%), il che
pare rimarchevole. Considerando solo i tre Paesi di nascita più rappresentati, Alba-
nia, Romania e Marocco, si evidenziano differenze piuttosto spiccate negli usi di
lingua con amici stranieri non connazionali. Ancora una volta i nati in Albania
paiono più propensi allo shift verso l’italiano, solo o affiancato da altre lingue
(88%), al secondo posto, questa volta, i Romeni (80%), al terzo i Marocchini
(67%), che hanno qui un tasso di conservatività delle lingue di origine più alto
(33%, contro il 20% dei Romeni e il 12% degli Albanesi), probabilmente anche
grazie al fatto che possono trovare nel contesto anche amici arabofoni di altri Paesi
di nascita (Tunisia, Egitto), con cui possono parlare nella loro L1; è invece verosi-
milmente meno facile per Albanesi e Romeni trovare in Italia amici non connazio-
nali che sappiano la loro lingua di origine.
In sintesi il contesto amicale risulta certamente meno contrassegnato ora dal
ricorso a L1 che non nel 2002, tuttavia esso offre importanti occasioni di usarla,
spesso accanto all’italiano, specie nel caso di amici connazionali (in tutto per il 63%
in media), ma anche con amici di altri Paesi (34%). I fattori sesso e luogo di nascita
(in particolare Italia, Albania, Romania e Marocco) paiono incidere in qualche mi-
sura su tali scelte, anche se non in modo statisticamente significativo.
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 137

I domini amicali intraetnici, cioè costituiti da amici connazionali, mostrano af-


finità quantitative in termini di scelte di lingua con il dominio intraetnico familiare
dei fratelli, in quanto si ha una simile ripartizione fra le tre possibili scelte di lingua,
con differenze non spiccate (cfr. Tabb. 10 e 14). Del tutto simile è la quota del
mantenimento (esclusivo) di L1, che riguarda un terzo dei casi (31-32%). Lo shift
verso (la sola) L2 risulta un po’ più pronunciato fuori dalla famiglia, con gli amici
(37%), che con i fratelli (31.6%), mentre gli usi bilingui hanno una distribuzione
inversa (risp. 31% e 38%). In circa due casi su tre la conversazione con fratelli o
con amici connazionali offre a questi minori opportunità di ricorrere quotidiana-
mente a lingue del repertorio di origine.

4. SPUNTI QUALITATIVI SU USI LINGUISTICI DI GIOVANI IMMIGRATI CON FAMILIARI E


AMICI

A documentazione delle tendenze sopra evidenziate e della varietà di situa-


zioni che occorrono, e senza alcuna pretesa di rappresentatività, forniamo ora al-
cune dichiarazioni esplicite di immigrati sui loro usi linguistici. Esse sono estratte
da interviste, per lo più familiari, raccolte in questi anni nel territorio pavese (e
lombardo) sotto la guida di chi scrive. Riportiamo situazioni di famiglie di varia
origine ed estrazione sociale, con figli dell’età dei soggetti interpellati per
l’inchiesta quantitativa o giunti in Italia a quell’età. Pure nelle indagini qualitative,
in diversi nuclei interpellati si ravvisa la penetrazione della lingua italiana, soprat-
tutto nel discorso fra figli o talora anche fra genitori e figli. Più raramente il domi-
nio familiare è risultato impermeabile, o quasi, all’italiano.
Un primo esempio di apertura verso la lingua del contesto d’arrivo ci è offerto
dal caso di una famiglia albanese (famiglia D), presentatoci dalla prospettiva del
padre, BLE, di Tirana (34 anni), in Italia da 10 anni, insegnante di musica, residente
a Pavia con la moglie albanese di 32 anni (da 9 in Italia) e un figlio di 11 anni,
giunto in Italia all’età di due anni; entrambi i genitori sono laureati. BLE è stato in-
tervistato da una studentessa e mediatrice culturale albanese, sua conoscente11:

(3) BLE <ahi ahi ahi, la lingua che usiamo a casa> [=!ride] mi fai ridere, perché perché
ne parliamo spesso anche a casa sai, con mia moglie, perché è difficile, sul se-
rio dirti che usiamo esclusivamente, anche se noi vogliamo usare cioè parlare
solo in albanese, ma ti dico che non è così, purtroppo. Eh, sai che iniziamo a

11
Dati raccolti da Laureta Shishmani (2007/2008, p. 88). Negli estratti di interviste ripren-
diamo, talora con lievi modifiche, le convenzioni adottate da chi le ha raccolte, ispirate in modo
talora flessibile a quelle di CHILDES (MacWhinney 2000; ad es. in 3, 11) o a quelle di studi sulle
interlingue (Andorno, Bernini, 2003). Le trascrizioni sono semi-ortografiche e conservano, pur in
diversa misura, tratti (di interlingua) del parlato originale. I segni # (o ##, ###) o […] stanno per
pause, più o meno lunghe. Segmenti indicati con […] sono espunzioni, stringhe &xyz& o <xyz>
sono pronunciate in sovrapposizione con turni altrui.
138 MARINA CHINI

parlare in albanese e poi appena si parla di lavoro, per esempio durante la cena
no, iniziamo in italiano a raccontare episodi o cose varie, ma non per niente
ma, è più facile esprimere in italiano di faccende successe in italiano, come per
esempio, hm riportare discorsi fatti con colleghi o battute cose da ridere, si fa
fatica a trovare le giuste parole in albanese, ultimamente poi, oh Dio che imba-
razzo, non trovo neanche qualche parola, boh: l’avrò dimenticato un po’, che
ne so io, io mi fa un po’ strano [!]
INT mh # e sì, e il tuo figlio, cioè con lui in che lingua parli?
BLE ti ho detto no, cerchiamo, almeno # ecco, si prova a parlare in albanese quando
siamo a casa, ma per esempio se lo devo aiutare a studiare per forza che parlo
italiano no? Poi lui è molto in difficoltà con l’albanese, perché è venuto qui che
ne sapeva solo poche cose in albanese, e poi la scuola in italiano, le tante atti-
vità extrascolastiche sempre no, circondato da italiani, lui non sa, cioè sa vera-
mente parlare poco in albanese, ma ti dico che capisce, anzi per quel poco
contatto che ha con l’albanese mi stupisce anche come capisce così bene […]
sì, ormai da dieci anni, diciamo che l’italiano mi accompagna, cioè [/] fa parte
delle attività di tutto ciò che io faccio quasi in ogni posto, perché te l’ho detto
no [?] in famiglia almeno parliamo in albanese, sì [/] la maggior parte dei di-
scorsi, invece fuori casa è tutto in italiano, per cui, secondo me, ho un buon li-
vello, cioè [//] non mi sento afatto in difficoltà, per niente

Anche con qualche segnale di imbarazzo, BLE documenta una chiara permea-
bilità all’italiano del repertorio e degli usi linguistici familiari (soprattutto quando si
trattano temi legati all’Italia), accanto a intenzioni dichiarate di conservare L1. Qui i
risultati di apprendimento dell’italiano paiono elevati pure nella prima generazione
(forse grazie anche al buon livello culturale della coppia). Il figlio, nato all’estero,
ma giunto in Italia a 2 anni, dispone di una buona competenza passiva della lingua
d’origine dei genitori, che sa parlare, pur con qualche difficoltà; il suo shift verso
l’italiano è tuttavia pronunciato, tanto che pare ormai la sua lingua dominante (se
non la sua prima o seconda L1). In nuclei come D la lingua d’origine persiste nei
discorsi interni alla famiglia e resta pure molto positivo l’atteggiamento verso di
essa, tuttavia è possibile prefigurare un suo graduale indebolimento, se non abban-
dono, nella generazione dei figli (specie se appartengono alla generazione 2, o 1.75,
come qui).
Anche in famiglie provenienti dalla Romania spesso fra le diverse generazioni,
oltre a L1, è fortemente presente l’italiano, soprattutto, ma non solo, nel parlato dei
figli, che arrivano a sviluppare varietà quasi native di italiano. Menzioniamo qui il
caso di una famiglia della Transilvania, residente in una frazione in Provincia di
Pavia. Il padre risiede in Italia da 12 anni, la madre (M) e il figlio (unico, ALE) da
quasi 8 anni12.

(4) INT che lingue parli coi tuoi genitori?

12
Dati raccolti e trascritti da Erika Bin (2012/2013).
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 139

ALE Allora, diciamo che è un misto tra romeno e italiano perché … tipo…succede
tantissime volte- fuori dalla casa parliamo sempre italiano- in casa invece si
parla romeno, italiano, quello che viene. Quindi se non ti viene una parola in
italiano la dici in romeno e viceversa…
M [ride] non è che lui parla tanto il romeno … io con mio marito parliamo il ro-
meno, però lui solo l’italiano
ALE No, beh, parlo tanto anche il romeno, poi a scuola c’è una mia compagna di
classe romena e parliamo solo il romeno. Diciamo che non ho dimenticato il
romeno, non faccio neanche fatica a parlarlo
M è la tua lingua madre, non la puoi dimenticare

La compresenza di romeno e italiano nel discorso fra figli e genitori prefigura la


forte probabilità di commutazioni di codice, code mixing, ibridismi e altri fenomeni di
contatto favoriti anche dalla comune origine romanza dei due idiomi. Troviamo pure
qui una maggiore conservazione di L1 nel parlato dei genitori, accanto a un certo at-
taccamento a L1 pure nella generazione del figlio (nato in Romania), che pare del re-
sto essersi ben integrato nel Paese d’arrivo fin dalle scuole secondarie di primo grado
in cui è stato inserito all’arrivo, imparando a parlare italiano in fretta (e bene):

(5) INT Come ti sei trovato coi compagni?


ALE Allora … il mio caso è stato un po’ particolare perché non ho trovato nessuna
difficoltà ad imparare l’italiano, cioè, io l’ho imparato proprio subito, i profes-
sori sono rimasti sbalorditi, anche alle medie di L. dove le ho fatte. Qualsiasi
persona nuova, professore nuovo veniva alla scuola cioè mi chiamavano e mi
fa “senti questo ragazzo come parla”. Parlavo l’italiano, facevo molta fatica a
scriverlo perché voi avete le doppie …

Vediamo ora un esempio di più chiara divaricazione fra la generazione dei ge-
nitori e quella dei figli. Si tratta di due cugine cinesi di 14 anni, della provincia di
Wenzhou, abitanti a Pavia, la prima A, nata in Italia, la seconda, B, giunta in Italia a
5 anni13. Qui l’orientamento della prima generazione (i genitori) è decisamente più
conservativo che nella famiglia D, essendo per essa molto più forte il peso di L1 (i
genitori parlano quasi sempre dialetto cinese in casa). Per contro entrambe le cu-
gine, che conoscono bene l’italiano, hanno sia amici italiani che cinesi, e affermano
di parlare solo italiano con fratelli e amici (pure cinesi), dialetto cinese e italiano
con i genitori. Lo shift, anche intraetnico, è piuttosto pronunciato nei figli con i pari,
mentre per i genitori si ha un forte mantenimento di L1. Nella rete amicale legata al
Paese d’origine emergono chiare differenze fra le generazioni, che vanno nello
stesso senso di quanto appena detto, con possibili situazioni “miste” (alternanze e
commutazioni di codice) fra adulti e minori:

13
Dati raccolti e trascritti da Nicoletta Chiapedi (2001/2002, pp. 108, 114-115).
140 MARINA CHINI

(6) INT i vostri genitori hanno degli amici cinesi qua in Italia?
A sì sì ehh… almeno i miei hanno degli amici cinesi magari la maggior parte
sono a Milano […] allora magari a volte ci rincontriamo tutti per andare in va-
canza insieme … è già successo moltissime volte… cioè i miei stanno con i
loro amici mentre io sto con i loro figli che ormai sono diventati anche miei
amici […] con loro parlo italiano perché anche loro parlano l’italiano come me
e poi… e poi frequentano anche loro scuole italiane
INT ma se per esempio siete a cena … appunto con questi amici… sia gli adulti che
voi ragazzi.. voi ragazzi parlate in italiano e gli adulti in cinese?
B sì [ride]
INT e gli adulti con i ragazzi?
A ehh a volte.
B un misto

Per A, sinofona nata in Italia, dunque di seconda generazione, l’esposizione


all’italiano è iniziata presto, non tanto in famiglia, ma tramite persone che la accu-
divano intanto che i genitori lavoravano.

(7) A io invece sono nata qua non ho avuto nessun problema … perché.. i miei geni-
tori con me parlavano in dialetto [cinese] però siccome... per lo più delle volte..
cioè sono stata tra virgolette affidata a dei loro clienti italiani di cui si fida-
vano.. molto... ecco.. che sono diventate tra virgolette mia nonna e mia zia e..
niente.. loro... con loro parlavo italiano e passavo più... la maggior parte del
tempo con loro e quindi parlavo più italiano che cinese

Per la cugina B la fonte principale dell’italiano è stata la televisione e la stessa


cugina cinese A nata in Italia, che è stata la sua prima informale maestra:

(8) INT quando sei venuta in Italia avevi 5 anni… quando sei arrivata come hai fatto a
imparare l’italiano?
B l’ho imparato... guardando la TV... poi parlando con lei che parlava già ita-
liano.. non ho preso corsi… cioè poi mi ricordo che quand’ero piccola all’asilo
per esempio era in inverno io e A andando a scuola trovavamo delle cose tipo
un albero.. e lei diceva “albero” e allora io imparavo la parola

Spesso in famiglie cinesi (ma talora anche in nuclei arabofoni) si attesta fra
genitori e figli una simile differenza nell’orientamento linguistico (e talora cultu-
rale), oltre che nelle competenze linguistiche: se la rete legata ai genitori è quasi
impermeabile alla lingua del contesto di arrivo, quella dei figli, che pur usano L1
con i genitori, appare più orientata verso l’italiano, lingua in cui i figli sono molto
più competenti dei genitori.
In nuclei di origine latino-americana la differenza fra lingua e cultura di par-
tenza e d’arrivo è potenzialmente più ridotta. Il vissuto testimoniato nelle interviste
è comunque molto diversificato e dipende anche dal livello culturale ed economico
dei genitori. Fra le tante ricordiamo qui l’intervista a una famiglia ecuadoriana (B),
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 141

ispanofona, di buon livello culturale, giunta in Italia da 5 anni (non per motivi eco-
nomici), residente in una frazione di un comune vicino a Pavia. Il padre è ingegnere
navale (ROC), la madre infermiera (PAU); la figlia di 13 anni (DAN), molto inte-
grata nel villaggio, è assente per vacanze al momento dell’intervista14. I genitori af-
fermano che fra loro parlano spagnolo, con la figlia soprattutto in spagnolo, ma an-
che in italiano (e talora in inglese), mentre riferiscono che la figlia usa spesso
l’italiano con i genitori ed è intenzionata a restare in Italia. Emerge pure un’apertura
culturale della famiglia al plurilinguismo, che porta a includere nel repertorio fami-
liare pure l’inglese (che in Ecuador si studia fin dalle scuole primarie), fatto non
molto comune nei dati finora raccolti fra ispanofoni.

(9) INT ? E oggi come oggi parlate più italiano o spagnolo?


PAU italiano penso perché non conosciamo altre persone che parlano spagnolo poi
poi mia filia a cas(s)a + ci parla in italiano anche se + si sa parlare e scrivere lo
spagnolo perfettamente però più parla in italiano +++ noi le le rispondiamo
&en espagnolo&
ROC &lei ci chiede a noi in italiano quasi tutto e: +++ noi lo rispondiamo en espa-
gnolo&
INT ? però voi l’avete abituata=
PAU =&a tutti e due che non voliamo che perda&
ROC &a tutti e tre a tutti e tre perché noi tanto quanto qua studia noi pensiamo che
l’italiano è una lingua che sirve solo en Italia e no en altra parte del mondo ++
e quindi con una mentalità aperta uno deve:: intentare fare che l’inglese sia la
sua prima lingua è ++ e quindi:: ++ lo forsiamo molto all’inglese + molto
molto

Altre famiglie latino-americane, talora di livello culturale inferiore, mostrano


una forte conservazione dello spagnolo in casa (e non solo), specie per quanto ri-
guarda la prima generazione, e varietà (anche più) interferite di italiano, con feno-
meni descritti negli studi di Vietti (2005) sulle donne peruviane a Torino, cui ri-
mandiamo.
Pure molto conservativi sono spesso i comportamenti linguistici in famiglie
giunte dal Subcontinente indiano. Riferiamo qui il caso di un nucleo residente a Pa-
via, con padre di 45 anni (MOV), nato nel Panjab, ora lavapiatti in un ristorante, da
12 anni in Italia (prima era emigrato in Austria, Germania e Francia). A lui si sono
ricongiunti 11 anni dopo, da un anno, la moglie (nata nel Behar, nel Nord Est
dell’India) e i figli (uno di 7 anni e una figlia, GIO, di 15, nati in India)15. Il reperto-
rio di MOV è ricco e comprende ora 5 lingue, anche in seguito al lungo soggiorno
in aree tedescofone (fra cui Bolzano):

14
Dati raccolti e trascritti da Roberta Portalupi (2003-2004, p. 101).
15
Dati raccolti e trascritti da Alessandra Cappellino (2004/2005, p. 239).
142 MARINA CHINI

(10) MOV io conosce ehm inglese italiano hindi lingua mia panjabi anche un po’ parla te-
desco perché Bolzano parlano tedesco e: altri no sono cinque lingue

MOV ha appreso l’italiano (che conosce in una varietà sostanzialmente basica)


in modo spontaneo, dal contatto con italofoni; sul lavoro dice di sentire spesso an-
che i dialetti napoletano e pavese, di cui comprende alcune parole. Usa di norma
l’italiano fuori casa e il panjabi con i familiari, giunti da poco in Italia, e con gli
amici connazionali. La figlia GIO, da un anno in Italia, frequenta un corso intensivo
di italiano e con la madre parla in panjabi o in hindi, mentre con il padre e il fratello
usa anche italiano e inglese; fuori casa, oltre all’italiano, parla inglese, specie con
alcune compagne filippine. La sua rete amicale è mista, ma non comprende ancora
amici italiani (anche perché frequenta solo un corso per stranieri). Il suo è un vis-
suto plurilingue, in cui l’italiano si va facendo strada (parallelamente al desiderio
dichiarato di rimanere in Italia), anche se in famiglia domina L1, mentre per la ma-
dre l’orientamento verso il repertorio linguistico d’origine è tuttora dominante (ri-
cordiamo che l’esperienza di immigrazione delle due è ugualmente recente, ma il
loro atteggiamento linguistico pare diverso):

(11) INT e ti capita di usare: ad esempio più di una lingua: ehm quando parli con qual-
cuno magari con la tua famiglia? # parli sempre e solo in una lingua: o cambi
tante volte?
GIO ehm cambi perché mia mamma anche lei la sa hindi e poi con lei anche parlo in
hindi oppure con mio papà in italiano anche con mio fratello in italiano oppure
in inglese
INT dipende dalle situazioni?
GIO sì dipende […]
INT ho capito # e:: quindi anche la tua lingua materna usi?
GIO sì anche la mia mat- ehm lingua materna ma di più uso: la mia lingua materna
INT di più in assoluto dici
GIO sì perché a: anche mia madre non capisce italiano anche lei non capisce più
bene italiano e poi devi usare: la mia lingua materna

Terminiamo con due casi africani in cui l’italiano pare quasi assente dal conte-
sto familiare, pur dopo anni di soggiorno in Italia. Dapprima vediamo il caso di
SAA, ragazzo egiziano emigrato a 12 anni e giunto in Italia da quasi 6 anni (ora è
diciottenne); la sua famiglia è composta da madre e quattro fratelli (di cui una è
sposata in Egitto).

(12) INT Nella tua famiglia che lingua usi?


SAA l’arabo
INT sempre l’arabo? Non capita mai di usare l’italiano?
SAA sì, a volta con mio fratello così, però fuori da casa
INT e usi il dialetto egiziano?
SAA sì sì anche, tutte e due. Sia il dialetto egiziano che l’arabo ufficiale […]
INT e tua madre parla…
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 143

SAA no, parla solo egiziano

L’italiano penetra dunque in parte nel discorso rivolto ai fratelli, ma solo fuori
casa. Per il resto in casa domina la varietà nativa di arabo (“dialetto egiziano”),
unico idioma parlato dalla madre. Il ragazzo usa talora anche la varietà alta (“arabo
ufficiale”), quando si trova al Cairo o in altre città del Paese d’origine. Come molti
arabofoni (Cuzzolin, 2001), SAA nutre un atteggiamento positivo verso di essa, ne-
gativo verso i dialetti arabi, ritenuti fattori di divisione nel mondo arabo e poco utili
(“voglio dimenticare il dialetto perché sicuramente non serve a niente”).
Concludiamo questa rapida carrellata con una famiglia senegalese, giunta in
Italia in diverse tappe: nel 1988 arriva il padre, primomigrante, nel 2000 arrivano la
madre (M) con una figlia (di 3 anni, ora di 13), poi giungono la figlia K, ora di 24
anni, e un figlio ora di 20; una figlia (ora di 10 anni) nasce invece in Italia. Pure in
questa famiglia la L1, il wolof, è molto usata, accanto al serere, “dialetto” della ma-
dre16 e l’italiano penetra quasi solo nella generazione dei figli. La madre, che si dice
orientata a tornare un giorno in patria, parla una varietà elementare di italiano e ri-
sponde spesso a monosillabi.

(13) INT In famiglia quale lingua prevale?


K: wolof
INT e l’italiano, lo parlate?
K In famiglia,…. no, magari lo parlano le mie sorelle tra di loro, però in famiglia
parliamo wolof. Magari fuori con gli amici, eccetera … in famiglia parliamo
wolof […]
INT Vi dispiace che i vostri figli più piccoli non sappiano bene la vostra lingua
d’origine?
M Loro parlano tutti e due … Quanto parlano con me loro parlano wolof sempre.
Anche a mio marito parlano sempre wolof… Loro due parlano sempre italiano
INT E questa cosa Le dispiace che parlino italiano tra loro due?
M: No
INT La vede come una cosa normale…
M sì

Nello stesso nucleo e anche fra fratelli gli usi linguistici preferenziali risultano
dunque talora parecchio diversi, in particolare a seconda dell’età dell’arrivo in Ita-
lia: le lingue del repertorio d’origine, oltre che dai genitori, sono mantenute in fa-
miglia soprattutto dai figli giunti in Italia più grandicelli, mentre uno shift verso
l’italiano è riportato per i figli più giovani o nati in Italia, nel discorso fra loro e an-
che con gli amici, fuori casa.

16
Dati e trascrizione sono di Erika Bin (2012/2013, pp. 133, 135).
144 MARINA CHINI

5. CONCLUSIONI
In questo lavoro abbiamo messo in luce alcuni aspetti quantitativi e qualitativi
degli usi linguistici di immigrati e dei loro figli in famiglia e nelle reti amicali. Il
panorama è davvero molto differenziato, anche perché i soggetti sono presenti in
Italia da un numero variabile di anni e hanno alle spalle vissuti migratori e sociolin-
guistici, livelli culturali e atteggiamenti diversi. Non abbiamo potuto che offrire al-
cune linee di tendenza, a livello quantitativo, e alcuni specimen discorsivi a livello
qualitativo, senza poterli analizzare nel dettaglio. Confrontando gli esiti di queste
indagini, quantitative e qualitative, per lo più successive a quella del 2002, emer-
gono alcuni sviluppi e alcuni elementi costanti rispetto a quella fase (cfr. Chini,
2003 e Chini, 2004, capp. 8-9).
A livello quantitativo da un lato si conferma e si accentua la differenza (certo
non assoluta) fra le scelte di lingua dei figli con i genitori (che per lo più proven-
gono dalla stessa area geolinguistica) e quelle dei figli con fratelli e amici conterra-
nei. Con i genitori oggi poco meno della metà dei minori interpellati (nel 2002 un
po’ di più) opta per un comportamento conservatore, usando lingue diverse
dall’italiano, legate al Paese d’origine (sostanzialmente L1 ed eventualmente altre
lingue o dialetti ivi parlati), mentre con fratelli e amici connazionali il manteni-
mento delle lingue d’origine riguarda solo un terzo dei soggetti (31-32%). In Pro-
vincia di Pavia, come già nel 2002, resta importante e un po’ più diffusa in famiglia
fra i minori di origine immigrata (ma anche nei loro genitori quando si rivolgono ai
minori; cfr. Chini, in stampa a, in stampa b) l’opzione bilingue, L1 + italiano (37-
38% nel 2002 e 2012), che indicizza verosimilmente un vissuto, non troppo con-
flittuale, all’insegna delle due (o più) lingue e culture che hanno contrassegnato il
percorso di questi migranti e dei loro figli. Nel frattempo è decisamente cresciuta la
porzione di chi attua un completo shift (intraetnico) verso l’italiano (anche) con
fratelli e amici connazionali (con i fratelli a Pavia dal 20% del 2002 al 32% del
2012; con “amici non italiani” a Pavia dal 25% del 2002 al 37% del 2012, con
amici connazionali in Italia); tale shift con i genitori era ed è invece un’opzione mi-
noritaria, pur in lieve ascesa (dall’11-16% del 2002 al 15-18% del 2012), più con il
padre che con la madre.
Non si sono potuti qui indagare i vari fattori che incidono su tali scelte. Altre
nostre indagini hanno evidenziato il peso del luogo di nascita (Italia o estero) e del
sesso. Ad esempio un minore nato all’estero ha una probabilità più che doppia che
il padre parli con lui/lei solo altre lingue (fra cui L1), cioè non l’italiano, rispetto a
un minore straniero nato in Italia; con i nati in Italia, poi, la scelta del solo italiano
da parte dei fratelli è quasi una volta e mezza più probabile che con i nati all’estero
(Chini, in stampa a). L’indagine qualitativa pare confermarlo e indicare che
l’opzione frequente per l’italiano in famiglia è favorita non solo fra i nati in Italia,
ma anche fra chi vi è giunto negli anni dell’infanzia o della scuola dell’obbligo (il
che rimanda al ruolo del fattore “età di arrivo”). Quanto al sesso, per es., sia padri
che madri optano per scelte bilingui più con le figlie che con i figli maschi (come
SCELTE DI LINGUA E RETI AMICALI DI RAGAZZI 145

già nel 2002, cfr. Chini, 2009b; per il 2012, cfr. Chini, in stampa a).
Nelle reti amicali di connazionali (la sola) L1 è mantenuta in un terzo dei casi,
una porzione significativa, ma minoritaria, del campione (quanto nel discorso ri-
volto ai fratelli), mentre per i restanti casi l’italiano penetra negli scambi amicali
come codice unico (37%) oppure affiancato da L1 (31%; cfr. tab. 11). Tali quote ci
paiono segnalare una fase, forse di transizione, in cui i minori di origine immigrata,
pur in genere più orientati al contesto d’arrivo dei loro genitori, adottano scelte di
mediazione fra due mondi, quello legato alla lingua di origine, che contrassegna so-
prattutto il vissuto intraetnico dei genitori, ma in parte pure le relazioni intraetniche
dei minori, e quello italiano, cui si mostrano ben disposti, adottando la lingua ita-
liana pure nei loro rapporti interni al gruppo in due casi su tre, soprattutto parlando
con i pari (fratelli e amici).
Gli esiti a lungo termine su repertori e codici di tali scelte e degli atteggiamenti
soggiacenti saranno da studiare su un arco di tempo più esteso.

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PATRIZIA CORDIN
(Università di Trento)

“With our best future in mind”. Lo sviluppo bilingue di bambini con L1


minoritaria.

1. INTRODUZIONE
È opportuno innanzitutto specificare due termini che appaiono nel titolo di
questo contributo. In primo luogo, uso “bilingue” e “bilinguismo” nella loro acce-
zione più ampia, per riferirmi a una conoscenza e a una pratica -anche fortemente
asimmetrica- di due sistemi linguistici. In secondo luogo, con l’espressione “lingua
minoritaria” indico la lingua parlata da un gruppo di persone immigrate nel corso
degli ultimi decenni in un paese dove la lingua di maggioranza è diversa dalla lin-
gua nativa del gruppo.
Il bilinguismo (o meglio il multilinguismo), inteso come conoscenza e uso -per
quanto parziali- di più lingue da parte dei figli di famiglie immigrate, ancora oggi,
dopo decenni di discussioni, esperimenti, proposte e studi sollecitati dai movimenti
migratori che in maniera massiccia hanno coinvolto -e sempre più coinvolgono-
molti paesi in tutti i continenti, appare «un approccio complesso a un fenomeno
multidimensionale»1.
Una gran parte della ricerca sul bilinguismo nei recenti processi di migrazione
ha indagato processi e proprietà dell’acquisizione della lingua di maggioranza del
paese ospite, concentrandosi spesso sui meccanismi dell’acquisizione negli adulti2.
Ultimamente vari studi hanno affrontato in modo specifico anche lo sviluppo lin-
guistico dei bambini di famiglie migranti3. Manca ancora tuttavia -soprattutto in ri-
ferimento alla situazione italiana- una visione d’insieme che riesca a collegare tra
loro le diverse analisi svolte, e soprattutto a trasformare tali analisi in proposte ap-
plicative, che permettano di agire in maniera efficace nelle differenti situazioni di
bilinguismo con L1 minoritaria.

1
Traduzione del sottotitolo del contributo di Leikin, Schwartz, Yishai, 2012: A Complex Ap-
proach to a Multidimensional Phenomenon.
2
In questa prospettiva, gli studi sull’italiano L2 sono stati introdotti e sviluppati soprattutto
dai ricercatori che hanno collaborato al cosiddetto “progetto di Pavia” sull’indagine delle interlin-
gue di immigrati. Un’utile panoramica delle ricerche condotte in quest’ambito, corredate da un ca-
pitolo di considerazioni didattiche, è presentata in Giacalone Ramat, 2003.
3
Cfr. Bialystock 2001, Cummins 2001; Durgunoglu, Goldenberg, 2001; Leikin et al., 2012;
Leseman, 2002; Lucchese, Tamis Le Monda, 2007; Oller, Eilers, 2002. In ambito italiano: Bettoni,
2005; Chini, 2004; Favaro, 2002; Pallotti, 2000; Parry, 2002; Tosi, 1995.
150 PATRIZIA CORDIN

In tale contesto, scopo principale di questo lavoro è evidenziare, collegandoli


tra loro, i vari aspetti che negli ultimi anni sono stati riconosciuti centrali per il tema
in questione. Perciò, dopo aver introdotto nel primo paragrafo una necessaria di-
stinzione tra due diversi filoni di studi sul bilinguismo infantile (bilinguismo d’élite
e bilinguismo popolare4), e dopo aver presentato nel secondo paragrafo alcuni dati
quantitativi sulla presenza nelle scuole italiane di bambini con cittadinanza non ita-
liana e sui loro esiti scolastici, nel terzo paragrafo presento i tre fattori che -alla luce
di studi recenti- svolgono un ruolo fondamentale per lo sviluppo linguistico nel
bambino con L1 minoritaria (la conservazione della lingua della famiglia, i com-
portamenti e gli atteggiamenti linguistici della famiglia, l’alfabetizzazione). Tali
aspetti ricevono un’attenzione speciale in un progetto innovativo presentato in Ontario
per l’istruzione dei bambini da 0 a 8 anni5 , di cui nell’ultimo paragrafo illustro alcune
linee guida come modello di riferimento, dopo aver accennato ad alcune esperienze
condotte in ambito italiano. Del recente progetto canadese ho ripreso anche il nome
nel titolo del mio contributo, per sottolineare l’urgenza di un intervento impegnativo,
sistematico, e soprattutto fortemente mirato alle generazioni più giovani.

2. BILINGUISMO D’ÉLITE E BILINGUISMO FOLK


La ricerca sul bilinguismo nei bambini in età prescolare ha visto negli ultimi
decenni un grande sviluppo, dovuto anche alla considerazione dei vantaggi che il
bilinguismo infantile comporta da diversi punti di vista (culturale, sociale, economico,
cognitivo). Particolarmente sviluppata è la ricerca sui vantaggi cognitivi del bilingui-
smo precoce, che mostra come nei bambini piccoli esposti quotidianamente a due lin-
gue l’abitudine all’inibizione di una delle due permetta di sviluppare una migliore ca-
pacità di controllo dell’attenzione, una più forte capacità di concentrazione e porti a
un più rapido sviluppo metalinguistico rispetto ai bambini monolingui6.
Come nota Romaine (1999), questi studi tradizionalmente si basano sulle ri-
sposte di bambini che vivono in famiglie con medio o alto livello economico, so-
ciale, culturale, esposti a due lingue diverse, spesso europee, nettamente separate
nell’uso (senza mixing), in situazioni e in paesi dove L1 e L2 sono entrambe ricono-
sciute, rientrano nei programmi scolastici, nelle comunicazioni ufficiali, nei media,
essendo impiegate sia per funzioni informali che per funzioni formali.
Decisamente diverso è il bilinguismo di bambini con famiglie immigrate:
spesso, infatti, le due lingue in gioco sono molto distanti l’una dall’altra dal punto di
vista tipologico, la L1 non è riconosciuta ufficialmente e non ha uso per le funzioni
formali. Diverso è anche il contesto socio-economico e culturale nel quale i bam-
bini crescono e sviluppano le loro capacità cognitive, e più specificatamente lingui-

4
Dal titolo del saggio di Romaine 1999: Early Bilingualism from élite to folk.
5
Pascal, 2009.
6
Sorace, 2005.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 151

stiche. È facile che i bambini in questi casi sviluppino una competenza mista, comu-
nemente considerata imperfetta, con passaggi frequenti al code-switching7. In ogni
caso, diversamente da ciò che accade nel bilinguismo d’élite, difficilmente i bambini
in simili contesti raggiungono la competenza nativa nella lingua dei genitori.
È perciò necessario affrontare i due tipi di bilinguismo infantile separatamente,
tenendo conto che i vantaggi che il passaggio tra più lingue comporta spesso non si
raggiungono in contesti svantaggiati, dove sono presenti fattori di rischio come la
povertà, il far parte di una minoranza linguistica e culturale, la bassa istruzione dei
genitori8. In tali contesti non solo i bambini non beneficiano degli effetti positivi del
bilinguismo, ma anzi si trovano spesso a sperimentare conseguenze negative nello
sviluppo linguistico e nel rendimento scolastico, come con chiarezza mettono in
evidenza Lucchese, Tamis Le Monda.

Countless studies indicate that social risk factors, such as chronic poverty and low pa-
rental education, pose serious obstacles to children’s early language development and
subsequent school performance. The long-term effects of such risks create a challenge for
remedial programs, which many times fail to succeed at the goal of “leveling the playing
field”. Because risks such as poverty and low parental education are prevalent in minority
populations, children from ethnic and racial minority backgrounds are more likely to dis-
play poor academic outcomes and school dropout than the population at large9.

Già quarant’anni fa, in un diverso contesto migratorio, simili situazioni di bi-


linguismo svantaggiato si presentavano in Europa (p.e. nei paesi come la Svizzera e
la Germania con forte immigrazione anche da paesi europei), e persino in Italia,
dove le due lingue in gioco con rapporto fortemente sbilanciato erano dialetto e ita-
liano. Sull’apprendimento linguistico dei bambini che nella scuola dovevano ap-
prendere l’italiano come L2 è stato fondamentale il contributo del GISCEL, che ha
evidenziato come lo sviluppo delle capacità verbali non può che essere promosso in
rapporto stretto con una corretta socializzazione10. Allora -come oggi- si metteva in
rilievo il fatto che le capacità linguistiche (e non solo linguistiche) dell’allievo pos-
sono essere valorizzate solo se si inizia dall’individuazione del suo retroterra lingui-
stico, culturale, personale, familiare e ambientale.

7
Romaine, 1995, propone sei tipi di bilinguismo, distinti in base al tipo di input che i bam-
bini ricevono nella famiglia e nel gruppo in cui vivono. Il sesto tipo, quello in cui i bambini sono
esposti a lingue miste, ricorre più frequentemente degli altri nelle società multilingui, dove “the
code-switching is a mode of bilingual performance which allows the bilingual to display his or her
full communicative competence.” (Romaine, 1999, p. 65).
8
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007.
9
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007, p. 1.
10
Cfr. Benincà, 1975.
152 PATRIZIA CORDIN

3. LE PRESENZE E IL SUCCESSO SCOLASTICO DEGLI ALUNNI CON CITTADINANZA NON


ITALIANA

“Alunni con cittadinanza non italiana” è l’espressione, burocratica e connotata


negativamente, che viene impiegata in diversi rapporti -nazionali e provinciali- sulla
presenza nelle scuole di bambini e ragazzi con genitori non italiani. Il sintagma è indi-
cativo dell’inadeguatezza della terminologia usata per riferirsi a questo gruppo di stu-
denti, e dell’incertezza lessicale, confermata dal fatto che accanto al lungo sintagma
ufficiale nei rapporti ministeriali, provinciali, giornalistici appaiono anche espressioni
come “bambini immigrati” e “scolari stranieri”. A tale proposito, in un documento del
Dipartimento Istruzione della Provincia autonoma di Trento leggiamo:

con molto tempo di ritardo rispetto al resto d’Europa il nostro Paese, e anche la nostra
Provincia, stanno facendo i conti con una presenza straniera nel sistema scolastico in
progressivo aumento. Ogni anno gli operatori scolastici accolgono nuovi studenti ap-
partenenti a famiglie immigrate. Un buon numero, soprattutto nella scuola dell’infanzia,
sono bambini nati in Italia, ma noi li chiamiamo ancora stranieri11.

Anche negli altri paesi europei i nomi con i quali ci si riferisce ai nuovi resi-
denti (molto spesso non ancora cittadini del paese dove sono nati) sottolineano
quasi sempre l’estraneità: foreigners, étrangers, Ausländer. Frequente è il ricorso a
sintagmi caratterizzati dalla negazione (non-national residents, non English spea-
king residents). Come osservano Extra e Verhoeven (1999, pp. 3-4), l’esclusione
concettuale riflessa nella terminologia dei discorsi pubblici deriva da un’inter-
pretazione restrittiva della nozione di cittadinanza e di nazionalità: in Europa infatti,
a differenza di quanto avviene in altri paesi con predominante immigrazione inglese
(come gli USA, il Canada, l’Australia e il Sud Africa), cittadinanza e nazionalità
sono basate sullo jus sanguinis, anziché sullo jus solis12.
Oltre ad introdurre una riflessione sul problema terminologico, la citazione ri-
portata all’inizio del paragrafo evidenzia anche che il numero degli scolari/studenti

11
Bampi, Saporito, 2008, p. 5.
12
In Austria, nella Repubblica Ceca, in Danimarca, in Germania, in Irlanda, in Italia, in
Lettonia, in Lituania, nel Lussemburgo, a Malta, in Norvegia, in Polonia, nella Slovacchia, in Slo-
venia, in Spagna, in Svizzera, in Ungheria gli alunni stranieri sono quelli che hanno genitori con
nazionalità diversa rispetto a quella del paese. In Francia e in Belgio, invece, il rilevamento della
nazionalità prende in considerazione quella dell’alunno e non quella dei genitori: è “francese di na-
scita” ogni bambino nato in Francia se uno dei genitori è nato in Francia ed è “francese per filia-
zione” ogni bambino con un genitore francese. In Inghilterra e in Olanda il censimento nazionale si
basa su categorie che non sono legate alla nazionalità, bensì al grado di appartenenza ad un gruppo
riconosciuto come “propria” comunità. In Portogallo e in Grecia i dati ufficiali rilevano nelle
scuole il gruppo culturale o la nazionalità di appartenenza degli alunni “non-portoghesi” o “non-
greci”, tra i quali vengono annoverati anche i figli degli “emigrati portoghesi o dei greci ritornati in
patria”. Cfr. il rapporto MIUR, 2008, p. 73.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 153

di famiglie non italiane è in progressivo aumento. Dati recenti mostrano che gli
iscritti alle scuole in Italia senza passaporto italiano sono quasi ottocentomila (8,4%
della popolazione scolastica complessiva)13. I più numerosi sono i ragazzi romeni
(141.050), seguiti dagli albanesi (102.719) e dai marocchini (95.912).
È decisamente aumentato anche il numero dei nati in Italia (334.284), che or-
mai rappresentano il 44,2% degli alunni con cittadinanza non italiana. In partico-
lare, nelle scuole dell’infanzia 126.000 bambini con famiglia non italiana (80,4%
del totale) sono nati nel nostro paese14.
L’aumento più significativo di alunni con cittadinanza non italiana riguarda le
scuole secondarie di secondo grado, dove dal 14% sul totale degli iscritti del
2001/2002 si è passati al 21,8% del 2011/2012, con il maggior numero di iscritti in
scuole per l’istruzione professionale (frequentate dal 39,4% del totale degli stra-
nieri) e tecnica (38,3%), seguite dalle scuole per l’istruzione liceale o artistica
(22,3%)15.
Il quadro di riferimento, tuttavia, non è completo, se ai dati relativi alle iscri-
zioni non si accompagnano i dati relativi agli esiti scolastici di questi alunni. Ri-
porto quindi di seguito i dati nazionali più recenti circa gli esiti degli alunni con cit-
tadinanza non italiana.

Percentuali degli alunni con ritardo scolastico sul totale degli iscritti - anno
scolastico 2011-12- dati italiani16.

Alunni con cittadinanza italiana Alunni con cittadinanza non italiana


Primaria 0,8% 17,4%
Secondaria I grado 4,8% 46,0%
Secondaria II grado 24.6% 68,9%

13
Il rapporto MIUR-ISMU “Alunni con cittadinanza non italiana. Approfondimenti e analisi.
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nanza non italiana iscritti nelle scuole di vario grado, in gran parte concentrati nelle regioni del
centro Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna) e nel Lazio. I dati mostrano un au-
mento sensibile negli ultimi dieci anni: nell’anno scolastico 2001-2 gli alunni con cittadinanza non
italiana iscritti alle scuole di vario ordine erano 196.414 e rappresentavano il 2% della popolazione
scolastica complessiva.
14
In alcune regioni la percentuale è più alta: oltre 87% in Veneto, nelle Marche 85%, in
Lombardia 84% (cfr. il rapporto MIUR-ISMU 2013).
15
Rapporto MIUR-ISMU 2013.
16
Sono riportati qui e nella tabella successiva gli ultimi dati nazionali disponibili circa gli
esiti scolastici degli alunni con cittadinanza non italiana; cfr. il rapporto MIUR - Servizio Statistico
Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, anno scolastico 2011-2012. Nella tabella riferita
agli alunni ripetenti i dati del MIUR disaggregati per classi sono stati aggregati per scuola primaria
e secondaria di I e II grado.
154 PATRIZIA CORDIN

Percentuali degli alunni ripetenti - anno scolastico 2011-12 - dati italiani

Alunni con cittadinanza italiana Alunni con cittadinanza non italiana


Primaria 0,2% 1,2%
Secondaria I grado 3,4% 8,0%
Secondaria II grado 5,9% 7,7%

Un altro confronto tra iscrizioni ed esiti scolastici di alunni con cittadinanza


non italiana, riferito all’anno scolastico 2007-8, è presentato di seguito
relativamente a una provincia del Nord (Trentino), dove si registrano percentuali
molto alte di iscrzioni di questi alunni nelle scuole di ogni ordine17.

Percentuali degli alunni con cittadinanza non italiana iscritti alle scuole del
Trentino.
Femmine Maschi Stranieri18 Iscritti Percentuale
Scuola infanzia 629 737 1366 15862 8,61%
Primaria 1344 1425 2769 26641 10,39%
Secondaria I grado 797 991 1788 15711 11,38%
Secondaria II grado 604 435 1039 19749 5,26%
Formazione
professionale 307 500 807 4459 18,10%
TOTALE 3681 4088 7769 77963 9,96%

Percentuali della regolarità19 degli alunni con cittadinanza non italiana iscritti
alle scuole del Trentino.
Scuola primaria
Regolari 1classe 2 cl. 3 cl. 4 cl. 5 cl.
Studenti con con cittadinanza
italiana 97,60% 98,03% 98,04% 98,50% 98,41%
Studenti con cittadinanza
straniera 87,77% 83,40% 78,08% 76,08% 71,14

17
Bampi, Saporito, 2008.
18
Qui e nella tabella successiva del rapporto il termine “stranieri” è usato dagli autori, a con-
ferma dell’incertezza lessicale nel riferirsi a questo insieme di alunni.
19
Frequenza della classe scolastica prevista in un percorso regolare di studi, in base all’età
dell’alunno.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 155

Scuola secondaria I grado


Regolari 1 cl. 2 cl. 3 cl.
Studenti con cittadinanza
italiana 96,24% 94,64% 93,16%
Studenti con cittadinanza
straniera 58,23% 49,74% 48,74%
Scuola secondaria II grado
Regolari 1 cl. 2 cl. 3cl. 4 cl. 5 cl.
Studenti con cittadinanza
italiana 85,57% 83,50% 78,18% 79,10% 78,50%
Studenti con cittadinanza
straniera 45,59% 34,67% 30,77% 33,33% 32,29%
Formazione professionale
Regolari 1 cl. 2 cl. 3 cl.
Studenti con cittadinanza italiana 54,95% 54,84% 50,05%
Studenti con cittadinanza straniera 16,91% 12,90% 13,43%

I dati riportati -nazionali e provinciali- mettono in risalto due elementi: a. il


numero significativo di presenze di alunni con cittadinanza non italiana in tutte le
scuole; b. il divario sensibile, che tende ad aumentare con il progredire della scola-
rità, tra le due tipologie di studenti considerate per quanto riguarda il successo sco-
lastico. Su questo aspetto, in un rapporto del MIUR si legge:

Dai dati disponibili non è possibile avere certezze sulle ragioni che stanno alla base di
questo divario dei livelli di successo, ma indubbiamente ad esso concorre anche
l’anzianità di scolarizzazione degli stranieri, intesa come tempo trascorso all’interno del
nostro sistema scolastico. Si può ipotizzare anche che tra le cause del minor successo
scolastico vi sia il non adeguato possesso della competenza linguistica. Ma potrebbero
concorrere a questi risultati finali le condizioni sociali e culturali20.

Il mancato successo di un’ampia tipologia di alunni impone di ricercarne le


cause e di studiare nuove efficaci strategie di intervento. A queste domande cercano
di rispondere i due paragrafi che seguono.

4. RICONOSCERE LE CAUSE

Despite obvious commonalities among factors affecting the lexical knowledge of the
immigrants’ children, it is important to stress that the magnitude and strength of these

20
MIUR, 2008, p. 65.
156 PATRIZIA CORDIN

factors tend to vary from one immigrant population to another. In most situations the
extent of L1/L2 knowledge is likely to be related to a complex interaction of many so-
cio-cultural and socio-linguistic variables reflecting the unique context of each immi-
grant population21.

L’autrice evidenzia la necessità di superare il concetto di un unico insieme in-


distinto di immigrati, e di essere sensibili alle specifiche situazioni e caratteristiche
delle diverse comunità. Tenendo conto delle particolarità di ogni situazione, nel fo-
calizzare gli esiti scolastici dei bambini con L1 minoritaria, si possono tuttavia rico-
noscere alcuni fattori comuni, che in modo rilevante incidono sullo sviluppo lingui-
stico -e più in generale cognitivo e relazionale negli scolari con L1 minoritaria.

4.1. Il ruolo della L1


Per i bambini di L1 minoritaria è necessario apprendere la lingua maggioritaria
del nuovo paese. Oltre a questo bisogno, tuttavia, è ormai comunemente ricono-
sciuto che i bambini di famiglie immigrate hanno anche l’esigenza di non perdere la
lingua e la cultura di origine22. Come notano Lucchese e Tamis Le Monda, lo svi-
luppo linguistico del bambino è fortemente radicato nelle interazioni che si svilup-
pano spontaneamente all’interno della famiglia.

Early language development is rooted in the interactions children have with their par-
ents, significant care givers, child care providers, and peers. These early social ex-
changes both foster developing language skills and provide a vital foundation for chil-
dren’s school readiness and academic achievement23.

Per mantenere viva la lingua d’origine non basta tuttavia al bambino la con-
versazione casalinga e quotidiana: servono infatti occasioni diverse di scambio co-
municativo, con interlocutori e soggetti differenti, un input linguistico variato che
stimoli la capacità di impiegare registri linguistici diversi (non formali e formali), e
il passaggio dall’oralità alla scrittura.
Gli studi condotti sul ruolo del mantenimento della prima lingua in contesti di
migrazione concordano sull’effetto positivo di tale scelta, che influisce sui risultati
nella scuola, (dove gli alunni che conservano la L1 mostrano una migliore compe-
tenza linguistica in entrambe le lingue), sull’armonia e la coesione delle relazioni
familiari, e in generale sull’equilibrio emozionale e affettivo dei bambini24.

21
Schwartz, 2012, p. 123.
22
Pallotti, 2000.
23
Lucchese, Le Monda, 2007, p. 1.
24
Cfr. Tannenbaum, 2005. Lo studio riguarda 180 adolescenti di origine russa immigrati in
Israele, le famiglie dei quali hanno mantenuto un uso costante e vario dell’ebraico. I risultati molto
positivi della ricerca sulla competenza di questi studenti sono in parte determinati dal fatto che la
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 157

Inoltre, va considerato il fatto che quando una delle due lingue cui il bambino
è esposto è una “lingua debole”25, che non ha raggiunto quantità e qualità minime di
input, si perdono quei vantaggi cognitivi che sono propri del bilinguismo precoce, e
che sono dovuti al controllo che il bambino deve esercitare per inibire l’uso di una
delle due lingue nelle diverse situazioni comunicative. Nel caso del bilinguismo con
una lingua debole ci sarebbe infatti una carenza di controllo, che porterebbe
all’inibizione incompleta di una lingua e a una specie di “covert code-switching”. Si
avrebbe cioè l’attivazione delle proprietà strutturali della lingua più forte e il mate-
riale lessicale della lingua debole, a causa dell’incapacità del bambino di inibire
l’attivazione morfosintattica della lingua dominante26.
Studi recenti mostrano che in numerosi gruppi di immigrati si verifica la ten-
denza ad abbandonare la lingua d’origine con i figli per adottare il monolinguismo
dello stato ospite27. Inoltre, nonostante numerosi paesi riconoscano il valore del
mantenimento delle lingue di origine, nella pratica quotidiana molti bambini sono
scoraggiati dall’uso della loro prima lingua durante le ore scolastiche e scarsa in-
formazione è data alle famiglie sull’opportunità della conservazione della L1 e della
sua valorizzazione28. Una politica attenta al mantenimento delle lingue d’origine dei
gruppi immigrati dovrebbe invece estendersi a tutti i settori, cominciando dalla
scuola, introducendo ore di insegnamento, almeno in alcune L1 minoritarie, favo-
rendo contatti reciproci tra immigrati e residenti, stimolando il coinvolgimento dei
genitori nelle attività scolastiche, in modo da raggiungere bambini, famiglie e co-
munità di appartenenza.

4.2. Family language policy29


Il mantenimento della L1 è fortemente condizionato dagli usi linguistici e dalle
convinzioni della famiglia in ambito linguistico. La ricerca di Tannenbaum 2005,
condotta in Israele su 180 adolescenti di età compresa tra i quattordici e i diciotto
anni, di famiglia russa, immigrati nel paese prima di compiere i sei anni, mostra il

lingua russa in Israele non viene impiegata solo per usi personali, ma anche in comunicazioni pub-
bliche, nei media, sui posti di lavoro, per produzioni artistiche e nel commercio.
25
Meisel, 2007, p. 499: “Only when children develop incomplete knowledge in one of their
language, will I refer to it as to the weaker as opposed to the stronger language. Asymmetric devel-
opment is different from the rate of acquisition of each of the languages”.
26
Meisel, 2007, p. 506; Sorace, 2005; Cummins, 2000.
27
Schwarz, 2012 a questo proposito riporta i dati di una ricerca svolta con genitori ispano-
foni in California, 2003.
28
A questo proposito Extra, Verhoeven, 1999, p. 20 osservano che avere dati aggiornati
sull’uso delle lingue d’origine tra gli immigrati in ogni Paese dovrebbe essere considerato un re-
quisito necessario per poter affrontare le questioni di base della politica linguistica nella program-
mazione dell’istruzione.
29
Family language policy è tutto ciò che riguarda “ideology, practice, management” delle
lingue all’interno della famiglia. Cfr. Schwartz, 2012, p. 131.
158 PATRIZIA CORDIN

ruolo cruciale svolto dalla cosiddetta “family language policy”, che comprende le
abitudini linguistiche praticate nella famiglia, le convinzioni dei genitori in tema di
educazione linguistica, i loro atteggiamenti nei confronti delle singole lingue in
gioco e del bilinguismo30. Il buon rendimento scolastico dei giovani russi immigrati
in Israele, il loro buon rapporto sia verso la lingua che verso la cultura del paese
d’origine, la salda relazione con i genitori sarebbero in buona parte determinati da un
atteggiamento positivo delle famiglie nei confronti del mantenimento della lingua
d’origine. La maggioranza dei giovani in questione infatti riceve un’alta esposizione
alla prima lingua in casa; spesso i genitori si adoperano perché i figli conoscano la
lingua d’origine; la lingua del paese ospite, l’ebraico, è ben conosciuta dai genitori; in-
fine gli stessi ritengono che la riuscita scolastica dei figli sia un obiettivo molto im-
portante.31 Adottando la prospettiva proposta da Shany e Geva, potremmo dire che
questo gruppo di immigrati possiede un grande capitale culturale per i figli32.
Un ruolo importante per lo sviluppo cognitivo, linguistico e per il successo
scolastico del bambino è svolto anche dall’istruzione informale che il piccolo riceve
in famiglia. Numerosi studi hanno evidenziato l’importanza delle pratiche cognitive
informali di socializzazione, come quelle che si mettono in atto nell’interazione
mamma-bambino durante il gioco, e hanno riconosciuto strategie diverse nel modo
di stimolare il bambino a seconda della classe sociale e del gruppo etnico di appar-
tenenza dei genitori. Contribuiscono inoltre allo sviluppo linguistico anche le inte-
razioni quotidiane che si svolgono nelle conversazioni in famiglia durante i pasti, o
durante altre attività svolte in casa.

The results of all these studies are quite consistent in showing 1) that informal educa-
tion or instruction practices at home predict children’s cognitive and language devel-
opment and later school achievement substantially (even if individual differences in in-
telligence are controlled), and 2) that poverty, low social class, low educational level,
traditional cultural child rearing beliefs, non mainstream cultural background, particular
religious traditions, and low-literate life styles have a pervasive influence on informal

30
In questa stessa prospettiva, De Houwer 1999 considera anche il ruolo svolto sullo svi-
luppo linguistico del bambino bilingue da un fattore che l’autrice chiama “impact belief”, che coin-
cide con la consapevolezza dei genitori circa l’effettivo influsso delle loro scelte sullo sviluppo
della lingua del bambino. De Houwer osserva che per uno sviluppo bilingue attivo l’impact belief è
necessario, accanto a un’attitudine positiva verso entrambe le lingue.
31
Le pratiche linguistiche di questo gruppo di immigrati sono riconosciute da Schwartz,
2012, p. 119 come “unique and intriguing case study of how family language policy (FLP) and
family background can enhance first language (L1; the heritage language), inter-generational
transmission and second language (L2) acquisition.”
32
“Cultural capital framework”: trasmissione delle forme di conoscenza, valori, educazione,
aspettative, beni culturali (libri, computers, certificati, diplomi, ecc.). Cfr. Shany, Geva, 2012, p. 80.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 159

education at home, leading in the end to less optimal preparation of the children for
formal schooling33.

Una particolare attenzione all’educazione linguistica del bambino nel periodo


precedente alla scuola e nei contesti extrascolastici è presente soprattutto nelle fa-
miglie con alti livelli di istruzione. A conferma di ciò, osserviamo che circa il 60%
dei genitori nelle famiglie russe immigrate a Israele, dove per i figli è stimolata la
conoscenza della L1 in tutte le sue forme scritte ed orali, svolge professioni acca-
demiche, pur mantenendo uno stato socio-economico medio-basso34. Nella stessa
direzione vanno anche i dati illustrati nel grafico seguente, dove al maggior livello
di istruzione dei genitori è collegata la maggiore crescita del vocabolario di bambini
statunitensi in età compresa tra 1 e 3 anni35.

33
Lesemann, 2002.
34
Per Schwartz, 2012, pp.129-131, il mantenimento in casa della lingua della famiglia con
istruzione alla lettura in tale lingua è, insieme all’atteggiamento positivo dei bambini per lo svi-
luppo di entrambe le lingue, uno dei due fattori che hanno più forte influsso sulla conoscenza del
vocabolario della L1 nei bambini di età scolare. Sulla conoscenza del vocabolario di L2 invece in-
cidono il livello di istruzione dei genitori, il livello di istruzione ricevuto dai bambini nel paese
d’arrivo, la durata del soggiorno nel nuovo paese.
35
Hart, Risley, 1995.
160 PATRIZIA CORDIN

Possiamo a questo punto riassumere il ruolo della FLP con le parole di Schwartz:

When immigrant families are proactive in their language policy and provide activities
in written forms of L1, the children respond by learning the language. In addition, when
immigrant families have favorable educational background obtained in the country of
origin, it is shown to benefit second generation children’s level of L2 vocabulary with-
out substantial economic support. Furthermore, the more families permit the co-exist-
ence of both languages in family language practice with the children the higher level of
L2 vocabulary mastery and the more endangered is L1 vocabulary. Finally children’s
report on FLP might become a real test of the effectiveness of this policy36.

5. ALFABETIZZAZIONE NELLA L1
L’alfabetizzazione e l’istruzione alla lettura (anche in età prescolare) fa parte
delle abitudini linguistiche familiari. Tuttavia, per l’importante ruolo nello sviluppo
linguistico del bambino che molti studi hanno riconosciuto a tale aspetto, riferen-
dosi in particolare alla lettura in famiglia, tratto il punto separatamente37.
La ricerca sugli scolari russi immigrati in Israele ha messo in risalto l’influenza
positiva che la lettura nella L1 ha per lo sviluppo linguistico del bambino. Un’altra
recente ricerca -anch’essa condotta in Israele- mostra come incida negativamente
sul bambino la totale mancanza di alfabetizzazione. Il campione esaminato è costi-
tuito da un gruppo di bambini figli di genitori immigrati provenienti da un’area ru-
rale dell’Etiopia, con tradizione orale e con un alto grado di analfabetismo38. Questi
bambini rappresentano il 10% degli scolari in Israele. Il loro insuccesso a scuola è
doppio rispetto a quello della popolazione scolastica; inoltre, un rilevante numero di
loro è inserito in programmi speciali di educazione. Nello studio condotto sul
gruppo le ricercatrici imputano l’insuccesso scolastico alla totale mancanza di alfa-
betizzazione nella lingua della famiglia: l’avvio all’alfabetizzazione avviene infatti
per questi scolari esclusivamente in ebraico. Poiché la comprensione della lettura è
compito complesso, influenzato da fattori come il riconoscimento delle parole, la
consapevolezza metalinguistica, le conoscenze culturali, le strategie di lettura, il vo-
cabolario, la conoscenza morfologica e sintattica, è evidente che i bambini di ori-
gine etiope nelle scuole israeliane partono nei confronti degli altri scolari con un
forte svantaggio, che con il passare degli anni, anziché diminuire, aumenta.

On more complex skills these children are not thriving, because, in spite of their cogni-
tive potential, they do not have sustained instructional and environmental exposure to

36
Schwartz, 2012, p. 133.
37
Lesemann, 2002.
38
Shani, Geva, 2012.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 161

cultural experiences that are needed in order to become more attuned to what it takes to
become good readers, good writers and sophisticated users of the language39.

Il crescente divario nel successo scolastico tra chi parte svantaggiato e chi no
mette in luce il fatto che per la riuscita scolastica è richiesto ben più che il possesso
di una lingua per la comunicazione. Gli studenti hanno bisogno di imparare anche le
modalità di comunicazione richieste da un continuo passaggio di confini culturali.
In altri termini, gli scolari devono imparare non solo la lingua del paese, ma anche
quella della scuola (“academic language”)40. Questa richiede non solo uno specifico
vocabolario, ma anche specifiche modalità di pensiero e di comunicazione in precisi
domini disciplinari, per eseguire compiti di analisi e di esplicitazione di significati,
per produrre testi e forme discorsive che seguono tradizioni e convenzioni signifi-
cativamente diverse dalla lingua in uso nelle comuni interazioni quotidiane.

Anche nel caso in cui i bambini siano inseriti nella scuola del paese di immigrazione
molto giovani, tra la scuola materna e le elementari, occorrono da quattro a sei anni
perché raggiungano livelli linguistici pari a quelli della media dei parlanti nativi. Tale
ritardo si manifesta soprattutto negli usi ‘cognitivo-accademici’ del linguaggio: descri-
vere accuratamente, narrare in modo preciso e chiaro, parlare di argomenti astratti, so-
stenere discussioni. È in queste aree che le competenze linguistiche dei bambini immi-
grati rimangono per anni al di sotto della media41.

Il ruolo più importante per la riuscita in questi ambiti è svolto dall’alfa-


betizzazione accademica, per la quale si intende la conoscenza del vocabolario,
delle norme dei valori e delle convenzioni caratteristiche della disciplina. Infatti
nelle classi multiculturali non è richiesta solo la competenza in diverse lingue, ma
anche in diverse “literacies”42.

6. PROGETTARE IL FUTURO
Quanto presentato nei paragrafi precedenti evidenzia come sia necessario e ur-
gente ripensare una politica linguistica per ridurre gli esiti scolastici negativi e per
valorizzare le potenzialità del bilinguismo nei bambini di famiglie migranti. Le li-
nee di intervento dovranno tener conto dei punti sopra esposti, favorendo il mante-
nimento della L1, una maggiore consapevolezza dei genitori circa le lingue e gli

39
Shany, Geva, 2012, p. 109.
40
Levin, Shohamy, 2012, p. 140, la definiscono come un tipo specifico di lingua usato nelle
classi per imparare e insegnare (nelle spiegazioni, nelle analisi, nelle valutazioni, nelle discussioni,
nei tests, nei corsi online, nei testi scolastici).
41
Sotiri, 2005.
42
Levin, Shoamy, 2012, p. 153.
162 PATRIZIA CORDIN

stimoli linguistici da usare in famiglia, e infine una maggiore esposizione dei bam-
bini, anche in età prescolare, all’alfabetizzazione, prima di tutto nella L1.
Pur avendo molti paesi lavorato in queste direzioni, sino al 2000, tuttavia, nes-
sun progetto applicato negli stati membri dell’Unione Europea era riuscito a portare
una riduzione sostanziale delle differenze di status tra le lingue del paese ospite e
quelle dei paesi d’origine43.
In Italia, in particolare, come emerge dalla citazione riportata alla fine del § 2,
rimane una forte incertezza, sia nel riconoscimento dei motivi che causano le diffe-
renze negli esiti scolastici tra scolari italiani e scolari con cittadinanza non italiana, sia
nella proposta di strategie di intervento. In diverse province sono state sperimentate
varie iniziative, spesso in modo poco sistematico e con interventi che solo raramente
erano mirati a combattere le cause prime del divario nei risultati scolastici.
Mi pare interessante a questo proposito riferire alcuni risultati di un’esperienza
di sensibilizzazione svolta in forma di focus groups, che nel 2005 ha coinvolto ge-
nitori, insegnanti e studenti a Trento44. A ognuno dei sette gruppi, formati ciascuno
da un minimo di dodici persone a un massimo di quindici45, hanno partecipato
rispettivamente: coordinatori pedagogici delle scuole d’infanzia, insegnanti per
l’educazione di adulti e nelle scuole serali, insegnanti di scuole primarie e seconda-
rie, studenti italiani, studenti con cittadinanza non italiana, genitori italiani e infine
genitori immigrati. A ogni gruppo sono state poste alcune domande sulle iniziative
scolastiche prese nella rispettiva scuola di appartenenza in favore degli alunni con
cittadinanza non italiana, sui bisogni soddisfatti e sui bisogni non soddisfatti. Al-
cune delle risposte che riferisco di seguito mostrano quali strategie sono state prin-
cipalmente adottate nelle scuole e come queste siano inadeguate per affrontare radi-
calmente la situazione di disagio scolastico descritta. Per esempio, gli studenti
“stranieri”46 riconoscono nei seguenti punti l’attenzione che la scuola di apparte-
nenza manifesta nei loro confronti: “gli insegnanti chiedono se ci sono problemi di
lingua”; “sono date spiegazioni aggiuntive dai professori quando un ragazzo stra-
niero non capisce”; “vengono proposti corsi di lingua [italiana] al pomeriggio”;
“vengono proposti corsi per alunni stranieri prima dell’inizio dell’anno scolastico”.
Ancora, alla domanda sui bisogni degli “alunni stranieri” ai quali la scuola di
appartenenza è riuscita a dare risposta gli educatori di adulti riconoscono: “alfabe-
tizzazione di base e mediazione linguistica”. I genitori italiani individuano: “alfabe-
tizzazione di base e insegnamento dell’italiano alle mamme”. Gli insegnanti elen-
cano: “realizzazione di corsi di italiano a vari livelli”; “la comunicazione in lingua
madre alle famiglie straniere”; “corsi di mantenimento della lingua di origine”. Gli

43
Romaine, 1999.
44
Cfr. Pedrotti et al., 2005.
45
L’unico gruppo anomalo è risultato quello degli studenti italiani, al quale hanno parteci-
pato solo due persone.
46
Così sono chiamati nel testo.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 163

studenti italiani riconoscono: “corsi di italiano nel pomeriggio”. I coordinatori di


scuole materne indicano: “l’apprendimento dell’italiano da parte dei bambini”;
“iniziare ad attrezzarsi per rispondere al problema comunicativo”. Infine, gli “stu-
denti stranieri” indicano: “corsi di italiano al pomeriggio”.
Alla domanda su quali bisogni degli “alunni stranieri” nella scuola di apparte-
nenza non sono state date risposte adeguate gli studenti “stranieri” indicano: “tenere
conto che gli studenti stranieri pensano in un’altra lingua anche se parlano italiano”;
“aiutare maggiormente per lo scritto”; “non perdere ore in altre materie per fare corsi
di italiano”. I genitori stranieri suggeriscono: “comprendere la differenza tra parlare
bene e scrivere bene”; “capire la difficoltà di imparare leggendo in un’altra lingua”.
Le ultime risposte riportate in particolare confermano che la scuola e le istitu-
zioni si sono occupate soprattutto dell’acquisizione dell’italiano per la comunica-
zione, trascurando altre fondamentali esigenze.

Quando si constata che gli alunni sono in grado di interagire, di comprendere semplici
ordini, di esprimere esperienze personali, cessano gli interventi di sostegno e si comin-
cia a trattarli come tutti gli altri. In realtà, è proprio allora che hanno più bisogno di as-
sistenza. Crediamo infatti che il ritardo dipenda molto dalla quantità e qualità della loro
esposizione alla lingua. Bisognerebbe allora non abbassare l’attenzione verso gli allievi
non italofoni per diversi anni, predisponendo interventi specifici per facilitare
l’acquisizione delle abilità di uso cognitivo-accademico del linguaggio: spiegazioni
dettagliate del lessico, sostenuto dall’eventuale uso di supporti didattici non verbali,
numerose verifiche della comprensione, negoziazione del significato delle parole47.

Una svolta decisa per affrontare i problemi esposti nelle pagine precedenti non
può che partire dall’educazione che i bambini ricevono sin dalla prima infanzia48.
La ricerca negli ultimi dieci anni ha visto uno sviluppo enorme degli studi
sull’importanza dell’acquisizione linguistica e degli stimoli cognitivi che vengono
dati ai bambini in età prescolare e sugli effetti molto positivi di trasformazione so-

47
Sotiri, 2005. L’autrice propone in particolare di lavorare nelle scuole sulla comparazione
linguistica, come è stato fatto in alcuni esperimenti promossi dall’Università degli Studi di Padova
e dal Servizio di Mediazione Culturale del Comune, all’interno di un progetto mirato a incorag-
giare gli alunni a sfruttare le conoscenze della propria lingua per una migliore acquisizione
dell’italiano, a partire dal riconoscimento di somiglianze e differenze tra le lingue in gioco.
48
“From the point of view of optimal child development […] what does matter […] is at
what age the child started in ECEC [early care and education centers], how many hours each week
the child is in care or education, how many years are spent in care or education before primary
school begins, what activities and social interactions the child participates in, how these activities
and interactions may foster cognitive and personal development over time, how big the groups of
children are, how many staff is available, how secure, trustworthy and stable the child’s social re-
lationships are with other children and with caregivers, and, finally, how good and available possi-
ble alternatives are (for instance, parental care).” Leseman, 2002, p. 21.
164 PATRIZIA CORDIN

ciale ed economica che i primi anni di educazione attenta allo sviluppo completo
del bambino possono avere49.
L’obiettivo di garantire a tutti i bambini sin dal primo anno di vita ricchezza e
varietà di stimoli linguistici, cognitivi ed emotivi è ciò che caratterizza un progetto di
educazione precoce presentato nel 2009 al governo dell’Ontario50. La proposta pre-
vede la costruzione di un sistema educativo continuo, cioè rivolto ai bambini da 0 a 8
anni, integrato, cioè capace di coinvolgere i genitori insieme agli educatori51, e piena-
mente inserito nella comunità, che lo conosce e che partecipa alla sua realizzazione52.
In questo progetto la formazione degli educatori risulta fondamentale per sta-
bilire un rapporto di qualità con i bambini. Infatti:

the importance of a high degree of professionalism of the intervention agents (nurses,


teachers) can be interpreted as referring to the need for high quality interactions, sensi-
tive responsiveness and secure stable social relations. Furthermore, targeting multiple
systems, involving the parents and addressing the family’s other support needs, and
continuing the intervention into elementary school, matches the principles of coherence
and continuity between simultaneous and successive contexts of development53.

Per ottenere un gruppo di educatori preparati è necessario anche creare stimoli


per favorire la partecipazione alle scuole di formazione da parte di studenti di di-
verso genere e di varia provenienza etnica54. Un grande investimento culturale ed
economico diretto alla formazione “alta” degli educatori richiede infatti professio-
nalità, lavoro di squadra e -non ultima- l’apertura all’innovazione e alla partecipa-
zione di nuovi soggetti.

49
Pascal, 2009, p. 10, riferisce in particolare delle ricerche sul tema dell’economista James
Heckman.
50
Pascal, 2009. Il progetto trova la sua base teorica in alcune proposte presentate nei lavori di
Lucchese, Tamis Le Monda, 2007 e di Leseman, 2002.
51
“We know that children do better when parents are involved in their education, know their
educators, and keep track of what is happening in class. Research demonstrates that the most ef-
fective time to engage parents is when their children are young […]. Joint responsibility between
parents and educators is an important “difference maker” when it comes to the developmental pro-
gress of children”. (Pascal 2009, p. 29).
52
Per esempio, per aiutare nell’insegnamento di L1. Data la presenza di molte diverse prime
lingue è difficile trovare risorse per il personale adatto. Possono in questo caso essere sperimentate
strategie alternative, come il coinvolgimento dei genitori e di rappresentanti delle comunità socio-
linguistiche.
53
Leseman, 2002, p. 41.
54
Cfr. Pascal, 2009, p. 35.
“WITH OUR BEST FUTURE IN MIND” 165

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TRAUTE TAESCHNER - SARA POLIANI - SABINE PIRCHIO
(Sapienza Università di Roma)

Saper narrare a due anni

1. INTRODUZIONE
La letteratura internazionale riporta numerose evidenze che i bambini che
presentano un ritardo del linguaggio in età precoce sono a rischio per successivi
problemi specifici del linguaggio (Bishop, Edmundson, 1987; Rescorla, Schwartz,
1990; Thal, Bates, 1988). Come è noto, il ritardo del linguaggio rappresenta uno
tra i motivi più frequenti di consultazione clinica in età prescolare ma, ancora trop-
po spesso, esso è stato considerato e trattato come una condizione omogenea,
transitoria e a prognosi sempre favorevole. È invece ormai sufficientemente di-
mostrato che un ritardo nello sviluppo del linguaggio può celare problemi clinici
complessi e di natura diversa (sensomotori, cognitivi, relazionali) costituendone
una tra le più precoci manifestazioni; è inoltre opportuno ricordare che un disor-
dine linguistico rappresenta sempre un fattore di rischio per lo sviluppo cognitivo
e psicoaffettivo del bambino, data la funzione di mediazione e integrazione della
vita mentale che il linguaggio svolge sin dalle prime fasi della sua acquisizione
(Rutter, Lord, 1987).
I criteri che permettono una diagnosi di ritardo di linguaggio nei bambini pic-
coli sono molto controversi, così come non appare univoca la definizione della fa-
scia di età in cui tale problema possa essere accertato. Molti autori concordano con
la necessità di considerare l’ampiezza del vocabolario espressivo e la capacità di
produrre enunciati di più parole come uno degli indici più stabili per la definizione
del ritardo. Ad esempio Rescorla (1989) definisce ‘parlatori tardivi’, quei bambini
che a 24 mesi presentano un lessico inferiore a 50 parole e un’assenza di combina-
zioni di parole; Paul (1991) considera in ritardo i bambini con meno di 10 parole fra
18 e 23 mesi e con un vocabolario inferiore a 50 parole a 23 - 24 mesi; Thal (2000)
invece identifica come in ritardo quei bambini che a 18 - 29 mesi presentano un re-
pertorio lessicale inferiore al 10° percentile per la loro età, e nessun enunciato di
due o più parole. È evidente che gli studi citati fanno riferimento essenzialmente ad
indici relativi al dominio della produzione del linguaggio ed è a questi che molti
clinici ricorrono per il riconoscimento dei bambini parlatori tardivi.
La domanda di diagnosi e assistenza in genere che i piccoli pazienti pongono è
lievitata notevolmente in questi ultimi anni, soprattutto nell’area dello sviluppo lin-
guistico. Il problema, del resto, non riguarda solo l’accertamento del ritardo ma an-
che e soprattutto l’intervento. L’età tra i 24 e i 36 mesi è la migliore per identificare
i bambini con problemi dello sviluppo comunicativo-linguistico e mettere in atto
interventi educativi, psicologici e riabilitativi in grado di prevenire disturbi futuri.
168 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

In tale ottica il presente lavoro ha l’intento di offrire un contributo alla proget-


tazione di interventi terapeutici e preventivi sulla base di una ricerca empirica teori-
camente fondata. A questo scopo si ribadisce la consapevolezza dell’importanza di
mettere in atto un intervento tempestivo: un trattamento volto a stimolare lo svi-
luppo comunicativo - linguistico di un bambino con un ritardo di linguaggio diventa
essenziale per evitare di dover affrontare situazioni più complesse in futuro.
L’intervento precoce eseguito entro i 36 mesi di età ha come obiettivo generale,
quindi, la riduzione del rischio che il ritardo di linguaggio possa consolidarsi in-
torno ai 3 anni, un’età in cui la compromissione delle aree linguistiche legate alla
fonologia, alla semantica, alla morfosintassi e alla comprensione morfosintattica lo
definisce come disturbo specifico di linguaggio (DSL).
Per raggiungere i migliori risultati è indispensabile che si mobilitino e si inte-
grino le due strutture educative naturali del bambino: la famiglia e il nido. Solo con
la proficua e costante collaborazione tra genitori ed educatori sarà possibile ottenere
il massimo recupero. Il bambino trascorre la maggior parte del suo tempo quoti-
diano all’interno di queste strutture e forma i propri atteggiamenti, valori e com-
portamenti sui modelli che esse propongono. È, quindi, solo al loro interno che egli
potrà ricevere stimoli e opportunità per superare il suo problema linguistico-comu-
nicativo. Qualsiasi intervento che non tenga conto e non si avvalga di queste due
fondamentali forze risulta limitato e riduttivo (Bickel, 1989).
Con l’intervento tramite il nido:
˗ si garantisce al bambino la fruizione di servizi efficienti all’interno del suo
ambiente naturale;
˗ si erogano servizi per un numero molto maggiore di casi rispetto
all’intervento nel solo contesto familiare;
˗ si effettua effettivamente quell’opera di prevenzione terziaria, educativa,
volta a superare, o quanto meno a minimizzare, il disadattamento del
bambino.
Gli interventi che si possono mettere in atto nei casi di ritardo o di atipía del
linguaggio nei bambini di età compresa tra i 18 e i 36 mesi sono essenzialmente
volti a modificare le cause ambientali del disturbo. Nelle situazioni di minor gravità
può essere sufficiente, per risolvere il problema, rimuovere i fattori d’interferenza
negativa e favorire un’adeguata stimolazione linguistica nell’asilo; nei casi più
gravi si dovranno prevedere anche approfondimenti clinici e trattamenti specifici
riabilitativi presso i servizi territoriali per l’infanzia.
Un asilo nido, quindi, opportunamente sensibilizzato e preparato, può costi-
tuire un contesto idoneo per la prevenzione dei disturbi della comunicazione e del
linguaggio e per il loro recupero precoce. Come già precedentemente accennato, il
confine tra sviluppo tipico e segnali di sviluppo patologico in età evolutiva sono
spesso incerti, pertanto è importante pensare ad interventi flessibili, che abbiano la
caratteristica della gradualità fra aspetti pedagogici ed aspetti terapeutici veri e pro-
SAPER NARRARE A DUE ANNI 169

pri, così come si è rivelato l’intervento attraverso il modello glottodidattico utiliz-


zato nel presente studio.
Uno dei problemi maggiori nell’intervento di educazione linguistica nel nido è
dato dal fatto che per norma in Italia vi è un educatore per 6/8 bambini e quindi ci
troviamo in un rapporto adulto-bambino in cui un adulto è tenuto ad interagire
contemporaneamente con vari bambini, venendo pertanto a soffrire il rapporto dia-
dico (un adulto con un bambino) necessario ad innescare e a sviluppare il buon pro-
cesso di acquisizione del linguaggio. Infatti, come sappiamo, il linguaggio viene
naturalmente acquisito col suo uso all’interno di un contesto relazionale ed intera-
zionale con determinate caratteristiche (Bruner, 1975). Numerosi studi hanno mo-
strato che l’interazione sociale precoce tra il bambino e gli adulti che si prendono
maggiormente cura di lui -generalmente i genitori- costituiscono il “contesto neces-
sario” all’interno del quale i segnali comunicativi e i significati che essi esprimono
divengono progressivamente convenzionali (Caselli, Casadio, 2002). Sono stati in-
dividuati diversi stili di interazione comunicativa che, insieme alle caratteristiche
individuali, proprie di ciascun bambino, influenzano il modo e i tempi in cui si rea-
lizza il primo sviluppo comunicativo e linguistico. In particolare, Cross (1987) ha
messo in luce come uno stile altamente direttivo da parte del genitore risulti negati-
vamente correlato con lo sviluppo del linguaggio e come, al contrario, uno stile
centrato sul bambino ne promuova l’acquisizione. È questo il caso in cui il genitore
riprende ciò che il figlio dice ed esplicitamente interpreta, amplia e arricchisce
l’informazione spesso parziale e nebulosa prodotta dal bambino. In questo modo of-
fre al piccolo interlocutore un modello all’interno di uno scambio conversazionale e
di un preciso contesto.
Studi italiani che hanno analizzato lo stile comunicativo madre-bambino in
relazione al primo sviluppo lessicale hanno messo in evidenza come la capacità di-
mostrata dalla madre di adattare i propri interventi comunicativi al figlio, fornendo-
gli descrizioni, denominazioni, espansioni e parafrasi, correli positivamente con
l’ampiezza del vocabolario prodotto dal bambino (Longobardi, 1992; Camaioni,
1993). Di questo adattamento fa parte anche il tipo di input linguistico che l’adulto
usa quando parla ad un bambino piccolo. È stato dimostrato, infatti, che gli adulti
modificano diversi aspetti del linguaggio nel momento in cui si rivolgono ai bam-
bini: usano, ad esempio, una prosodia spesso esagerata (per catturare e mantenere
l’attenzione del piccolo), un lessico ridotto e legato all’esperienza concreta del
bambino, frasi semplici e brevi da un punto di vista sintattico, numerose ripetizioni,
una modalità di produzione più lenta e fluente con pause del discorso più lunghe.
Quindi il linguaggio prodotto in questa situazione è molto diverso da quello comu-
nemente utilizzato in una conversazione tra adulti, tanto da identificare uno speciale
codice linguistico denominato motherese (Fernald, Simon, 1984; Snow, 1977;
Wells, Robinson, 1982).
Adeguare quindi gli stili comunicativi dell’adulto a quelli dei bambini e osser-
vare gli stili che i bambini utilizzano nella relazione con l’adulto, è sicuramente un
percorso privilegiato per migliorare la comunicazione con loro.
170 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

Il modello di insegnamento linguistico del Format Narrativo (Taeschner,


1986), è impiantato sulla natura del processo di acquisizione del linguaggio e su
come esso si configura e si evolve nel bambino inserito in un contesto di interazione
sociale particolare per le condizioni tipiche della vita di relazione che ha luogo a
scuola, dove i bambini interagiscono con uno o più adulti in una relazione asimme-
trica per età, per numero di persone, per status, per esperienza acquisita e per cono-
scenze possedute.
Il modello applica il concetto di ‘format’ esplicitato da Bruner (op. cit.) che ri-
guarda le esperienze frequentemente ripetute e quindi di routine che adulto e bam-
bino condividono, come, ad es., l’allattamento o il cambio dei pannolini, all’interno
delle quali nascono le intenzioni comunicative che, come è noto, sono un pre-requi-
sito all’acquisizione del linguaggio (Searle, Kiefer, Bierwisch, 1980). Abbinato al
concetto di format il modello sviluppa quello della buona comunicazione (Stern,
1995; Cecchini et al., 1998) che focalizza su determinati comportamenti comunicativi
specifici ancora non linguistici, quali, ad esempio, la direzione dello sguardo e la po-
sizione del corpo, necessari per iniziare e mantenere un buon rapporto affettivo. Inol-
tre il modello utilizza il concetto di narrazione, considerato che una delle specificità
umane è proprio quella di possedere una mente narrativa (Smorti, 1996). Infine, il
modello fa largo uso di gesti che hanno la funzione di essere indizi semantici
nell’attività di comprensione e di disambiguazione dei nuovi simboli lessicali.
Il programma educativo del Format Narrativo si dipana quindi attraverso
l’utilizzo di strategie che portino allo sviluppo della buona relazione comunicativa
tra adulto e bambino come elemento chiave ed è implementato tramite attività edu-
cative artistiche quali il teatro di gruppo, la musica, il cartone animato linguistico e
il disegno. L’approccio metodologico sviluppato attraverso il format narrativo e i
relativi materiali didattici utilizzati hanno come base la narrazione; tuttavia, la me-
todologia si distingue dalle abituali attività narrative scolastiche per la sua multi-
modalità. Infatti, i gesti, le azioni, l’espressione del volto, l’intonazione della voce
utilizzati dall’adulto durante il Format Narrativo forniscono ai bambini le condi-
zioni relazionali adeguate alla stimolazione linguistica, costituite da interscambi so-
cialmente validi e dalla presenza di elementi facilitatori della comprensione e pro-
duzione del linguaggio per una migliore e più facile costruzione di significati.
Nello specifico, la realizzazione del format nell’ambiente scolastico avviene
attraverso una particolare forma di attività teatrale riconducibile a una modalità
primitiva di teatro -il teatro mimico corale- in cui tutti i bambini contemporanea-
mente impersonano tutti i personaggi, con ampio uso di espressioni mimiche e ge-
stuali. Non solo, grazie al fatto che l’insegnante si esprime con azioni, gesti ed
espressioni facciali adeguate, diventa facile per il bambino capire -e pertanto impa-
rare- le parole. Inoltre, anche se l’attività in classe è estremamente coinvolgente, sia
fisicamente che emotivamente, per facilitare la memorizzazione delle storie -e delle
strutture linguistiche con cui esse si raccontano- sono state composte canzoni che
riprendono sia la narrazione sia i dialoghi delle storie. Il libro illustrato delle stesse
storie, poi, offre al bambino l’opportunità di rivisitare la storia in una nuova moda-
SAPER NARRARE A DUE ANNI 171

lità discorsiva che gli permetterà di approfondire, disambiguare e consolidare i con-


cetti appresi. Mentre durante l’azione mimico-teatrale il bambino vive la storia in
prima persona e, attraverso il canto, viene sensibilizzata la percezione uditiva con le
relative emozioni che la narrazione suscita, con il libro illustrato e il cartone ani-
mato si offre al bambino un input percettivo-visivo e quindi la possibilità di rendere
stabili i concetti appresi anche attraverso tale canale.
Il modello del Format Narrativo è stato sperimentato inizialmente per
l’insegnamento di una lingua straniera nella scuola dell’infanzia e primaria (Tae-
schner, 1986, 2002) e successivamente anche per l’insegnamento di una lingua se-
conda a giovani immigrati (Taeschner, Rinaldi, Tagliatatela, Pirchio, 2008) e per
l’educazione linguistica (nella lingua materna) di bambini con ritardo mentale
(Lerna, Massagli, Russo, Taeschner, Galluzzi, 2006) mostrando in tutti i casi la sua
efficacia nell’innescare il processo di acquisizione linguistica.
Il presente studio si propone di sperimentare il modello del Format Narrativo
come programma di intervento linguistico per bambini parlanti tardivi all’interno
della struttura educativa del nido.
Gli obiettivi specifici dello studio sono stati:
˗ verificare l’efficacia del modello psicolinguistico del Format Narrativo
con i bambini parlanti tardivi;
˗ confrontare le abilità linguistiche e narrative tra i bambini con sviluppo ti-
pico e i bambini parlanti tardivi;
˗ mettere a confronto le abilità narrative dei bambini attraverso diverse tipo-
logie di storie.

2. METODO
Hanno partecipato alla ricerca 35 bambini di età compresa tra i 24 e i 36 mesi
frequentanti uno stesso asilo nido situato nella periferia nord di Roma; il gruppo dei
partecipanti è sostanzialmente omogeneo per quanto concerne il livello professio-
nale e il grado di scolarità dei genitori, addensandosi il primo attorno a mansioni a
carattere di libero professionista e rientrando il secondo al livello della scuola media
superiore. Il gruppo è equidistribuito per quanto riguarda le variabili età e genere
dei bambini. La situazione interna del Nido si può considerare di tipo standard in
relazione alle caratteristiche strutturali quali ampiezza, suddivisione degli spazi,
qualità e quantità del materiale di gioco, organizzazione dei vari momenti della
giornata dei bambini.
Nella prima fase dello studio (T1) è stata valutata la competenza linguistica di
partenza dei bambini attraverso il noto questionario di Caselli e Casadio (2002), Il
primo vocabolario del bambino (PVB) nella versione “Parole e Frasi”, in quanto
permette di valutare la produzione e comunicazione vocale, lo sviluppo morfolo-
gico e le combinazioni di parole e frasi.
172 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

In base ai risultati delle analisi dei questionari, i bambini sono stati suddivisi in
due gruppi: a) bambini con sviluppo tipico del linguaggio (N=18); b) bambini con
ritardo linguistico (N=17). A quest’ultimo gruppo di bambini è stata data la possi-
bilità di partecipare all’intervento sperimentale. Per motivi contingenti e logistici, 5
bambini non hanno potuto partecipare all’intervento e sono stati mantenuti nella ri-
cerca in qualità di gruppo clinico di controllo. I 12 bambini parlanti tardivi del
gruppo sperimentale sono stati esposti per un periodo di 5 mesi alle attività proposte
dal modello psicolinguistico del Format Narrativo mediamente per tre volte a setti-
mana con la loro educatrice svolgendo le prime quattro storie delle “Avventure di
Hocus e Lotus”, serie narrativa sviluppata per la realizzazione nella pratica dei con-
cetti teorici sopra esposti. Oltre all’azione teatrale, ogni racconto è stato poi cantato
nella sua modalità di mini operetta, con lo scopo di permettere al bambino di me-
morizzare in modo emotivamente coinvolgente e piacevole il lessico e le strutture
frasali. È stato chiesto, inoltre, ai genitori dei bambini, di far ascoltare il più possi-
bile le mini operette anche a casa, in modo da poter utilizzare la musica come occa-
sione di stabilizzazione del linguaggio appreso.
Alla fine dei 5 mesi di intervento (T2), a sei mesi di distanza dalla prima valuta-
zione, è stato valutato il livello di sviluppo linguistico raggiunto dai bambini dei tre
gruppi, attraverso una nuova somministrazione del PVB (Scheda Parole e Frasi) e le
prove di narrazione orale. I bambini sono stati invitati a raccontare tre tipi di storie:

˗ una storia tradizionale, la fiaba di Biancaneve, in quanto oggetto di


un’attività specifica nell’asilo frequentato dai bambini e quindi nota ai tre
gruppi;
˗ una storia illustrata su un libro a colori di sole immagini, I gattini, le quali
ricordano un’esperienza condivisa al nido dai bambini e l’educatrice. In-
fatti, durante l’anno scolastico tutti i bambini hanno avuto la possibilità di
stare a contatto in alcuni momenti della giornata con dei gattini all’interno
del giardino della scuola, e la storia riprende appunto alcune scene che
hanno già vissuto e che hanno per loro una carica emotiva;
˗ una storia di Hocus e Lotus nota al solo gruppo sperimentale.

2.1. La codifica dei dati


Sui dati raccolti attraverso le Schede del PVB sono stati condotti due tipi di
analisi: a) l’analisi della produzione lessicale e b) l’analisi della morfosintassi nei
due momenti di raccolta dei dati (T1 e T2) al fine di individuarne lo sviluppo nei tre
gruppi di bambini. A tale scopo è stato calcolato il numero di parole prodotte, il
numero di frasi prodotte dal bambino e, tra queste, quelle complete di funtori.
Tutte le storie raccontate dai bambini al T2 sono state integralmente trascritte e
successivamente analizzate e codificate. Ne è stata fatta un’analisi lessicale pren-
dendo in considerazione il numero delle parole totali (tokens) contenute nei racconti
SAPER NARRARE A DUE ANNI 173

dei bambini e delle parole diverse (types) per i tre tipi di storie. E’ stata fatta anche
un’analisi della narrazione, evidenziando il numero di episodi riportati e non ripor-
tati nei racconti, verificando così se i bambini erano in grado di narrare una storia
seguendone la sequenzialità e la strutturazione spazio temporale. Inoltre, è stata
eseguita l’analisi della struttura semantica della frase, che consente di individuare la
complessità sintattica delle frasi utilizzate dai bambini durante la narrazione. Le
frasi sono state classificate secondo i criteri di categorizzazione della struttura se-
mantica della frase che si fonda su Tesnière (1936), Parisi, Antinucci (1973) e Hel-
bing, Schenkel (1969). Secondo quest’analisi le frasi si possono suddividere in:

˗ frase nucleare completa (NC) costituita da un predicato e dagli argomenti


necessari alla comprensione del suo significato;
˗ frase ampliata (AC) costituita dalla frase nucleare e da uno o più elementi
non previsti dal predicato;
˗ frase complessa (C) costituita da due frasi nucleari con particolari rela-
zioni: le frasi inserite (INS) e le frasi relative (REL);
˗ frase binucleare (BN) formata da due strutture nucleari legate tra di loro
da un connettivo.
Nelle analisi si è anche tenuto conto degli enunciati che non sono frasi come le
parole singole (PS) e le espressioni (ES), fra cui quelle onomatopeiche.

3. RISULTATI
3.1 Analisi del PVB
È stata fatta un’analisi multivariata per valutare lo sviluppo raggiunto dai
bambini dei tre gruppi nel periodo tra T1 e T2 nella produzione di parole attraverso
i risultati del questionario PVB. Dai risultati si è evidenziato un effetto principale
del tempo (F (1,32) = 130,109, p <.001) e del gruppo (F (2,32) = 23,503, p <.001) e un
effetto di interazione (F (2,32) = 35,756, p <.001) che confermano l’utilità e
l’efficacia del modello utilizzato: i risultati dei bambini parlanti tardivi del gruppo
sperimentale migliorano in modo più consistente degli altri due gruppi successiva-
mente all’intervento (fig.1) superando quelli dei bambini del gruppo di controllo
clinico che al T1 erano invece superiori.
Lo stesso andamento si è evidenziato nell’analisi della produzione frasale: i par-
lanti tardivi del gruppo sperimentale presentano al T2 un progresso significativo in
confronto al T1 sia nel numero di frasi totali (fig. 2) sia nelle frasi complete (fig. 3).
L’analisi multivariata sulle frasi totali ha evidenziato un effetto principale del
tempo (F (1,32) = 68,120, p<.001) e del gruppo (F (2,32) = 30,595, p<.001) e un effetto di
interazione (F (2,32) = 21,143, p<.001) a favore dei bambini del gruppo sperimentale.
L’analisi multivariata sulle frasi complete mostra un effetto significativo del
174 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

tempo (F (1,32) = 57.856, p <.001), del gruppo (F (2,32) = 11,134, p<.001) e un effetto
di interazione (F (2,32) = 27,977 p <.001). I bambini parlanti tardivi del gruppo spe-
rimentale superano anche questa volta al T2 il gruppo clinico di controllo.

600

500

400

300

200

100

0
T1 T2

Sviluppo tipico Parlanti tardivi sperimentale Parlanti tardivi controllo

Figura 1:
Numero medio di parole prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi

Figura 2:
Numero medio di frasi prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi
SAPER NARRARE A DUE ANNI 175

Figura 3:
Numero medio di frasi complete prodotte al PVB da parte dei bambini dei tre gruppi

3.2. Analisi lessicale dei racconti


Dall’analisi dei tokens delle storie di Hocus e Lotus emerge una differenza si-
gnificativa tra i bambini con sviluppo tipico e i parlatori tardivi sperimentali rispetto
ai parlatori tardivi di controllo (F (2,28) = 6,088, p<.01). Il gruppo di bambini esposti
al modello del Format Narrativo producono un numero medio di parole significati-
vamente superiore rispetto ai bambini del gruppo di controllo clinico, mentre non si
differenziano dal gruppo di bambini con sviluppo tipico. In altre parole, in questa
prova, i bambini parlatori tardivi raggiungo un livello standard di acquisizione del
linguaggio, pari a quella dei bambini nella norma.
Anche per i tokens della storia nuova -I gattini- la differenza tra i gruppi è si-
gnificativa (F (2,29) = 13,744, p<.001). Tuttavia, i due gruppi di bambini parlatori
tardivi non si differenziano tra loro e hanno una produzione inferiore a quella dei
bambini con sviluppo tipico; lo stesso risultato si verifica nella storia di Biancaneve,
dove si evidenzia una differenza significativa (F (2,28) = 12,508, p<.001) a favore del
gruppo dei bambini con sviluppo tipico.
La figura 4 mostra che i bambini parlatori tardivi del gruppo di controllo pro-
ducono un numero totale di parole sempre inferiore agli altri due gruppi e poco dif-
ferenziato tra una storia e l’altra, mostrando quindi una persistente difficoltà ad im-
parare attraverso un input solo linguistico, nonostante la crescita e la maturazione
dei bambini durante i 5 mesi della sperimentazione. Al contrario, i parlanti tardivi
del gruppo sperimentale mostrano un chiaro vantaggio sui bambini del gruppo di
controllo clinico nella storia di Hocus e Lotus, appresa con strategie multimodali
che inglobano il gesto, l’azione e l’espressione del viso.
L’andamento dei bambini con sviluppo tipico ha mostrato come questi siano in
grado di raccontare grazie alla loro competenza linguistica già acquisita. Infatti sia
nella storia totalmente nuova (Hocus e Lotus) sia su quella basata su un’esperienza
vissuta (I gattini) la loro competenza cali solo leggermente e in modo no significa-
176 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

tivo rispetto nella narrazione nota (Biancaneve) che è stata loro insegnata con il solo
linguaggio, intonazione della voce e illustrazioni. In altre parole, i bambini con
sviluppo linguistico tipico riescono ad arricchire il proprio linguaggio anche solo
sulla base di racconti verbali illustrati. Bambini, invece, con poca prontezza verbale
non riescono a fare altrettanto.

Figura 4:
Numero medio di parole totali prodotte alle tre storie

Rispetto al numero di types, cioè le parole diverse presenti nel racconto, i ri-
sultati ricalcano quelli dei tokens nelle tre storie (fig. 5). Più precisamente, nella sto-
ria di Hocus e Lotus il gruppo che si differenzia (F (2,28) = 6,395, p <.005) con il mi-
nor numero di types prodotti è quello dei parlatori tardivi del gruppo di controllo.
Nella storia nuova invece è il gruppo dei bambini con sviluppo tipico che si diffe-
renzia significativamente (F (2,29) = 13,983, p <.001) con un numero di tipi di parole
superiore rispetto agli altri due gruppi. Lo stesso avviene per la storia nota con una
differenza significativa (F (2,28) = 14,204, p<.001) anche qui a favore del gruppo dei
bambini con sviluppo tipico rispetto ai due gruppi di parlatori tardivi.
Questi risultati evidenziano come l’effetto del trattamento si sia verificato
come significativo nella storia del Format Narrativo e non nelle altre prove: sulla
base di questi risultati è senza dubbio possibile formulare l’indicazione dell’oppor-
tunità di una educazione linguistica multimodale per i bambini parlatori tardivi. In-
fatti, la narrazione attraverso la sola modalità verbale con uso dell’intonazione della
voce e di illustrazioni, come avvenuta per la storia di Biancaneve, vale a dire la sto-
ria nota, porta a dei risultati soddisfacenti solo quando i bambini hanno uno svi-
luppo tipico. Quindi, nonostante il racconto di una storia con l’aiuto di figure sia un
modello bimodale, possiamo confermare che le figure sono una modalità più debole
rispetto al gesto, all’espressione mimica e all’azione. Inoltre, si è osservato attra-
verso la storia nuova, I gattini, che il passaggio dall’esperienza reale alla sua narra-
zione è molto difficile in quanto deve mettere in moto capacità astratte di categoriz-
SAPER NARRARE A DUE ANNI 177

zazione, deconstestualizzazione, formazione del concetto e del simbolo. Infatti, an-


che i bambini con sviluppo tipico mostrano prestazioni peggiori in entrambe le sto-
rie per loro non note, Hocus e Lotus e I gattini.

Figura 5:
Numero medio di types prodotti alle tre storie

3.3 Analisi della narrazione


Si è voluto, infine, esaminare se le narrazioni prodotte dai bambini contenessero
tutti gli eventi della storia, anche se riferiti con sole parole singole o con frasi sem-
plici, seguendone la sequenzialità. La menzione a tutti gli eventi e la giusta sequen-
zialità narrativa sono il perno di una narrazione, senza il quale la storia diventa in-
comprensibile.
Dall’analisi nella storia di Hocus e Lotus si è evidenziata una differenza stati-
sticamente significativa tra i gruppi (F (2,28) = 3.399, p<.05). Il gruppo di controllo
clinico, come ipotizzato, produce un numero di eventi significativamente inferiore
rispetto agli altri due gruppi, che invece riescono a riportare più della metà degli
episodi della storia (vedi fig. 6).
Anche l’analisi della varianza per la storia nuova (I gattini) ha riportato diffe-
renze significative (F (2,29) = 6,614, p<.01) tra i gruppi. Il gruppo di controllo clinico,
come si può notare dalla figura 7, anche questa volta riporta un numero inferiore di
eventi prodotti rispetto agli altri due gruppi che invece non si differenziano tra loro
citando lo stesso numero di eventi durante la narrazione della storia a loro scono-
sciuta. Mettendo a confronto questo dato con quello analizzato precedentemente del
numero medio di parole prodotte dai bambini parlatori tardivi sottoposti al tratta-
mento, si può notare un fenomeno interessante. Infatti, nonostante questi bambini
producano un numero complessivo di parole ridotto, riescono comunque a indivi-
178 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

duare i vari episodi di una storia sconosciuta, narrandone in quantità simile ai bam-
bini con sviluppo tipico. Operazione che invece non riesce altrettanto bene al
gruppo di controllo.

10
8
6
4
2
0
Sviluppo tipico Parlanti tardivi format Parlanti tardivi controllo

Figura 6:
Numero di eventi riportati nella storia di Hocus e Lotus

12

10
8

4
2

0
Sviluppo Parlanti tardivi Parlanti tardivi controllo
sperimentale

Figura 7: Numero di eventi riportati nella storia I Gattini

Nell’analisi della storia di Biancaneve, infine, i gruppi si differenziano signifi-


cativamente (F (2,28) = 4.565 con p<.05) tra loro ma in modo diverso. Il gruppo che
riporta un maggior numero di eventi è quello dei bambini con sviluppo tipico, men-
tre i due gruppi dei parlanti tardivi sono omogenei tra loro.
Riassumendo i dati esposti, anche per quanto riguarda l’analisi delle narrazioni si
è riscontrato un bilancio positivo. Infatti, i bambini del gruppo sperimentale insieme ai
bambini con sviluppo tipico hanno mostrato di essere in grado di narrare una storia in
SAPER NARRARE A DUE ANNI 179

modo adeguato, rispettandone la sequenza logico/temporale prevista e riportandone


quasi tutti gli episodi sia nella storia del format narrativo, sia nella storia nuova. Nella
storia nota, invece, solamente i bambini con sviluppo tipico sono stati in grado di arti-
colare la narrazione attraverso un numero elevato di episodi. Tutto ciò ha confermato
di nuovo l’utilità del modello del format narrativo, evidenziando come i bambini par-
lanti tardivi sperimentali siano riusciti ad articolare un racconto passando per i diversi
episodi e siano stati in grado di generalizzare questa capacità anche nella storia i cui
contenuti hanno sperimentato quotidianamente attraverso una serie di esperienza
condivise, I gattini, a differenza della storia fantastica Bianca Neve.

3.4 Analisi della struttura semantica


Oltre al conteggio delle parole i racconti dei bambini sono stati analizzati an-
che in riferimento ai tipi di strutture frasali.

Figura 8:
Struttura semantica della frase nella storia di Hocus e Lotus

Legenda: PS = Parole singole; ES = Espressioni; NC = Nucleare completa; NI


= Nucleare incompleta; AC = Ampliata completa; AI = Ampliata incompleta; RC =
Relativa completa; RI = Relativa incompleta; IC = Inserita completa; II = Inserita
incompleta; BNC = Binucleare completa; BNI = Binucleare incompleta.

Nella storia del Format narrativo si è evidenziata una differenza significativa


tra i gruppi (F (2,28) = 22,293, p<.001) nella tipologia delle parole singole. I bambini
che producono un maggior numero di parole singole nel racconto sono i parlatori
tardivi di controllo, seguiti poi dai parlatori tardivi sperimentali, e infine i bambini
con sviluppo tipico sono coloro che utilizzano un minor numero di parole singole
ed evidentemente più strutture frasali. Infatti come si può notare chiaramente dalla
figura 8 i bambini con sviluppo tipico producono anche frasi più complesse come le
ampliate e le binucleari.
Un’altra differenza significativa (F (2,28) = 13,569, p<.001) è emersa nella cate-
goria delle espressioni. I bambini parlatori tardivi del gruppo sperimentale produ-
180 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

cono un maggior numero di espressioni, fra cui quelle onomatopeiche, rispetto agli
altri due gruppi. Ciò è dovuto al fatto che i racconti della sperimentazione hanno in
sé molti enunciati di questo tipo e sono richiesti dalla narrazione.
L’analisi della struttura semantica della frase nei racconti della storia nuova (I
gattini) non ha rilevato importanti differenze tra i bambini dei tre gruppi nella capa-
cità di esprimersi utilizzando le varie strutture frasali. Come mostra la figura 9,
l’unica categoria nella quale i tre gruppi si differenziano significativamente tra loro
(F (2,29) = 8,385, p<.01) è nelle parole singole. I bambini con sviluppo tipico anche
in questa storia riportano un minor numero di parole singole rispetto agli altri due
gruppi di bambini parlatori tardivi, confermando che, grazie alla maturazione lin-
guistica raggiunta, sono in grado di narrare una storia nuova attraverso strutture fra-
sali complete e più complesse.

Figura 9:
Struttura semantica della frase nella storia I Gattini

Infine, nella storia nota (Biancaneve), l’analisi mostra la presenza di alcune


differenze tra le strutture utilizzate dai tre gruppi di bambini nel racconto. Da
quanto illustrato nella figura 10 si osserva una differenza statisticamente significa-
tiva nella produzione di parole singole (F (2,28) = 4,622, p<.05). Anche in questo rac-
conto i bambini che producono un maggior numero di parole singole sono i bam-
bini parlatori tardivi di controllo rispetto ai bambini con sviluppo tipico.
Inoltre si evidenzia una differenza significativa (F (2,28) = 4,175, p<.05) tra i
bambini parlatori tardivi sperimentali che producono un maggior numero di nu-
cleari incomplete rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Infatti, come dimostrato
anche in questa storia, i bambini con sviluppo tipico sono in grado di esprimersi con
strutture più complete rispetto agli altri gruppi. Ciò è emerso anche nella differenza
statisticamente significativa evidenziata nelle frasi ampliate complete (F (2,28) =
5,721, p<.01); i bambini con sviluppo tipico, nella storia a loro nota, sono in grado
SAPER NARRARE A DUE ANNI 181

di eccellere rispetto alle altre narrazioni, differenziandosi con una produzione mag-
giore di frasi ampliate complete rispetto agli altri gruppi.

Figura 10: Struttura semantica della frase nella storia di Biancaneve

Infine, i risultati emersi dall’analisi della struttura semantica della frase nei
bambini parlatori tardivi sperimentali, evidenziano come le strutture complesse
compaiano poco e non tutti i bambini le producano. Questo è un indice evidente che
i bambini si trovano in un periodo di apprendimento linguistico costituito soprat-
tutto da parole singole e da frasi semplici come le nucleari, avendo tuttavia già su-
perato il periodo prelinguistico e quello di produzione verbale caratterizzata princi-
palmente da espressioni, parole singole e frasi incomplete. Al contrario, i bambini
parlatori tardivi di controllo continuano ad avere una netta preferenza per parole
singole e producono un numero molto limitato quando non assente di frasi più
complesse quali le ampliate e le binucleari.

4. CONCLUSIONE
I risultati ottenuti dalla presente ricerca forniscono un contributo a nostro av-
viso importante per la strutturazione di interventi di educazione linguistica per i
bambini parlatori tardivi, mostrando come un intervento attraverso il format narra-
tivo si sia rivelato anche questa volta di notevole validità. Attraverso le attività del
format i bambini imparano ad attribuire attivamente un significato alle azioni e alle
espressioni dell’adulto, passando quindi ad una comprensione sempre più deconte-
stualizzata, e imparano a produrre simboli verbali sempre più stabili e condivisibili.
Mediante questa condivisione e simbolizzazione i bambini imparano ad usare il lin-
guaggio in modo rappresentazionale. Inoltre, si è verificato come i materiali e le
182 TRAUTE TAESCHNER – SARA POLIANI – SABINE PIRCHIO

strategie formative ad esso collegate permettano ai bambini parlatori tardivi non


solo di produrre singole parole e/o frasi, ma di saper anche raccontare una storia.
Per di più, dato che l’ambiente con le sue strutture fisiche, le tradizioni cultu-
rali e con il gruppo di pari e adulti risulta indispensabile per attivare l’apprendimen-
to della lingua, attraverso le attività didattiche del format si è cercato di:

˗ creare il clima ottimale all’instaurarsi del rapporto affettivo attraverso


un’attenta e continua interpretazione dei bisogni cognitivi e comunicativi
del piccolo;
˗ presentare modelli linguistici adeguati al suo sviluppo sociale e cognitivo;
˗ procurare occasioni per farlo esercitare sperimentando quanto più è possi-
bile il successo nella comunicazione;
˗ offrire risposte adatte a rinforzare i tentativi di comunicazione in modo da
associarli ad esperienze piacevoli, favorendo la costruzione di un’im-
magine di sé positiva come comunicatore efficiente oltre che gradito;
˗ fornire al bambino una costante valutazione dell’efficienza dei suoi mezzi
di comunicazione, aiutandolo ad affinare gradualmente lo strumento lin-
guistico sia sul piano formale sia su quello funzionale.

I risultati emersi indicano la possibilità di sviluppo di nuovi curricula per mi-


gliorare il processo educativo con l’offerta di un modello efficace, tenendo conto
delle dinamiche relazionali e istituzionali interne al contesto educativo. Si ritiene
perciò di fondamentale importanza che interventi di questo genere possano essere
posti a servizio dello sviluppo, dell’apprendimento, dell’integrazione nel gruppo dei
pari del bambino e della formazione e informazione degli insegnanti e degli educa-
tori. Anche perché se si vuole il giusto per i bambini si dovrebbe dare loro e a chi se
ne prende cura un’educazione appropriata allo sviluppo, di alta qualità, sostenibile
ed accessibile, della quale entrambi, adulti e bambini, hanno bisogno.

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MIRIAM VOGHERA
(Università di Salerno)

Tipi di tipo nel parlato e nello scritto

1. IL PUNTO DI VISTA DIAMESICO NELLA DESCRIZIONE DEI DATI LINGUISTICI


Grazie anche ai lavori di Norbert Dittmar (Dittmar, Bahlo, a cura di, 2010), lo
studio della variazione diamesica ha guadagnato negli ultimi decenni spazio e inte-
resse all’interno della linguistica. Tuttavia la considerazione delle diversità diamesi-
che non è sempre entrata a far parte del processo di costruzione delle grammatiche
delle lingue poiché il rapporto tra grammatica e variazione, non solo diamesica, è
un rapporto complesso e spesso conflittuale, che mette in gioco i limiti e i confini
dell’invarianza del sistema. Succede così che quando la variazione diamesica non è
dichiarata come oggetto esplicito della descrizione grammaticale, si pensi alla ben
nota Longmann Grammar of Written and Spoken Language (Biber et al., 1999),
non è trattata in modo sistematico. Ciò accade per molteplici motivi che ricordiamo
qui brevemente.
La variazione diamesica individua primariamente le variazioni linguistiche che
avvengono a causa di un cambiamento nel sistema di trasmissione, cioè nel canale.
Tuttavia molto raramente il cambio di canale è un mero passaggio di sistema di tra-
smissione, esso comporta piuttosto cambi di contesti, destinatari, ambiti tematici,
cui sono associati registri linguistici diversi (Voghera in stampa). Il canale fonico-
uditivo è quello usato primariamente e maggioritariamente per tutta la vita, per la
comunicazione verbale familiare, informale prevalentemente a scopo sociale. L’uso
del linguaggio verbale attraverso il canale grafico-visivo è invece per lo più asso-
ciato ad usi formali, istituzionali prevalentemente a scopo informativo. Natural-
mente non esiste un rapporto di necessità tra canale fonico-uditivo e registri infor-
mali, come mostrano i nativi delle lingue dei segni o la diffusione della scrittura di-
gitale nella comunicazione quotidiana e sociale. Ciò nonostante l’uso preponderante
di un determinato canale in certe situazioni ingenera un’indebita equivalenza tra
proprietà del canale e registri, tra variazioni diamesiche e diafasiche. Accade così
che l’uso di un determinato canale sia identificato con l’uso di uno specifico regi-
stro: da qui l’identificazione, da una parte, tra parlato e usi informali o addirittura
trascurati e, dall’altra, tra scritto e usi formali e accurati.
A ciò si aggiunge il fatto che i vari registri possono essere a loro volta connessi
ad usi marcati diatopicamente: la situazione linguistica italiana è da questo punto di
vista emblematica poiché le opposizioni diafasiche informale vs. formale, familiare
vs. istituzionale sono per lo più connesse a quella diatopica tra usi locali vs. usi na-
zionali. Anche in questo caso, com’è ovvio, non vi è alcuna necessaria corrispon-
186 MIRIAM VOGHERA

denza tra i due tipi di variazione, ma il passo verso l’identificazione delle due varia-
bili è breve1.
Ma la sovrapposizione tra le dimensione di variazione non deriva solo da una
interpretazione superficiale dei dati, ma anche dal fatto che esistono ampie zone del
lessico e della morfosintassi che possono essere caratterizzate legittimamente tanto
in diamesia quanto in diafasia e in diatopia. Per esempio, espressioni come an-
dare/essere fuori di testa, essere fuori (nel significato di ‘comportarsi in modo ec-
centrico’ o ‘essere impazzito’) possono essere considerate come appartenenti ad un
registro informale della varietà standard dell’italiano o come appartenenti
all’italiano regionale romano, cioè ad una varietà diatopica, o, infine, come apparte-
nenti all’italiano parlato, cioè essere caratterizzati in diamesia. L’assegnazione di
queste espressioni ad una varietà piuttosto che ad un’altra è, al di fuori di ogni con-
testo, del tutto arbitraria e certamente indipendente dal loro aspetto formale. Esi-
stono quindi per definizione zone di sovrapposizione tra dimensioni di variazione
per le quali non è sempre facile individuare la gerarchia relativa dei fattori caratte-
rizzanti. Nel caso del nostro esempio possiamo dire che il fattore diafasico domina
quello diatopico e quello diamesico. In altri casi potrà essere difficile stabilire quale
dimensione di variazione sia prevalente, perché esiste un certo margine di indeter-
minatezza che può essere controllato solo contestualmente.
Alla considerazione sulla collocazione dei vari usi dovrebbe inoltre sempre ac-
compagnarsi la valutazione della distanza psicologica percepita dai parlanti tra le
varie strutture ed espressioni. Fin dal classico contributo di Fishman (1972), i ricer-
catori che si sono occupati di variazione linguistica sono concordi nell’affermare
che la percezione che i parlanti hanno della autonomia o della distanza tra lingue o
varietà, indipendentemente dalla realtà linguistica, è uno dei fattori che contribuisce
maggiormente all’avvicinamento o alla distanza tra di esse. Ciò vuol dire che fattori
esterni alla struttura linguistica possono avere in molti casi un peso determinante. A
ciò contribuisce, come è ovvio, la diversa funzionalizzazione delle varietà la quale
ha delle conseguenze sistematiche sull’organizzazione dei messaggi. Gumperz
(1982) ha mostrato che gli stessi parlanti mettono in atto strategie comunicative di-
verse a seconda delle varietà usate. Questo vuol dire che i diversi usi linguistici
vengono percepiti e marcati come appartenenti ad una determinata varietà non solo
in base alle loro caratteristiche formali e funzionali, ma anche sulla base della co-
struzione dell’interazione comunicativa la quale coinvolge non solo la struttura dei
testi, ma l’intera organizzazione discorsiva. Gli etnografi della comunicazione si
sono infatti impegnati nell’analisi degli eventi comunicativi (speech events), la
quale ha come oggetto di osservazione lo svolgersi dell’interazione tra i membri di
un gruppo durante uno scambio comunicativo. L’analisi si sposta dunque dal testo

1
Il complicato intreccio tra i vari tipi di variazione è ben illustrato dai nuovi attributi sociali e
identitari che ha assunto oggi il dialetto nelle nuove generazioni: si vedano Berruto (2006 e 2007).
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 187

al discorso, e la dimensione pragmatica, la relazione tra il codice verbale e i suoi


utenti, viene considerata a pieno titolo un fattore di variazione sistematica.
Benché concettualmente indipendenti, variazione diamesica e diafasica e
pragmatica dell’enunciazione sono dunque dimensioni fortemente interrelate che
correlano con le scelte linguistiche dei parlanti in modo tale da non poter essere
ignorate da chi deve delineare i confini della grammatica. Ciò non solo perché al-
largano l’insieme dei dati, ma soprattutto perché mettono in luce relazioni tra por-
zioni diverse della struttura linguistica, altrimenti nascoste.

2. TIPO[-N] NEL PARLATO E NELLO SCRITTO CONTEMPORANEI


La rilevanza della dimensione diamesica emerge anche in settori della gram-
matica in cui non sembrerebbe centrale. Un caso è rappresentato dagli usi non no-
minali di tipo (da ora in poi tipo[-N]), che si sono diffusi in modo pervasivo
nell’italiano contemporaneo negli ultimi decenni, di cui riporto qualche esempio2:

(1) I contratti tipo sono concordati tra le società (DiaCoris)


(2) […] c’erano complessi d’estensione enorme, tipo alveare, e strutture più
piccole, separate. (DiaCoris)
(3) eh trovare uno # tipo lei sicuramente # perché ha le stesse sue abitudini
(LIP)
(4) Non credete alle statistiche tipo che il Nord è più ricco del Sud (Scritto di-
gitale)
(5) io ti ho telefonato ieri pomeriggio non c’era nessuno e poi eh non ci
stava nessuno saranno state tipo # le sette così (LIP)
(6) perché tipo io insomma se se passavo sotto casa loro (LIP)

Benché tipo sia originariamente e primariamente un nome, negli esempi da (1)


a (6) non funziona come tale. Questi usi presentano molti punti di contatto con
analoghi processi avvenuti in altre lingue per uguali nomi tassonomici: inglese sort,
kind, type (Dennison, 2002, 2005, 2011; Traugott 2008); francese genre, espece,
sorte, style (Danon-Boileau, Morel, 1997; Fleischmann, Yaguello, 2004; Mihatsch,
2007); portoghese tipo assim (Bittencourt, 2000; Mihatsch 2007); spagnolo tipo
(Mihatsch, 2007); svedese typ (Rosenkvist, Skärlund, 2013); italiano genere, tipo,
specie, sorta, forma (Masini, 2007; Voghera, 2013a, 2013b); russo tipa (Lazareva,
Giordano, Voghera, 2013).
La trafila tipo[+N > tipo[-N] ricalca in parte il processo di grammaticalizzazione
delineato da Traugott (1995, 2008) per gli elementi discorsivi e si può sintetizzare

2
Per quanto riguarda gli esempi tratti da corpora di parlato, ho mantenuto le convenzioni
delle trascrizioni originarie, anche se diverse tra loro. Il segno # indica una pausa e le vocali tra pa-
rentesi uncinate sono da considerare allungate.
188 MIRIAM VOGHERA

come una trasformazione progressiva da testa di SN a segnale discorsivo, elemento


periferico della frase dalla posizione libera. Si tratta di un percorso già osservato in
altre lingue e per altri elementi; ciò nonostante il suo sviluppo nell’italiano d’oggi
può ricevere una migliore comprensione se studiato alla luce della distribuzione di
tipo[-N] nei diversi contesti diamesici.
Né il parlato né lo scritto coprono la totalità dei tipi di tipo[-N], cosicché il per-
corso di grammaticalizzazione può essere colto nella sua interezza solo grazie alla
valutazione delle due modalità di trasmissione, al punto che la mancata considera-
zione di una delle due delineerebbe un percorso di grammaticalizzazione parzial-
mente diverso. La considerazione della variazione diventa parte integrante per la
corretta visione del processo: da una parte, perché è necessaria alla completezza dei
dati e, dall’altra, perché offre una possibile linea interpretativa della loro diversa di-
stribuzione (Traugott, Trousdale, 2010).
Per questo motivo è utile corredare la descrizione dei vari tipi di tipo[-N] con le
frequenze di occorrenza nel parlato e nello scritto. Per il parlato abbiamo conside-
rato il corpus LIP (De Mauro et al., 1993), costituito da testi parlati disposti su una
scala di progressiva dialogicità e spontaneità, raccolti in quattro città (Milano, Fi-
renze, Roma, Napoli) per un totale di circa 500.000 occorrenze3. Per lo scritto è
stato considerata la porzione contemporanea, dal 1968-2001, del DiaCoris, che con-
sta di cinque milioni di parole, come ciascuna delle cinque sezioni temporali in cui
è diviso il corpus, e raccoglie testi scritti raggruppati secondo diverse tipologie edi-
toriali-testuali (stampa, quotidiana e periodica; narrativa; saggistica; prosa giuri-
dico-normativa; miscellanea) (Proietti, 2008)4.

LIP DIACORIS
tipo[+N] 76% 82%
uso tassonomico
tipo[+A] 2% 5%
tipo[-N] 22% 13%
Tabella 1: Frequenza di tipo[±N] nel parlato e nello scritto.

Poiché la diffusione di tipo[-N] è di gran lunga aumentata rispetto agli anni di


raccolta del LIP, ho preso in considerazione anche alcuni dialoghi elicitati del cor-

3
Il corpus LIP è stato consultato grazie al sistema di interrogazione parallela delle trascri-
zioni ortografiche e dei files audio che costituisce il VoLIP (Voghera, Cutugno, Iacobini, Savy,
2013) pubblicato nel luglio 2013 all’indirizzo www. parlaritaliano.it.
4
Il Diacoris è consultabile all’indirizzo: corpora.dslo.unibo.it/coris_ita.html
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 189

pus CLIPS (Albano Leoni in /www.clips.unina.it/it/, Savy, Cutugno, 2009)5. I dati


dei corpora menzionati sono stati inoltre integrati con ulteriori esempi di scrittura
digitale raccolti tramite l’uso di un’Allerta Google lanciata su tipo dal 12/12/2010 al
27/12/2011 e che ho qui siglato come Scritto digitale.
La Tabella 1 presenta i primi dati quantitativi.
Come si vede, abbiamo distinto gli usi tassonomici di tipo[+N], (7), dagli usi in
cui tipo[+N] è caratterizzato dal tratto [+AN] ed è usato con un valore indefinito,
come in (8):

(7) Un primo rilievo che faremmo è di tipo strutturale […]. (DiaCoris)


(8) E a te piace un tipo simile? (DiaCoris)

Benché gli usi nominali tassonomici siano nettamente maggioritari in entrambi


i corpora, tipo[-N] è presente in entrambi i corpora considerati, anche se con una fre-
quenza più alta nel parlato. Ciò dipende dai diversi nuclei funzionali di tipo[-N] (Vo-
ghera, 2013) e dal ruolo che essi hanno nei testi delle due modalità principali.

3. I NUCLEI FUNZIONALI DI TIPO[-N]


L’analisi degli usi non nominali di tipo fa emergere almeno cinque diversi nu-
clei funzionali (Voghera, 2013a), che presentiamo qui di seguito nelle manifesta-
zioni prototipiche6.
Tipo può svolgere la funzione di modificatore di un nome come aggettivo (9),
o come formativo di aggettivi (10). In questo secondo caso tipo svolge un ruolo si-
mile agli usi di like e type in formazioni come dream-like, birthday-type.

(9) I [[contratti]N tipo]A]SN sono concordati tra le società. (DiaCoris)


(10) si’ ma una [roba [del tipo tre contro due] A]] SN (LIP)

Tipo può svolgere la funzione di preposizione in costruzioni comparative che


instaurano una analogia approssimativa tra due elementi come in (11).

(11) la trattava [tipo segretaria]SP insomma (LIP)

La possibilità di fungere come marca di comparazioni similative sviluppa l’uso


di tipo come avverbio approssimante come in (12).

5
L’intero corpus, raccolto nei primi anni 2000, è costituito da 100 ore di parlato; non es-
sendo concepito per l’analisi lessicale, non dà la misura della lunghezza in parole e non è interro-
gabile nella sua interezza per elementi lessicali. Per questo motivo la sua utilizzazione è stata solo
parziale.
6
Per una discussione più approfondita si rimanda a Voghera (2013a).
190 MIRIAM VOGHERA

(12) saranno state tipo # le sette cosi’ (LIP)

Un quarto nucleo funzionale è costituito dagli usi di tipo, seguito o meno dal
complementatore che, come connettivo esplicativo o dichiarativo, di fatto sostitui-
bile con i due punti o un cioè, per esempio (13), o consecutivo (14):

(13) da un punto di vista immediato tipo quello di scambiare con un altro


veicolo analogo quello della Cosenza Firenze (LIP)
(14) Prima ho avuto un altro attacco di tristezza tipo che stavo per mettermi
a piangere nel mezzo della lezione... Ma è passato. (Scritto digitale)

Infine tipo può funzionare come segnale discorsivo sia come hedger (Lakoff,
1973) sia come focalizzatore non contrastivo: nel primo caso tende a delimitare ed
eventualmente attenuare il significato di un espressione o la forza pragmatica di un
enunciato (esempio 15); nel secondo, al contrario, ha lo scopo di segnalatore del fo-
cus dell’enunciato e quindi assume in qualche misura il ruolo di alerter.

(15) allora insomma la madre scherzando diceva ah adesso tu me la tratti


cosi’ Marianna perche’ tipo io insomma se se passavo sotto casa loro
(LIP)
(16) alla fine gli lascio un messaggio proprio tipo a mezzanotte (LIP)

4. LA DISTRIBUZIONE DEI TIPI DI TIPO[-N]


L’osservazione delle frequenze dei vari tipi di tipo[-N] consente di dare maggiore
concretezza ad alcune delle considerazioni fatte nel paragrafo iniziale. Il Grafico 1 il-
lustra le differenze tra il LIP e il DiaCoris e già ad una prima occhiata emerge chiara-
mente che la distribuzione dei vari valori di tipo[-N] è completamente diversa.
Nello scritto tipo[-N] è esclusivamente usato come modificatore nominale:
come aggettivo o per formare aggettivi; nel parlato, invece, l’uso di tipo come ag-
gettivo è assente, e, pur essendo ben radicato l’uso come formativo di aggettivi, si
sono sviluppati molti altri usi al di fuori del sintagma nominale.
La diversa distribuzione nel parlato e nello scritto non è strettamente dipen-
dente da fattori diacronici, visto che gli usi aggettivali di tipo (per es. ‘contratto
tipo’) sono registrati nell’italiano fin dalla fine del XIX secolo e anche gli usi come
formativo aggettivale sono già comuni all’inizio del XX secolo (Voghera, 2013a).
A ben vedere infatti la distribuzione di tipo[-N] nei due corpora sembra piuttosto ri-
spondere ad un criterio funzionale legato alla diversa strutturazione dei messaggi
nelle due modalità. Così come abbiamo altrove notato (Voghera, 2010), il parlato e
lo scritto si distinguono per il diverso livello di compattezza e densità di informa-
zione. A parità di contenuto proposizionale, per dir così, lo scritto tende a presen-
tare più nomi e subordinazione nominale del parlato poiché questo permette, di
norma, di risparmiare parole e di gerarchizzare fortemente la relazione tra le varie
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 191

parti del discorso. Il parlato, invece, diluisce il contenuto da trasmettere in porzioni


di testo più brevi e non nettamente gerarchizzate. L’andamento sintattico dello
scritto favorisce l’uso di sintagmi nominali pesanti e l’uso di tipo come formativo
aggettivale permette di creare modificatori lunghi, formati anche da un’intera frase.

Grafico 1: Distribuzione delle frequenze di tipo[-N] nel parlato e nello scritto.

(17) Vantava amicizie molto importanti, ma erano in realtà del tipo «voglio
ma non posso». (DiaCoris)
(17)a [Amicizie [del tipo voglio ma non posso]A]SN

Questo risponde bene al bisogno di compattezza sintattica di molta scrittura,


ma non si addice alla sintassi leggera e per piccole porzioni del parlato.
Al contrario nella comunicazione parlata in assenza di un supporto esterno per
la memoria, come può essere una pagina scritta, è necessario tanto per il produttore
quanto per il ricevente avere degli elementi che svolgono la funzione di marcare
porzioni significative dell’enunciato. L’uso di porzioni brevi non fortemente gerar-
chizzate, ma aggiunte le une alle altre, richiede elementi linguistici che ne rendano
interpretabile la connessione: tipo nei suoi usi come connettivo e segnale discorsivo
si presta bene a questo scopo, offrendo segnali di segmentazione sintattico-discorsiva
all’ascoltatore e punteggiando la progressione della produzione parlata. Alla stessa
funzione sono da attribuirsi gli usi come alerter nello scritto digitale di tipo che.
A questi usi si aggiungono quelli più propriamente legati a fattori di program-
mazione. Per evitare l’occorrenza di (troppe) disfluenze, cioè interruzioni della ca-
tena fonica, con un inevitabile effetto di frammentazione e la conseguente necessità
di meccanismi di riparazione, i segnali discorsivi possono assolvere la funzione di
copertura dei tempi di programmazione quando vi è uno squilibrio tra di essi e
192 MIRIAM VOGHERA

quelli di produzione verbale. In tal modo la sequenza verbale non viene propriamente
alterata e non è richiesto un intervento di ricostruzione da parte del ricevente. In (18),
una conversazione spontanea informale, tipo occorre come segnale discorsivo a soste-
gno della programmazione, cumulandosi, come spesso succede, con altri segnali:

(18) senti allora poi per stasera dopo ‘sto riso che si si si degnasse di cuo-
cersi allora tu hai puoi scegliere fra # una serata brutta a casa di amici
di Stefano e Isabella che tipo cioè uno che parte devono dirgli addio
cioè sai quelle tipo sai tipo serie Berlinguer […] (LIP)

Ma allo sviluppo degli usi sintattico-discorsivi di tipo[-N] concorre anche una


forza indipendente, che spinge nella stessa direzione: la predilizione del parlato, a
tutti i livelli, per strutture ad alto rendimento funzionale, che possano, cioè, coprire
significati e funzioni diverse. La possibilità d’uso della stessa unità formale come
preposizione, avverbio, congiunzione, segnale discorsivo risponde massimamente a
questa esigenza ed incrementa la polisemia semantica e sintattica di tipo[-N]. Il fatto
non è nuovo perché il sistema dei connettivi in generale è uno spazio categoriale e
funzionale con ampie zone di sovrapposizione e alta polisemia (Rombi, Policarpi
1985; Berretta 1984): non è un caso, del resto, che gran parte del dibattito sulla gra-
dienza o categorialità delle classi lessicali abbia avuto come oggetto prevalente-
mente quest’area della grammatica (Quirk et al., 1985; Aarts, 2007; Croft, 2007).
Se immaginiamo, dunque, convenzionalmente il processo di grammaticalizza-
zione di tipo come uno spazio compreso tra un polo nominale e un polo sintattico-
discorsivo, possiamo dire che gli usi parlati spingono la grammaticalizzazione verso
quest’ultimo. Ciò non vuol dire, naturalmente, che ci sia una rigida distinzione tra
parlato e scritto o che non ci sia passaggio tra gli usi di tipo[-N] delle due modalità,
ma che il parlato sfrutta tutta la gamma di sviluppo possibile.

Tipo[+N] > Tipo[-N]


Nome > Modificazione > Connessione
nominale sintattico-discorsiva
Scritto
Parlato
Tabella 2: Sviluppo della grammaticalizzazione di tipo nel parlato e nello scritto

L’aver messo in primo piano la variazione diamesica nella descrizione degli


usi di tipo[-N] ci consente quindi di cogliere il legame che esiste tra sviluppo del pro-
cesso di grammaticalizzazione e i condizionamenti che derivano dall’uso di una
determinata modalità e dai registri ad essa associata.
L’analisi quantitativa delle frequenze dei vari tipi di tipo nel parlato e nello
scritto consente infatti di avere dei dati più realistici e completi: pur presentando
TIPI DI TIPO NEL PARLATO E NELLO SCRITTO 193

un’ampia tipologia testuale e di registri, né il corpus di parlato né quello di scritto


coprono l’intera gamma degli usi di tipo[-N]7. Oltre ad una maggiore adeguatezza de-
scrittiva, si è guadagnata una maggiore capacità esplicativa poiché la considera-
zione della variazione diamesica ha permesso di cogliere i legami tra le potenzialità
dello sviluppo della grammaticalizzazone e i processi enunciativi. Ciò ha fatto
emergere che la modalità di produzione e ricezione rappresenta un fattore di condi-
zionamento dei processi di grammaticalizzazione e, di conseguenza, può indiriz-
zarne l’andamento.

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7
Emerge tra l’altro l’esigenza di considerare in modo sistematico altre modalità come lo
scritto digitale.
194 MIRIAM VOGHERA

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CLAUDIA CAFFI
(Università di Genova)

Stile e temperatura emotiva: il caso del principe Myškin*

«Madame de La Mole, quoique d’un


caractère si mesuré, se moquait quel-
quefois de Julien. L’imprévu, produit par
la sensibilité, est l’horreur des grandes
dames; c’est l’antipode des convenances».
(Stendhal, Le rouge et le noir, Parigi,
Gallimard, 1952, pp. 469-70, c.vo
nell’originale).

1. INTRODUZIONE
Che la patologia faccia luce sulla fisiologia è fatto noto. Altrettanto nota è la
frequente labilità, se non l’inconsistenza, del confine fra l’una e l’altra. In questo
articolo prenderò in considerazione un caso limite che drammaticamente manifesta
forme di incompetenza metapragmatica (Caffi, 1994), accompagnate dall’assenza o
dall’errato dosaggio di mitigazione, sia nel suo senso più generale di ottimizzazione
del sistema e di calibrazione dei parametri interazionali più legati all’instaurarsi e al
mantenersi della co-identità, sia nel suo senso più specifico di operazione stilistica
attenuativa attuata su una o più componenti dell’atto linguistico1.
Il presente contributo si colloca in un’area di ricerca di pragmatica inter-
personale (cfr. Locher, Graham (a cura di, 2011) che indaga i meccanismi discorsivi
della costruzione dell’identità e del ‘lavoro relazionale’2. Più specificatamente, il
punto di vista adottato qui è ‘psicostilistico’, nel senso che, all’interno del lavoro
relazionale, le scelte stilistiche vengono viste come indici e momenti decisivi nel
monitoraggio delle distanze emotive fra gli interlocutori. L’idea di stile che vi è
sottesa è non solo compatibile, ma utilmente integrabile con la prospettiva socio-

* Questo contributo riprende e aggiorna una sezione del cap. III di Caffi (2001).
1
Tra queste componenti sono distinguibili, almeno a scopo euristico: contenuto proposizio-
nale, indicatore di forza illocutoria, istanza enunciativa. Ho chiamato “cespugli” le operazioni mi-
tiganti attuate sulla proposizione, “siepi” quelle sull’illocuzione, “schermi” quelle sull’origine deit-
tica (Caffi, 1999; Caffi, 2001; Caffi, 2007b; Caffi, 2013).
2
Come notano Locher, Watts (2008, p. 96), l’espressione ‘relational work’ “refers to all as-
pects of the work invested by individuals in the construction, maintenance, reproduction and trans-
formation of interpersonal relationships among those engaged in social practice”.
198 CLAUDIA CAFFI

linguistica e quella etnografica che indagano le dimensioni sociali della costruzione


identitaria all’interno di un gruppo. A prestarsi particolarmente a tale raccordo sono
quei lavori sociolinguistici che legano la scelta stilistica a un sistema d’attese entro
un contesto e al lavoro di negoziazione con cui il contesto stesso è costruito,
confermato, cambiato (Coupland, 2007; Dittmar, 2009a; Dittmar, 2009b).
In quanto segue cercherò i tratti salienti dello stile comunicativo del principe
Myškin all’interno di una particolare occasione: la serata in casa degli Epančin de-
scritta nella parte quarta dell’Idiota3. Si tratta di un caso clamoroso di runaway e dis-
soluzione della relazione secondo la definizione di Watzlawick et al. (1971 [1967],
§ 4.43). Particolarmente pertinente è il seguente passaggio di Pragmatica della co-
municazione umana (§ 4.43), relativo alle regole di relazione: «Se il processo [di
definizione della relazione] non si stabilizzasse, le grandi variazioni che si verifi-
cherebbero e l’impaccio che ne conseguirebbe… porterebbero alla runaway e alla
dissoluzione della relazione». È proprio quanto accade nel caso di Myškin che mo-
stra il mancato funzionamento di ciò che in Watzlawick et al. (1971, § 4.44) è intro-
dotto sotto il termine di “calibrazione”. Il concetto di calibrazione, il cui analogo
in fisica è rappresentato da un termostato, inerisce alla messa a punto del sistema.
Quando si cambia la calibrazione di un sistema, o la messa a punto di un termo-
stato, regolandolo ad esempio su una temperatura più alta o più bassa, entrano in
gioco funzioni a gradino: il funzionamento del sistema nel suo complesso cambia,
ma il meccanismo di retroazione negativa, che scatta ad esempio per correggere
eventuali fluttuazioni al di sotto della temperatura stabilita, rimane inalterato. Come
è noto, nell’àmbito psichiatrico cui la scuola di Palo Alto riconduce la sua ricerca,
la psicosi è interpretabile come brusco cambiamento che ricalibra il sistema fami-
gliare.
La discussione di questo caso ‘clinico’ risponde allo scopo generale di mettere
a fuoco alcuni meccanismi interattivi, non ancora sufficientemente indagati dalla ri-
cerca pragmatica, che riguardano direttamente la dimensione dell’identità costruita
nel discorso attingendo anche a un livello esplicativo, oltre che descrittivo.
Le annotazioni che seguono non pretendono certo di descrivere esauriente-
mente il comportamento comunicativo di un personaggio di straordinaria comples-
sità quale il principe Myškin di Dostoevskij. La mia breve analisi sarà ristretta a una
situazione precisa: il contesto particolare della serata in casa degli Epančin. E a un in-
tento preciso: mostrare la necessità di integrare le descrizioni pragmatiche ‘classi-
che’ della mitigazione con una prospettiva che tenga conto anche della dimensione
dell’emotività ‘in circolo’ e della temperatura emotiva degli scambi dialogici4. La

3
Utilizzo la traduzione italiana di Alfredo Polledro in Fëdor Dostoevskij, L’idiota, Torino,
Einaudi, 1984 [1941], parte quarta.
4
Come ho sostenuto in Caffi (1992; 2000; 2001; 2002), vi è stata in linguistica una sostan-
ziale rimozione della dimensione emotiva, presente al massimo come residuale: il problema
dell’espressione dell’emotività è stato o del tutto cancellato dalle teorie linguistiche, o marginaliz-
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 199

consapevolezza metapragmatica (Caffi, 1994) è un sapere sul mondo e un sapere


sulla lingua; in termini weberiani, essa dice come associare un senso a un’azione so-
ciale. Essa è anche un sapere su di sé. Al suo interno, la competenza emotiva, inter-
faccia fra dimensioni sociali e dimensioni individuali e autoreferenziali, ha un ruolo
fondamentale.
Oltre a offrire l’occasione di vedere in atto un sistema patologico che può chia-
rire il funzionamento della comunicazione ‘normale’, il principe Myškin è interes-
sante per un’altra ragione: egli non usa mitigazioni, né cespugli, né siepi, né
schermi. Myškin non solo non pratica operazioni attenuative con funzione di salva-
guardia della faccia, ma al contrario rafforza in vari modi il suo dire e si spinge fino
a teorizzare la rinuncia alla mitigazione rituale e alla faccia che diventa, nella sua
bruciante ricerca della verità, rinuncia a sterili convenzioni sociali a vantaggio
dell’incontro autentico fra le persone.

2. L’INATTESO E LA TEMPERATURA DELL’INTERAZIONE


La costruzione del senso come processo negoziabile nell’interazione è stata vi-
sta e analizzata da Goffman in poi soprattutto nei suoi aspetti microsociali e simbo-
lici. Coerentemente, le identità degli interlocutori sono state viste soprattutto come
identità sociali che nell’interazione vengono localmente o globalmente confermate
o scosse attraverso micro-meccanismi conversazionali, anche non verbali, di rico-
noscimenti e di conferme. Un concetto che presuppone una prospettiva integrata
psico- e sociologica è quello proposto da Goffman di involvement e involvement
shield, engagement e para-engagement. Nella traduzione francese che qui utilizzo
(Goffman, 1981 [1963]), esso è impiegato in riferimento a quelle situazioni parti-
colari in cui l’attore sociale è sospeso tra il suo ruolo riconosciuto e un suo non-
ruolo privato, sorpreso senza maschera o nascosto dietro qualche tipo di riparo. Il
concetto di para-engagement, molto vasto e esteso a una serie alquanto eterogenea
di comportamenti sociali «Toutes le institutions sociales, d’ailleurs, possèdent des
crevasses offrant cette sorte d’abris» (p. 274) è interessante per me perché consente
di scorgere, in negativo, l’insieme di mosse interazionali che costituiscono “il com-
portamento atteso”, ciò che è previsto da un attore sociale in un certo contesto. Si
tratta di una categoria che, chiamando in causa il problema sovente affrontato da
Goffman della ‘normalità’, dell’insieme di aspettative sui comportamenti, va nella
direzione teorica che ho sviluppato nelle mie ricerche sulla mitigazione e che inte-

zato e ridotto a manifestazioni particolari (ad esempio, i suffissi “affettivi”, o le interiezioni). E ciò
a dispetto del ruolo centrale assegnato all’affettività nelle costruzioni teoriche di grandi autori del
Novecento. Penso soprattutto a Bally, a Bühler, alla scuola di Praga che vede nella funzione emo-
tiva una delle due funzioni fondamentali del linguaggio. Per sottili descrizioni pragmatiche ante-
litteram degli aspetti emotivi delle scelte stilistiche nel dialogo, a vari livelli di analisi, il rinvio è a
Spitzer (2007 [1922]).
200 CLAUDIA CAFFI

gra la descrizione in termini esclusivamente micro-sociologici con categorie intera-


zionali stilistico-psicologiche.
La mia idea di fondo è riassumibile nel modo seguente: la competenza pragma-
tica prevede la capacità di regolazione e di autoregolazione all’interno del sistema in-
terattivo dato (Stolorow, Atwood, 1995 [1992], p. 34). In questa regolazione, un ruolo
decisivo ha la sintonizzazione con stati e bisogni affettivi che dà luogo a un monito-
raggio metapragmatico delle sottoscrizioni e distanze emotive. Al di qua di una certa
soglia di funzionamento si verifica qualche tipo di miscommunication globale o par-
ziale, o ciò che Habermas (1970) chiama “non-comunicazione”5; al di là, si ha il col-
lasso o la disintegrazione del sistema comunicativo.
A questo stadio di conoscenze, molto limitato, sul funzionamento di un sistema
interattivo nella sua complessità, è possibile soltanto la formulazione di ipotesi da ve-
rificare. La prima ipotesi è formulabile così: come è noto, in un’ottica sistemica,
l’interazione tende all’omeostasi. Questa tendenza vale anche per quanto riguarda la
qualità dell’interazione, la sua temperatura, data dal coinvolgimento emotivo, regola-
bile da un ‘termostato’ di cui entrambi gli interlocutori hanno il controllo. Troppe
scosse e retroazioni sulla temperatura prescelta fanno inceppare la comunicazione. È
opportuno dunque inserire, fra i tipi di infelicità comunicativa, quella dovuta a uno
squilibrio eccessivo rispetto alla temperatura6.
La seconda ipotesi è formulabile così: esiste una regola non detta rispetto
all’emotività nell’interazione, esprimibile con un imperativo del tipo “modula adegua-
tamente le tue emozioni”, specialmente nella sua sottovariante negativa “non manife-
stare troppa emozione”, o anche “non avvicinarti troppo emotivamente”. Vi è un ter-
ritorio emotivo che interseca quello relativo alla faccia e può scavalcarlo. Del resto, si
può intravedere facilmente un rapporto conflittuale fra faccia ed emotività nella nostra
cultura, più profondo di quello comunemente posto fra cortesia e sincerità, che confi-
gurano solo un aspetto, a un livello, del problema in discussione. L’intero lavoro di
Norbert Elias (Elias, 1998 [1969]), che si propone fin dall’incipit come riflessione
«sulla struttura degli affetti umani e del controllo su di essi» (Elias, 1998, p. 45), seb-
bene non utilizzi il concetto di faccia, potrebbe essere riletto come storia di questo
ancora aperto conflitto. Al di là delle diverse soglie di tolleranza individuale, e oltre al
grado previsto dal tipo di interazione e dai suoi scopi, l’emotività inferibile da scelte
stilistiche variamente marcate è fonte di imbarazzo interazionale duplice (Abercrom-
bie, 1967). Infatti, essa è interpretabile sia come indice riguardante il soggetto (indice

5
Cahill (1981, p. 77) definisce così il concetto di pseudocomunicazione di Habermas: «Vari-
ously categorized members of a society, because they share a common language and many com-
mon experiences, are likely to mistakenly assume that a consensus exists among them concerning the
meaning of communicative behavior. This mistaken assumption produces a system of reciprocal
misunderstandings, which are not recognized as such or pseudocommunication» (Cahill S.E.,
Cross-sex communication. «Berkeley Journal of Sociology», 26, 1981, pp. 75-88).
6
Con una singolare convergenza, in campo psicoanalitico, Donald Metzler (1981) usa sia la
metafora della temperatura sia quella della modulazione.
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 201

di mancanza di controllo – il parlante non è compos sui – di debolezza, di fragilità),


sia come indice riguardante il destinatario (indice di mancanza di riguardo e di consi-
derazione del territorio emotivo dell’interlocutore), come potenziale minaccia, e po-
tenziale richiesta (“cosa vorrà da me?”), insomma come destabilizzante rispetto
all’equilibrio del sistema.
Il problema teorico del grado di intimità dell’interazione in termini di “emotività
in circolo”, e delle sue ripercussioni sugli altri parametri del sistema, è stato posto
finora soprattutto in termini tematici, come problema relativo all’argomento del di-
scorso, più o meno intimo e privato. In psicologia sociale, il problema è stato di-
battuto nell’àmbito della ricerca sulle self-disclosures (cfr., tra altri, Holtgraves,
1990; Gallois, 1994; e, per una discussione generale, Peräkylä, Sorjonen, a cura di,
2012). Possiamo invece inquadrarlo in modo più generale, all’interno del problema
semiotico degli indicatori emotivi nella comunicazione, indicatori formali, non ne-
cessariamente non verbali, che costituiscono nel loro insieme ciò che la scuola di
Palo Alto chiamava “relazione”, coincidente con la metacomunicazione, e che Ha-
ley (1959) chiama “qualificazione”.
Ho discusso altrove i vari tipi indicatori di comunicazione emotiva (Caffi, Jan-
ney 1994; Caffi, 2001, cap. 4); sono indicatori di sottoscrizione o disimpegno emo-
tivo, rispetto al messaggio, e di vicinanza o distanza emotiva, rispetto al destinata-
rio. Il versante sociologico del problema del grado di adesione emotiva nella comu-
nicazione era stato ancora una volta anticipato dalla distinzione goffmaniana (Gof-
fman, 1956) fra “attività cerimoniali” e “attività sostanziali”, dove veniva colta
un’implicazione monodirezionale fra le due: mentre le attività esclusivamente ceri-
moniali non necessariamente presentano aspetti sostanziali, le attività sostanziali
presentano aspetti cerimoniali. È la scoperta della pervasività, nelle pratiche
comunicative, della funzione fàtica, in termini malinowskiani, forse addirittura di
una versione ristretta del concetto di metacomunicazione (Caffi, 1990a).
Il caso di Myškin illustra una inappropriatezza e infelicità comunicativa attri-
buibili a difetti di sintonizzazione che coinvolgono aspetti emotivi7.
Del resto, da diverse ricerche pragmatiche e sociolinguistiche risulta che
l’infelicità comunicativa, a qualche livello, è di frequente preferita. Un dato confer-
mato anche da studi di psicologia sociale che documentano come i pazienti preferi-
scano spesso medici che usino un linguaggio oscuro e tecnico (ad es., West, Frankel,
1991). Addirittura, l’atto linguistico ‘felice’, nel senso austiniano dell’adempimento
delle condizioni di felicità, con l’integrazione che qui propongo di un parametro
relativo alla sottoscrizione emotiva, l’atto cioè che esibisce congruenza fra conte-
nuto e tono emotivo, l’atto del tutto aperto, sincero, in buona fede, che raggiunge la

7
In Caffi (2001, p. 218 ss.) vengono distinti due tipi di sintonizzazione: la sintonizzazione te-
matica, esemplificabile dalle riformulazioni, e la sintonizzazione stilistica, riferibile a casi di scelte
convergenti sul piano anche formale da parte degli interlocutori. La sintonia/distonia dialogica
viene indagata da Riccioni (2005).
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sua pienezza autoreferenziale e tematica nella self-disclosure, può portare non


solo a un transitorio e facilmente riparabile misunderstanding, o a un comples-
sivo ma tranquillo fraintendimento, ma a vere catastrofi comunicative.
L’esempio ed exemplum più chiaro di un produttore di catastrofe comunicativa
è Myškin, il sublime idiota di Dostoevskij. In termini griceani (Grice, 1975), egli
viola la massima della Quantità e osserva troppo quella della Qualità: dice troppo
ed è troppo sincero. Ma, più che una violazione o un’eccessiva osservanza di una
massima, la catastrofe comunicativa che ha la sua climax nella rottura del vaso ci-
nese, ha come causa principale un difetto di monitoraggio emotivo sulla conversa-
zione, non previsto né dal modello griceano né dalle sue successive integra-
zioni. Le celeberrime pagine sul ricevimento a casa degli Epančin intessute dalla
conversazione fra gli invitati e i loro pensieri, si prestano a mostrare quel legame tra
monitoraggio cognitivo, mantenimento dell’identità e aspetti emotivi della comuni-
cazione (Giles et al., 1979, p. 356 ss.) che è cruciale per l’approccio pragmatico
psicostilistico integrato che ho delineato in Caffi (2001).
Nel caso di Myškin sono intaccati i presupposti di una comunione fàtica in cui
il reciproco riconoscimento è dato all’inizio, dall’appartenenza a una stessa cerchia
sociale, senza che sia previsto sviluppo, né cambiamento, né crescita. Il suo errore
metapragmatico è quello di scambiare per sostanziale un’attività cerimoniale. Per
utilizzare la tipologia di Coupland et al. (1991), la miscommunication investe una
pluralità di livelli della tabella da loro proposta (1991, p. 13), cioè trapassa dalle
presunte deficienze personali (la malattia di Myškin è nota), alla cornice ideologica
del discorso, passando per il livello che riguarda il controllo, l’affiliazione e
l’identità rispetto agli scopi interazionali e il livello che riguarda le differenze cultu-
rali e le norme comunicative di un gruppo. Rispetto alle aspettative dei suoi interlo-
cutori – la Legitimitätserwartung di cui parla Habermas (1971, p. 119 ss.) – di
salvaguardia del vaso-faccia-contenitore del patto conversazionale, sia pure con il
margine di incertezza prevedibile, dato il noto anticonformismo del personaggio
(malato, ‘selvaggio’, straniero), quella di Myškin è una clamorosa disconferma di
un’appartenenza, la sconfessione di ogni possibile complicità o collusione, anzi, la
professione di una fede rivoluzionaria, la passionalità e la sete di sublime
dell’anima russa. Disconferma, sconfessione, rottura di un patto che è, prima di
tutto, comunicativo.

3. LA ROTTURA DEL VASO E DEL PATTO CONVERSAZIONALE

La prima tesi etica di Dostoevskij – sostiene Askol’dov – è qualcosa che a prima vista si
presenta come quanto di più formale, ma che però, in un certo senso, è il più importante:
Sii persona”. La persona, secondo Askol’dov, si differenzia dal carattere, dal tipo e dal
temperamento, i quali di solito servono da oggetto di raffigurazione in letteratura, per la
sua straordinaria libertà interiore e per l’assoluta indipendenza dall’ambiente esterno.
(Michail Bachtin, Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1968, p. 19).
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 203

I capitoli VI e VII dell’Idiota (Parte Quarta, trad. it. di Alfredo Polledro, To-
rino, Einaudi, 1984 [1941]) orchestrano uno scandalo. Ambientati nel salotto degli
Epančin, essi costruiscono una memorabile catastrofe, costituendo un esempio di
quelle «scene di scandali e di catastrofi che hanno una così essenziale impor-
tanza in tutte le opere di Dostoevskij» (Bachtin, 1968, pp. 190-191). Vi viene
descritta una progressione verso il fuori di sé8 che è anche una progressione
conversazionale.
Il mio intento qui non è quello di proporre un’analisi linguistico-stilistica dello
stupendo testo dostoevskijano, di estrema complessità e polivalenza semantica.
L’intento che mi propongo, molto più modesto e parziale, è quello di rintracciare,
negli espliciti interventi dell’autore, alcuni momenti di quell’abbinamento di stati
interni ed espressione comunicata che permette di ricostruire sul piano formale la
dinamica degli eventi e anche la ragione interazionale della catastrofe: l’incapacità
da parte di Myškin di un dosaggio ‘congruo’ dell’emotività rispetto all’argomento
conversazionale da un lato e, dall’altro, di una sintonizzazione con lo stile comuni-
cativo – e le distanze emotive da esso inferibili – dei presenti.
Il dire di Myškin è esagerato. La temperatura troppo elevata. Egli dichiara
esplicitamente la sua incompetenza metapragmatica, l’incapacità di cogliere il
kairÒj, il momento opportuno, e di osservare il pr◊pon, il decorum, la misura, ade-
guandosi a ciò che è lecito, appropriato, atteso, rispetto alla situazione: «Non ho il
gesto opportuno... Mi manca anche il senso della misura» (p. 544). Ma, subito
dopo, è il principe stesso a rivalutare, su un altro piano, il proprio comportamento
inadeguato, menzionando a suo riscatto proprio il valore della sincerità: «la sincerità
non vale meno del gesto; non è così? non è cosi?» (p. 544).
Compito troppo arduo ricostruire anche pallidamente le dinamiche della con-
versazione che si snoda lungo la serata, nel suo ramo principale e nei suoi affluenti,

8
O piuttosto, ci si potrebbe forse chiedere, verso l’essere del tutto in sé? Si ricorderanno a
questo proposito, in altri passi del romanzo, le considerazioni straordinariamente penetranti anche
da un punto di vista clinico, dove la fase precedente l’attacco epilettico è caratterizzata da uno stato
d’animo di profonda egosintonia, nel quale le capacità cognitive e sensoriali sono potenziate. Vi si
accenna del resto nello stesso capitolo VI in cui, nell’accavallarsi di sensazioni contrastanti subito
dopo la rottura del vaso, una transitoria sensazione di benessere viene da Myškin scambiata per un
segno premonitore dell’attacco: «Un attimo dopo gli sembrò che tutto si allargasse davanti a lui,
che allo spavento subentrassero la luce, la gioia, l’estasi; si sentì mancare il respiro e... ma
quell’attimo passò. Grazie a Dio, era un’altra cosa!» (p. 540). Interessanti studi delle modalità lin-
guistiche del racconto di crisi epilettiche, di rilevanza clinica e diagnostica, sono Gülich, Schön-
dienst (1999), e Furchner, Gülich (2001).
All’interno del complesso dibattito svolto dalla scienza antica sulle origini e le terapie
dell’epilessia, importante il ruolo del trattato presumibilmente ippocratico del V secolo, edito con
testo a fronte: Ippocrate, La malattia sacra, a cura di Amneris Rosselli, Venezia, Marsilio, 1996.
Per un inquadramento del testo e del dibattito in cui si inserisce, si veda la recensione di Giuliana
Lanata, «Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 125, fascicolo 3,1997, pp. 323-328.
204 CLAUDIA CAFFI

nel gioco sfaccettato e vivacissimo dei rinvii, dei fraintendimenti e delle rivelazioni.
Tuttavia è possibile, per i miei fini parziali, seguire una traccia, tra le tante possibili,
offerta dall’autore. Dostoevskij esegue, infatti, una minuziosa punteggiatura espres-
siva e stilistica di ogni fase dell’incontro, della conversazione e addirittura di cia-
scun turno di parola, in una continua e sottilissima caratterizzazione del tono emo-
tivo delle battute che si intrecciano. Ricorrono, oltre ai commenti autoriali espliciti
sul progressivo eccitamento di Myškin, più sfumate valutazioni nelle quali sembra
di scorgere un’oscillazione di Dostoevskji fra diversi punti di vista, ora più ora
meno sanzionanti rispetto al comportamento del principe.
Il punto di vista più frequentemente adottato dall’autore è quello dei parteci-
panti alla serata: ad esempio, in modo più velato rispetto ai commenti metacomuni-
cativi sul comportamento del principe, l’autore riprende anaforicamente il discorso
di Myškin definendolo «quella febbrile tirata» (p. 539). Ma è presente anche un
punto di vista più neutrale, in cui l’autore non si schiera con nessuna delle due parti
ed anzi, dall’una prende, sia pure quasi impercettibilmente, le distanze. Si veda in
particolare il rilievo seguente, increspato dal cambiamento di footing (Goffman,
1981, [1979]): «Del resto tutto ciò, e tutto quello scandalo poteva risolversi, di lì a
un minuto, nel modo più semplice e naturale» (p. 539). Alla ripresa anaforica tra-
mite l’incapsulatore neutro e generico, “tutto ciò”, viene affiancato l’incapsula-
tore axionimico con la valutazione fortemente negativa, indicatore emotivo di
valutatività (Caffi, Janney, 1994; Conte 1999 [1996]): “tutto quello scandalo”,
valutazione citazionale che viene attribuita ai presenti e non presa a carico diretta-
mente dall’autore; l’uso delle virgolette, insieme al forte contenuto valutativo, se-
gnala il distanziamento ironico, altrove più sfumato.

3.1. Le cause della catastrofe


Quali sono le cause pragmatiche della catastrofe comunicativa che culminerà e
si autocelebrerà nella rottura del vaso, splendida metafora della necessaria, inarre-
stabile e traumatica catarsi auspicata da Dostoevskij? Di fatto, Myškin è iper-
cooperativo. Inoltre, sin dalle prime battute della descrizione della serata, egli viene
presentato in ottima disposizione di spirito: nella sua sublime ingenuità egli vede gli
interlocutori come rappresentanti di una casta superiore, detentori di una grazia
e di una leggerezza incantevoli, idealizzati come personaggi nobili, non solo per
rango, nei quali egli, a sua volta appartenente a nobile stirpe, si riconosce e si rin-
franca («Ecco dunque la società che il principe accettava per moneta sonante, per
oro purissimo, senza lega di sorta», p. 529). In una prospettiva che mette in primo
piano la co-costruzione dell’identità attraverso il dialogo, questa è la prima causa
della catastrofe: Myškin vede gli altri simili a sé. In una più ristretta prospet-
tiva griceana, la prima causa della catastrofe è qualitativa ed è la sincerità. La since-
rità (orientata verso il polo ‘caldo’), lo si sa, è una minaccia perché inerentemente in
conflitto con la cortesia (‘orientata verso il polo ‘freddo’).
La seconda causa è quantitativa ed è determinata dalla prima: Myškin non ri-
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 205

spetta la massima del “dire quanto è appropriato a un dato stadio della conversa-
zione”. Dice infatti di più di quanto richiesto dalle circostanze. La competenza me-
tapragmatica, non va dimenticato, opera in prima istanza e negativo: sappiamo cosa
non fare, cosa non dire, e l’ovvia eco montaliana amplifica e amplia un procedi-
mento per esclusione che è fondamentale nei comportamenti comunicativi.
Ora, il “dire di più” di Myškin e la sua sincerità avrebbero potuto produrre sul
piano del sistema comunicativo “serata in casa Epančin”, al di là delle possibili rea-
zioni agli specifici contenuti semantici dei suoi interventi, esiti meno catastrofici. Ad
esempio, il suo “dire di più” avrebbe potuto essere sanzionato come un dire prolisso,
noioso (per la Quantità), o impertinente, provocatorio (per la Qualità): avrebbe potuto
trattarsi cioè, globalmente, di un dire inopportuno, certo, ma all’interno del patto con-
versazionale. Ciò che fa saltare tale patto e rende scandaloso il dire di più del principe,
è il modo in cui dice di più, non tanto per l’inosservanza delle massime del Modo gri-
ceane, quanto per un fattore di diversa natura, non dicotomico ma scalare: il grado di
coinvolgimento inferibile dalle sue parole, la temperatura del suo discorso, che è
troppo caldo e si farà rovente. È l’eccesso di pathos, di immediacy (Wiener, Mehra-
bian, 1968), che egli manifesta sia verso il contenuto della sua comunicazione sia
verso gli interlocutori. È il grado, troppo alto, di adesione al suo dire, che determina la
“non compostezza” comunicativa (Leonardi, Viaro, 1990).
È questa la terza causa. Ed è quella tematizzata da Dostoevkij che rileva a più
riprese proprio la sproporzione tra emozione di Myškin e argomento del discorso:
«Perché fosse così agitato, perché fosse stato preso di punto in bianco da un tale
intenerimento, sproporzionato, in apparenza, al tema del discorso, sarebbe difficile
da dire». E poco prima, nel testo e nella serata, si rileva che il padrone di casa Ivan
Petrovič «aveva notato la straordinaria attenzione prestata dal principe a quel di-
scorso» (p. 531), in corrispondenza cioè dell’introduzione, nel flusso di uno dei
rami della conversazione, di un tema che avrà imprevedibili sviluppi: il riferi-
mento al defunto Nikolaj Andreevič Pavliščev, padrino del principe rimasto or-
fano in tenera età.
Riassumendo: la violazione della massima della Quantità (“non dire più di
quanto sia richiesto”) è data da un rispetto eccessivo della massima della Qualità (“sii
sincero”), con importanti ripercussioni sulle massime del Modo. Da un lato, il testo
dunque conferma l’esistenza di una gerarchia fra le massime, l’osservanza eccessiva
dell’una determinando la violazione o lo stravolgimento delle altre. Dall’altro, è ne-
cessario completare il quadro conversazionale con considerazioni d’altro genere ri-
guardanti l’associazione, che rimane da costruire in un modello di analisi integrato, fra
argomenti, interlocutori e temperatura espressiva, nella co-varianza di diversi parame-
tri all’interno del sistema comunicativo “serata in casa Epančin”.
Rispetto alla massima della sincerità griceana, la cui adesione si pone in ter-
mini dicotomici, altri fattori entrano in gioco, non dicotomici, ma scalari, veicolati
da fatti stilistici, aggregabili intorno al concetto di coinvolgimento, di sottoscrizione
e vicinanza emotiva (Caffi, 1992; Caffi, 2000; Caffi, 2002). Nel testo, la progres-
sione di Myškin verso «l’entusiasmo e la commozione» è accompagnata, in direzione
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emotiva opposta, da occhiate sempre più preoccupate e sgomente (p. 533). I com-
menti metapragmatici dell’autore disegnano, sul piano stilistico, meccanismi comu-
nicativi complementari: «Dopo poche altre parole di spiegazione, molto calme da
parte di Ivàn Petrovič e straordinariamente eccitate da parte del principe, venne in
chiaro che…» (p. 532, c.vo mio, C. C.).
A catastrofe consumata, il contrasto coinvolge, oltre allo stile, anche il conte-
nuto, come mostra la sequenza, successiva alla rottura del vaso, in cui Myškin
chiede perdono per la sua goffaggine: «E perdonate tutto? Tutto, oltre al vaso?»
(c.vo nel testo), a cui fa seguito una battuta del vecchio nobile: «C’est très curieux
et c’est très sérieux» dove la mancanza di congruenza fra turni conversazionali
all’interno di una coppia adiacente non è solo formale, stilistica, ma anche sequen-
ziale, e sostanziale. In (non) risposta tangenziale, con quella che Sluzky et al.
(1967) chiamano “disqualificazione transazionale”, all’appassionata richiesta di
perdono, fa seguito l’elegante commento francese, paratattico e assonante, non ri-
volto a lui, ma ad altri, anche se in modo che il principe possa sentirlo. Al di là, o al
di qua, della cooperazione dialogica, altri parametri, relativi a ciò che la scuola di
Palo Alto vedrebbe come messaggi analogici complementari, entrano in gioco:
ne risulta una distonia comunicativa stilisticamente marcata. Senza delle restrizioni
contestuali “psicostilistiche”, funzionanti per gradi, che mostrino l’interdipendenza
tra costruzione di identità dialogica e temperatura emotivo-stilistica, le dinami-
che della conversazione e dell’evento scandaloso non sono scandagliabili.

3.2. Sbalzi di temperatura


Che sia una questione di gradi, della temperatura emotiva con cui regolare il
proprio discorso in situazione, il testo lo mostra – come certamente mostra molto al-
tro – con straordinaria efficacia. L’intera escalation emotiva di Myškin è scandita
da interventi di personaggi che commentano il suo intervento adiacente come “esa-
gerato” e tentano senza successo un’operazione di recalibrage (è la “funzione a
gradino” di Watzlawick et al. 1967 citata al par. 1) dicendo ad esempio: «Questo è
eccessivo» (il vecchietto, p. 535) dove il proforma “questo” è riferito anaforica-
mente all’asserzione del principe «“Il cattolicismo è proprio come una fede non cri-
stiana!” soggiunse guardando davanti a sé con occhi scintillanti come se volesse
abbracciare tutti col suo sguardo».
E ancora: «Voi e-sa-ge-ra-te molto» scandisce il sempre più allarmato padrone
di casa Ivan Petrovič (p. 536), dopo il lungo atto d’accusa contro la chiesa di Roma;
e «tutte le vostre idee... sono oltremodo esagerate», ancora Ivan Petrovič (p. 537),
dopo il turno in cui il principe proclama «in tono eccessivamente brusco» (p. 535) il
ruolo guida della civiltà russa contro il cattolicesimo e il socialismo, suo prodotto.
Contro quest’ultimo giudizio di eccesso Myškin reagisce esplicitamente per contra-
starlo: «No, non sono esagerate». Lo dice «con uno sguardo di fuoco». Di nuovo
Ivan Petrovič: «Questa è un’esagerazione… il vostro è un bellissimo sentimento,
ma eccessivo» (p. 541), dopo che il principe ha chiesto perdono per la rottura del
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 207

vaso. Sempre Ivan Petrovič: «Via, questa è un’esa-ge-ra-zione» (p. 542), per una
volta, avverte l’autore, commento letteralmente vero perché il principe aveva erro-
neamente attribuito una buona azione al suo interlocutore (che avrebbe regalato del
legname ai contadini).
Dopo la climax della rottura del vaso, l’atmosfera emotiva della serata si di-
stende: «molti si rivolgevano a lui e gli parlavano affabili» (p. 540). La rottura del
vaso funge catarticamente a placare l’inquietudine per l’inappropriatezza del com-
portamento di Myškin. Insieme al vaso, il patto conversazionale, contenitore di le-
gittime aspettative, dopo essersi incrinato per le “esagerazioni” di Myškin, si è
rotto. Si apre l’attesa, per i presenti, di rinegoziarlo su una temperatura più bassa.
Gli invitati del salotto di Lizaveta Prokòf’evna non sanno che il peggio deve
ancora arrivare. Myškin persiste infatti nell’inapropriatezza: dapprima immerso
nella sensazione di sgomento provocata in lui dall’avverarsi della profezia, poi in-
credulo di essere stato perdonato, è infine sommerso da un traboccante quanto inade-
guato senso di gratitudine e dal bisogno di confessione, che lo accomuna ad altri
straordinari personaggi dostoevskijani (p. 541). Egli chiede e ottiene il turno di parola
dalla Belokonskaja9. Tanto più a sorpresa, dato l’abbassarsi della temperatura emo-
tiva generale dopo la (prima) catastrofe e il precedente impaccio conversazionale e
mondano di Myškin, solo parzialmente neutralizzato dal suo candore, sarà
l’accentuazione di un ruolo interazionale one-up. Egli non interloquirà più: appro-
priandosi di lunghi turni di parola, egli darà giudizi categorici, farà apprezzamenti
diretti sui suoi interlocutori, emetterà verdetti, tutti atti linguistici, è facile notarlo,
che presuppongono qualche tipo di potere-sapere da parte di chi li enuncia. Al ri-
fiuto di una mitigazione rituale, consistente nel non adeguamento ai microrituali
interattivi sia di comunicazione sia di metacomunicazione (scelta dei contenuti e

9
È interessante notare che, nella traduzione di Rinaldo Küfferle, il turno con cui la princi-
pessa consente a Myškin di parlare inizia con il seguente commento (assente nella traduzione di
Alfredo Polledro qui seguita): «Che voglia di arrampicarti su pei muri». Tale espressione è chiosata
in nota dal traduttore così: «Espressione russa per dire: ‘esagerare le cose all’estremo e affermarle
col massimo ardore’» (Garzanti, p. 695). Si tratta di una traduzione letterale dell’espressione
idiomatica russa lezt’ ná steny, il cui significato è ‘essere preso dalla rabbia, uscire dai gan-
gheri, perdere la padronanza sulle proprie azioni’. La traduzione di Küfferle è di felicità discuti-
bile visto che “arrampicarsi su pei muri” interferisce, si direbbe inutilmente, vista la facilità
della resa dell’espressione idiomatica russa, con l’espressione italiana “arrampicarsi sui ve-
tri”, di senso completamente diverso. Ora, al di là del problema dell’adeguatezza di questa tradu-
zione, solo indirettamente pertinente in questa sede, è interessante notare che, nella nota esplicativa
del traduttore, l’esagerazione menzionata si riferisce a due oggetti diversi: da un lato il contenuto di
un’affermazione, dall’altro la modulazione della medesima, il suo alto grado di assertività, dunque
a fatti sia di contenuto che di relazione, sia di comunicazione che di metacomunicazione. Come se
il traduttore sentisse l’esigenza di sottolineare, anche a scapito della resa efficace del russo, en-
trambe queste dimensioni che rendono incandescente la temperatura del discorso di Myškin.
Ringrazio Enrica Salvaneschi e Paola Cotta Ramusino per l’aiuto alla comprensione di que-
sto passo del testo originale.
208 CLAUDIA CAFFI

della temperatura emotiva-espressiva), subentra non solo il rifiuto di una mitiga-


zione strategica, concernente operazioni attenuative delle enunciazioni prodotte, ma
addirittura la scelta opposta, quella del rafforzamento, sia sul piano dei contenuti,
sia sul piano dello stile.
L’inappropriatezza di Myškin è dapprima tematica: è l’autorivelazione sul
proprio mondo interno, di per sé imbarazzante in quel contesto di attività cerimo-
niale: «Io sono entrato qui con l’angoscia nel cuore… Io avevo paura di voi, e an-
che di me» (p. 542). «Io ho sempre paura di nuocere col mio aspetto ridicolo, al
pensiero e all’idea essenziale» (p. 544, c.vo nel testo). Ma è anche inappropriatezza
stilistica, ancora una volta eccesso di temperatura: il principe parla in «un nuovo
impeto febbrile, volgendosi al vecchietto con aria fiduciosa e quasi confidenziale»
(p. 544). E subito dopo, ancora una volta, ad essere esplicitamente menzionati
sono fatti di appropriatezza pragmatica relativi alla scelta degli argomenti adatti
alla serata: «Ieri Aglaja mi proibì di parlare, anzi m’indicò gli argomenti che non
dovevo toccare» (p. 544). Ed ecco la rivelazione decisiva, la dichiarazione che il
suo timore su una società vuota di contenuti è stato smentito dal comportamento dei
presenti, che funziona antifrasticamente come atto di accusa ancora più grave per-
ché pronunciato in buona fede: «Molte volte ho inteso, e io stesso l’ho creduto, che
tutto in società era esteriorità, tutto era formalismo decrepito, che la sostanza invece
era inaridita; ma ora vedo che questo da noi non è possibile» (p. 543).
È a questo punto che Myškin teorizza la necessità della rinuncia alla faccia per
poter essere persona, incontrare gli altri e capire: «qualche volta è bene essere ri-
dicoli; è meglio così; ci si può perdonare l’un l’altro più facilmente, e più fa-
cilmente si fa atto di contrizione; non si può già capir tutto di colpo, né comin-
ciare subito dalla perfezione! Per raggiungere la perfezione, bisogna cominciar dal
non capir molte cose» (p. 545). La contrapposizione fra essere ed apparire, e il to-
tale disinteresse per il secondo membro dell’endiade, non potrebbe essere più radi-
cale e sconvolgente. È la finale assunzione del tono profetico, nel quale si fa mani-
festa l’essenza messianica e la vocazione salvifica di Myškin: «E parlo per salvare
noi tutti, perché la nostra casta non si dilegui invano, nelle tenebre, senza aver ca-
pito nulla, condannando tutto e dopo aver tutto perduto». La profezia che si autove-
rifica riguarda, sul piano manifesto, la rottura del vaso cinese presagita e temuta. Su
un piano più occulto, l’avverarsi di un disegno provvidenziale, che Myškin incarna
e proclama.

3.3 Un monitoraggio difettoso


Myškin dunque attenta alla faccia e, molto di più, all’identità stessa dei suoi
interlocutori. Paradossalmente, l’attentato alla faccia dei suoi interlocutori scaturi-
sce dalla stessa buona volontà nell’assegnar loro qualità positive che essi sentono di
non avere. Confermando una loro presunta superiorità, egli li disconferma: collo-
cando troppo in alto – moralmente e non socialmente – i suoi interlocutori, egli li
attacca. Myškin proietta la propria disarmante sincerità sugli altri: la co-costruzione
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 209

di identità è bloccata. Gli interlocutori di Myškin, non riconoscendosi nel modello


avanzato esplicitamente dal principe, e vedendo anzi in lui l’incarnazione di un mo-
dello alternativo, nel quale la valutazione sociale è azzerata a vantaggio della valu-
tazione morale, la faccia bruciata a favore della persona, si sentono non riconosciuti
e attaccati. Il conflitto è totale e esplosivo ed è reso da fatti squisitamente conversa-
zionali, anche se giocati a una molteplicità di livelli.
A un livello globale è il contrasto fra una funzione fàtica e una funzione
d’identità, fra la vuota ostentazione di miseri personaggi presuntuosi i cui discorsi
adempiono soprattutto una funzione di reciproca conferma da un lato e, dall’altro,
un discorso permeato dall’appassionata fede in valori superiori. Questo contrasto è
discorsivizzato, reso attraverso una conversazione che da un lato è fatta di stereo-
tipi, di battute già dette, di piccoli, raggelanti giochi fatui di rispecchiamento,
dall’altro di discorsi in cui l’estrema carica rivoluzionaria dei contenuti è accompa-
gnata da un’altissima temperatura emotiva. Al conflitto e all’incompatibilità dei
contenuti – ripetizione e innovazione, forma e sostanza, essere e apparire – si
accompagna il contrasto fra temperature emotive inferibili da fatti formali e stili-
stici, utili ad analizzare i meccanismi interattivi attraverso i quali il conflitto stesso è
attuato e la co-costruzione di identità, come il vaso cinese, è rotta.
Myškin prende alla lettera i vuoti discorsi – da repertorio – degli altri. Ciò che
spaventa i presenti è il fatto che Myškin non tiene alla propria faccia (ma sa che gli
altri ne hanno una e che devono possono vogliono preservarla). Il rifiuto della miti-
gazione, sia rituale sia strategica, dipende dal rifiuto, dalla rinuncia, tutta evange-
lica, alla propria faccia, che, come ricordavo, viene esplicitamente menzionata. Ad-
dirittura, viene teorizzata la necessità di abbandonare il face-work quale condizione
per poter davvero incontrare gli altri.
Myškin non vede (o li vede e li ignora?) i segnali di distacco e di evitamento
progressivo da parte dei suoi interlocutori, e non è dunque in grado di procedere a
un prudente recalibrage10. Il suo monitoraggio è difettoso perché ‘difettoso’ è il suo
sistema di difesa di un self che non esita a mettere in gioco fino all’estremo, proiet-
tando sugli altri un analogo bruciante, autodistruttivo coraggio. Tanto più egli è
identificato con il proprio dire, tanto più il suo monitoraggio metapragmatico è ca-
rente, o meglio, tanto più si fa strada in lui “l’idea” (Bachtin, 1968, p.115), tanto più
si alza la temperatura e tanto maggiore si fa il difetto di sintonizzazione relazionale.

10
Molte, e ancora tutte da sviluppare, le possibili convergenze tra la prospettiva di pragma-
tica integrata qui adottata e una prospettiva socio-psicologica. Mi riferisco in particolare alla ‘teoria
del sociometro’ sviluppata da Mark Leary e Deborah Downs. Secondo questa teoria l’auto-stima
funziona come un ‘sociometro’ che serve a monitorare le reazioni degli altri ai nostri comporta-
menti allertandoci rispetto ai rischi di esclusione sociale. Si veda al riguardo: Leary M. R., Tambor
E. S., Terdal S. K., Downs D. L., Self-esteem as an interpersonal monitor: the sociometer hypothe-
sis. «Journal of Personality and Social Psychology», 68, 3, 1995, pp. 518-530. Per una presenta-
zione generale di temi psicologici relativi all’auto-consapevolezza e al ruolo dell’esperienza affet-
tiva si veda Leary (2003).
210 CLAUDIA CAFFI

Quali regole interazionali, in quel contesto, sono state violate producendo lo scan-
dalo? Forse “non mostrarti troppo”? “Adegua la tua temperatura emotiva al tipo di
attività, cerimoniale o sostanziale, in corso”? “Controlla l’intensità delle tue emo-
zioni e il pathos della tua comunicazione”?
La causa principale della catastrofe è dunque emotiva-stilistica, è l’eccesso di
investimento emotivo, è lo stile troppo ‘caldo’, la temperatura troppo alta, nella to-
tale assenza di mitigazione. Un esito diverso avrebbe probabilmente avuto il suo
intervento in società se gli stessi contenuti semantici fossero stati pronunciati in
modo distaccato, ironico, subito perdendo la loro pericolosità e diventando un
nuovo gioco di società, forse azzardato e appunto per questo intrigante. La norma
interazionale che viene violata è il distacco, la distanza emotiva, l’indifferenza
come condizione dello stile, dell’ironia, della piacevolezza del conversare. La corte-
sia e la semplicità dei modi degli invitati alla serata degli Epančin sono fatti solo
formali o addirittura simulazioni: la sostanziale vacuità dei loro discorsi rispecchia
quella delle loro esistenze.
Il procedere conversazionale di queste pagine dell’Idiota mostra tra l’altro
l’insufficienza della diade ‘cortesia-scortesia’: in mancanza di un accordo sulla de-
finizione di ‘scortesia’, ben documentata da Culpeper (2011) e dalla raccolta curata
da Derek Bousfield e Miriam Locher (Bousfield, Locher, a cura di, 2008), si può
sostenere che il comportamento di Myškin viola le regole del comportamento cor-
tese, ma in modo non intenzionale: la minaccia della faccia che ne risulta è non vo-
luto (cfr. Goffman, 1967). E mostra anche l’insufficienza delle diadi ‘contenuto-re-
lazione’ e ‘interazione simmetrica-interazione complementare’. L’interazione fra
Myškin e i suoi interlocutori è drammaticamente complementare da un punto di vi-
sta analogico, cioè da un punto di vista della sottoscrizione emotiva a quanto dice,
della temperatura del discorso che si riflette nello stile. Come osserva Stendhal,
massimamente esperto di metapragmatica conversazionale, nel passo posto ad
exergo di questo contributo: «L’imprevu, produit par la sensibilitè, est l’horreur des
grandes dames: c’est l’antipode des convénances » (Le rouge et le noir, pp. 469-
70). Anche in assenza di una personalità così profondamente conturbante come
Myškin, ciò che fa orrore, non solo alle signore, il rischio vero, è che, a corto di
routines conversazionali che mettano in forma e strutturino “ciò che si deve essere”,
ci si possa anche manifestare per quello che si è, liberando dal vaso tutti i mali.

CONCLUSIONI
La discussione di un caso di sistema comunicativo ‘difettoso’ quale quello di
Myškin ha inteso far luce su alcuni modi della connessione fra co-costruzione (o
dissoluzione) dell’identità, fattori emotivi della comunicazione e scelte linguistiche,
stilistiche e conversazionali.
Il coinvolgimento emotivo è logicamente precedente alle massime gri-
ceane. Il ruolo che esso svolge è, dalla parte dell’emittente, di determinare l’appli-
cazione o la non applicazione delle massime e il grado a cui esse sono applicate, e
STILE E TEMPERATURA EMOTIVA 211

dalla parte del ricevente, di operare sul tipo di interpretazione, che cambia a se-
conda del grado di coinvolgimento (Arndt, Janney, 1987). Dunque, l’emotività
sembra funzionare da meccanismo regolatore nell’interazione.
Il caso estremo di Myškin sembra giustificare un’ipotesi: in contesti anche non
istituzionali e non rigidamente formali, la ‘compostezza’ comunicativa, anche nelle
sue versioni emotivamente più gelide, è un valore apprezzato, e qualificante di un mo-
dello di comportamento sociale premiato. Nella società dell’alta borghesia e nobiltà
della Russia di fine Ottocento lo stile comunicativo che ha successo – si veda nello
stesso capitolo de L’idiota, il caso paradigmatico del nobile che in ogni occasione
mondana ripete la stessa battuta – si fonda su una sostanziale indifferenza interperso-
nale. Sembra cioè di qualche fondamento l’ipotesi che in contesti relazionali non in-
timi, per il ‘buon’ andamento della comunicazione sia preferibile “mantenere le di-
stanze”, anche utilizzando forme di mitigazione rituale, all’avvicinarsi al destinatario:
come se l’avvicinamento fosse avvertito come potenziale minaccia per il self, intru-
sione nel proprio territorio, non solo etno-sociologico, ma anche psicologico.

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GIOVANNA ALFONZETTI
(Università di Catania)

Il “vizio dell’esotismo” nel varietà della paleo-televisione

1. OGGETTO E CORPUS DELLA RICERCA


Verranno qui presentati alcuni risultati di una ricerca che si inscrive
nell’ambito di un più ampio progetto su continuità e discontinuità tra il linguaggio
della paleo-televisione -etichetta usata da Umberto Eco (1983) per riferirsi alla tele-
visione degli esordi (1954-1976) affidata al monopolio Rai e mossa principalmente
dalla finalità pedagogica di innalzare il livello culturale dei telespettatori, pur of-
frendo loro un moderato svago- e quello della neo-televisione che, con l’avvento
delle Tv private, aumenta vertiginosamente le possibilità di scelta, privilegiando la
spettacolarizzazione anche dei programmi culturali e informativi, allo scopo di
coinvolgere il maggior numero di utenti (Nacci, 2004)1.
Più in particolare, la ricerca ha come oggetto il varietà, genere misto che esempli-
fica il carattere originario della Tv come radio, da cui eredita trasformandola la com-
ponente musicale, e come teatro, da cui riprende l’eredità della rivista e dell’avan-
spettacolo, adattandola ai ritmi e agli spazi propri della televisione. Si spiega così il
continuo rimando alla scena teatrale del varietà televisivo, che può considerarsi
l’ultima variante di quel varietà che si diffonde sia in Europa sia negli Stati Uniti a
partire dall’Ottocento come importante forma di svago e di divertimento nelle città
industriali moderne (Grasso, 2000, p. 787). Al suo interno confluiscono il teatro co-
mico-brillante, la rivista popolare ma anche alcuni show americani degli anni ‘502,
fonte evidente di ispirazione per i varietà paleo-televisivi.
Il varietà -annoverato di diritto tra i generi di trasmissioni che hanno cambiato
l’Italia (Zambarbieri, 2004, p. 87)- nonostante sia una forma di spettacolo fine a se
stessa, complessivamente estranea alla realtà quotidiana, riflette abitudini, mode,
costumi del tempo e, di conseguenza, testimonia, forse più di altri generi, profondi
cambiamenti degli stili, non solo linguistici, e dei valori socioculturali nel nostro
Paese, pur presentando allo stesso tempo interessanti continuità.

1
Il progetto dal titolo Il portale dell’italiano televisivo: corpora, generi e stili comunicativi
(PRIN 2008) è stato realizzato dalle Università di Catania, Firenze, Genova, Milano e della Tuscia,
con la collaborazione dell’Accademia della Crusca. Sulle principali differenze tra paleo-Tv e neo-
Tv, cfr. tra gli altri Fumagalli, 2004. Sulla storia della televisione più in generale ci si limiterà a
menzionare Abruzzese, 1995, Grasso, 2004 e Ortoleva, 1995. Sul linguaggio televisivo, cfr. Al-
fieri, Bonomi, 2008 e 2012.
2
Zambarbieri (2004, p. 88) ricorda soprattutto Your show of shows della NBC, firmato da
Mel Brooks e Woody Allen e diretto da Max Liebman.
216 GIOVANNA ALFONZETTI

Dal punto di vista più strettamente sociolinguistico, costituisce un interessante


oggetto di analisi perché, discendendo direttamente dal teatro di rivista, ne conserva
la duttilità e la libertà di espressione, mostrando sin dalle origini quella «totalità
della lingua» che, nella Storia linguistica dell’Italia unita, De Mauro (1979, p. 439)
individua come tratto caratterizzante dell’italiano televisivo rispetto a quello cine-
matografico e radiofonico. Il mezzo televisivo, infatti, per alcune sue peculiarità
«eversive», non solo ha raggiunto una diffusione «alluvionale» (Menduni, 2010),
ignota a qualsiasi altro mezzo, ma per la eterogeneità di contenuti, di generi, di
forme di spettacolo (concerto, balletto, cinema, opera, sport, ecc.) e di comunica-
zione (lezione, dibattito, conferenza, inchiesta, comizio, dialoghi dal vivo o preor-
dinati, ecc.) fa sì che nell’ambito della dimensione domestica la televisione sia un
surrogato di tutti gli altri mass media: una sorta di caleidoscopio che onora più con-
tratti comunicativi: informativo (tipico della stampa), narrativo (del cinema), con-
versazionale (della radio) e dell’intrattenimento performativo (tipico dello spettacolo
dal vivo). Questa polisemia spiegherebbe perché la televisione si serva liberamente di
tutte le risorse della lingua comune, offrendo modelli di parlato che vanno da un mi-
nimo a un massimo di formalità e letterarietà (De Mauro, 1979, p. 456).
Uno dei tratti più interessanti del varietà delle origini è dato dal fatto che
all’interno di un solo genere si ritrovino usi regionali e standard, formali e infor-
mali, autenticamente parlati o scritto-parlati, così come avviene nel medium televi-
sivo nel suo complesso. Da questo punto di vista, il varietà degli esordi sembra in
parte prefigurare il cambiamento subito dalla televisione nella seconda metà degli
anni ’70, allorché da «prima scuola» di italiano diventa «specchio» dell’intera realtà
linguistica della comunità (Simone, 1987).
Questo punto è emerso chiaramente dall’analisi del corpus esaminato, di cui si
prenderanno in considerazione qui solo due varietà della paleo-televisione, e preci-
samente:
˗ 123, «il più riuscito e fortunato varietà degli anni Cinquanta» (Grasso,
2004, p. 25), andato in onda per sei anni dal 1954 al 1959, che segna il
passaggio dal teatro di rivista – da cui eredita la trovata della coppia co-
mica (dalla terza edizione Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello) – alla ri-
vista televisiva;
˗ Studio Uno, in onda dal 1961 al 1966, che inaugura una nuova era dello
spettacolo leggero, ispirandosi ai modelli americani introdotti in Italia dal
regista Antonello Falqui (Grasso, 2004, p. 104). Ha un enorme successo
di pubblico tanto da figurare tra i dieci programmi più seguiti nel corso
degli anni ’60.
Il corpus analizzato, trascritto sulla base delle convenzioni riportate in nota3,

3
Per la trascrizione del corpus si è utilizzata una versione semplificata del sistema del LIR
(Lessico italiano radiofonico) (cfr. Alfieri, Stefanelli, 2005), della quale qui di seguito si danno le
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 217

comprende in particolare:

˗ 2 puntate di 123: 31 maggio e 14 giugno 1959;


˗ 8 puntate di Studio Uno, riprese da anni diversi, per poter rilevare even-
tuali cambiamenti intercorsi nelle quattro edizioni in cui lo spettacolo è
andato in onda. In particolare, le puntate esaminate sono:
˗ 3 puntate della 1° edizione 1961-62: 28 ottobre, 4 novembre e 9 di-
cembre 1961;
˗ 3 puntate della 2° edizione 1962-63: 22 dicembre 1962, 26 gennaio e
23 febbraio 1963;
˗ 2 puntate della 3° edizione 1965: 24 aprile e 1 maggio.

L’analisi linguistica del corpus, come si diceva, mostra la co-occorrenza entro


ciascuna puntata di un’ampia gamma di varietà del repertorio sociolinguistico ita-
liano: un posto di primo piano spetta alle varietà diastratiche e diafasiche alte, spo-
state verso il polo scritto, conseguenza del ruolo pedagogico e modellizzante della
paleo-Tv; molti i tecnicismi lessicali di diversi ambiti, anche burocratico; si hanno
poi il neo-standard e l’italiano colloquiale con alcune concessioni al parlato-parlato;
sono inoltre presenti anche varietà decisamente sub-standard, quali l’italiano infor-
male trascurato o l’italiano popolare, messe in bocca a personaggi immaginari,
protagonisti di sketch per lo più comici; negli stessi contesti troviamo pure varietà
diatopiche più o meno fortemente marcate, specie nella pronuncia (romanesco, ve-
neto, napoletano, pugliese), con alcune vere e proprie commutazioni in dialetto. Per
una discussione più approfondita della pluralità di usi nel varietà della paleo-Tv, si
rinvia ad Alfonzetti (in stampa), qui sarà evidenziata invece una componente sinora
non sufficientemente messa in luce -la presenza, cioè, di lingue straniere- sfuggita

convenzioni adoperate:
barra obliqua doppia // = fine di enunciato dichiarativo (anche fine turno)
barra obliqua semplice / = scansione interna dell’enunciato (pausa o cambio intonazione)
punto interrogativo ? = fine di enunciato interrogativo
punto esclamativo ! = fine di enunciato esclamativo
punti di sospensione … = intonazione sospensiva
parentesi quadre [ ] = commenti paralinguistici e situazionali
parentesi uncinate < > = sovrapposizione di turno
trattino - = interruzione di parola
[xxx] = parola o parte di parola incomprensibile o di difficile trascrizione
due punti : = allungamento fonologico dovuto ad esitazione, enfasi, ecc.
h, ehm, ahm, uhm, mhm, ah = respiro udibile, riempitivi
apici doppi “ ” = discorso diretto riportato
MAIUSCOLO = fenomeni di enfasi
carattere corsivo = forme commentate nell’esempio.
218 GIOVANNA ALFONZETTI

all’attenzione dei non numerosi studi sul linguaggio del varietà paleo-televisivo, su
cui poter basare generalizzazioni empiricamente fondate.
Nella Storia linguistica, De Mauro (1979, p. 440), facendo riferimento a un
articolo del Corriere della Sera del 9 gennaio 1965, scrive: «poca cosa anche i rari
forestierismi che appaiono qua e là nelle trasmissioni»; e ricorda, inoltre, come una
semplice frase in francese -«entre les deux mon coeur balance»- pronunciata dal
maestro Chiron in Lascia o raddoppia? (9 luglio 1957), non capita da Mike Buon-
giorno, causi le risate o l’indignazione del pubblico. Del resto, la bellissima inchie-
sta di De Rita, I contadini e la televisione, su cui ampiamente riferisce De Mauro,
aveva mostrato l’esasperazione provata da un gruppo di contadini lucani nel non
comprendere lingue a loro sconosciute. Scrive infatti De Rita (1964, p. 120):

Niente infatti li esaspera tanto quanto il non capire, il che avviene molto spesso, ma se
generalmente la delusione viene tradotta in un giudizio negativo sullo spettacolo, perché
è difficile ammettere che “non piace” perché “non si capisce”, nel caso di trasmissioni
in cui è inserita qualche frase o canzone in lingua straniera, tutta l’irritazione si scatena
senza reticenza.

Tuttavia un esame approfondito mostra che nel varietà della paleo-televisione le


lingue straniere sono largamente usate, in contesti e con funzioni diverse, come si
cercherà di mostrare nei paragrafi seguenti, dove si fornirà anche una ampia esem-
plificazione, data la non facilissima accessibilità dei materiali, che presentano un
notevole interesse, non solo per la ricerca sul medium televisivo, ma anche, vista
l’azione linguistica fondamentale da esso esercitata, per la comprensione e ricostru-
zione delle dinamiche sociolinguistiche del nostro Paese.

2. IL VARIETÀ COME FINESTRA SUL MONDO


Iniziamo subito col dire che la metafora di finestra sul mondo, ampiamente
usata per descrivere il ruolo della televisione nel periodo delle origini (Abruzzese,
1995), si addice perfettamente sia a 123 sia, ancor di più, a Studio Uno. La realtà
che i due varietà pongono di fronte ai telespettatori è infatti di una grande ricchezza,
dal punto di vista geografico, storico e culturale. Tutte le trasmissioni sono più o
meno intrise di un’atmosfera di internazionalismo, formale e contenutistico allo
stesso tempo, che si manifesta in primo luogo nella menzione di fenomeni, eventi,
personaggi che travalicano i confini nazionali. In quasi ogni puntata, troviamo rife-
rimenti a eventi sportivi, giochi, musiche e danze straniere e persino esotiche: in
123 si finge un collegamento dal Palladium di Londra (31.5.959) oppure si mo-
strano un flamenco e una corrida in corso nella Plaza de Toros (14.6.1959). In Stu-
dio Uno si menzionano: il campionato mondiale di ping pong del 1905, incontri in-
ternazionali di pugilato, danze e musiche di diversa origine, tra le quali marimba,
bossanova, carioca, charleston, jazz, tango argentino, samba, walzer, twist, rock and
roll e persino il ballo delle smashed potatoes, di moda, a quanto ci viene detto, a
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 219

New York, Londra e Parigi in quegli anni, portato sulla scena da Dany Saval che lo
balla insieme a Don Lurio nella puntata del 22/12/19624:

(1) SMASHED POTATOES


D.L. […] e dimmi Dany che nuovo ballo hai ballato che si fa a Parigi //
D.S. la smashed potatoes //
D.L. la smashed potatoes beh / io ho visto questa a New York e a Londra //
D.S. sì //
D.L. è due passi in avanti e quattro indietro / è questa? //
D.S. sì //
D.L. e certo io conosce… le posso ballare questo da noi per piacere?
D.S sì //
D.L. aspetta due secondi / io voglio tutti delle Bluebell and Boys / Bluebell vieni
qui / Boys… vieni guarda questa… Dany ci balla il smashed potatoes / il
nuovo ballo di Parigi [xxx] guarda… pronto… due in avanti e quattro dietro
[I due ballerini cantano e ballano insieme alle Bluebell e ai Boys].

Nella puntata del 28/10/1961 di Studio Uno, le parole crociate sono al centro
di un numero del quartetto Cetra, che si esibisce cantando in inglese mentre svolge
un cruciverba, di cui una voce fuori campo sottolinea la provenienza d’oltreoceano:

(2) LE PAROLE CROCIATE


dall’America viene importata in Europa la follia delle parole incrociate / e in tutte le
famiglie si fa a gara per risolvere questo nuovo rompicapo.

Moltissimi sono i luoghi più o meno lontani menzionati nelle varie trasmis-
sioni, che fanno da sfondo a numeri di diverso genere: capitali, città e paesi europei
(Parigi in testa e poi Londra, Bruxelles, Vienna, Saint Tropez, Saint Vincent,
Courmayeur, Istanbul, Olanda Spagna, Andalusia, ecc.) ma anche ovviamente gli
Stati Uniti (con New York, Broadway, Illinois, Philadelphia, Tennessee, South Ca-
rolina, Mississipi, ecc.); e poi ancora Argentina, Cuba, Avana, Ipanema, Rio de Ja-
neiro, Lima, Perù, Bogotà, Equador, Uganda, Malesia, ecc. Frequenti sono anche le
ambientazioni esotiche dei vari numeri: giardini africani, la giungla, le praterie del
Far West, la Casba, la savana, ecc.
L’intento pedagogico di portare nella casa dei telespettatori mondi e culture
lontane, perseguito da tutta la televisione delle origini -per la quale, com’è noto, an-
che l’intrattenimento non era totalmente separato dalla divulgazione culturale- è
particolarmente evidente in una esibizione di Mina (Studio Uno 28.10.1961), la
quale, prima di cantare una canzone parzialmente in giapponese, dal titolo Anata to
watashi (‘Tu ed io’), si prepara indossando il kimono, aiutata da due samurai, con

4
Il video è disponibile su YouTube.
220 GIOVANNA ALFONZETTI

un sottofondo di musica giapponese e mostrando al pubblico alcuni accessori, men-


zionandone i nomi in giapponese, parlando lentamente, scandendo bene le parole
con un atteggiamento didascalico, quasi stesse impartendo una lezione a un pub-
blico di scolaretti5:

(3) ANATA TO WATASHI


signore e signori / questa sera vi voglio cantare una canzone d’ambiente giapponese /
beh con qualche parola in giapponese […] prima però di cantare / in ossequio a un pre-
ciso cerimoniale devo indossare il kimono // [musica giapponese di sottofondo] questi
sono due onorevoli samurai / amici miei … che mi aiuteranno nella vestizione // sape-
ste com’è difficile indossare il kimono! ecco! vedete questa piccola cintura? si chiama
obiage / non la metterò perché mi ci vorrebbe mezz’ora // questo è un collarino / si
chiama atashi no bu e significa collanina di fiori di pesco // quanto a questa cinturina
piccola piccola piccola si chiama obijime // questa invece ha un nome molto facile … si
chiama obi // questo nastro … che completa … si chiama [xxx] / [rivolgendosi ai due
samurai] arigatoo … arigatoo ah! arigatoo significa grazie [inizia a cantare].
Numerosissimi sono i personaggi storici, letterari, religiosi di diverse epoche
menzionati a vario titolo nelle varie trasmissioni (Allah, Nerone, Agrippina, Cleo-
patra, Cornelio Scipione, Edoardo VIII, il kaiser Guglielmo II, Cavour, Riccardo
Cuor di Leone, Robin Hood, Cyrano de Bergerac, il generale Custer, don Rodrigo e
don Abbondio, Sandokan, ecc.); così come gli scrittori di diversa nazionalità (Dante
Alighieri, Alessandro Manzoni, Maxim Gorki, George Bernard Shaw, Emilio Sal-
gari, Francis Scott Fitzgerald, Anton Checov, ecc.); artisti (Modigliani, Rubens,
Renoir, ecc.); campioni sportivi ed esploratori (Georges Carpentier, Charles Lind-
bergh, Pelé, ecc.); musicisti (Beachfield, Gershwin, ecc.); gli inventori del cinema, i
fratelli Lumière, e poi molti personaggi dello spettacolo, attori, ballerini e cantanti
(Italia Almirante Manzini, Josephine Baker, Fred Astaire, Jean Gabin, Marlene
Dietrich, Liz Taylor, Brigitte Bardot, Greta Garbo, Ronald Charles Colman, Vilma
Bánky, Audrey Hepburn, Eleonora Duse, ecc.).
Questo ampio respiro internazionale pervade molte parti delle due trasmis-
sioni. In Studio Uno, ad es., nella presentazione cantata delle gemelle Kessler
(28/10/1961), vengono addirittura tirati in ballo John Kennedy e Nikita Kruscev,
per il fatto di portare un cognome con la stessa iniziale di quello delle due gemelle:

(4) PRESENTAZIONE DELLE GEMELLE KESSLER


kappa / se guardi sulla mappa / se giri il mappamondo
vedrai che mezzo mondo porta un kappa come Kennedy
kappa / davvero non si scappa / girando il mondo in tondo
sopra l’altro mezzo mondo trovi un kappa come Kruscev
kappa / però si va dicendo che qui allo studio uno

5
Anche questo video è disponibile su You tube.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 221

il kappa che più spacca è un kappa tutto biondo


kappa kappa kappa kappa Kessler.

3. LE LINGUE STRANIERE
Il principale mezzo attraverso il quale si tenta di creare e comunicare questa
atmosfera di internazionalismo è, naturalmente, l’uso di elementi variamente ricon-
ducibili a lingue straniere.

3.1 Forestierismi
Nel corpus esaminato, si trova, in primo luogo, una notevole quantità di fore-
stierismi6 da varie lingue, adoperati con funzioni diverse.
Consistente è il numero di francesismi, in maggioranza prodotti di lusso sal-
damente radicati in italiano (e per questo non sempre marcati come esotismi nei di-
zionari), il cui largo uso mostra il prestigio culturale di cui gode ancora il francese
negli anni Sessanta del ’900, per «il legame a certi modelli di vita e all’evocazione
degli ambienti della jeunesse dorée, dei boulevards, dei gigolos, degli apache pari-
gini» (Morgana, 1994: 715), che il varietà paleo-televisivo sfrutta a piene mani. E
infatti boulevard e gigolo figurano nella folta schiera di francesismi riscontrati so-
prattutto in Studio Uno. Ad esclusione di bijou, rendez vous, frac e tête à tête, en-
trati precedentemente, la maggior parte è penetrata in italiano nel corso dell’800:
abat jour, chic, clichè, fané (‘appassito, sfiorito, sciupato’), grand hôtel, réclame,
soubrette7, souvenir, viveur. Ai primi decenni del ’900 risalgono invece bistrot,
chansonnier, usato nella presentazione cantata di Marcel Amont (protagonista di
spicco della prima edizione di Studio Uno), chanteuse, (uovo alla) coque, garçon-
nière, manicure, troupe, vedette. Più a ridosso degli anni Sessanta, si hanno visagi-
ste (1950)8, nella forma non adattata, e nouvelle vague (1959), tecnicismo di ambito
cinematografico, cui si fa riferimento nel Cinegiornale dell’altro ieri (9.12.1961),
rubrica presente solo nella prima edizione di Studio Uno, letta da una voce fuori
campo e dedicata alla ricostruzione di fatti storici e culturali del passato recente:

(5) NOUVELLE VAGUE


[…] c’è tuttavia qualcuno che insensibile al fascino della nouvelle vague cinematogra-
fica del 1936 si abbandona con nostalgico impegno al ritmo sempre più anacronistico
del tango argentino.

6
Si considereranno soprattutto i prestiti non adattati, occasionali o entrati più o meno stabil-
mente nella lingua comune.
7
Questo francesismo mostra la diretta filiazione del varietà televisivo dal teatro: dal soprano
leggero, che spesso interpreta il personaggio della servetta nel teatro dell’opera, passa infatti a de-
signare l’attrice che recita, canta e balla in spettacoli di varietà teatrali e televisivi.
8
Tra parentesi si dà la data di prima attestazione che figura nel Gradit e/o nel Sabatini-Coletti.
222 GIOVANNA ALFONZETTI

I francesismi sono usati soprattutto per il loro potere evocativo nel ricostruire il
costume e il clima culturale di determinate epoche storiche, come mostra un altro
esempio tratto dal Cinegiornale di Studio Uno (4.11.1961), dove, nel dare «una rapida
scorsa alla moda» del 1927, non viene risparmiata una bordata al limite dell’ingiuria
misogina contro le donne che portano i capelli molto corti, cioè alla garçonne:

(6) ALLA GARÇONNE


una rapida scorsa alla moda … sempre più indulgente alla spensieratezza… le donne
portano capelli cortissimi // affermano i maligni dell’epoca che anche i loro cervelli
sono… alla garçonne //

Ancor più numerosi sono in entrambe le trasmissioni gli anglicismi, una ulte-
riore preziosa testimonianza della decisa impennata che l’influenza dell’inglese –
pur dotata di una profondità diacronica dimostrata dalla stratificazione cronologica
degli apporti – registra nel secondo dopoguerra9. Ad esclusione di alcuni di epoca
precedente – milord, hall, baby, ring, shock, trainer, whisky, smoking (come si sa,
uno pseudo-anglicismo10) – la maggior parte degli anglicismi del corpus è penetrata
in italiano nel corso del ’900. Tranne pochi casi – come week end, party, star, miss
– si tratta di denominazioni di referenti connessi alla realtà culturale anglosassone o
anglo-americana: charleston, gangster, jazz e cool jazz11, swing, spider, rock,
technicolor, western, ecc. Vari gli anglicismi penetrati negli anni a ridosso di quelli
dei nostri due varietà: mister (1951), hobby (1956), rock and roll (1956), long
playing (1959), night (1960), cover girl (1954), latin lover (1963).
Un anglicismo usato regolarmente in tutte le puntate di entrambe le trasmissioni
in modo autoreferenziale è, ovviamente, show (1954), ma in chiave radicalmente
diversa: seria in Studio Uno, da parte sia delle gemelle Kessler nella prima edizione,
sia di Walter Chiari nella formula di presentazione della seconda:

(7) SHOW IN STUDIO UNO


K.K. […] diamo inizio al nostro show con l’arrivo di Luttazzi / di Luttazzi / di
Luttazzi / Lelio: [28.10.1961].
W.C. signori e signore buon sabato sera // benvenuti a Studio Uno show… nel
quale vedrete… i Boys / le Bluebell Girls / Rita Pavone / Giancarlo Cobelli /
Dany Saval / don Lurio / il Quartetto Cetra / Zizi Jeanmaire// [22.12.1962].

Invece, in 123 (31.5.1959) l’uso della parola è asservito alla chiave comica e
autoironica che informa l’intera trasmissione, e l’assonanza tra show, shock e scioc-

9
Cfr. su questo punto Klajn, 1972 e la Postfazione al Gradit.
10
Secondo Klajn (1972, pp. 101-2), cui si rinvia per maggiori informazioni, «il più noto dei
falsi anglicismi europei», riduzione del sintagma smoking jacket.
11
Tecnicismo di ambito musicale, indica uno stile di jazz affermatosi alla fine degli anni qua-
ranta, caratterizzato da una maggiore ricercatezza armonica e timbrica.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 223

chini sfocia in una sorta di scioglilingua nella canzoncina iniziale di presentazione


(che come si vedrà in 4. è sottotitolata in inglese), nella quale i due conduttori per
divertire il pubblico si prestano ad autodenigrarsi e denigrare il programma stesso:

(8) SHOW IN 123


e stupiti gli abbonati si domandano il perché / il nostro show a tutti fa venir lo shock //
perché noi siamo un po’ scio scio sciocchini / però però se pure avete detto no/ faremo
l’un due tre per divertir //

Un’attenzione particolare merita juke-box (1950), prestito di necessità che de-


signa uno dei principali simboli degli anni Cinquanta negli USA, che, importato nel
nostro paese, acquista anche qui un ruolo primario nella moda e nei costumi musi-
cali degli anni Sessanta. Il potere caratterizzante di questo oggetto è tale che, oltre
ad essere spesso menzionato, è materialmente presente in molti film e telefilm del
tempo così come succede nella scena di 123, dove dà il titolo a una rubrica musi-
cale, che nella puntata del 31.05.1959, si svolge in un locale dove si trova un juke
box, da cui due personaggi che rappresentano tipi diametralmente opposti selezio-
neranno due diversi brani: il giovanotto dall’aria scanzonata un pezzo di jazz; Via-
nello nei panni di un impeccabile gentleman un brano di lirica. Nella solita chiave
ironica del programma, la conclusione vedrà un ribaltamento delle aspettative: il
gentleman si rivela in realtà un ladruncolo che ruba le monete del juke box, racco-
gliendole nella bombetta sotto gli occhi attoniti dei presenti. Nella puntata del
14.6.1959, la scena è costituita da tre juke box, dietro i quali sbucano i cantanti che
si esibiranno subito dopo.
Un anglicismo successivo a 123 è twist (1961), il famoso ballo nato, come si
sa, negli Stati Uniti, da dove si è diffuso immediatamente dopo in tutta Europa;
portato in Italia nel 1961 per la prima volta da Peppino di Capri accompagnato dai
Rockers, verrà poi presentato al pubblico televisivo a Studio Uno (22.12.1962) da
Rita Pavone insieme a un gruppo di «bravi ragazzi», nel cui identikit socioculturale,
da essi stessi delineato, ballare «un poco il twist» è un tratto fortemente caratteriz-
zante, insieme a studiare Cicerone e giocare a pallone.
Posteriore a 123, è anche la prima attestazione di step nei dizionari; Rando,
1989 lo data 1966 ma è adoperato dalle gemelle Kessler in una loro esibizione del
9.12.1961 in cui ballano e cantano la marimba:

(9) STEP
se vuoi danzare la marimba d’oltremare devi sempre ricordare questo step.

L’analisi dei forestierismi del corpus consente dunque alcune retrodatazioni:


anche majorettes -anglicismo che sia il Gradit sia il Sabatini-Coletti datano 197312

12
Ad eccezione di majorettes, spider, rock, rock and roll, step, la maggior parte di quelli ri-
224 GIOVANNA ALFONZETTI

e che è assente sia in Klajn, 1972, sia in Rando, 1989- ricorre già nella puntata di
Studio Uno del 28.10.1961, in bocca a Marcel Amont che ne spiega il significato al
pubblico italiano:

(10) MAJORETTES
come voi sapete in Stati Uniti… ehm / quando… quando…e: e: durante le elezioni
per… reclamizzare… un prodotto delle sigarette delle [xxx] / fanno sfilare le majoret-
tes! le majorettes che sono… belle… bellissime ragazze… eh/eh / ballerine o:: ballerine
o acrobàte… con de uniformi militari //

Nel varietà della paleo-Tv non è raro lo sfruttamento a fini comici delle con-
notazioni di alcuni forestierismi. Così, ad es., l’anglicismo tecnico, appartenente al
linguaggio della aerodinamica, flap(per)13, è adoperato in uno sketch esilarante di
Walter Chiari (Studio Uno 23.2.1963), dove si deride – nella «fiera delle novità del
modernismo» – il vizio degli italiani di voler apparire ciò che non si è. In partico-
lare, il grande attore ironizza sulla figura di un giovane, il quale – durante «una di
quelle feste di moda in tutta Italia» dove ci si presenta con «Elà! Come va? Salve
salve, si mangia e beve e poi si va via» – tenta di far colpo su una ragazza millan-
tando ricchezze, viaggi e competenze poliglotte in realtà inesistenti. È evidente che
l’anglicismo in questo contesto serve ad evocare efficienza tecnologica, ricchezza,
progresso, così come la menzione di un marchio automobilistico prestigioso quale
Rolls-Royce, che il giovane sbruffone ha difficoltà persino a pronunciare corretta-
mente. Lungi dall’essere un ricco poliglotta, nella battuta finale in romanesco, il
giovane si rivela un provinciale dialettofono che non possiede nemmeno un tele-
fono proprio ma deve servirsi di quello del droghiere sotto casa:

(11) FLAPPER
come sta? sta bene? … mi sembra già d’averla conosciuta … [risate] a Montecarlo? …
no … a New York lei non va … ah! Perché mi sembra d’averla già conosciuta / vista in
qualche posto per il modo… mi piace:: mi piace insomma il suo viso /così intelligente/ i
suoi occhi [risate] … io ho viaggiato … ho conosciuto tanta gente sa? [risate] [lunga
pausa] senta un po’ / vuole domani venire a vedere la villa di mia madre? la mando a
prendere con la roll rolls royce con l’autista / lei può parlare con lui inglese francese …
tedesco indiano/ lui parla tutte le lingue … anch’io parlo parlo tutte le lingue // oppure
oppure se vuole possiamo andare con l’aereo privato il mio aereo /non è un gran cosa /
ha già due anni / è già vecchio [risate] potremmo andare non so io a:: Saint Vincent /
c’è un piccolo campo per atterrare/ ma ce la fa / sono un 350 metri/ buttandosi in flap-

scontrati nel corpus figura nell’inventario fornitoci da Klajn (1972, pp. 24-25) dei circa trecento
anglicismi non adattati usati comunemente nella lingua di ogni giorno negli anni Sessanta del se-
colo scorso. Cfr. anche Cartago, 1994, pp. 744-745.
13
Flap è la «superficie aerodinamica ausiliaria mobile, situata sul bordo posteriore dell’ala,
che serve ad aumentarne la portata» (Gradit).
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 225

per / inversando l’elica così insomma / si può fare [risate] oppure andiamo a vedere la
collezione di gioielli/se vuole andiamo a vedere la collezione di gioielli dei miei nonni
che è enorme grande / ma lì ci vogliono due tre giorni insomma per vedere / capisce? ad
ogni modo io sono molto felice d’averla veduta/le do il mio biglietto da visita / ecco /io
non mi permetto perché lei è una signora signorina / insomma / non mi permetto di di-
sturbarla // sarà lei quando avrà tempo e se avrà voglia di telefonarmi di chiamarmi [la
signorina legge il biglietto] “va bene // questo è il suo numero di telefono privato?” dice
“no non no / è il droghiere sotto // ma se insiste me chiameno”//

Molto meno numerosi sono i forestierismi provenienti da altre lingue. I pochi


iberismi rimandano quasi tutti a referenti sud-americani: marimba, già menzionato,
è voce spagnola di origine africana, di cui tuttavia nel Gradit e nel Sabatini-Coletti
viene dato solo il significato di strumento musicale a percussione di origine afri-
cana, diffuso in Messico e Guatemala, mentre nel corpus, come si è visto, viene
usato per riferirsi a una danza. Si hanno, inoltre, cuba libre, l’ormai popolare cock-
tail a base di coca cola e rum, e goleador, appellativo di cui si fregia con evidente
intento autoironico Panelli in uno sketch di Studio Uno (24.04.1965), dove il con-
trasto tra le connotazioni altisonanti del titolo di goleador e gli altri attributi non
solo fisici del personaggio sortisce un indubbio effetto comico:

(12) GOLEADOR
sono il dominatore degli stadi / l’idolo delle folle / il goleador // so quello coi capelli
color morrone / con la fronte bassola e gli occhi viola […] sono alto un metro e sessanta
a piedi nudi e uno e sessantacinque coi tacchetti a spillo // a spillo per poterli piantà me-
glio negli stinchi de l’avversario [risate e applausi del pubblico].

Allo stesso sfruttamento comico è sottoposto il forestierismo di origine rume-


na -conducator- la cui prima attestazione nel Sabatini-Coletti risale al 1987, mentre
nel nostro corpus viene adoperato nella puntata di Studio Uno dell’1.5.1965 da
Paolo Panelli, nel personaggio dell’italiano medio, Cecconi Bruno; si noti anche in
questo caso il contrasto esilarante tra il potere dispotico dei dittatori rumeni evocato
dal forestierismo e la sottomissione domestica subito dopo confessata con la
citazione storica delle famose parole di Garibaldi a Vittorio Emanuele II:

(13) CONDUCATOR
io so er marito… er maschio… er padre de famiglia il conducator / infatti a casa me
comporto come Garibardi / obbedisco // [risate del pubblico].

I pochi forestierismi provenienti dal portoghese designano tutti danze di ori-


gine brasiliana: carioca, samba e bossanova. Un esempio di tedeschismo è il tecni-
cismo di ambito cinematografico kolossal, la cui data di prima attestazione nel
Gradit è il 1964, usato invece già nel Cinegiornale di Studio Uno del 9.12.1961, in-
sieme a kermesse, termine di origine fiamminga (kermisse ‘festa patronale’), entrato
in italiano attraverso il francese.
226 GIOVANNA ALFONZETTI

Troviamo inoltre il russismo samovar che – insieme agli arabismi casba (pe-
netrato attraverso il francese) e bazar, alla musica araba di sottofondo, all’invo-
cazione ad Allah e al termine di origine turca muezzin – serve a creare l’atmosfera
esotica di un numero del quartetto Cetra (22.12.1962), su cui si tornerà tra breve per
il suo plurilinguismo:

(14) CASBA
V.f.c. questa è la casba… il regno del vizio della corruzione e del peccato… qui in
un dedalo di viuzze / dove la morte e l’avventura sono in agguato / un uomo /
protetto dall’omertà / vive la sua vita losca e senza speranza //
[…]
F [una turista si aggira nel mercato] qua in questo insolito bazar /una teiera un
samovar / mi viene voglia di comprar

Ci sono, inoltre, alcuni nipponismi da lungo tempo radicati nell’italiano -chi-


mono, samurai, geisha14- e alcuni casuals, cioè citazioni occasionali (Gusmani,
1973, p. 16) che, come si è visto in 2., Mina usa nella presentazione della canzone
pseudo-giapponese.
Parole di origine esotica nel corpus sono inoltre: maharajah (dall’urdu), sari,
rajah e fachiro (dall’hindi), gli ultimi due nella parodia dei tigrotti della giungla
salgariani, ad opera del quartetto Cetra (Studio Uno 4.11.1961)15.
Dalla parte opposta del globo, cioè dall’algonchino, ma attraverso l’inglese, pro-
viene wigwam, forestierismo certamente poco noto al pubblico televisivo e infatti do-
verosamente spiegato da Walter Chiari, che lo usa in uno dei suoi sketch comici (Stu-
dio Uno 26.01.1963), nel quale rievoca «uno dei più begli episodi della guerra tra gli
indiani e gli americani», vale a dire la battaglia del Little Bighorn (25 giugno 1876)
che vide la schiacciante vittoria delle tribù indiane alleate sul settimo reggimento di
cavalleria degli Stati Uniti, guidato dal generale George Armstrong Custer:

(15) WIGWAM
[…] il giorno dopo questa schiacciante vittoria / Settimburg passa in mezzo
all’accampamento degli indiani col suo cavallo bianco così // si ferma davanti al primo
wigwam / sarebbero quelle capanne… quelle capanne di pelle di daino o di bufalo dove
ci sono dentro gli indiani e… ferma il cavallo che nitrisce hihhhi: / [nitrito del cavallo]
[…].

14
Secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana, ‘geisha’ o ‘gheiscia’ sarebbe entrato
in italiano nel 1887 per mediazione dal francese. Klajn (1972, p. 18) invece considera molto pro-
babile sia in ‘geisha’ che in ‘kimono’ la “partecipazione” dell’inglese.
15
Il video di questo numero è disponibile su YouTube.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 227

Sono infine presenti nel corpus alcuni latinismi usati all’inizio della puntata
del 24.04.1965 di Studio Uno da Lelio Luttazzi in chiave prevalentemente autoiro-
nica, non senza tuttavia un intento didattico, visto che non se ne dà per scontata la
comprensione ma, al contrario, il latinismo segue l’espressione italiana che dunque
ne chiarisce il significato, secondo uno dei procedimenti tipici della divulgazione:

(16) LATINISMI
buona sera amici / buona sera a tutti // avete visto che le Kessler avevano un fiore sul …
sui capelli? bene / una ragione c’è // molti ci scrivono / ci hanno scritto / chiedendoci se
la nostra sigla iniziale / questa qui che avete visto adesso con la notte è piccolina è fil-
mata [xxx] … come volete / come vogliamo dire e:: una volta per sempre / una tantum
cioè / oppure se viene fatta di volta in volta / ex novo // scusate queste citazioni latine /
ma mi porto dietro questo fardello di questa spaventosa cultura umanistica //

Nella puntata successiva (1.5.1965), i latinismi di Luttazzi offriranno lo spunto


per una canzonatura bonaria del conduttore da parte di Ornella Vanoni, nel numero
La donna per me:

(17) LA DONNA PER ME


L.L. […] senti cara / dimmi piuttosto… sei sei sei contenta di essere la donna per
me?
O.V. oh / sì Lelio / a me è sempre molto piaciuto l’uomo colto / vero… l’uomo
che butta là nei suoi discorsi come fosse niente tutti quei bei panta rei… ex
novo… ad libitum //

3.2 L’italiano come interlingua


L’apporto delle lingue straniere non è limitato ai forestierismi. A creare un’a-
tmosfera internazionale nei due varietà contribuisce non poco il fatto che molti sono
gli stranieri che parlano un italiano con forti interferenze ai vari livelli.
In 123, ad esempio, «l’annunciamento» della rubrica Torniamo a scuola, nella
puntata del 14 giugno è affidato a una «suocerina» straniera la quale suggerisce a
chi non dovesse gradire il numero di chiudere «li occhi»:

(18) TORNIAMO A SCUOLA


scusate la mia tonalità / un po’ [xxx] / ma veramente io non dovevo fare questo annun-
ciamento / in ogni modo io vi dico che adesso viene [xxx] / e io il suo balletto a ballare
un balletto proprio inspirato della nostra rubrica TORNIAMO A SCUOLA / che ri-
compare in questa parte di uno due tre // a chi gli piace lo guarda /a chi non piace /
chiude li occhi

In questa stessa puntata alla medesima annunciatrice – che si dichiara «molto


nervosissima ma buona» – viene affidata anche la presentazione del pianista Roy
228 GIOVANNA ALFONZETTI

Ross, che «giocherà con il pianoforte», probabile interferenza sia dall’inglese to


play the piano sia dal francese jouer le piano:

(19) PRESENTAZIONE DI ROY ROSS


sempre me / hanno capito che anche se sono molto nervosissima / sono buona / allora
più velocemente ora viene Roy Ross / che giocherà con il pianoforte e con voi / a chi
gli piace l’ascolto / a chi non piace chiude le orecchie!

Anche l’attrice e cantante spagnola, Carmen Sevilla, ospite della stessa puntata
di 123, oltre a cantare in napoletano una Tarantella sevigliana insegnatale da Vitto-
rio De Sica, (con il quale l’anno prima aveva girato il film Pane, amore e Andalu-
sia), si autopresenta parlando in italiano con varie interferenze dallo spagnolo:

(20) CARMEN SEVILLA


grazie grazie tanto / un pochino di respiro un momentino // e adesso vorrei cantare una
canzione del film pane amore e Andalusia / che io ho avuto il placere de girare con
Vittorio De Sica / se chiama tarantella sevigliana / [applauso del pubblico] grazie! De
Sica istesso mi ha insegnato a cantarla in napolitano eh … / se fare qualche errore / date
la culpa a De Sica eh? non a mi! vi prego / grazie!

Il fenomeno è ancora più accentuato in Studio Uno, poiché molti dei protago-
nisti fissi non sono italiani: una buona parte dell’italiano parlato e/o cantato sul pal-
coscenico di Studio Uno sarà di conseguenza più o meno fortemente interferito
dalla lingua madre dei vari parlanti. Francese è, ad esempio, Marcel Amont, il
quale, presentato come lo «chançonnier di maggior successo», nella prima edizione
intrattiene il pubblico cantando ma anche raccontando lunghe storie, o piuttosto fa-
vole, in parte cantate, nelle quali, oltre a consistenti parti in francese (cfr. 3.3.), il
pubblico è esposto a un italiano con numerose e forti interferenze soprattutto a li-
vello fonologico ma anche morfosintattico: scempiamento sistematico delle conso-
nanti lunghe (camello), accento sulla ultima sillaba in parole che in italiano non
sono tronche (es. favolà, mamà), forme di passato remoto con morfemi flessivi
francesi (chiamà, s’armà anziché chiamò e s’armò), semplificazione del paradigma
dell’articolo tipica delle varietà diastratiche basse di italiano (puntata del
4.11.1961):

(21) MARCEL AMONT


c’era una volta nel palazzo del re… un spazzino… innamorato della bella principessa
[…].

Tedesche sono le gemelle Kessler e americani i gemelli Blackburn, che


nell’edizione del 1961 cantano e ballano insieme alle prime la famosissima sigla del
Dadaumpa, emblema stesso del varietà, su cui si tornerà in 3.3. Inoltre non sono
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 229

italiani: Mac Ronay (mimo, acrobata, prestigiatore e comico francese che tuttavia
non parla mai ma si limita a concludere i suoi numeri con l’interiezione Hep!), le
Bluebell Girls, il Trio Mattison, Zizi Jeanmaire, Dany Saval e soprattutto il po-
polarissimo Don Lurio, nome d’arte di Donald Benjamin Lurio: celebre ballerino,
coreografo, showman americano, definito «il ballerino simbolo della tv italiana ai
suoi albori» nell’articolo in cui Repubblica il 26 gennaio 2003 informa della sua
morte. Nonostante si proclami «molto più italiano» di prima per i tanti anni tra-
scorsi in Italia, per l’acquisto di «un bello appartamento qui a Roma» e per
l’apprezzamento del cibo italiano -(«di mattina io mangio gli spaghetti… pome-
riggio lasagne e la sera tortelini eh / più italiano di così si muore» 22.12.1962)- il
suo acclimatamento linguistico non sembra altrettanto riuscito. L’italiano parlato
da Don Lurio è una interlingua fossilizzata con forti interferenze fonologiche in-
glesi e inoltre mancati accordi di numero e genere, errori nel genere dei sostantivi
e nelle preposizioni, verbi all’infinito, omissione di articoli, ecc. Ne diamo un
esempio nel frammento (22), tratto dalla puntata del 22.12.1962, dove nel rivol-
gersi a Dany Saval le dà del tu e del lei nello stesso turno, incongruenza dovuta
sicuramente alla mancata distinzione in inglese delle due diverse forme pronomi-
nali allocutive. Si noti inoltre la pronuncia piana anziché sdrucciola di romantica
da parte di Dany Saval:

(22) DON LURIO


D.L. […] e basta con la mia problemi personali / l’anno scorso… io ho ballato…
con due belle ragazze… ricordate? eh / e questo anno abbiamo deciso di tro-
vare qualcuno un po’ più piccolo / e: non si trova così… un poco così… io
vado d’accordo… e voglio qualcuna un po’ sportiva //
D.S. io sono sportiva //
D.L. più tardi eh / io vado d’accordo… sportiva ma anche io voglio qualcuno un
po’ romantica //
D.S. io sono romantìca //
D.L. più tardi eh / sportiva romantica d’accordo / ma anche bisogna avere una
donna che è chic //
D.S. io sono chic //
D.L. a fra poco eh / signore e signori… l’abbiamo trovata… Dany Saval //
[applausi] buona sera Dany… dimmi Dany è prima volta che lei è qui in Ita-
lia?
D.L. sì //
D.L. e parlare un poco italiano ah?
D.S. un poco così //
D.L. ah: / è meglio di niente… allora aspetta una seconda… vieni più vicino cara
vieni più vicino eh /[…]

Nel varietà della paleo-televisione, dunque, si inaugura l’uso di un italiano in-


terferito, che specie per quanto riguarda la pronuncia rimarrà un fenomeno consi-
stente anche nella televisione di oggi.
230 GIOVANNA ALFONZETTI

3.3 Discorso plurilingue


Oltre ai forestierismi e a varietà interferite di italiano, in entrambi i programmi
è presente una quantità non indifferente di discorso plurilingue, cioè di vere e pro-
prie commutazioni16, soprattutto nelle due lingue da cui provengono la maggior
parte dei forestierismi, cioè francese e inglese, ma occasionalmente anche in altre
lingue, quali lo spagnolo e il tedesco, sebbene in quantità ridottissima.
L’analisi puntuale del corpus ha fatto così emergere un fenomeno del varietà
paleo-televisivo che non sembra essere stato sinora sufficientemente messo in luce:
sia nelle parti cantate (non ci si riferisce qui alle canzoni vere e proprie ma a pre-
sentazioni, racconti di storie o numeri di vario genere), sia nel parlato si ha la inser-
zione intenzionale di segmenti in lingua straniera che variano per lunghezza e
struttura sintattica. Sebbene la loro finalità generale sembri essere la creazione di
un’atmosfera internazionale e il voluto richiamo a esperienze spettacolari europee e
d’oltreoceano, che fungono da modelli ispiratori, i singoli switching sono spesso
dotati di una microfunzione comunicativa specifica. Qui di seguito si cercherà di
individuare, oltre naturalmente alle lingue straniere usate, chi commuta codice e
con quale funzione all’interno di ciascun contesto.
In primo luogo sono gli ospiti o i protagonisti non italiani delle due trasmis-
sioni a passare dall’italiano – che nell’analisi di un corpus di parlato televisivo
qual è quello qui preso in esame va assunto come lingua base – verso la loro
prima lingua. Questi casi potremmo ricondurli al code switching connesso ai par-
tecipanti, un tipo cioè di commutazione motivata dalle preferenze o dalle compe-
tenze linguistiche del parlante, così come da strategie di convergenza o di diver-
genza, per mezzo delle quali si tende ad adeguarsi al codice usato dall’inter-
locutore o, al contrario, a divergerne17.
Così, ad esempio, in Studio Uno, durante il racconto di una «favolà orientale»
(28/10/1961), Marcel Amont, che, come si è detto, possiede una competenza limi-
tata dell’italiano, commuta così tante volte in francese anche per segmenti molti
lunghi, sintatticamente complessi e articolati con una tale velocità di eloquio da
sentire la necessità a un certo punto di motivare esplicitamente il suo comporta-
mento, con una strizzatina d’occhio al pubblico di cui sembra presupporre la com-
prensione, forse allo scopo di lusingarlo nell’attribuirgli una così profonda cono-
scenza del francese, in realtà improbabile:

16
Si fa presente che con ‘commutazione di codice’ ci si riferisce al passaggio da un sistema
linguistico a un altro entro lo stesso episodio comunicativo, cui è normalmente possibile assegnare
una qualche funzionalità comunicativa. La commutazione di codice, dal punto di vista sintattico,
può essere di tipo interfrasale, intrafrasale (code mixing) e extrafrasale (tag switching). Una defini-
zione più approfondita si trova in Alfonzetti, 1992, pp. 15-31.
17
Cfr. Auer, 1984 e Alfonzetti, 1992.
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 231

(23) UNA FAVOLÀ ORIENTALE


signori buona sera … oggi vi racconterò una favolà orientale … […] un ricco e vecchio
sultano possedeva in Africa / in uno di suoi giardini … una rosa magnifica … che
puzza! uhm / ma un giorno un camello entra dans le jardin et mangea le rosier pour
apaiser sa faim / il sultano furioso i gendarmi chiamà e s’armà di una frusta pour cal-
mer sa colère et lui-même le fouetta jusqu’au sang et il les renvoya en leur recomman-
dant / arrestate i camelli… brutti e belli… i papà i mamà i camelli bambini / qu’ils
soient gros ou petits / les chameaux / bon / tant pis mettez-les au cachot et puis venez
dans le bureau e patatri e patatro // morti di paura … i gendarmi decisero / di massa-
crare tutti i camelli // il fut décidé qu’au milieu de la nuit on arrêterait tous les cha-
meaux du pays // ma un piccolo camello… saputa la faccenda / par un vieux chamelier
et présents tous ses frères / les chameaux alertés / s’emplirent l’estomac // quando scese
la notte… fuggirono i camelli // on peut voir les chameaux les vilains et les beaux les
papas et les mamans les chameaux enfants / les gros et les petits s’échappèrent dans la
nuit tandis que le bourreau aiguisait son couteau // e patatri e patatro // il generale ca-
mello scorse un coniglio // aperçut un lapin galopant à leur suite et disait en s’arrêtant]
/ / ehi tu… dove vai? rispose il camello ehm il coniglio io tutto ascoltai /e je fuis géné-
ral / je tiens à l’existence / je connais tous les hommes et je n’ai pas confiance / non
sono un camello / ma prima di provarlo / le juge et le commissaire m’auraient fatto la
pelle // [ride] io quando ero un bambino… imparai a scappare prima di pensare / ça
pourra te servir / tu le vois j’obéis / je me tiens à l’abri / je n’ai rien que ma peau mais
j’y tiens beaucoup / trop / tanti pour le bureau // e patatri e patatro e patatri e patatro
[applausi] ah! l’italiano … mi ero dimenticato le parole … eh eh giusto … avete capito
eh? il principio […].

La conferma che l’operazione possa non risultare gradita ai telespettatori ci


viene data da quanto si diceva prima a proposito della insofferenza e dell’indi-
gnazione suscitate dall’uso di lingue straniere incomprensibili ai più.
Trattandosi di parlato televisivo altamente pianificato e programmato, è evi-
dente che in questo tipo di commutazioni, a fattori di vera e propria competenza e
spontaneità d’uso, si affiancano scelte stilistiche pianificate, dettate dalla volontà di
sfruttare il potere evocativo di una lingua di prestigio quale il francese, percepita
tradizionalmente come dotata di una spiccata musicalità.
Frequenti commutazioni di codice ricorrono anche nelle presentazioni di
personaggi stranieri effettuate da parlanti italiani. In questo caso, potremmo
chiamare in causa quale motivazione del code switching la volontà di conver-
gere verso l’artista presentato, sia per ragioni di cortesia, per così dire, sia per
delinearne una caratterizzazione più pregnante attraverso qualche tocco della
sua lingua madre, unitamente alla menzione delle città di provenienza. Emble-
matica al riguardo è la presentazione cantata in coro di Marcel Amont, nella
quale non solo l’artista, come si è detto, viene designato con il francesismo
chançonnier, ma inoltre la commutazione in francese permette un gioco di pa-
role derivante dalla quasi omofonia tra il cognome Amont e la forma verbale
aimons:
232 GIOVANNA ALFONZETTI

(24) PRESENTAZIONE DI MARCEL AMONT


Parigi città di stelle d’oro e cieli bigi
manda quaggiù bagaglio appresso
lo chançonnier di maggior successo
qu’elle aime, que vous aimez, que nous aimons
que nous aimons Marcel Amont

Anche nella presentazione cantata di Zizi Jeanmaire -cantante, ballerina e at-


trice francese, protagonista di raffinati spettacoli di rivista creati dal marito Roland
Petit e ospite fissa della seconda edizione di Studio Uno- troviamo singole parole o
sintagmi in francese, quali ça voilà, de Paris, oui, jolie, cherie, ecc.
Per le stesse ragioni, varie commutazioni in inglese e citazioni di versi di al-
cune delle sue canzoni più popolari, ricorrono in un lungo numero dedicato a Fred
Astaire nella puntata di Studio Uno del 9.12.1961, dove si hanno anche alcuni an-
glicismi che, insieme alle commutazioni vere e proprie, servono a una più efficace
caratterizzazione dell’artista americano da parte di una voce maschile fuori campo:

(25) FRED ASTAIRE


fragile e longilineo / Fred Astaire è l’unico ad infischiarsi del nuovo mito / il muscolo //
la cultura ginnica è il nuovo hobby fra poco si affaccerà alla ribalta mister apollo
[…]

top hat and white tie / cappello a cilindro e cravatta bianca / con i suoi volteggi vertigi-
nosi Fred Astaire ha impresso un nuovo ritmo alla mondanità […]
[musica e balli]
ladies and gentlemen we would like to present a song from the latest film of Mr Fred
Astaire /
[segue la canzone The way you wear your hat] […]
per quanto appesantite dalla polvere del tempo / nemmeno il passato si rivela insensi-
bile alla magia delle canzoni di Fred Astaire
[…]
dancing in the dark / danzando nel buio / lievitano negli anni folli di Fred Astaire le
fantasticherie romantiche [segue ballo].

E tuttavia code switching in lingua straniera si ritrovano anche nelle presenta-


zioni di artisti italiani. L’esempio più significativo è quello di Walter Chiari, con-
duttore della seconda edizione di Studio Uno, che viene presentato da un coro fem-
minile come una sorta di latin lover un po’ sprezzante, in obbedienza al mito della
virilità mediterranea, con espressioni lusinghiere in italiano frammiste ad elementi
francesi:

(26) PRESENTAZIONE DI WALTER CHIARI


chi ci fa cantar / chi ci fa tremar / chi ci fa sognar c’est lui
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 233

chi ci innamorò / chi ci conquistò / chi ci ha detto no c’est lui


[stacco musicale]
Walter mon cheri / Walter mon amour / Walter très joli
sento i passi già / sta arrivando qua / che felicità / c’est lui
e voilà Walter [ripetuto più volte].

In questi casi le ragioni della commutazione vanno ricercate nel valore simbo-
lico del francese negli anni Sessanta del secolo scorso, quando è ancora considerato,
come si diceva a proposito dei francesismi rinvenuti nel corpus, lingua di cultura e
di indiscusso prestigio internazionale, con connotazioni di raffinatezza e cosmopo-
litismo.
Questo valore del francese è del resto l’unica ragione del suo uso nella sigla
della prima edizione di Studio Uno, il Dadaumpa, un testo italiano con alcuni seg-
menti in inglese e francese. Se l’uso dell’inglese potrebbe ricondursi al fatto che
dall’America provengono sia i gemelli Blackburn sia la danza stessa del Dadaumpa
(così ci vien detto nella sigla), quello del francese, addirittura all’inizio di una can-
zone che non ha alcun nesso reale con il mondo francese, non può che essere con-
notativo:

(27) DADAUMPA
oui mais oui
siamo ritornate in Italie
e felici d’esser qui vi diciamo a vous merci canticchiando il Dadaumpa
c’est comme chose che va la vie en rose
una danza molto chic
che portiam dall’Amerique
e si chiama Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa
ogni stella grande come il sole ci sembrerà
ogni luce accesa nel buio sembrerà la luna che splende sul mar
Dadaumpa dadaumpa
le anime gemelle cercavam
e se le trovammo lì
e se adesso sono qui
ringraziamo il dadaumpa
i gemelli, i gemelli, i gemelli Blackburn
[entrano in scena i gemelli Blackburn]
hello boys
traversammo tutto l’Illinois
valicammo il Tennessee
per venire sino a qui
a portare il Dadaumpa Dadaumpa Dadaumpa
u::umpa Studio uno è pronto a cominciar
e all’aprirsi del Lido
diamo inizio al nostro show
con l’arrivo di Luttazzi di Luttazzi di Luttazzi Lelio
234 GIOVANNA ALFONZETTI

Il plurilinguismo del Dadaumpa è particolarmente significativo se si tiene pre-


sente che la sigla negli spettacoli di varietà è un forte segno di riconoscimento:
contribuisce a definire l’identità del programma, fornendo informazioni per una sua
corretta decodifica, riproponendone il tema di fondo e marcandolo in termini spa-
ziali e temporali (Zambarbieri, 2004, p. 104)18.
Le connotazioni di raffinatezza e musicalità assegnate al francese fanno sì che
esso sia tradizionalmente considerato l’idioma adatto all’espressione dell’amore. Ci
sembra questa la ragione per cui il francese, oltre che nella presentazione di Walter
Chiari – «Walter mon amour» – sia usato anche in due canzoni delle gemelle Kes-
sler per marcare citazioni virtuali connesse a questo tema19. Nella prima canzone
(Studio Uno 9/12/1961), si ammette apertamente che la «donna fidanzata» prova
per il suo cane un maggiore trasporto che per il suo uomo, tanto da ricoprirlo di at-
tenzioni (si noti anche in questo caso la co-occorrenza del francesismo manicure) e
di coccole, rivolgendogli appellativi amorosi proprio in francese:

(28) MON AMOUR


per la donna fidanzata […] sarà importante l’uomo però però oh oh / il cane è un’altra
cosa […] lo pettino lo coccolo gli faccio il manicure / coprendolo di boccoli lo chiamo
mon amour // e mai non lo rimprovero se graffia qualche mobile sia pure un Luigi XV
[…].

Nella seconda canzone (28/10/1961), in francese sono citate le parole d’amore


che le gemelle vorrebbero sentirsi dire dall’uomo dei loro sogni. Si noti che anche
in questo caso la commutazione in francese consente una rima, per quanto imper-
fetta, con Chopin:

(29) JE T’AIME
voglio un uomo romantico tipo Chopin / che mi dica je t’aime
e che sfogli margherite per saper se l’amo oppure no
voglio un uomo col fegato di Cyrano / non col naso però
che sia pronto sul momento a sfidare la morte per me
voglio un uomo molto abiente
con l’argent del Aga Khan
un campione muy valiente

18
La necessità di contestualizzare la sigla al programma è chiaramente ribadita dal regista di
Studio Uno, Antonello Falqui, che fa l’esempio della sigla di Canzonissima, Zum zum zum, cantata
da Mina, dove venivano valorizzati tutti gli strumenti musicali (Zambarbieri, 2004, p. 104).
19
Si ha qui un esempio di commutazione connessa al discorso, categoria che include tutti i
casi nei quali il code switching è usato come strategia di cui i parlanti bilingui si servono per risol-
vere problemi relativi all’organizzazione della conversazione, quali la strutturazione in sequenze, la
correzione, i cambiamenti di argomento o di destinatario, dare espressione alla polifonia del di-
scorso, ecc. (Alfonzetti, 1992, pp. 119-137).
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 235

tipo […] e Dartagnan


voglio un celebre cantante […] o Celentan
voglio un grande cervel
che abbia vinto tre premi nobel
voglio un uomo che abbia la rude espression di Edward Robinson
che mi baci dolcemente / però mi carezzi anche un po’[…]
temerario sportivo generoso virile milionario dolce e gentil

Subito dopo, come si sarà notato, le gemelle ricorrono allo spagnolo per espri-
mere, tra i desiderata riguardanti l’uomo ideale, anche quello di essere «un campione
muy valiente», sfruttando in questo caso le connotazioni simboliche di virilità con-
nesse al mito del maschio spagnolo. Si tratta di una delle rarissime commutazioni in
lingue diverse dal francese e dall’inglese riscontrate nel corpus esaminato.
La funzione di esprimere la polifonia del discorso per mezzo del code swit-
ching si ritrova anche in uno sketch di Cobelli (Studio Uno 22.12.1962), ambientato
in uno stabilimento cinematografico romano, dove si sta girando Le donne di Ne-
rone, parodia del film Mio figlio Nerone del 1956 del regista Steno. In questo nu-
mero -nel quale si ironizza sulle carenze linguistiche degli attori italiani e non (che
grazie al doppiaggio possono permettersi di non saper parlare italiano) e sulla con-
seguente babele linguistica durante le riprese- nella sua lingua madre vengono ri-
portate le parole dell’attrice inglese, Gloria Swanson, che impersona il ruolo di
Agrippina. Nel citare le sue parole, Cobelli attua una sorta di scimmiottamento,
imitandone la qualità della voce ma anche la tonalità emotiva di rabbia e il ritmo,
talmente veloce da rendere incomprensibili i segmenti in inglese, proprio per questo
subito dopo tradotti dal regista, che fa quindi da interprete della signora Swanson,
non senza finalità ed effetti comici:

(30) LE DONNE DI NERONE


Regista non preoccupiamoci va… gi- tiriamo avanti / tanto poi c’è il doppiag-
gio… giriamo subito l’altra scena quella di Agrippina con le ancelle oh
/ Dino! Dino! sono pronte le ancelle? sanno che cosa devono fare?
Aiutoreg. delle dieci non ve ne è una che parla italiano… turche svedesi arabe ze-
landesi… ma io non so che razza di gusti che abbiano / comunque ho
spiegato loro che devono correre incontro ad Agrippina e felici e con-
tenti gridare / “Agrippina Agrippina Agrippina” / eccole qua tutte e
dieci guarda //
Voce femm. [parole incomprensibili]
Regista zitta! non cominciamo al mattino presto eh / allora avete capito?
“Agrippina Agrippina sei viva?” correre baciare e andare / è chiaro?
Voce femm. [parole incomprensibili]
Regista silenzio! allora… motore… ciak 147 prima del giorno… azione!
Voci femm. Agrippina [xxx] // [parole incomprensibili]
Regista uhm / ma non così! dovete sembrare felici e contente / “Agrippina: /
Agrippina sei viva?” correre baciare e andare è chiaro?
236 GIOVANNA ALFONZETTI

Voci femm. [parole incomprensibili]


Regista avanti! motore! ciak 148 prima del giorno azione! ahi /
Swanson [in inglese]
Regista la signora Swanson dice che queste non sono attrici ma oche / e che lo
scopo per le quali sono state scritturate non è certo quello di tirar- loro
il collo //
Swanson [in inglese]
Regista la signora Swanson dice anche che ha la sensazione di vedere sempre
le stesse facce … queste per esempio le ha già viste ieri sera prima
di rincasare//
Swanson [in inglese]
Regista a meno che / soggiunge la signora Swanson / non si tratti di gemelle…
visto il largo uso che ne fanno in Italia // [risate]
Swanson good morning //
Regista buon giorno ha detto // oh

Anche in 123, in un numero in cui Roy Ross imita diversi tipi di pianista
(14.6.1959) -il pianista spagnolo, quello americano, il pianista bambino che crescendo
diventa blasé, il pianista allegro, il pianista distratto, ecc.- nel presentarli, oltre a par-
lare un italiano interferito, l’artista effettua alcune commutazioni: passa ad esempio al
francese nel formulare una domanda del pianista miope il quale, non vedendo nem-
meno il pianoforte che gli sta davanti, chiede: «Où est le piano s’il vous plait?».
Le commutazioni in lingua straniera svolgono inoltre la funzione di ricostruire
ambientazioni straniere o persino esotiche. Così, ad esempio, la commutazione in
tedesco -l’unica rinvenuta nel corpus- di alcune formule convenzionali -«Bittershön
Bittershön io vorrei saper dov’è il castello» e «Aufwiedersehen»- serve a collocare
in Baviera lo sketch del quartetto Cetra, Il castello del Vampiro (Studio Uno
26/1/1963).
Identica finalità ha la commutazione in spagnolo nella stessa puntata, allorché,
mentre due ballerini si esibiscono in un tango, una voce fuori campo ripete più volte
«Por favor señor un tango».
Anche in un altro sketch del Quartetto Cetra, Casba (Studio Uno del
22/12/1962) -parodia del famoso film francese Il bandito della Casba, diretto da
Julien Duvivier nel 1937- l’uso di francese e inglese, insieme alla musica araba, alla
ripetuta invocazione ad Allah e ad alcuni esotismi arabi e turchi (cfr. 3.1.), serve
alla caratterizzazione esotica del luogo. Nel bazar della Casba si aggira una stra-
niera sofisticata (F), intenta a far compere, che parla in italiano con alcuni elementi
in inglese, motivati in questo caso anche da ragioni di rima (wonderful e Istanbul):

(31) CASBA
F ma è tanto bella la casbà
che sensazione wonderful
è molto meglio d’Istanbul
coro bella straniera no non ti fidar
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 237

F qua in questo insolito bazar


una teiera un samovar
mi viene voglia di comprar
coro bella straniera no non ti fidar

Pepé Macot (P), rifugiatosi nella Casba dove «vive la sua vita losca e senza
speranza», protetto dall’omertà degli abitanti del posto, nel restituirle una collana
rubatale da un ladruncolo, le si rivolge in un francese misto a italiano, commutando
quindi in inglese in un breve turno di temporaneo adeguamento cortese
all’interlocutrice, che lo aveva ringraziato in questa lingua, come si può osservare
dal breve dialogo riportato in (32):

(32) CASBA
P bonjour bonjour mademoiselle / riprendi il tuo gioiel
F molto gentil thank you / non lo potrò scordar mai più
P che fai mademoiselle ce soir / vieni con me a ballar
F molto gentil thank you
P let’s go
F pardon
P après de vous

Più avanti nello sketch, quando è il momento di separarsi, Pepé, nel prendere
congedo dalla donna di cui ormai si è innamorato, le rivolge appellativi amorosi in
francese («ti verrò a salutar sulla riva del mar cherie»), che si conferma dunque
come lingua del discorso amoroso.
In questo sketch, al plurilinguismo italiano, francese e inglese si aggiunge an-
che l’uso del napoletano che serve a caratterizzare in chiave macchiettistica i perso-
naggi: sia Pepé furbo, ladro e sbruffone, che si vanta di essere imbattibile, sia il
commissario che, stanco di dargli la caccia, propone ai due gendarmi di desistere e
andare a prendersi un caffè:

(33) COMMISSARIO (CASBA)


ho camminato in ogni strada / ho spolverato i marciapiè
sai che nuova c’è? scurdammoce a Pepè e jammece a piglià o cafè

In questo caso l’uso del napoletano si spiega probabilmente anche con il ri-
chiamo alla parodia del 1949, Totò le Mokò, del regista Carlo Ludovico Bragaglia,
dove Totò svolge il ruolo di Pepé, originariamente impersonato da Jean Gabin.
Non è possibile trattare qui della componente dialettale nel varietà della paleo-
televisione, che affrontaremo approfonditamente altrove20. Ci si limiterà ad osser-

20
Qualche cenno si trova in Alfonzetti, Materia, 2013.
238 GIOVANNA ALFONZETTI

vare che in entrambi i programmi (e, per la precisione, in Studio Uno a partire dalla
seconda edizione, con Walter Chiari e Giancarlo Cobelli), si ha un uso parco ma re-
golare di elementi dialettali, con finalità prevalentemente comiche, parodiche e ca-
ricaturali, secondo una lunga e ben collaudata tradizione letteraria e teatrale, a cui il
varietà della paleo-televisione, come si è detto più volte, si rifà espressamente.
Tornando alla componente straniera, molti altri elementi tratti dal francese e
dall’inglese si trovano sparsi qua e là nel corpus analizzato, alcuni dei quali sem-
brano svolgere le stesse funzioni della commutazione di codice nel parlato sponta-
neo di parlanti bilingui: oltre alla citazione di cui si è detto, anche la funzione di
contribuire alla organizzazione sequenziale del discorso, marcando cambiamenti di
argomento, sequenze marginali, sequenze di apertura e chiusura, ecc. Ad esempio,
nel frammento (34), tratto da uno sketch di Cobelli su un incidente stradale causato
da un sorpasso irregolare (Studio Uno 26.1.1963), il lungo turno nel quale la per-
sona investita – ritenendo che il trovarsi dalla parte della ragione le dia il diritto di
parlare come un fiume in piena – racconta l’esame sostenuto per conseguire la pa-
tente, si conclude con un segnale demarcativo di chiusura in inglese:

(34) FINISH
sì sì / non sono mica sordo eh / ma chi è che gliel’ha data a lei la patente? […] / no ma
dico… ma lei non lo sa che girando il volante la macchina volta eh? [risate]/ ma ma
dico ma ma che esame ha fatto lei? ma sa che se lei era al mio posto la bocciavano su-
bito shi: / mosca! eh / ha torto e parlo io /ecco… io l’esame… signori testimoni eh / ore
otto e trenta visita medica / alzi le braccia / abbassi le braccia / faccia l’inchino / no set-
tecento / braccia conserte / batta le mani [xxx] qui [xxx] vedere le unghie / la pulizia mi
piace / la pulizia mi piace / vedere la gola trah / via le tonsille / [risate] e fin qui mi sta
bene /ecco // poi la vista / aquila / torace / a tamburo / udito / vada nell’angolo… umi-
liante ci va anche il dottore… mi sta bene / mi sta bene / e lì lui comincia a muovere la
bocca e mi fa / “risponda / non sente?” boh / e io anch’io / [fa delle smorfie] è andato
via che rideva come un matto / finish //

4. CONCLUSIONI
La nostra analisi non sarebbe completa se non si accennasse ad alcune prese di
posizione critiche nei confronti dell’uso delle lingue straniere, che affiorano a tratti
in entrambe le trasmissioni.
La chiave ci viene offerta da una battuta fatta en passant da Walter Chiari a
proposito del nome di una delle protagoniste (Sondra Finchley) di Tragedia Ameri-
cana – popolarissimo sceneggiato della paleo-Tv, tratto dall’omonimo romanzo del
1925 di Theodore Dreiser – di cui l’attore ci regala una esilarante parodia nel mo-
nologo del 22.12.1962. La predilezione per i nomi che sono o che sembrano stra-
nieri (nel caso specifico, a dire la verità, pienamente legittimata dall’origine ameri-
cana dell’opera) sarebbe una manifestazione del «vizio dell’esotismo» che, secondo
Walter Chiari, affligge noi italiani:
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 239

(35) TRAGEDIA AMERICANA


[…] siamo un po’ un po’ masochisti e nella sofferenza troviamo quasi gli estremi di un
divertimento… io me ne sono accorto vedendo come la gente reagisce alla tragedia
americana … ma è un fotoromanzo si divertono da matti piangendo […] un po’ è anche
merito degli interpreti […] lì c’è veramente un attore / Warner Bentivegna / che vera-
mente piace piace piace… […] io ho visto quando lui per esempio quando lui per
esempio incontra Sondra Sondra / poi perché Sondra? lì c’è un errore… si vede che
l’han corretto / Sondra / Sandra sarebbe / io da allora dico Sondra Corla Moria Gio-
soppa oramai anziché [risate e applausi] Sandra Maria Carla / ma siccome noi abbiamo
un po’ il vizio dell’esotismo / hanno detto ma Sandra avran detto Sandra è italiano? eh /
allora chiamiamola chiamiamola Sondra [risate] sa- Sondra e vabbè […].

Deprecare la scelta di nomi o soprannomi stranieri è un fenomeno tutt’altro


che raro nella nostra storia linguistica più o meno recente, forse perché avvertita
come una forma grave di tradimento o come l’espropriazione di una sfera molto in-
tima e caratterizzante del lessico di una lingua. Si ricorderà qui quanto scrivono
Fanfani e Arlia già nel 1890 (s.v. Nome) a proposito dei nomi inglesi che – apparsi
in ridotte quantità nel Settecento attraverso il francese, per il tramite di opere lette-
rarie e teatrali e di solito assimilati21 – si infittiscono via via nel secolo successivo
senza essere più adattati22: «Una bambina non si chiama più Franceschina o Cec-
china, ma Fanny; non Bettina, ma Betty; non Maria e Marietta, ma Mary e Polly».
E ancora era di là da venire la moda esplosa nel Novecento, prima per influsso di
Hollywood (cfr. Menarini, 1955 e Tagliavini, 1955, 1957), poi, dopo la pausa do-
vuta al ventennio fascista, «nel periodo dell’ingenuo americanismo dell’immediato
dopoguerra», ulteriormente rafforzatasi negli anni dei nostri due spettacoli di va-
rietà, quando secondo Klajn (1972, p. 32) si raggiunge il «culmine dell’anglo-
mania» soprattutto nella musica leggera. Basta pensare ai vari Johnny Dorelli, Little
Tony, Don Backy, Patty Pravo, Fred Bongusto, ecc. che succedono alla generazione
precedente di Betty Curtis, Fred Buscaglione, Tony Dallara, Joe Sentieri, Teddy
Reno, tanto per citare i più noti (Klajn, 1972, p. 32). E risale proprio alla metà degli
anni Sessanta la dichiarazione rassegnata di Fochi (1966, p. 182) circa l’inutile lotta

21
Klajn, 1972, p. 30 ricorda tra i tanti: Edoardo, Alfredo, Oscar (dall’Ossian), Edmondo (dal
Conte di Montecristo di Dumas), Evelina (dal romanzo di Fanny Burney del 1778). Tra i nomi di
discendenza shakespiriana, oltre Ofelia, Cordelia e Desdemona, mai diventati popolari in Italia, si
ha Gessica, la cui prima attestazione è nel Mercante di Venezia e che al giorno d’oggi ha cono-
sciuto una sorprendente vitalità, nella forma originale più esotica Jessica, grazie al personaggio
creato da Gary Wolf -Jessica Rabbit- nel libro Who Censored Roger Rabbit? del 1981, trasposto
poi nel famoso film di animazione dal titolo in Italia di Chi ha incastrato Roger Rabbit.
22
Come si ricorderà, Walter -il cui probabile modello è stato Walter Scott- è, tra i nomi in-
glesi non adattati che penetrano in italiano nell’Ottocento, quello che ha avuto enorme fortuna e
larghissima diffusione (Klajn, 1972, p. 31).
240 GIOVANNA ALFONZETTI

contro i nomi stranieri in un paese in cui imperversano i Max, Willy, Ketty, Tony,
Lucy, Ines, Oscar, ecc.
Una presa di posizione analoga a quella di Walter Chiari, spostata dal versante
dell’onomastica alla sfera musicale, si trova in 123, quindi nel 1959, durante la ru-
brica dal titolo ovviamente ironico Enciclopedia Televisiva Duecani (E.T.D.), nella
quale i due conduttori leggono le presunte definizioni inviate dai telespettatori, se-
condo un ordine alfabetico da loro stabilito la volta precedente. Nella puntata del 14
giugno, Ugo Tognazzi legge la definizione della parola attrazione inviata da un
immaginario telespettatore napoletano, che così recita:

(36) ATTRAZIONE
Salvatore Giaquinto / ora quarto [risata] / Giaquinto / il nome è giusto / Napoli /
ATTRAZIONE / qualunque cantante anche stonata / purché non italiana /

Nelle stesse trasmissioni che aprono le porte a culture e lingue straniere con lo
scopo primario di attrarre il pubblico ricreando un’atmosfera internazionale, ispirata
a modelli d’oltralpe e d’oltreoceano, il fenomeno è, dunque, contemporaneamente
oggetto di frecciate critiche e di aperta parodia. Questa è rivolta soprattutto verso
ciò che già Klajn, come si è appena visto, considerava anglomania e che nei de-
cenni successivi, sino ai giorni nostri, come ben sappiamo, non mostrerà alcun se-
gno di cedimento, estendendosi capillarmente a molte altre sfere della cultura e
della lingua e alimentando accesi dibattiti anche tra i non specialisti, quasi si trat-
tasse di una minaccia alla “purezza” o alla sopravvivenza stessa dell’italiano.
La chiave parodica e dissacrante che caratterizza l’intera trasmissione 123 non
poteva non colpire anche questo fenomeno di costume, prima ancora che lingui-
stico, come mostra chiaramente la motivazione data da Ugo Tognazzi per giustifi-
care i sottotitoli in inglese che appaiono in sovrimpressione ad apertura della pun-
tata del 31 maggio, contenenti la traduzione della canzoncina «banale» e «vane-
rella» cantata dai due attori mentre scendono alcuni gradini, raffigurando così con-
cretamente la discesa di qualità del programma da essi verbalmente dichiarata:

(37) SOTTOTITOLI INGLESI


U.T./R.V d’anno in anno siamo scesi un gradino di più / scenderemo anche
quest’anno un gradino più giù / chissà perché / facciamo l’un due tre /
[sottotitolo]: From year to year we get worse and worse
se la gente che ci guarda fugge tutta dai caffè / da sei anni ritorniamo
puntualmente da voi / da sei anni ci diciamo fanno a meno di noi / però
però / continua l’un due tre /
[sottotitolo]: But every year we are back again
e stupiti gli abbonati si domandano il perché / il nostro show a tutti fa
venir lo shock
[sottotitolo]: This is the sixth year and the subscribers are wondering
why
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 241

perché noi siamo un po’ scio scio sciocchini / però però se pure avete
detto no/ faremo l’un due tre per divertir / io e te / d’anno in anno
siamo scesi un gradino più in giù / peggiorando d’anno in anno un tan-
tino di più / la Rai tv / non ci sopporta più / ma per forza o per amore ci
dovete mandar giù: / yeah //
[sottotitolo]: The Rai-tv can’t stand us any more; but whether you like
it or not you have to put up with us]
[…]
U.T. le: didascalie in inglese che avete visto sopra la nostra canzoncina / non
devono trarvi in inganno / il nostro programma non è stato venduto
all’America / l’America non l’ha voluto nemmeno gratis / [risate] no! li
abbiamo messe soltanto per facilitare il compito a:gli spettatori italiani
/ abituati a vedere i programmi americani e inglesi con didascalie in
italiano / per cui siamo convinti che al giorno d’oggi gli italiani sap-
piano molto meglio l’inglese che non l’italiano / chiaro?

L’ironia qui sembrerebbe avere un duplice bersaglio: la presunta, in realtà im-


probabile, anglofonia degli italiani, da un lato, e, dall’altro, la loro limitata competen-
za dell’italiano, addirittura minore di quella dell’inglese. Ma il vero bersaglio pole-
mico deve essere stato certamente il Perry Como Show, varietà musicale americano
trasmesso in Italia dal 20 maggio del 1958 in lingua originale. Lo «sporadico doppiag-
gio italiano» (Grasso, 2004, p. 65), non sempre felice, specie nel caso delle barzellette,
fa sì che le risate del pubblico americano in studio diventino «curiosi misteri» per i
telespettatori italiani, come leggiamo nella sarcastica testimonianza di Achille Cam-
panile, apparsa nell’Europeo del 27 luglio 1958, con il titolo Risate misteriose nello
spettacolo di Perry Como, riportata da Grasso (2004, p. 65), da cui si cita:

Vediamo l’ultima trasmissione. L’apre Perry Como, al solito sorridente come uno che si
diverta un mondo alle cose che avvengono attorno a lui e delle quali egli sia spettatore
invece che attore; il che assicura che almeno uno che si diverte c’è.

Un interessantissimo riscontro ci viene fornito da De Rita (1964, pp. 120-121),


dalla quale proprio il Perry Como Show viene menzionato tra le trasmissioni che,
come si diceva in 1., suscitano un profondo «rancore» nella comunità studiata. I
contadini lucani, infatti, «rifanno il verso a Perry Como, incapaci come sono di leg-
gere rapidamente la traduzione scritta di quello che dice» e manifestano anche rea-
zioni nazionalistiche di rigetto: «Mò ama vedé u’ straniero!?» o ancora «E i pro-
grammi italiani li fanno in America?», sino a giungere alla vera e propria invettiva
contro cantanti americani: «Che odio questi americani!» oppure «Chi t’è muorte!
Vattinne da nanze […]. Ci te capisce, mannaggia a li muorti tui!», solo per citare le
espressioni «più dicibili», causate non tanto, spiega De Rita, da «un atteggiamento
generalizzato negativo nei confronti degli stranieri», quanto dall’incapacità a com-
prendere, che purtroppo si estende parzialmente anche alla «stessa lingua italiana,
specie se parlata rapidamente».
242 GIOVANNA ALFONZETTI

La componente straniera nel varietà della paleo-televisione svolge dunque an-


che questa importante funzione di autoparodia, per così dire, allorché si mette alla
berlina in modo sottile e intelligente la scelta fatta dallo stesso varietà di usare le
lingue straniere per attrarre il pubblico indossando una veste internazionale.
Con la stessa chiave ironica, subito dopo nella medesima puntata di 123, si
fingerà un collegamento in eurovisione in cui tre diverse annunciatrici si alternano
sullo schermo, per ribadire in francese, inglese e cinese la assoluta stupidità del
programma; seguirà quindi per bocca di Tognazzi -che fedele al gioco delle parti
non risparmia mai le frecciate ironiche contro Vianello- la traduzione in italiano
«per chi non è poliglotta»:

(38) EUROVISIONE
bon soir mesdames bon soir messieurs / tous rapport avec quelque chose qui peut avoir
de l’intelligence est purement casuel
good evening ladies and gentleman / any resemblance to anything intelligent is purely
coincidential
[annuncio in cinese]
U.T. per chi non è poliglotta / e soprattutto per Raimondo Vianello / traduco
testualmente / qualsiasi riferimento a cose intelligenti è puramente ca-
suale / fine dell’eurovisione//

Si ricorderà qui che la presa in giro di chi si spaccia per poliglotta si era già in-
contrata in Studio Uno, nello sketch di Walter Chiari sul giovane borgataro romano,
che si vantava non solo di parlare personalmente tutte le lingue ma addirittura di
avere un autista che sapeva fare altrettanto, mentre alla fine si sarebbe rivelato un
dialettofono sprovvisto persino di un telefono personale (cfr. 3.1.).
Sempre in Studio Uno, in uno sketch di Giancarlo Cobelli sulla figura della
mantenuta (23.2.1963), si trova un’altra sottile e intelligente parodia del fenomeno
dell’anglomania, raffigurato come un fiume in piena, così difficile da arginare da
aver travolto persino Dante, l’amante scomparso (il nome del sommo poeta, padre
della lingua italiana, ovviamente non può essere casuale)23, che da morto appare in
sogno alla sua Gianna per parlarle di una «casettina» di cui lei brama impossessarsi.

23
A distanza di ben 50 anni, Dante Alighieri viene di nuovo chiamato in causa in relazione
alla anglomania dei nostri giorni, in Telescherno, cartone animato di Stefano Disegni, nel magazine
Sette del Corriere della Sera del 15/3/2013: Dante appare a un Benigni avido di denaro, che sta
progettando «una letturina dell’Odissea in 25 puntate», chiedendogli il favore di non leggere più la
Divina Commedia perché il pubblico comincia a odiarlo: «alla seconda puntata hai già perso tre
punti di share!». Alle insistenze di un presuntuoso Benigni, certo che lui può permettersi di leggere
anche «le istruzioni della lavatrice» senza annoiare, Dante spazientatito ribatte: «Roberto, la gente
si sta rompendo i ‘oglioni. L’arietta politically correct non attacca più. Si vede l’occhio furbo». A
questo punto Benigni, sorpreso, lo interrompe: «O Dante, parli inglese?». E Dante: «Nell’aldilà ci
si annoia, ho fatto un corso» [cors. mio].
IL “VIZIO DELL’ESOTISMO” 243

Ma c’è un ostacolo alla realizzazione di questo desiderio: Gianna non lo capisce


perché Dante si ostina a parlarle in inglese:

(39) DANTE, PARLA ITALIANO!


[una donna piange disperata sulla tomba del suo amante scomparso di recente] Dante!
Dante! Non farmi la faccia brutta se piango eh! […] che uomo! che uomo! non ce n’è
un altro / non c’è / brutto! ma di un fascino! […] Dante / per fortuna tu lo sai che non
ho mai chiesto niente o no? […] guarda guarda che fotografia ti hanno messo! col
fondo marrò / e se c’è una tinta che ti sta male è il marrò / […] quella casettina / sarà
piena di ricordini / di souvenir / fa niente / a me non interessa guarda // a me basta par-
larti / io ti sogno tutte le notti e mi parli mi parli / io SO che vuoi dirmi qualcosa di
quella casettina / ma mi parli in inglese mi parli // guarda che c’è da mangiarsi le unghia
a non conoscere le lingue eh Dante / […] Dante parla italiano / parla italiano non di-
menticarti la madre lingua / non vorrai mica che mi iscriva a quarant’anni alla British
School per una casettina / Dante [risate].

Per concludere, possiamo senz’altro dire che nell’ambivalenza verso le lingue


straniere, pur ampiamente sfruttate con scopi diversi, e nella raffinata e intelligente
parodia che se ne fa in entrambi i programmi, si potrebbe ravvisare un’ulteriore
manifestazione dell’intento acculturante, oltre che di puro intrattenimento, del va-
rietà della paleo-televisione, capace di individuare con lucidità e acume un feno-
meno importante del costume linguistico e culturale del tempo, guardato sì critica-
mente ma con divertita e indulgente ironia, piuttosto che con l’atteggiamento pe-
dante, puristico e quasi ingiurioso, che a volte trapela dai media attuali24.

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pora. Atti del VI Convegno SILFI (Duisburg 28 giugno-2 luglio 2000), Firenze, Cesati,
2005, pp. 397-411.

24
Tra i tanti esempi, mi limiterò qui a segnalarne uno ripreso dalla stampa, e cioè l’articolo
di Francesco Merlo intitolato Dai carbonari ai cantautori. Così Genova diventa capitale dei nuovi
indignati italiani (Repubblica 7 marzo 2013), nel quale si legge «[…] questa nuova capitale poli-
tica […] ha conquistato l’egemonia. O -se preferite l’inglese del cretino cognitivo [cors. mio]- ha
preso il posto trendy e cool che fu via via della Milano di Berlusconi e della Lega».
244 GIOVANNA ALFONZETTI

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GABRIELLA B. KLEIN - SERGIO PASQUANDREA
(Università degli studi di Perugia)

Multimodalità nella comunicazione interculturale in contesti istituzionali: la


mitigazione dei tecnicismi*

1. PREMESSA
«Nonostante il burocratese sia stato bandito da almeno quindici anni, grazie
alla diffusione dei manuali di stile e alle direttive sulla semplificazione del linguag-
gio amministrativo, permane l’oscurità di una comunicazione che non tiene conto
del suo interlocutore.» (Mazzoni, 2012, p. 23). Se ciò è tanto vero per i testi scritti, è
facile vedere quanto lo sia anche per il linguaggio parlato e per le interazioni verbali
in generale. Il problema diventa pressante quando tali interazioni coinvolgono par-
lanti non nativi di una lingua, per i quali la complessità e scarsa trasparenza del bu-
rocratese possono costituire ostacoli insormontabili.
Il presente contributo si colloca all’interno degli studi sociolinguistici, in parti-
colare di quelli improntati all’Analisi della Conversazione e all’analisi della comu-
nicazione multimodale. Saranno analizzati quattro casi di interazione comunicativa,
tratti da un corpus di incontri burocratico-istituzionali italiani, in cui una persona
con un retroterra linguistico-culturale non-italiano (che definiamo ‘adulto-in-mobi-
lità’ o AM) interagisce con un/a impiegato/a di un servizio pubblico (che definiamo
‘adulto-in-contatto-con-la-mobilità’ o ACM). Nell’analisi, si cercherà di indivi-
duare quali pratiche comunicative emergano nell’interazione, quali di esse possono
essere considerate buone pratiche e quali cattive pratiche o pratiche problematiche.
In particolare l’obiettivo è di individuare come l’uso di diverse modalità semiotiche,
come il gesto, lo sguardo, la postura, la manipolazione di oggetti (comunicazione
multimodale) possa agevolare la comprensione reciproca e il buon esito dell’inten-
zione comunicativa, con particolare focus sui tecnicismi burocratici1.

2. INTRODUZIONE: MULTIMODALITÀ E COMUNICAZIONE INTERCULTURALE


Lo studio della comunicazione multimodale è ormai un campo di studi ampio
e variegato, che negli ultimi due o tre decenni ha conosciuto un enorme sviluppo. In

* Desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile queste ricerche rendendosi
disponibili con impegno e spontaneità, talvolta mettendosi in discussione, e sempre mostrando cu-
riosità e desiderio di imparare. Non riportiamo i loro nomi per mantenere la loro privacy.
1
Per la discussione sul linguaggio e le pratiche burocratici si può vedere -in ambito italiano-
p. es. Fioritto, 2009; Raso, 2008 e, per una dimensione più interculturale, Bartoli, 2012.
248 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

questo paragrafo, sarà tracciato un panorama di tali studi, con particolare riguardo a
quelli che si rifanno al campo dell’Analisi della Conversazione e dell’analisi mul-
timodale, e ne sarà discussa la rilevanza per lo studio della comunicazione inter-
culturale.

2.1 La multimodalità nell’interazione comunicativa


Lo studio delle risorse semiotiche, attraverso le quali l’interazione umana può
aver luogo, coinvolge ormai una vasta gamma di ambiti disciplinari, che hanno
esaminato il problema da numerose prospettive teoriche, spesso assai diverse, quali
l’antropologia della comunicazione (Kendon, 2004), la psicologia (Poggi, Magno
Caldognetto, 1997), l’analisi del discorso mediato (Norris, 2004; Norris, Jones,
2005; Scollon, 2001, Scollon, Scollon, 2004), la semiotica sociale (Hodge, Kress,
1988; Kress, Van Leeuwen, 2001), l’analisi critica del discorso (Blommaert, 2013)
o la Actor-Network Theory (Latour, 1987).
La prospettiva adottata nel presente studio si basa sugli studi improntati ai
principi dell’Analisi della Conversazione, quali Goodwin (2000, 2003), Mondada
(2009), Heath (1986), Luff et al. (2000), Stivers, Sidnell (2005); Streeck et al.
(2011). Tali studi prendono in considerazione la multimodalità, così come essa
emerge nell’interazione umana spontanea, basandosi sull’assunto che la comunica-
zione faccia-a-faccia non sia composta primariamente e solamente del suo elemento
verbale, ma consista piuttosto in un sistema complesso e integrato, nel quale risorse
come lo sguardo, il gesto, il posizionamento fisico, l’uso degli oggetti materiali pre-
senti nell’ambiente contribuiscono a co-costruire interattivamente il significato glo-
bale di un’interazione. In altri termini, la comunicazione interpersonale – e di con-
seguenza anche la comunicazione interculturale, che è l’oggetto specifico di questo
studio – avviene sempre e comunque a più livelli: verbale (parole e loro combina-
zioni), paraverbale (uso della voce anche al di là delle regole prosodiche tipiche di
una lingua storico-naturale), non-verbale (linguaggio corporeo, gesto, sguardo, po-
stura, prossemica) e visivo (ogni altro aspetto relativo agli aspetti visibili del conte-
sto interazionale). Di conseguenza, ogni comunicazione, in particolare quando av-
viene faccia-a-faccia, è una comunicazione multimodale.
Tale paradigma è stato applicato con successo a vari contesti comunicativi,
dall’interazione quotidiana (Streeck, 1996, 2013; Streeck et al. 2011) a quella isti-
tuzionale o asimmetrica (Heath, 1986; Heath, 2013; Mondada, 2011; Mondada,
2012; Luff et al. 2000; Fasulo, Monzoni, 2009), mentre la sua applicazione alla
comunicazione in ambito burocratico-istituzionale rimane tuttora scarsa e fram-
mentaria.

2.2 Comunicazione interculturale, pratiche conversazionali e multimodalità


Si parla di ‘comunicazione interculturale’ in modo sistematico sin dagli anni
fine ’50/’60 del secolo scorso, da quando l’antropologo statunitense Edward T.
Hall, generalmente considerato il fondatore dello studio sulla comunicazione inter-
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 249

culturale, ha pubblicato i famosi saggi The Silent Language (1959) e The Hidden
Dimension (1966).

[...] in 1951 the study of intercultural communication did not yet have a name, its con-
ceptualization at the intersection of culture and communication had not yet occurred,
and the study of nonverbal communication as a “silent language” component of inter-
cultural communication had not been recognized. The field of intercultural communi-
cation was in a pre-paradigmatic era (Kuhn, 1962/1970) before 1950 (Rogers, Hart,
2001). (Rogers et al., 2002, p. 24).

Da allora, sono state avanzate numerose definizioni di che cosa sia una “co-
municazione interculturale”, ognuna delle quali pone l’enfasi su differenti aspetti: si
tratta dunque di un terreno che rimane oltremodo complesso e scivoloso. Ad ogni
modo, la comunicazione interpersonale presenta le pratiche comunicative dei parte-
cipanti a un’interazione come culturalmente determinate, in quanto differenti da
quelle degli appartenenti ad altre culture, gruppi etnici o reti sociali.
Di conseguenza, «ciascun evento comunicativo è condizionato dal background
socio-culturale e di esperienza delle persone che vi sono coinvolte. [...] Se tale
background e il rispettivo atteggiamento mentale non vengono condivisi, soprag-
giungono facilmente dei fraintendimenti ed è necessaria a quel punto una negozia-
zione di significato per poter giungere a un’interpretazione comune. La negozia-
zione di significato (Gumperz, 1982) si riferisce alla formulazione di un’espres-
sione o al significato simbolico di un’azione. In questo modo, in sostanza il signi-
ficato viene negoziato da tutti i partecipanti all’evento comunicativo. Gli sforzi nel
condividere e nel negoziare rappresentano una delle strategie fondamentali nella
comunicazione interculturale» (Dossou, Klein, 2007, p. 29).
Quando una comunicazione interpersonale, che si colloca in una dimensione
interculturale, presenta delle diversità nel modo e nello stile di comunicazione, pos-
sono generarsi delle difficoltà, in quanto tra persone che non condividono lo stesso
retroterra culturale vi è un maggiore rischio di incomprensione, di fraintendimenti,
di ‘miscomunicazione’ consapevole o no. Tali diversità e difficoltà possono essere
percepite o no da parte dei conversazionalisti2. A titolo di esempio, e limitandosi
all’ambito della comunicazione faccia-a-faccia che costituisce l’ambito del presente
studio, se una persona ha l’abitudine, per sua cultura (suoi modelli comportamen-
tali, suoi valori connessi a tali comportamenti), di aspettare che le si attribuisca il
turno per parlare (‘etero-selezione di turno’), si comporterà in modo diverso da una
persona che ha l’abitudine, per sua cultura, di prenderlo autonomamente (‘auto-se-
lezione di turno’). La dinamica interattiva tra due conversazionalisti può dunque ri-
sentire di stili e modi ‘conversazionali’3 differenti da quelli tipici di ciascuno dei

2
Con il termine ‘conversazionalista’ si intende il/la partecipante a una conversazione.
3
Il termine ‘conversazionale’ è da intendersi come termine tecnico senza alcuna valutazione
implicita: quando due o più persone intraprendono un’interazione comunicativa, s’impegnano in
250 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

due gruppi. A tali modi e stili possono essere legati dei valori differenti, social-
mente condivisi da ciascuno dei gruppi di appartenenza, e che quindi possono es-
sere valutati dagli stessi interattanti in modi differenti: chi si prende il turno auto-
nomamente può essere percepito dall’altro come scortese, mentre chi aspetta che gli
si attribuisca il turno può essere sentito dall’altro come passivo. Tali valutazioni di-
vergenti del comportamento conversazionale dell’altro possono causare problemi
comunicativi, non solo sul piano relazionale ma anche sul piano dell’oggetto della
comunicazione4, compromettendo la comprensione del contenuto stesso oltre che la
relazione tra le persone.
Il presente contributo vorrebbe proporre una visione della comunicazione inter-
culturale come fenomeno che inevitabilmente si basa sulla comunicazione interperso-
nale ed è caratterizzata da «un modo, uno stile di comunicare tra persone che fanno
riferimento a contesti culturali differenti» (Dossou, Klein, 2007, p. 12). Più precisa-
mente, «ogni qual volta interlocutori di culture diverse si incontrano con dei punti di
vista differenti e con i rispettivi diversi modi di comunicare, sono inevitabilmente
coinvolti in una comunicazione interculturale. Ciascun interlocutore porta con sé il
proprio bagaglio culturale e esperienziale, adattandolo alle dinamiche interazionali.»
(Dossou, Klein, 2007, p. 29). Non sempre differenze dovute al bagaglio dei singoli
emergono e tantomeno non sempre diventano esplicite e consapevoli ai partecipanti,
ma possiamo immaginare che siano sempre presenti in maniera latente5.
Dal momento che, come illustrato sopra, la comunicazione avviene a diversi
livelli, oltre a quello puramente verbale, tali differenze vanno analizzate secondo
un’ottica globale, che integri le diverse dimensioni in uno studio olistico della
comunicazione umana.

3. RAGIONI DEL PROGETTO E APPROCCIO METODOLOGICO

3.1 Il problema
Il presente studio prende in analisi quattro interazioni fra ‘adulti-in-contatto-
con-la-mobilità’ (ACM) e ‘adulti-in-mobilità’ (AM), per mostrare come la dimen-

una ‘conversazione’. In tal senso non facciamo qui alcuna distinzione tra ‘ordinary conversation’
and ‘institutional talk’ (cfr. Nofsinger, 1991) che mette in opposizione ‘conversation’ a ‘talk’.
4
Per la distinzione dei quattro piani della comunicazione (contenuto, relazione, intenzione,
autor-rivelazione) si veda Watzlawick, Helmick Beavin, Jackson, riportato anche in Dossou, Klein,
2007, pp. 22-23 e Dossou, Klein, 2012, p. 6.
5
Per quanto riguarda il concetto di ‘cultura’, il presente studio si basa sulla definizione degli
antropologi italiani Tullio Seppilli e Grazietta Guaitini Abbozzo, i quali definiscono ‘cultura’ come
“l’insieme delle rappresentazioni mentali socialmente elaborate attraverso cui gli individui, a li-
vello di personalità, entrano in rapporto con il loro contesto in una società storicamente determi-
nata” (Seppilli, Guaitini Abbozzo, 1974, p. 30). Per una definizione dei concetti di cultura e comu-
nicazione interculturale si veda anche Mucchi Faina, 2006, pp. 3-4.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 251

sione multimodale può influenzare positivamente o negativamente le pratiche co-


municative in incontri interculturali, all’interno di contesti burocratico-istituzionali.
A tal fine, sono state effettuate interviste e osservazioni sul campo in uffici pubblici
sin dai primi anni 20006 e successivamente sono state effettuate delle video-
registrazioni in interazioni burocratico-istituzionali reali7. Tale obiettivo di ricerca è
particolarmente rilevante per la dimensione interculturale, non solo alla luce di una
società sempre più multilingue e multiculturale, ma anche e soprattutto rispetto al
6° “Principio Comune di Base” sull’integrazione degli immigrati formulato e adot-
tato dal Consiglio Europeo (cfr. Documento 14615/04 del 19 novembre 2004). Tale
principio recita “L’accesso per gli immigrati alle istituzioni, come a beni e servizi
pubblici e privati, su una base di eguaglianza e in una maniera non discriminatoria è
un fondamento indispensabile per una migliore integrazione” (vedi anche Klein,
2010, p.1)8.

3.2 Il corpus e la raccolta di dati conversazionali


I dati analizzati sono stati raccolti nell’ambito di due diversi progetti co-finan-
ziati dalla Commissione Europea: SPICES (2005-2007) e BRIDGE-IT (2010-
2012)9. In ambedue i progetti sono state individuate, insieme con le amministra-
zioni pubbliche, delle situazioni tipo in cui si trova un AM quando vuole integrarsi
in Italia (o in altri paesi partner dei progetti).
La video-registrazione di situazioni burocratico-istituzionali risulta non facile
per due motivi. Il primo è prettamente di ordine tecnico: video-registrare una
persona che sta allo sportello con una fila di persone dietro pone problemi di rumori
di fondo; il secondo motivo riguarda le norme legali sulla privacy, poiché si trattano
dati sensibili in un luogo amministrativo-istituzionale, per i quali è necessario

6
Si vedano le tesi di laurea, condotte sotto la guida di Gabriella B. Klein, di Cipiciani Luca,
Comunicazione interculturale e percezione dell’ ‘altro’ nella vita quotidiana. Un’indagine empi-
rica a Perugia, 2004; Valloni Maria Letizia, L’interazione tra persone straniere e amministrazione
pubblica: elaborazione di uno strumento d’indagine per far emergere le difficoltà comunicative,
2004; Bassetti Eleonora, “non ho avuto tante difficoltà -la difficoltà ce l’ho avuta con la lingua
italiana e basta”. Un’indagine sociolinguistica in Umbria per un progetto formativo, 2005; Manni
Arianna,”Saremo sempre stranieri”. Un’indagine sociolinguistica in Umbria per un progetto for-
mativo, 2005.
7
Alcune possono essere visionate sulla piattaforma di BRIDGE-IT al link: http://lnx.bridge-
it.communicationproject.eu/web/htdocs/bridge-it.communicationproject.eu/dokeos/main/document
document.php?cidReq =BRIDGEITCORSOIT1&curdirpath=%2FTUTTI_I_VIDEO.
8
Tale principio, a livello nazionale, implica tra le altre azioni proposte dalla Commissione
Europea, quella di “introdurre la competenza interculturale nelle strategie di assunzione e forma-
zione” (http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_per-
sons_asylum_immigration/l14502_it.htm).
9
Per una panoramica sullo sviluppo dei due progetti e della continuità tra di loro si veda
Klein, 2010.
252 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

ottenere le autorizzazioni sia delle amministrazioni relative, sia delle persone


coinvolte. Per ovviare a entrambi i problemi, le registrazioni sono state realizzate, in
accordo con le amministrazioni coinvolte, nei luoghi reali ma a porte chiuse e con
persone AM che i ricercatori già conoscevano. Le/gli AM sceglievano una delle
problematiche da affrontare nella situazione in base alla facilità con cui potevano
identificarsi con essa, ad es. in base alle loro esperienze pregresse con la pubblica
amministrazione. Tali interazioni si possono definire come “semi-simulate”: il
luogo della registrazione è quello reale, con tutti gli oggetti del caso; le persone
coinvolte sono realmente ACM e AM, in quanto tali si identificano con la situazione
e l’argomento del caso; nessuno script veniva fornito a nessun componente della
coppia relazionale standardizzata AM/ACM10 (cfr. Klein, Caruana, 2008).

3.3 La metodologia di analisi


Lo studio è basato sulle metodologie dell’Analisi della Conversazione (Atkin-
son, Heritage, 1984; Sacks, 1992; Schegloff, 2007), la quale si occupa dello studio
della comunicazione faccia-a-faccia, vale a dire la conversazione spontanea, che ha
luogo in contesti reali e non simulati. Il suo focus d’interesse sono le procedure at-
traverso le quali i partecipanti a un evento comunicativo organizzano l’interazione,
al fine di ottenere sequenze ordinate di parlato.
L’unità di analisi fondamentale è il ‘turno di parola’, che si può definire come
ogni stringa di produzione verbale prodotta continuativamente da un singolo par-
lante. Nella conversazione naturale, gli interattanti sono in grado di ‘prendere il
turno’ per ‘auto-selezione’ (ossia per iniziativa autonoma) o per ‘etero-selezione’
(venendo cioè designati da un altro dei partecipanti).
Un concetto chiave dell’Analisi della Conversazione è quello di “sequenzia-
lità”, ossia l’assunto che ogni turno sia interpretato dai parlanti come la diretta con-
seguenza di quelli che lo precedono e, allo stesso tempo, come un vincolo per quelli
che lo seguono. In altri termini, i conversazionalisti monitorano di continuo lo svi-

10
La presenza della telecamera e del ricercatore all’interno del setting è una delle principali dif-
ficoltà che si incontrano nel raccogliere dati che si vorrebbero “naturali” e “spontanei”: è il “paradosso
dell’osservatore” già evidenziato da Labov (1970). La presenza dell’osservatore è una variabile che
inevitabilmente modifica il contesto dell’interazione: il problema, allora, è in che modo i dati raccolti
possano ancora essere considerati validi. D’altra parte, poiché è evidente che videoregistrare i dati
all’insaputa dei parlanti non sarebbe eticamente corretto, l’unico modo per procurarsi i dati è quello di
dichiarare apertamente la propria presenza. Per una discussione del problema, complesso e tutt’altro
che univocamente risolto, si veda Pasquandrea (2007, pp. 13-17). Giova comunque richiamare quanto
affermato da Duranti (2002, p. 111): “Le persone in genere non inventano dal nulla un comporta-
mento sociale, compresa la lingua. Piuttosto, le loro azioni sono parti di un repertorio a loro disposi-
zione, indipendente dalla presenza della videocamera. […] Nella maggior parte dei casi le persone
[sono] troppo occupate a vivere la propria vita per cambiarla in modo sostanziale a causa della pre-
senza di un nuovo oggetto, o di una persona nuova”.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 253

luppo dell’interazione in corso, al fine di rispondere in maniera consequenziale ai


turni altrui e di ottenere una risposta pertinente ai propri. L’analisi mira a rendere
conto delle strategie con cui essi organizzano cooperativamente l’interazione.
Inoltre, l’Analisi della Conversazione considera ogni aspetto dell’interazione
come potenzialmente rilevante, compresi quelli apparentemente minori come pause,
sovrapposizioni, ripetizioni, interruzioni, eccetera. Ogni turno viene analizzato nelle
sue caratteristiche formali, in modo da portare in luce le pratiche che guidano la co-
costruzione dell’interazione in corso.
Infine, è importante mettere in evidenza che l’Analisi della Conversazione non
è interessata tanto al linguaggio in sé e per sé, quanto come veicolo per le azioni so-
ciali che i parlanti mettono in opera attraverso di esso.

4. ANALISI DEI DATI


In questo paragrafo, saranno analizzati alcuni estratti conversazionali, al fine di
far emergere le buone pratiche comunicative in ambito burocratico-istituzionale. In
particolare si focalizzerà l’attenzione sull’uso dei tecnicismi e sul modo in cui essi
vengono mediati attraverso elementi non unicamente verbali ma più ampiamente
multimodali (linguaggio del corpo, gesto, uso degli oggetti, disposizione nell’am-
biente) esaminando il modo in cui essi possono favorire il buon esito della comuni-
cazione interpersonale in dimensione interculturale.

4.1 Primo caso


La prima interazione analizzata coinvolge un cittadino di origine congolese
(indicato nella trascrizione come AM/M)11, che si è recato in un Ufficio Comunale
italiano per richiedere informazioni circa la concessione degli alloggi nelle case po-
polari. Nei turni precedenti, non riportati, l’impiegata comunale (indicata nella tra-
scrizione come ACM/F1)12 ha verificato che AM/M non risponde a uno dei requi-
siti fondamentali per accedere al servizio, vale a dire il possesso di un permesso di
soggiorno per almeno tre anni continuativi; ciò nonostante, si è offerta di fornirgli
comunque spiegazioni circa la compilazione del modulo, in vista di una possibile
futura richiesta da presentare in un prossimo bando.
L’estratto riportato nell’Esempio 1a è rappresentativo del tipo di comunicazione
messa in atto da ACM/F1 durante l’incontro.

11
AM: adulto-in-mobilità; M: soggetto maschile.
12
ACM: adulto-in-contatto-con-la-mobilità; F: soggetto femminile; la numerazione progres-
siva indica persone diverse della stessa categoria: p. es. ACM/F1, ACM/F2 e così via.
254 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

Esempio 1°

1 ACM/F1 POI * dovrà indicare tutti i componenti del suo nucleo


2 familiare * così come risulta all’anagrafe * mentre nel
3 quadro che riguarda il eh nucleo richiedente * sE i //
4 coloro per i quali viene richiesto l’alloggio sono gli
5 stessi che fanno parte del suo nucleo familiare allora i i
6 * i dati * li trasporterà anche * in quest’altro quadro se
7 se invece la casa la chiede solo per lei o solo per una
8 parte del nucleo <<LENTO: indicherà in queste caselle sOlo
9 i- il nome di coloro che intendono occupare l’alloggio\>>
10 *7* questo ** vabbe’ poi in questi punti cinque sei e
11 sette sono indicati ehm <<VELOCE: sono indicate>> delle dichiarazioni
12 che riguardano la non possidenza di eh di
13 diritti su alloggi su altri alloggi * e ehm * in questo
14 caso bisogna leggere bene la * la domanda perché eh *
15 allora L’IMPIEGATA SI INTERROMPE E SI CHINA SUL FOGLIO noi
16 vediamo il compone- che che i componenti il nucleo
17 familiare nOn possiedono <<VELOCE: diritto di proprietà
18 usufrutto uso abitazione su un alloggio adeguato>> quindi
19 per dire che lei nOn * non ha hm diritti * su un alloggio
20 adeguato dovrà rispondere sì * e così al punto sei se lei
21 non è in possesso di redditi da da fabbricati dovrà allo
22 stesso modo rispondere sì perché la domanda * è * posta in
23 modo negativo di non essere in possesso quindi lei dovrà
24 aFFermAre questa dichiarazione che è vero che non E’ in
25 possesso di redditi da fabbricati * e chE * come si
26 dichiara al punto sette non hA usufruito di finanziamenti
27 statali * hm o <<VELOCE: comunque di altri enti pubblici>>
28 per acquistare un alloggio * poi dal punto otto iniziano
29 delle hh domande * <<VELOCE: vengono poste delle domande>>
30 che riguardano il possesso di determinati * punteggi o
31 determinate condizioni di punteggio in questo caso dovrà
32 rispondere sì se lei * le possiede queste condizioni
33 oppure no se non le possiede ***

Come si può notare dalla Figura 1, ACM/F1 pronuncia i propri turni tenendo il
modulo per la richiesta aperto sul tavolo, davanti ad AM/M, e indicandogli, di volta
in volta e in modo ordinato, i punti del modulo di cui sta parlando.
Le espressioni deittiche come “quest’altro quadro” (riga 6), “queste caselle”
(riga 8), “questi punti” (riga 10), o “al punto sei” (riga 20), “al punto sette” (riga
26), “dal punto otto” (riga 28), fanno riferimento a tale attività.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 255

Figura 1: Disposizione spaziale dei partecipanti

IL SOTTOSCRITTO DICHIARA, INOLTRE:


Condizioni soggettive del nucleo familiare
NB: Per i punti 5 – 6 – 7 si fa riferimento al nucleo familiare richiedente indicato al
precedente punto 4. (Indicare SI o NO per ogni voce)

5 Che i componenti il nucleo familiare, compreso il richiedente, NON


SI possiedono il diritto di proprietà, usufrutto, uso e abitazione su di un
alloggio adeguato (così come definito dall’art.3, comma 6, lett. a) del
NO Regolamento Regionale n.1/2005) ovunque situato nel territorio nazionale;

N.B.: Barrare la casella SI se i componenti il nucleo familiare, compreso il


richiedente, non sono proprietari, usufruttuari o titolari del diritto d’uso e di
abitazione su di un alloggio adeguato, ovunque situato nel territorio
nazionale.
Barrare la casella NO se almeno uno dei componenti il nucleo familiare è
proprietario, usufruttuario o ha diritto d’uso o di abitazione su un alloggio
adeguato; in questo caso la domanda verrà esclusa.
6 Che il reddito annuo complessivo derivante da proprietà o comproprietà di
SI fabbricati residenziali, ovunque situati nel territorio nazionale, dei
componenti del nucleo richiedente è INFERIORE o UGUALE ad € 500;
NO
N.B.: Barrare la casella SI se il reddito annuo complessivo che deriva da
proprietà o comproprietà di fabbricati residenziali, ovunque situati sul
territorio nazionale, di proprietà dei componenti il nucleo familiare
richiedente, è inferiore ad € 500,00.
Barrare la casella NO se il nucleo familiare ha redditi da fabbricati su-
periore ad € 500,00; in questo caso la domanda verrà esclusa.
7 Che NESSUNO dei componenti del nucleo richiedente ha mai fruito di
SI contributi, concessi in qualunque forma dallo Stato o altri Enti pubblici, per
l’acquisto (in proprietà immediata o differita) o il recupero di alloggi;
256 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

NO
N.B.: Barrare la casella SI se nessuno dei componenti il nucleo richiedente
ha mai usufruito di contributi, concessi in qualunque forma (agevolazione
sugli interessi o a fondo perduto) dallo Stato o da altri Enti Pubblici, per
l’acquisto (in proprietà immediata o differita) o il recupero di alloggi.
Barrare la casella NO se almeno uno dei componenti il nucleo familiare
richiedente ha già percepito contributi in conto interessi o in conto capitale
per l’acquisto o il recupero di alloggi; in questo caso la domanda verrà
esclusa.
8 Che il nucleo familiare richiedente, alla data del bando, è formato esclu-
SI sivamente da una coppia sposata (o anagraficamente convivente) da non
NO più di un anno e con uno o più figli minori a carico;
Figura 2: Un estratto dal formulario

Nell’intenzione di ACM/F1, ciò potrebbe essere inteso come un tentativo di


mediare l’oggetto-modulo attraverso l’ausilio del mezzo verbale. Inoltre,
l’esposizione ordinata, punto per punto, del contenuto del modulo, può essere con-
siderato una ‘buona pratica’, che facilita la comprensione del parlante, come verrà
illustrato più avanti. In realtà, un’analisi della produzione verbale dimostra come
tale attività di “mediazione” risulti alquanto problematica.
In primo luogo, per quanto riguarda la struttura del turno, un’analisi anche super-
ficiale evidenzia come esso consista in un flusso continuo di parlato, senza alcun in-
tervento da parte di AM/M. L’estratto 1a, ad esempio, è solo una parte di un turno an-
cora più esteso, che si protrae per circa 8 minuti e nei quali AM/M si limita a brevis-
simi acknowledgement tokens (cenni di assenso, risposte minime). Solo al minuto
9’35”, dopo che ACM/F1 avrà completato l’esposizione dell’intero modulo, AM/M
interverrà per chiedere spiegazioni (la sequenza è analizzata sotto, cfr. Esempio 1b).
Tale mancanza di interazione può essere dovuta a motivazioni di tipo culturale,
legate alle regole di politeness tipiche delle culture collettiviste (Mucchi Faina, 2012,
pp. 4-8) come quella congolese di origine di AM/M, nella quale non è considerato
opportuno interrompere l’interlocutore per chiedere chiarimenti13. D’altra parte, però,
va anche notato come raramente ACM/F1 conceda ad AM/M l’opportunità di pren-
dere il turno, costruendo invece lunghi blocchi sintattici, con pochissimi possibili
‘punti di rilevanza transizionale’ (vale a dire, punti in cui per il parlante è possibile
competere per la presa di turno). Ancora più importante è il fatto che ACM/F1 non
produca nemmeno alcun tipo di domanda volta ad accertare la comprensione di
quanto spiegato da parte di AM/M, il cui annuire può non essere necessariamente in-

13
Non siamo a conoscenza di una letteratura specifica su tale punto, ma abbiamo varie testi-
monianze dirette come quella di Koffi M. Dossou del Togo e di Antoinette Elisabeth Mavingou
della Rep. Dem. del Congo, soci dell’associazione Key & Key Communications la quale è uno dei
partner del progetto BRIDGE-IT.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 257

terpretato come un accordo o come un segno di comprensione, quanto come una se-
gnalazione fatica, volta a evidenziare l’apertura del canale comunicativo.
Dal punto di vista lessicale, l’Esempio 1a si caratterizza per un’alta incidenza
di termini tecnici, che ACM/F1 produce senza alcun tipo di spiegazioni. Si vedano
casi come “i componenti del suo nucleo familiare” (riga 1), “non possidenza di di-
ritti su alloggi” (righe 12-13), “diritto di proprietà usufrutto uso abitazione” (righe
17-18), “possesso di redditi da fabbricati” (riga 21), “condizioni di punteggio” (riga
31). Quasi tutti i casi citati rientrano in quelli che, riprendendo una terminologia
proposta da Luca Serianni per il lessico medico, si potrebbero definire ‘tecnicismi
collaterali’, vale a dire «vocaboli (…) legati non a effettive necessità comunicative
bensì all’opportunità di adoperare un registro elevato, distinto dal linguaggio co-
mune» (Serianni, 2005, pp. 127-128).
Un altro punto di possibile criticità, che esula dal piano strettamente lessicale e
investe quello più ampiamente logico-semantico, è la spiegazione alle righe 10-18,
in cui ACM/F1 illustra come la domanda sia “posta in modo negativo” e come
quindi il richiedente “per dire che […] non ha diritti su un alloggio adeguato dovrà
rispondere sì”. Tale concetto, che richiede un carico cognitivo non indifferente per
un apprendente non nativo, viene veicolato senza effettivamente assicurarsi della
sua comprensione.
In generale, si può concludere che AM/M viene sottoposto a una massiccia
dose di linguaggio tecnico non mitigato, veicolato per di più all’interno di un flusso
di parlato continuo, che gli concede pochi spazi di intervento.
L’Esempio 1b mostra uno dei pochi punti dell’interazione in cui AM/M ha
l’occasione di interloquire per chiedere spiegazioni.

Esempio 1b
1 ACM/F1 lei risponderà sì o no a seconda che hh hm * lei>> verifichi di
2 rientrare in quella condizione * oppure * no quindi <<BASSO: avere
3 avuto eseguito uno sfratto avere un * figli dagli undici ai
4 ventisei anni oppure>> essere una persona
5 completamente sola senza riferimenti parentali
6 * e * e poi <<VELOCE: in base alle fasce d’età>> anche questo ha
7 un determinato punteggio|
8 AM/M ok [ma però]
9 ACM/F1 <<LENTO: [non so ] lei mi/>> comunque mi può dire>
10 ciò che non le risulta chiaro se ci sono dei punti
11 magari che vanno approfonditi
12 AM/M sì il primo punto non lo capisco bene perché [io]
13 ACM/F1 [sì]
14 AM/M da tre anni sono qui ** [ehm ]
15 ACM/F1 [lei è] residente qui da
16 [tre anni/ ]
258 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

17 AM/M [sì sì sì sì]


18 ACM/F1 e il permesso di soggio [rno]
19 AM/M [ma] però mi danno solo il permesso di
20 soggiorno da un anno
21 ACM/F1 <<ALTO: allora>> <<LENTO: lei ha piU permessi di
22 soggiorno della validità di un annO/>> [oppure]=
23 AM/M [hmhm ]=
24 ACM/F1 =<<LENTO: il primo permesso le è stato rilasciato
25 da un anno/>>

Nelle righe 1-6, AMC/F1 termina l’esposizione del modulo e segnala la con-
clusione sia con l’intonazione sospensiva, sia con la postura, ritraendosi all’indietro
e facendo il gesto di riprendere il modulo (vedi figura 3).

Figura 3: Fine della sequenza di spiegazione

Solo a questo punto AM/M, che ha evidentemente colto la fine della spiega-
zione, interviene (riga 8), peraltro subito interrotto da ACM/F1, che gli si sovrappone
(riga 9), prospettando la possibilità che AM/M esponga eventuali dubbi o richieste di
chiarimento; è notevole che questa sia la prima volta, dall’inizio dell’incontro, in cui
ACM/F1 si pone il problema di accertarsi della comprensione, da parte di AM/M, di
quanto è stato esposto. Il successivo svolgimento dell’interazione mostra come
AM/M chieda chiarimenti sul “primo punto”, ossia su una parte dell’interazione che
aveva avuto luogo quasi otto minuti prima, all’inizio della sequenza.
Questa prima interazione mostra alcuni punti di criticità, relativi all’interazione
in ambito burocratico-istituzionale: in primo luogo, la tendenza dell’ACM/F1 a pro-
durre lunghi turni, senza accertarsi della comprensione da parte dell’AM/M e senza
dare la possibilità di intervenire per chiedere chiarimenti; in secondo luogo, la pre-
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 259

senza di una gran quantità di lessico tecnico non mediato; in terzo luogo, un uso del
modulo che si limita alla sua spiegazione (perlopiù, ripetendone integralmente interi
brani), senza mai realmente mediarne e/o semplificarne il contenuto. In definitiva,
nonostante l’atteggiamento di ACM/F1 si possa definire disponibile e collaborativo,
l’effetto concreto delle sue pratiche comunicative si risolve in una non-facilitazione, e
anzi in molti casi in un ostacolo alla comprensione da parte dell’AM/M.

4.2 Secondo caso


Quanto detto per l’Esempio 1b si può utilmente mettere a confronto con il caso
seguente (Esempio 2), che coinvolge una cittadina polacca (AM/F1), venuta al Co-
mune per chiedere informazioni circa i sussidi per l’affitto. Come negli Esempi 1a e
1b, per la maggior parte dell’incontro l’impiegata del comune (ACM/F2) fornisce
informazioni circa le varie sezioni del modulo da compilare. La Figura 4 mostra
come anche la configurazione spaziale dei due parlanti sia simile alla precedente:
AM/F1 e ACM/F2 sono sedute ai due lati opposti della scrivania, con il modulo
aperto davanti, disposto trasversalmente alle due. Man mano che avanza nella spie-
gazione, ACM/F2 indica con una penna i punti via via illustrati.

Figura 4: Disposizione spaziale degli interattanti

Inoltre, come nel caso precedente, i turni di ACM/F2 sono piuttosto lunghi e
raramente offrono ad AM/F1 l’occasione di intervenire: tuttavia, questa particolare
parlante mostra un comportamento più attivo, sotto forma di una maggiore tendenza
a produrre commenti e risposte e, in generale, a competere per la presa del turno.
Tale comportamento può essere motivato da un modello culturale individualista
(cfr. Mucchi Faina, 2006, p. 5) a cui la parlante da polacca-europea fa riferimento.
L’Esempio 2 mostra appunto uno di questi casi.
Nelle prime righe, ACM/F2 sta esemplificando i dati da inserire nel modulo
per quanto riguarda lo stato di famiglia del richiedente
260 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

Esempio 2
1 ACM/F2 oltre a mE qui c’è /c’è altre per [sone ]
2 AM/F1 [certo]
3 ACM/F2 che ne so se lei appunto ha un figlio mette i
4 dati del [figlio]
5 AM/F1 [sì ]
6 ACM/F2 il coniuge
7 AM/F1 Sì
8 AMC/F2 o un fratello una sorella capito chi è presente
9 * nel nucleo familiare * alla data del bando|
10 AM/F1 va bene
11 ACM/F2 ok=
12 AM/F1 =<<BASSO: eh volevo anche chiedere>>
13 ACM/F2 Sì
14 AM/F1 <<BASSO: come funziona l’aiuto per esempio [........|]>>
15 ACM/F2 [allora il] ** poi ci
16 vuole la marca da bollo anche eh=
17 AM/F1 =ah
18 ACM/F2 hm * da quattordici e sessantadue=
19 AM/F1 =e dove * si può comprare
20 ACM/F2 si prende dal tabaccaio\ * si
21 AM/F1 ah quindi dove * ok
22 ACM/F2 <<LENTO: poi dopo domAnda * per quanto riguarda
23 questa del contributo affitto secondo * no * va
24 spedita * per raccomandata con ricevuta di ritorno\>> [e la ]
25 AM/F1 [ah quindi]
26 non lo devo [mo-mostrare qui ]
27 ACM/F2 [entro * la scadenza] no
28 non va consegnata qua\ Va bEne/
29 AM/F1 sì sì
30 **
31 ACM/F2 e poi mi dicevA|
32 AM/F1 Eh come funziona [l’aiuto perché]
33 ACM/F2 [allora il ] esatto eh * <<LENTO:
34 adesso hm cioè esce poi una hm * entro sessanta
35 giorni ma * hm dipende dal numero di domande che
36 arrivano * esce una graduatoria provvisoria\ che
37 sta esposta quindici giorni * e voi in quel
38 periodo dovete venire a controllare se siete stati ammessi>>

Alle righe 12 e 14, si può osservare una presa di turno auto-selezionata di


AM/F1, che fa una domanda esplicita ad ACM/F2 (“volevo anche chiedere come fun-
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 261

ziona l’aiuto”). È interessante che ACM/F2, pur avendo riconosciuto e accettato la


presa di turno di AM/F1 (riga 13) e avendo cominciato a rispondere (riga 15, in so-
vrapposizione), si interrompa per aggiungere dettagli alla sequenza precedente, apren-
do una lunga sezione (righe 16-30), nella quale la domanda sembra essere stata messa
da parte. Tale sequenza si può considerare una sovrapposizione dell’agenda comuni-
cativa predefinita di ACM/F2 (dettata, probabilmente, da una routine consolidata) ri-
spetto alle necessità dell’interazione in corso e della relazione con AM/F1.
Solo alla riga 31, alla conclusione della sequenza, ACM/F2 cede nuovamente
il turno ad AM/F1, invitandola a riformulare la richiesta di informazioni preceden-
temente posta (“poi mi diceva”), che viene ripetuta (riga 32) e che riceve finalmente
una risposta (riga 33 seguenti). Tuttavia, le due domande di AM/F1 sono profon-
damente diverse per quanto riguarda la relazione instituita tra i due parlanti: la
prima, infatti, consiste in un’auto-selezione da parte di AM/F1 stessa, mentre la se-
conda è un’etero-selezione operata da ACM/F2, che concede l’opportunità di pren-
dere il turno. La prima rappresenta quindi un’iniziativa autonoma di AM/F1 (non
accettata da parte di ACM/F2), che configura una relazione simmetrica, mentre la
seconda evidenzia la preminenza dell’agenda di ACM/F2 su quella di AM/F1, in
maniera fortemente asimmetrica.

4.3 Terzo caso


La terza interazione analizzata coinvolge un funzionario comunale (ACM/M)
e una cittadina di origine olandese (AM/F2), venuta all’Ufficio per una pratica di
trasferimento di residenza. In questo caso, ci troviamo di fronte all’espletamento di
un task diverso, in quanto non si tratta, come nei casi precedenti, di fornire informa-
zioni, bensì di portare a termine una procedura volta alla produzione di un preciso
risultato: l’iscrizione di AM/F2 nei registri anagrafici comunali e la stampa dei re-
lativi moduli e certificati.
L’Esempio 3a riporta un estratto dalla fase finale dell’interazione. Nei primi
turni il funzionario (ACM/M) sta stampando i moduli che attestano l’avvenuta
iscrizione ai registri anagrafici del Comune.

Esempio 3a
1 ACM/M la scheda anagrafica è completa\ adesso\ procediamo
2 al primo modello\ alla stampa del primo modello\
3 AM/F2 Mhm
4 ACM/M <<ALTO: d’iscrizione anagrafica\>> ** che noi
5 stampiamo in triplice copia/ ** la <<LOUD: quarta>>
6 stampa è un’attestazione che daremo a lEi\ <<LENTO:
7 che serve già>> per dimostrare che ha fatto quest’iscrizione\
8 AM/F2 sì sì cap [isco\]
9 ACM/M [poi ] dovremmo comunque fare una domanda al
10 comune di NOME DEL COMUNE/ per rIchiedere <<VELOCE:
262 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

11 il certificato di soggiOrno\ perché comunque come


12 comunitaria\>> * deve avere un documento in più\
13 <<*26* ACM/M SCRIVE AL COMPUTER E STAMPA DEI
14 DOCUMENTI>> <<BASSO: per cortesia/ * sono tre firme\>>
15 AM/F2 mhm mhm
16 ACM/M una firma due <<ALTO: tre>> firme quI/ grazie\=
17 AM/F2 =okay
18 AM/F2 FIRMA I DOCUMENTI
19 ACM/M grazie\
20 AM/F2 <<BASSO: prego>>
21 ACM/M GUARDA IL COMPUTER
22 ACM/M adesso stampiamo l’atTEstato\ * un documento che è
23 <<VELOCE: già in grado>> dI attestare\ che lEi/
24 <<LENTO: dall’olAnda>> ha chiesto trasferimento e la
25 residenza quI in italia\ eh su nel comune di NOME
26 DEL COMUNE\ <<BASSO: a questo indirizzo\ *[quindi cortesemente/]>>
27 AM/F2 [non capisco/ ] eh eh
28 ACM/M prego=
29 AM/F2 =tutto parole\
30 ACM/M Pre [go ]
31 AM/F2 [per]ché eh unA/ per olanda/ unA per italia/
32 *
33 ACM/M queste sono tre copie\
34 AM/F2 sì sì sì
35 ACM/M noi dobbiamo fare tre copie/
36 AM/F2 [mhm]
37 ACM/M [per]ché <<LENTO: dobbiamo dare questi documenti\ al
38 nOstro ufficio centrale/>>
39 AM/F2 ah sì [sì sì ]
40 ACM/M <<LENTO: [e deve] andare in più uffici\>> <<BASSO:
41 quindi sono tre copie\ questa è l’attestazione che
42 daremo in ultimo\>>

Nella prima parte della sequenza, le azioni relative all’espletamento della pro-
cedura, come compilare, stampare o firmare i documenti (righe 10, 14, 16) si alter-
nano a turni piuttosto estesi, nei quali ACM/M spiega ad AM/F2 ciò che via via fa.
Tali turni si possono considerare positivi sul piano della relazione, in quanto mirano
a rendere l’AM partecipe e consapevole della procedura in corso; essi, tuttavia, pre-
sentano una certa incidenza di linguaggio tecnico (“scheda anagrafica”, “modello”,
“triplice copia”, “attestazione”, “certificato di soggiorno”, “attestare”), sebbene in
misura minore rispetto a quanto osservato nei casi precedenti.
All’apparenza, l’interazione procede in maniera non problematica, come sembra
confermare il commento di AM/F2 alla riga 8 (“sì sì capisco”). In realtà, nel momento
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 263

in cui ACM/M le dispone davanti i documenti, appena stampati, per la firma (righe
24-25), emerge che AM/F2 non ha pienamente capito le spiegazioni (cfr. la richiesta
auto-iniziata: “non capisco tutto parole”, righe 27 e 29), e in particolare non ha com-
preso la necessità di stampare il documento in più copie; tale richiesta di spiegazioni è
un’iniziativa autonoma da parte di AM/F2, non stimolata da alcuna domanda da parte
di ACM/M, che invece sembra considerare l’interazione in corso del tutto non pro-
blematica. Segue dunque una sequenza (righe 33-41), in cui ACM/M riformula la
spiegazione in termini appartenenti a un registro meno tecnico (“noi dobbiamo fare tre
copie” (riga 35), “dobbiamo dare questi documenti al nostro ufficio” (righe 37-38),
“deve andare in più uffici” (riga 40). Altro aspetto degno di menzione è che l’attività
di firmare un modulo, che presuppone una precisa assunzione di responsabilità da
parte dei due partecipanti all’interazione, è realizzata senza un effettivo accertamento
della comprensione, da parte di AM/F2, di quanto sta avvenendo.
È anche interessante mostrare il prosieguo dell’interazione, riportato nell’Esempio 3b.

Esempio 3b
43 ACM/M adesso facciamO una co- un documento in più [ris]petto
44 agli extra comunitari/ pErché eh questo documento
45 è stato passato\ eh <<BASSO: con legge <<VELOCE:
46 trenta del duemilasette\>> ai comuni/>> * dalle pre-
47 dalle questure/ e quindi dal ministero/ * e è il
48 certificato di sOggiorno\ intanto noi rilasceremo un eh *
49 una ricevuta\ cioè una primo documento\ ** e dopo sessanta
50 giorni lei potrà ritirare <<VELOCE: definitivamente il
51 certificato di soggiorno/ che * ha validità * quINquennale\>>

Il breve estratto riportato nell’esempio 3b mostra un altro possibile punto di cri-


ticità, relativo all’uso del linguaggio tecnico: il suo uso anche in situazioni in cui esso
non è strettamente indispensabile, o è addirittura superfluo rispetto alla procedura in
corso. È questo il caso delle righe 44-47, in cui ACM/M spiega come il documento
sia “stato passato con legge trenta del duemilasette ai comuni dalle […] questure e
quindi dal ministero”: informazione sicuramente non richiesta da AM/F2, né tanto-
meno necessaria ai fini dell’espletamento della pratica, e anzi potenzialmente dannosa
ai fini della comprensione da parte di AM/F2. Essa sembra, piuttosto, un automatismo
del linguaggio burocratico, che viene ad interferire nello svolgimento della comunica-
zione interpersonale e interculturale.
I casi precedentemente analizzati si possono considerare esempi di pratiche
comunicative problematiche ai fini della partecipazione e della comprensione da
parte di uno o una AM. La presente interazione, tuttavia, permette di osservare an-
che casi di strategie volte a mitigare e mediare i tecnicismi. Uno di tali casi è ripor-
tato nell’Esempio 3c.
264 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

Esempio 3c
1 ACM/M <<BASSO: allora cittadinanza è qui abbiamo detto
2 olandese\>> è coniugata/
3 AM/F2 [non capisco\ ]
4 ACM/M [è <<ALTO: sposata>>] ha il <<ALTO: marito/>>
5 <<ACM/M INDICA L’ANULARE, SU CUI PORTA LA FEDE
NUZIALE>>
6 AM/F2 /n[o/ ]
7 ACM/M [no\]
8 AM/F2 Sì
9 ACM/M è un elemento anche questo impOrtante\ perché potrebbe
10 essere una studentessa che
11 AM/F2 [sì ]
12 ACM/M [com]unque è sposAta\ quindi|

In questo caso, ACM/M ricorre prima al termine tecnico “coniugata” (riga 2);
poi, di fronte alla mancata comprensione di ACM/F2, ricorre a due riformulazioni
(“è sposata” e “ha il marito”, riga 4), accompagnate dal gesto di toccarsi la fede
all’anulare, che alla fine ottiene la risposta desiderata. Nel prossimo paragrafo, sa-
ranno analizzate alcune di queste buone pratiche.

4.4 Quarto caso


La quarta e ultima interazione analizzata coinvolge una funzionaria comunale
(ACM/F3) e una cittadina di origine sudafricana (AM/F3)14. AM/F3 si presenta
presso gli uffici comunali per una pratica analoga a quella osservata nel caso prece-
dente (trasferimento di residenza e iscrizione nei registri anagrafici del Comune).
Quest’ultima interazione si presenta notevolmente diversa dalle precedenti.
Per quanto riguarda l’aspetto strettamente lessicale dei tecnicismi burocratici,
l’Esempio 4a può essere utilmente confrontato con gli Esempi 3a e 3b, in quanto si
riferisce alla stessa fase dell’interazione (stampa e consegna dei moduli attestanti
l’iscrizione ai registri anagrafici).

Esempio 4a
1 ***
2 ACM/F3 hm ** <<LENTO: questo/>>
3 AM/F3 s[ì/]
4 ACM/F3 <<LENTO: [ a]ttestA>>

14
AM/F3 è in realtà olandese, ma si è scelto di presentarla come sudafricana per avere un
esempio di una diversa pratica burocratica, che coinvolge una cittadina di un paese non-comunitario.
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 265

5 AM/F3 [mhm]
6 ACM/F3 <<LENTO: [che] da oggI ha la residenzA>>
7 AM/F3 [okay\]
8 ACM/F3 [nel ] nostro comune\
9 AM/F3 [okay\]
10 ACM/F3 [ tut]to quello che deve dimostrare/ con questo foglio\
11 AM/F3 okay\
12 ***
13 ACM/F3 e benvenuta/ nel comune di <<ALTO: NOME DEL COMUNE|>>
14 AM/F3 oh grazie/ <<VELOCE: grazie/>>=

Questo estratto, per quanto breve, è però rappresentativo dello stile comunica-
tivo di ACM/F3, che adotta turni brevi, pronunciati a un ritmo molto lento (anche,
probabilmente, in risposta alle notevoli difficoltà linguistiche di AM/F3, il cui ita-
liano è frammentario e assai poco fluente) e contenenti una percentuale molto bassa
di lessico specifico. Il confronto con gli Esempi 3a e 3b mostra come ACM/F3 cer-
chi di evitare termini burocratici e privilegi costrutti sintattici semplici e diretti (“da
oggi ha la residenza nel nostro comune”, righe 6 e 8, anziché “da oggi è iscritta
all’anagrafe”).
Ma, forse, l’aspetto più interessante di questa interazione è l’abilità con la
quale ACM/F3 sfrutta le risorse multimodali (sguardo, gesto, uso degli oggetti) al
fine di veicolare nel modo più efficace il messaggio, come dimostra il prossimo
estratto analizzato (Esempio 4b). La sequenza è tratta dalla fase iniziale
dell’incontro: AM/F3 si è appena seduta alla scrivania e ACM/F3 sta accertandosi
delle condizioni necessarie all’espletamento della pratica.
Nelle righe 7-10, AM/F3 dimostra chiare difficoltà a fornire la risposta alla
domanda di ACM/F3 (“ha mai avuto la residenza in Italia?”). Dopo qualche mo-
mento di esitazione, in cui cerca di riformulare la domanda con brevi sintagmi no-
minali (“residente”, “abitazione in Italia”), constatando la difficoltà da parte di
AM/F di fornire i dati richiesti, ACM/F3 fa ricorso a uno degli oggetti presenti sulla
scena, vale a dire il passaporto di AM/F3 dal quale prendere i dati personali neces-
sari. L’aspetto più interessante, però, è che il passaporto non viene richiesto
esplicitamente da ACM/F3, che si limita a formulare una nuova domanda (“lei
arriva?”, riga 12), alla quale AM/F3 reagisce porgendole il documento. L’analisi
dell’aspetto puramente verbale dell’interazione non permette di capire come si sia
arrivati a quest’ultima azione: occorre invece analizzarne la costruzione mul-
timodale.

Esempio 4b
1 ACM/F3 [<<ALTO: è mai stata>>] in italia/
2 AM/F3 [mai ]
3 ACM/F3 [ha mai] avuto la residenzA/
266 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

4 AM/F3 [sì]
5 ACM/F3 [in] italiA/
6 AM/F3 sì/
7 ACM/F3 <<LENTO: residentE/ ** abitazionE\>> in italiA/
8 AM/F3 (qui) [ehm]
9 ACM/F3 [<<BASSO: (in) ital]iA/>>
10 AM/F3 sì * no
11 **
12 ACM/F3 lei arriva/
13 AM/F3 passaporto/
14 ACM/F3 okay sì *7* mhm passaporto/ * per eh lavorO/
15 AM/F3 ehm ye- sì lavorare\ <<BASSO hm sì/=>>
16 ACM/F3 =/<<BASSO: allora\>> * vediamo tra i documenti/
17 AM/F3 okay/
18 ACM/F3 okay/ ** e le ricevute/ *** va bene\ ** allora|

Innanzi tutto, si può notare come alla riga 11 ACM/F3 sposti lo sguardo verso
la busta di plastica trasparente, in cui AM/F3 tiene il passaporto. Tale divergenza di
sguardi segnala la coesistenza di due azioni simultanee: quella di AM/F3, che con-
tinua a cercare una risposta verbale, e quella di ACM/F3, che invece si orienta già
verso l’oggetto (Figura 5).
Subito dopo, ACM/F3 comincia a formulare la domanda (“lei arriva?”), e allo
stesso tempo allunga la mano verso la busta. Nel frattempo, AM/F3 inizia un gesto
che sembrerebbe preludere a una ripresa del turno da parte sua (Figura 6): in altri
termini, le due interattanti continuano a perseguire due azioni diverse.
A questo punto, però, AM/F3 nota il gesto di ACM/F3, sposta lo sguardo
verso la busta e prende autonomamente il passaporto, mentre ACM/F3 interrompe e
ritrae il gesto (Figure 7 e 8).
Prima di estrarre il passaporto dalla busta, AM/F3 guarda ACM/F3 formu-
lando il turno alla riga 13 (“passaporto”) e, ottenuta conferma, glielo porge (fi-
gure 9 e 10).
L’analisi dimostra come la comunicazione avvenga, in larga parte, attraverso
strategie multimodali come il gesto e lo sguardo, che riescono a travalicare le diffi-
coltà espressive di AM/F3 con la lingua italiana: ACM/F3 chiama in causa e rende
rilevante un oggetto, il passaporto, trasformandolo in uno strumento per la comuni-
cazione. È anche notevole che questa complessa negoziazione multimodale occupi,
in realtà, poco più di 3 secondi.
Richiesta di conferma tramite linguaggio verbale e non-verbale (sguardo).
Il passaporto continuerà ad essere impiegato anche nel prosieguo dell’inte-
razione, come dimostra l’Esempio 4c, in cui ACM/F3 ricorre ad esso per accertare
informazioni come la provenienza geografica di AM/F3 (righe 1-2), il suo nome e
cognome (15-21) e data di nascita (righe 22-23).
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 267

Figura 5: Diverso orientamento dello sguardo nei due interattanti.


Figura 6: Due diverse azioni simultanee da parte di AM e ACM.

Figura 7: “Lei arriva?”: orientamento comune verso il passaporto.


Figura 8: “Lei arriva?”: ritrazione del gesto da parte di ACM.

Figura 9: “Passaporto?” , “Okay”. Richiesta di conferma tramite linguaggio verbale e non-


verbale (sguardo).
Figura 10: Consegna del passaporto.
268 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

Esempio 4c
1 ACM/F3 <<*10* ACM/F3 SCRIVE AL COMPUTER>>
2 <<SOFT: allora>> lei arriva direttamente da dove/ da quI/
3 ACM/F3 MOSTRA IL PASSAPORTO AD AM/F3
4 AM/F3 sì\
5 ACM/F3 okay\ *** hm ** <<SLOW: vA ad abitare con qualcuno/
6 nell’aPPartamento/>>
7 AM/F3 sì ehm eh NOME DEL COMUNE\
8 *
9 ACM/F3 mhm ** qui\ abita qualcuno/ * ha la residenza qualche altra persona/
10 [ am]ica/
11 AM/F3 [ehm] <<VELOCE: no no no [no ]>>
12 ACM/F3 [solo\]
13 AM/F3 no [solo\]
14 ACM/F3 [okay\]
15 AM/F3 solo\=
16 ACM/F3 =okay\ ** questo è il cOgnome/
17 AM/F3 sì\
18 ACM/F3 [mhm]
19 AM/F3 <<BASSO: [cog]nome\>>
20 **
21 ACM/F3 okay\ questo è il nome/
22 AM/F3 nome\ sì\
23 ACM/F3 mhm *** data di nascita/=
24 AM/F3 =sì/ <<VELOCE E BASSO: sì/ sì/>>
25 <<*15* ACM/F3 SCRIVE AL COMPUTER>>

L’esempio 4d mostra un interessante parallelo con quanto visto nell’esempio 3c,


in quanto ACM/F3, in maniera del tutto analoga a quanto avveniva lì, convoglia il
concetto di “sposata” semplicemente indicandosi il dito anulare, dove tiene la fede.

Esempio 4d
1 ACM/F3 mhm/ *23* ACM/F3 SCRIVE SU UN FOGLIO, POI SI GIRA
2 VERSO AM/F3 INDICANDOSI IL DITO ANULARE, DOVE
3 TIENE LA FEDE
4 AM/F3 eh [no\]
5 ACM/F3 <<BASSO: [no\]>>
6 AM/F3 no\ no\ no\=
7 ACM/F3 =okay\ che scuole ha fatto nel suo paese/

Un altro caso di risemiotizzazione degli oggetti presenti nell’ambiente si può


MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 269

osservare nell’esempio 4e, in cui ACM/F si accinge a compilare i moduli necessari


al pagamento della tassa sui rifiuti.

Esempio 4e
1 ACM/F3 [hm ] *** <<LENTO: questa/ è la
2 tassA/ per lo>> lo smaltimento\ dei rifiuti\
3 AM/F3 hm (...)
4 ACM/F3 rifiuti/<<ACM/F3 PRENDE DA SOTTO LA SCRIVANIA IL
5 CESTINO DEI RIFIUTI E LO MOSTRA A AM/F3>>
6 AM/F3 <<ALTO: ah/>>
7 ACM/F3 <<LENTO: di casa/ da buttare via\>> si paga una tAssa\
8 AM/F3 ah\ okay\ <<BASSO: [sì ]>>
9 ACM/F3 [mhm]

AM/F3 accompagna il turno alla riga 2 con un’espressione facciale che dimo-
stra chiaramente una mancata comprensione; invece di ricorrere a strategie mera-
mente verbali (spiegazione, riformulazione), ACM/F3 preferisce usare un oggetto
presente nell’ambiente (il cestino della carta straccia), accompagnandolo con il so-
stantivo “rifiuti” e poi con una frase estremamente semplificata (“rifiuti di casa da
buttare via”, righe 2 e 7, “si paga una tassa”, riga 7).
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’uso di un ‘foreigner talk’ estrema-
mente semplificato si può considerare positivo in questo particolare contesto, in
quanto esso risponde alle esigenze di AM/F3, la quale mostra chiare difficoltà nella
produzione e ricezione dell’italiano. Va comunque posta attenzione all’uso di una
simile varietà in qualunque contesto, in quanto essa potrebbe, in altri casi, risultare
lesiva della ‘faccia’ di un AM, o persino offensiva.

5. RACCOMANDAZIONI PER L’USO DI BUONE PRATICHE


Le esperienze di analisi e di formazione, condotte nell’ambito dei progetti euro-
pei SPICES e BRIDGE-IT in stretto contatto con persone AM e ACM, hanno portato
alla definizione di 10 raccomandazioni per l’esecuzione di buone pratiche nella
comunicazione interculturale in situazioni di servizio pubblico. Tali raccomandazioni
si intendono come risposta concreta a quanto indicato da Carmel Borg15 come
leitmotiv e obiettivo principale del progetto BRIDGE-IT (cfr. BRIDGE-IT e-news-
letter: p. 1, http://bridge-it.communicationproject.eu/res/newsletters-nuovi /newsletter-
1-IT.pdf):

15
Docente di pedagogia e referente dell’università di Malta quale partner di BRIDGE-IT.
270 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

BRIDGE-IT (Be Relevant to Intercultural Diversity Generation in Europe Integration


Team) invites service providers, working within bureaucratic institutions, to “be rele-
vant”, that is, to reflect on their current communicative behaviour within multicultural
settings with a view of transforming attitudes and behaviour. Rather than cultural melt-
ing pots, BRIDGE-IT advocates for communities where different cultures and lan-
guages co-exist in a dynamic and dialectic relationship.

Di seguito si trovano elencate le dieci raccomandazioni elaborate dalle quali si


possono trarre ‘buone pratiche’ nell’uso di tutti i quattro livelli della comunicazione
(verbale, paraverbale, non-verbale, visiva); ciò dimostra l’importanza di un’attenta
pratica di comunicazione multimodale.
˗ Usa materiali visivi da integrare con parole.
Se necessario, visualizza le parole chiave utilizzate nei formulari/contesti
burocratico-istituzionali (famiglia, figli, marito, femminile), attraverso
immagini; mostra un esempio di una carta d’identità, di un passaporto. (Si
vedano gli esempi 3c, 4b, 4c, 4d, 4e).
˗ Usa esempi concreti.
Fai riferimento a formulari già compilati in lingue diverse e riferiti a gruppi
etnici diversi.
˗ Usa il computer/internet.
Traduzioni online possono aiutare, ma attenzione: non sono sempre corrette,
soprattutto quando hai a che fare con frasi complesse; meglio utilizzare
questo strumento solo per singole parole o espressioni brevi.
˗ Sviluppa un atteggiamento di disponibilità.
Ascolta con attenzione. Mostra attraverso il tuo comportamento non-
verbale che stai ascoltando e fai domande per chiarire. (Si vedano gli
esempi riportati nel paragrafo 4.4).
˗ Parla lentamente,
ma senza esagerare: controlla se l’altro può seguire o no. Adatta il ritmo di
conseguenza (si vedano gli esempi riportati nel paragrafo 4.4).
˗ Non fornire troppa informazione.
Verifica attraverso domande quali e quante informazioni sono necessarie o
richieste; fornisci solo le informazioni realmente necessarie. (Si veda, come
problematico, l’esempio 3b e, in positivo, l’esempio 4a).
˗ Nell’aiutare a compilare un formulario segui punto per punto.
Non affrontare 2-3 punti insieme. (Si vedano gli esempi 1a e 2).
˗ Tieni conto della vulnerabilità di un adulto-in-mobilità.
Rispetta le differenze nelle culture (ad esempio l’impegno di una firma). (Si
veda, come problematico, l’esempio 3a).
MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 271

˗ Sii consapevole del potere “educativo” di tali situazioni.


Sii un modello per l’adulto-in-mobilità; ciascuna di tali interazioni è
un’esperienza di apprendimento per un adulto-in-mobilità e anche per te
che fornisci un servizio nel ruolo dell’’adulto-in-contatto-con-la-mobilità!
Enfatizza le parole chiave tecniche: l’adulto-in-mobilità probabilmente le
ripete mentre stai parlando con lui/lei, imparando così i termini o
comunque memorizzandoli più facilmente. (Si vedano gli esempi discussi
nel paragrafo 4.4).
˗ Rispetta l’altra persona: evita di offendere l’auto-stima del tuo interlocutore.
Aiuta a ricostruire l’autostima, evita di far perdere al tuo interlocutore la
sua “faccia”.
Per esempio, quando l’AM segnala di non comprendere, non serve
aumentare il volume della voce, che potrebbe causare un effetto negativo,
perché percepito da parte dell’interlocutore come un essere sgridato,
criticato, deriso o facendolo sentire inadeguato. Un altro esempio frequente
a livello verbale è l’uso del “tu” oppure quello di nominare una persona
“ragazzo” o “ragazza” quando potrebbe essere padre o madre di famiglia o
comunque avere un’età e/o uno status per cui nella sua società di origine
non si è più considerati “ragazzi”.

Le raccomandazioni 1 e 2 (e limitatamente 3) comportano il livello visivo della


comunicazione, la raccomandazione 4 (e in parte 7) il livello non-verbale, la racco-
mandazione 5 il livello paraverbale, le raccomandazioni 3, 6 e 7 si sviluppano so-
prattutto a livello della comunicazione verbale, quelle 9 e 10 possono coinvolgere tutti
i livelli. Tali raccomandazioni possono essere utilmente confrontate con quanto
emerso nel corso dell’analisi delle quattro interazioni prese in considerazione nel pre-
sente studio.
L’analisi ha mostrato quanto le strategie di comunicazione multimodale pos-
sano essere utili per agevolare lo svolgimento di un’interazione burocratico-istitu-
zionale nella dimensione interculturale.
Gli esempi riportati sia quelli problematici che quelli che potremmo definire
come ‘buone pratiche’ mostrano inoltre la necessità di una formazione alla comuni-
cazione interpersonale in prospettiva interculturale del personale della pubblica
amministrazione.
272 GABRIELLA B. KLEIN – SERGIO PASQUANDREA

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MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 275

7. CONVENZIONI NOTAZIONALI
xxx sta per una lettera: trascritto del parlato
xxxxx- / -xxx parola interrrotta / parola tronca
(...) sequenza non comprensibile acusticamente
GESTIONE TURNI
[xxxxxxx ] parlare simultaneo
[xxxxxxxxxx ]
[xxxxxxx ] parlare sovrapposto
[xxxxxx]xxxx
xxx= ‘latching’: i turni di due parlanti si attaccano senza il minimo di
=xxx pausa tra i turni
xxx // xxx INTERRUZIONE E RIPIANIFICAZIONE DEL DISCORSO
INTONAZIONE DELLE SILLABE
x/ ascendente
x\ discendente
x| sospensiva
PAUSE
* breve
** media
*** lunga
*sec* molto lunga con indicazione della lunghezza in secondi
ENFASI
xxXxx singola lettera maiuscola indica enfasi sulla vocale
ALLUNGAMENTO
xxxxxxx una lettera sottolineata significa un allungamento vocalico o
consonantico
VELOCITÀ
<<VELOCE: xxx>> parlato veloce / cambio marcato di velocità
<<LENTO>: xxx> parlato lento / cambio marcato di velocità
VOLUME
<<ALTO: xxx>> parlato a voce marcatamente alta / cambio marcato di volume
<<BASSO: xxx>> parlato a voce marcatamente bassa / cambio marcato di volume
COMMENTI
COMMENTO commenti sono scritti in lettere maiuscole;
vengono usati per descrivere un’azione o per fornire informazioni
sul contesto della situazione;
sono anche usati per indicare la velocità dell’eloquio e il volume
della voce (vedi sopra)
<<COMMENTO commento riferito a una sequenza di parlato
xxx>>
KARL GERHARD HEMPEL
(Università del Salento)

Multilinguismo nella comunicazione scientifica


Il punto di vista degli archeologi classici statunitensi

1. INTRODUZIONE
Al giorno d’oggi l’inglese è solitamente considerato come lingua veicolare
della comunicazione scientifica internazionale e i motivi della sua posizione domi-
nante nel mondo accademico sono spesso stati discussi (p.es. Kaplan, 2001). La ri-
cerca sociolinguistica si è concentrata principalmente sulla ricostruzione dello svi-
luppo che ha condotto alla situazione attuale (per un’ampia documentazione v.
Ammon 1998), sull’analisi degli svantaggi che risultano per i non anglofoni dalla
supremazia della lingua inglese e sulle problematiche che ne derivano per la comu-
nicazione scientifica (Saracino, 2004; Ammon, Carli, 2007; Ammon, 2012); poca
attenzione invece è stata riservata all’esiguo numero di materie che continuano ad
essere multilingue.
Un maggior interesse a questa problematica si osserva in area tedescofona,
dove il futuro ruolo della lingua madre, già da alcuni decenni, è oggetto di dibattiti
accesi che non interessano solo un ristretto pubblico accademico. Il punto centrale
della discussione sono le lamentele per l’impatto oramai recessivo del tedesco in di-
scipline scientifiche e tecniche che contrasta con la sua persistenza nelle scienze so-
ciali e umanistiche (Weinrich, 1986). I linguisti tedeschi frequentemente sottoli-
neano il carattere particolare della comunicazione specialistica nelle discipline
umanistiche che corrisponde alla loro tipica varietà di paradigmi e al forte radica-
mento nelle diverse macroculture; di conseguenza il multilinguismo è considerato
spesso come presupposto per una proficua attività di ricerca in quegli ambiti (Ok-
saar et al., 1988; Österreicher, 2002). Negli ultimi anni, argomentazioni simili sono
state sviluppate occasionalmente anche in Italia e nell’area ispano-americana, dando
così prova di una maggiore autostima linguistica (Calaresu et al., 2006; Hornung,
2011; Hamel, 2005). Alcuni studiosi avanzano critiche verso il concetto di una lin-
gua franca in generale, esprimendosi a favore di una politica linguistica che rafforzi
la posizione delle lingue diverse dall’inglese (Ehlich, 2004; 2006; Thielmann, 2002;
Ammon. 2000; 2012).
In tale contesto rivestono un ruolo chiave alcune discipline tradizionalmente
multilingue e ‘piccole’, che in tedesco vengono spesso definite come Nischenfächer
(‘discipline di nicchia’). Queste comprendono la filologia classica, la teologia, la
filosofia e la musicologia, nonché l’egittologia e l’islamistica (Ammon, 2000; Beh-
rens et al., 2010). Recentemente è stata condotta una ricerca approfondita sulla si-
tuazione linguistica in archeologia classica per quanto riguarda le aree di lingua te-
278 KARL GERHARD HEMPEL

desca e italiana (Hempel, 2006; 2011; 2012). Da una ricerca bibliografica e da un


sondaggio presso archeologi di università italiane e dell’area tedescofona, emer-
gono i seguenti risultati:

˗ In archeologia classica si usano diverse lingue europee (principalmente


l’inglese, il tedesco, l’italiano e il francese), soprattutto per le pubblica-
zioni. Inoltre ci sono alcune lingue ‘minori’ legate a paesi in cui si svolge
molto lavoro di ricerca sul campo (p. es. il greco moderno e lo spagnolo;
recentemente si è aggiunto anche il turco).
˗ Tra gli studiosi prevale un concetto di comunicazione specializzata di tipo
multilingue. I ricercatori (ma anche gli studenti) sono tenuti a imparare le
lingue straniere al fine di raccogliere le informazioni necessarie per i loro
studi. L’idea di un’unica lingua accademica viene fermamente respinta
dalla quasi totalità degli archeologi interpellati nell’indagine, sia dagli ita-
liani che da quelli di lingua tedesca.
˗ Il grado di autostima e le opinioni sul futuro sviluppo della situazione
linguistica, tuttavia, variano a seconda del contesto macroculturale. Gli ar-
cheologi classici di lingua tedesca mettono in evidenza l’importanza della
ricerca e della bibliografia specialistica attuale e storica in tedesco, espri-
mendo maggiormente la convinzione che la comunicazione specializzata
nella disciplina rimarrà multilingue nel prevedibile futuro, mentre tra gli
italiani ci sono molti che temono per le prospettive della propria lingua
madre, anche a breve termine.

La situazione generale appare comunque caratterizzata da varie asimmetrie


che in qualche maniera contrastano con l’immagine idilliaca della realtà linguistica
che a volte viene proposta dai sostenitori del multilinguismo. Innanzitutto è evi-
dente che i parlanti delle lingue ‘minori’, per trovare ascolto, spesso sono costretti a
passare a una delle ‘quattro grandi’ (inglese, tedesco, francese e italiano), per cui la
libertà di scelta della lingua sembra comunque limitata. Inoltre, le barriere linguisti-
che in archeologia classica si possono definire tutt’altro che eliminate; il concetto
del plurilinguismo si riferisce infatti all’uso attivo della lingua madre e di una certa
conoscenza passiva delle altre (di solito solo una capacità di lettura), necessaria ai
fini della ricerca e all’uso della bibliografia in lingua. Per di più si nota che anche
gli archeologi tedescofoni (che si mostrano particolarmente convinti del multilin-
guismo e del valore della propria lingua madre per la comunicazione scientifica)
spesso esternano un certo disagio, lamentando una limitata ricezione delle loro pub-
blicazioni nelle altre macroculture, a causa di un calo generale delle conoscenze del
tedesco all’estero. Per contrastare questa tendenza, molti di loro suggeriscono
l’aggiunta alle pubblicazioni di riassunti in inglese e la presentazione parallela dei
risultati delle loro ricerche in inglese o semplicemente la pubblicazione di tradu-
zioni che dovrebbero garantire la ricezione e l’interesse in tutto il mondo.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 279

Sembra quindi sussistere una crescente pressione sui ricercatori delle ‘disci-
pline di nicchia’ che sentono, alla stregua dei loro colleghi appartenenti alle disci-
pline ‘dure’, una sempre maggiore costrizione a pubblicare in inglese (“publish in
English or perish”). I futuri sviluppi dipenderanno dal rapporto tra fattori personali
e sociali, quali l’acquisizione di competenze linguistiche che permettono di scrivere
testi complessi in inglese, il prestigio e la (percepita) ricezione a livello internazio-
nale dei testi redatti in lingue diverse dall’inglese.
In questo contesto, un ruolo cruciale è quello svolto dalla parte anglofona della
comunità accademica, a volte apertamente accusata di uno «sciovinismo bibliogra-
fico» (Sobrero, 2006, pp. 10-11) che, insieme ad altri fattori, può portare anche a
una «skewed accumulation of scientific knowledge» (‘accumulo distorto del sapere
scientifico’, Ammon, 2012, p. 342). In questa sede si vuole indagare sul peso attri-
buito dagli studiosi statunitensi alla bibliografia non anglofona, raccogliere qualche
informazione sulla sua ricezione e cercare di fare qualche ipotesi sulla possibile
evoluzione futura. I contributi redatti in lingue diverse dall’inglese hanno un presti-
gio paragonabile a quello delle pubblicazioni in inglese, almeno in alcune disci-
pline? In che misura i ricercatori anglofoni leggono articoli e libri in altre lingue? Si
percepiscono eventuali barriere linguistiche? Sussiste una consapevolezza della
realtà multilingue della disciplina e qual è l’atteggiamento mostrato nei confronti
del multilinguismo?

2. SITUAZIONE LINGUISTICA E OPINIONI SUL MULTILINGUISMO NELL’ARCHEOLOGIA


CLASSICA STATUNITENSE

In questo contributo si presentano i risultati di un sondaggio sull’uso delle lin-


gue e sulla percezione della situazione linguistica da parte degli studiosi di archeo-
logia classica negli Stati Uniti d’America. L’indagine è stata condotta tra maggio e
giugno del 2012; si basa su un questionario composto da 21 domande e inviato via
email a circa 160 archeologi classici attualmente impiegati presso università ameri-
cane. Solo 35 moduli sono stati riempiti e restituiti, per cui il tasso di risposta è infe-
riore a quello che normalmente ci si aspetta da tali indagini (cfr. Hempel, 2011;
2012), ma i risultati forniscono almeno una prima impressione dell’atteggiamento
generale verso la situazione linguistica in archeologia classica.
Alcune domande nella prima sezione mirano a raccogliere informazioni sulla
persona del partecipante; dalle risposte risulta che 7 degli interpellati provengono
originariamente da paesi europei non anglofoni (Germania, Svizzera, Grecia, Italia).
Per la presente analisi sono stati presi in considerazione solo i 28 questionari com-
pilati dai madrelingua di inglese. Di questi ultimi, 19 sono di sesso maschile, 9 in-
vece di sesso femminile, un profilo che dovrebbe corrispondere all’incirca alla di-
stribuzione generale dei sessi nella disciplina accademica. Per quanto riguarda l’età,
si ricava qualche informazione dall’anno in cui il partecipante ha finito il dottorato
di ricerca. La maggior parte è arrivata al titolo negli anni ’70 oppure negli anni ‘80
(rispettivamente 7 e 11 persone; solo una appartiene agli anni ’60), per cui si tratta
280 KARL GERHARD HEMPEL

di un campione di studiosi avanzati nella carriera, con una lunga esperienza nella ri-
cerca (bibliografica). Di meno sono invece i giovani che hanno finito il loro dotto-
rato negli anni ’90 oppure dopo il 2000 (rispettivamente 4 e 5 studiosi). Dato il nu-
mero esiguo di partecipanti, non sono state adoperate suddivisioni in sottogruppi.
Il primo blocco, composto da 11 domande (tabella 1, figg. 1-10), mira a de-
scrivere la percezione dell’uso delle lingue, mentre nel secondo, con 7 domande
(figg. 11-17), si raccolgono informazioni sull’atteggiamento nei confronti del mul-
tilinguismo e le prospettive future. Le domande sono state formulate in modo da
evitare il diretto riferimento alle qualità personali dei partecipanti (per esempio alle
competenze linguistiche), mentre è stata data la possibilità di fornire commenti li-
beri (con un esplicito invito a farlo alla fine del modulo); è stato inoltre garantito un
trattamento anonimo dei dati.

2.1 L’uso delle lingue e la percezione della situazione linguistica


L’idea di una disciplina multilingue emerge già dalla nostra prima domanda
che riguarda le più importanti riviste accademiche (tabella 1). Circa la metà delle
risposte (67 di 131) si riferisce a riviste edite a cura di istituzioni appartenenti
all’area non anglofona, soprattutto tedesche e francesi, ma anche italiane e greche.
Si nota quindi un’evidente tendenza ad attribuire un ruolo più incisivo alle riviste
pubblicate dalle istituzioni anglofone, ma per il resto l’immagine appare simile ai
risultati dei nostri sondaggi condotti in Italia e nei paesi di lingua tedesca (Hempel,
2011, pp-56-58; 2012, pp. 73-76), sia per il peso attribuito alle varie zone culturali,
sia per le singole riviste citate, a dimostrazione di una forte coerenza sociale
all’interno della disciplina accademica, anche oltre i confini linguistici.
Per quanto riguarda le lingue degli articoli pubblicati sulle riviste, bisogna
considerare che molte di queste accettano, almeno in teoria, articoli in lingue di-
verse. Inoltre, la nazionalità dell’istituzione editrice non corrisponde sempre al
Paese in cui questa ha la sua sede effettiva (questo è il caso degli istituti di ricerca
all’estero). Sulle Römische Mitteilungen dell’Istituto Archeologico Germanico di
Roma, per fare un esempio, è stato pubblicato tra il 2001 e il 2007 un totale di 52
articoli, di cui 25 in tedesco, 21 in italiano e 6 in inglese. Nella maggior parte dei
casi (in particolare in area anglofona), la lingua utilizzata negli articoli corrisponde
comunque a quella ufficiale della relativa istituzione.

Paese [=nazionalità dell’istituzione Riviste (numero di risposte)


di riferimento] (numero di risposte)
USA (51) AJA (21), JRA (15), Hesperia (11), altre (4)
Germania (41) AM (12), JdI (11), RM (10), AA (6), altre (2)
Gran Bretagna (16) JHS (6), JRS (4), BSA (4), altre (2)
Francia (11) BCH (6), RA (3), MEFRA (2)
Italia (7) NSc (3), BollCom (2), altre (2)
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 281

Grecia (4) ArchDelt (2), altre (2)


Svizzera (area tedescofona) (1) AntK (1)
Tab. 1: Risposte alla domanda “Which are, in your opinion, the most important scientific
journals in Classical Archaeology (not more than 5)?”1

Le domande che seguono (figg. 1-2) riguardano l’uso passivo della lingua
nelle università americane e precisamente la bibliografia ritenuta importante da pro-
fessori universitari per l’insegnamento e ai fini della ricerca. La maggior parte di
questi afferma di chiedere agli studenti di leggere opere in lingue straniere (fig. 1) e
le lingue (fig. 2) corrispondono esattamente a quelle richieste dai loro colleghi eu-
ropei (Hempel 2011, pp. 58-59; 2012, pp. 77-79): tedesco, francese, italiano, greco
moderno, spagnolo e turco, anche se alcuni intervistati sottolineano che queste pos-
sono variare a seconda del campo o del tema concreto della ricerca.

Figura 1: Risposte alla domanda “Do you require your students to read archaeological litera-
ture in languages other than English (e.g. for their thesis?)”.

Dalle risposte risulta però che si tende – diversamente da quanto avviene nei
Paesi europei – a differenziare tra studenti dei corsi triennali e del biennio
successivo (in Germania, ad esempio, le lingue straniere sono solitamente richieste
per tutti gli studenti). La barriera linguistica è quindi sentita più come un problema,
come si evince anche da alcuni commenti dei partecipanti al riguardo:

Rarely; as the majority of my classes are freshmen survey classes (100-level), most of
the students do not have a sufficient mastery of foreign languages to allow them to read
non-English scholarly papers

1
Le abbreviazioni delle riviste sono quelle raccomandate dall’Istituto Archeologico Germa-
nico, v. http://www.dainst.org/sites/default/files/media/abteilungen/zentrale/redaktion/Richtlini-
en/02_liste-abkuerzungen.pdf?ft=23 (10/06/2013).
282 KARL GERHARD HEMPEL

Figura 2: Risposte alla domanda “Do you require your students to read archaeological litera-
ture in languages other than English (e.g. for their thesis?) -If so, in which languages?”

We (US faculty members) can require (and do require) graduate students to learn for-
eign languages. But your survey fails to account for the majority of the students that we
teach: undergraduates. Almost none of them knows German, certainly not German and
French and Italian. This makes it very difficult to teach a class that incorporates the
most important and the latest research. If Classical Archaeology in American is to re-
main a vibrant field, we must attract very bright undergraduates. We can only do this by
presenting them with the best literature and the most important debates in the field. But
this is usually impossible because of the language barrier.

Nel secondo commento è espressa inoltre l’opinione che la qualità della ricerca
archeologica e dell’insegnamento in America dipenda in qualche maniera dalla pos-
sibilità di recepire opere scientifiche in lingua straniera. Tale quadro si completa
prendendo in considerazione le due domande riferite all’uso della lingua per le pub-
blicazioni in archeologia classica e alla dinamica degli ultimi decenni (figg. 4-5):
pur essendo usato meno di due decenni orsono, il tedesco è visto dagli intervistati
come importante quanto l’inglese, seguito dal francese e dall’italiano, mentre al-
cune altre lingue (soprattutto lo spagnolo e il turco) appaiono in aumento – un ri-
sultato che corrisponde abbastanza bene alle idee riscontrate nel sondaggio presso
gli archeologi europei (Hempel, 2011, pp. 60-62; 2012, pp. 80-82).
Alcuni degli intervistati forniscono ulteriori commenti a queste domande che
evidenziano ancora una volta la necessità di leggere la bibliografia archeologica in
lingua straniera per scopi di ricerca, a seconda della tematica trattata:

It ist not possible to study Roman architecture or sculpture without German as well as
English. Many excavation reports are in French or Italian or modern Greek.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 283

Figura 3: Risposte alla domanda “Which languages are actually mostly used for publications
in Classical Archaeology (in order of importance)?”

Figura 4: Risposte alla domanda “To your knowledge, are there any languages today which
were used in literature on Classical Archaeology more or less than 20 years ago? - If so,
which ones?”

[…] there is not one language more important than another, particularly in the subfields.
You can’t be a Romanist (as I often am) without Italian; for Archaic Greece, it drops
down the list. In my Anglophone world command of French, German, Italian are seen
as indispensable
284 KARL GERHARD HEMPEL

[…] If you work (conduct fieldwork or contextually based studies) in Greece or Italy, and
since current fieldwork is dominated by local archaeological authorities and universities in
those countries, then it is paramount that you read Greek and Italian (most basic reports
are in these languages); and then English, French and German for the basic fieldwork of
the foreign schools. The most comprehensive handbooks and compendious synthetic and
descriptive or synoptic studies are written in German (e.g., sculpture) and French (e.g.
architecture); most theoretical approaches and culture histories are in English and so on.
[…]

La sezione successiva del sondaggio (figg. 5-10) riguarda il punto centrale


della nostra ricerca, vale a dire le opinioni sulla ricezione della bibliografia archeo-
logica da parte degli studiosi stessi. L’immagine dipinta dai partecipanti a tal propo-
sito sembra più ottimista rispetto alle considerazioni fatte sugli studenti e la loro
propensione alla lettura in lingua straniera: la maggior parte degli studiosi considera
i loro colleghi ben informati sulle pubblicazioni non-inglesi (fig. 5), in quanto leg-
gerebbero anche opere intere nelle lingue straniere più importanti (figg. 6-7).

Figura 5: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists keep
themselves informed about new non-English publications in their field?”

Figura 6: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists read
non-English books (e.g. entire articles/books)?”
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 285

Figura 7: Risposte alla domanda “As far as you know, do US classical archaeologists read
non-English books (e.g. entire articles/books)? -If so, in which languages?”

Alcuni commenti aggiuntivi forniti dagli intervistati contengono idee simili a


quelle che abbiamo visto prima, in particolare si mette in evidenza che un ricerca-
tore “serio” debba aggiornarsi utilizzando la bibliografia estera, un’opinione
espressa anche dagli studiosi europei, soprattutto da quelli tedeschi (Hempel, 2011,
p. 74; 2012, p. 102 ):

always. for any professional and serious archaeologist


yes, always if the archaeologist wants to stay abreast
good ones always. most not enough. beginning grad students are not as well prepared as
in the past

Altri partecipanti invece ci informano del problema particolare che gli studiosi
negli Stati Uniti, a causa delle politiche bibliotecarie, a volte hanno difficoltà ad ot-
tenere le informazioni necessarie per le loro ricerche:

I think many try to stay abreast, but not all succeed. U.S. university libraries have had
their budgets cut severely, and foreign publications are often the first to go. Free access
to digital publications would help enormously.

Part of the problem in working in other languages is the cost of the publications – aca-
demic libraries are not buying materials as they used to, especially if the work will
‘only’ benefit a couple of researchers at a University, and materials are costly for an in-
dividual, even if one can find out about them […]

To some extent American scholars are at the mercy of the buying policies of their uni-
versity libraries. Librarians prefer to buy books in English; they don’t mind buying
286 KARL GERHARD HEMPEL

books in French too much because they probably studied French at some point, it is
much harder to get them to buy in German and especially Italian. The argument is that
the students will not read those books and it makes no sense for the library to buy for
only one person (i.e. the person requesting the book). It becomes harder and harder for
scholars in US institutions that do not have a dedicated program in archaeology to keep
up with non-English publications unless we receive regular circulars from non-English
publishers. Non-English publications seem also to be published in shorter runs and to
go out of print faster so we often miss getting them when they are available. […]

Le seguenti domande (figg. 8-9) trattano il problema delle barriere linguisti-


che, in particolare lo sviluppo delle competenze linguistiche nell’archeologia clas-
sica americana nel corso degli ultimi 20 anni. La sensazione generale è che la cono-
scenza delle lingue straniere in quel periodo non sia aumentata, ma leggermente
diminuita (fig. 8).

Figura 8: Risposte alla domanda “Do you feel the knowledge of research-relevant foreign
languages on the part of US archaeologists has increased or decreased during the last 20
years?”2

Per quanto riguarda la tendenza in relazione alle varie lingue, i partecipanti


hanno fornito solo poche risposte che pertanto devono essere interpretate con cau-
tela (fig. 9). Sembra, tuttavia, che alcuni degli intervistati vedano diminuita la cono-
scenza delle lingue tradizionalmente diffuse come tedesco e francese, mentre altre
come l’italiano, il greco, lo spagnolo e il russo appaiono in aumento.
La situazione generale delle competenze linguistiche nel mondo accademico
degli Stati Uniti è descritta più dettagliatamente nei seguenti commenti che mettono
in evidenza alcuni problemi specifici della situazione attuale:

2
Alcuni dei partecipanti hanno fornito risposte diverse riferite a lingue diverse. Per il grafico,
ogni singola risposta è stata conteggiata, per cui il numero totale di risposte supera il numero dei
partecipanti al sondaggio.
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 287

Figura 9: Risposte alla domanda “Do you feel the knowledge of research-relevant foreign
languages on the part of US archaeologists has increased or decreased during the last 20
years? -If so, in which ones?”

Figura 10: Risposte alla domanda “As far as you know, non-English publications in US
academic practice are considered as more or less important than English ones (e.g. in selec-
tion procedures, evaluations and assessments)?”

Decreased; all languages; with the extensive use of translatable programs such as
Google, personal knowledge of foreign languages has been reduced. Now, people are
increasingly having their computers translate for them, thus circumventing the need to
know the language personally

The absence of serious language training in pre-graduate US education is endangering


the postgraduate study of classical archaeology in the US. […] Students do not receive
serious language training in middle school, are not required to learn or to develop their
language skills in college, and we are under increasing pressure to get graduate students
288 KARL GERHARD HEMPEL

through the Phd [sic] in 6 years. Unless they have somehow bucked the trend and ac-
quired languages earlier, in spite of these impediments, it is impossible for them to do a
serious degree in Classical Archaeology (with proper language training) in that period
of time. In my youth, students were still expected to have some at least passing
knowledge of a foreign language to enter or at least to graduate from college. […].

L’ultima domanda di questa sezione (fig. 10) si riferisce al prestigio attribuito


alle pubblicazioni non inglesi nel mondo accademico degli Stati Uniti. La maggior
parte degli intervistati è dell’avviso che sia impossibile stabilire differenze concrete
nella valutazione tra pubblicazioni in inglese e non, sottilineando così il concetto
che il prestigio di una pubblicazione non dipende da fattori linguistici.

2.2. Opinioni sull’uso delle lingue e sul multilingualismo


Le prime due domande di questa sezione riguardano opinioni sul carattere pecu-
liare della comunicazione specializzata nelle discipline umanistiche, diversa da quella
in ambito scientifico, e sulla rilevanza delle caratteristiche linguistiche dei testi
specialistici (figg. 11-12). Come abbiamo visto prima, mettere l’accento su aspetti
specifici della comunicazione e della scrittura in studi umanistici può essere
considerato un tipico atteggiamento dei sostenitori del multilinguismo, e le risposte
alle domande dimostrano effettivamente che molti archeologi statunitensi seguono
tale tendenza, essendo così in linea con le opinioni espresse nella prima sezione del
nostro sondaggio.
Le seguenti domande (figg. 13-14) si riferiscono all’atteggiamento atteso dagli
archeologi classici, in particolare di lingua inglese, nei confronti dell’apprendimento e
della lettura delle pubblicazioni in lingue straniere. Quasi tutti gli intervistati sono
fortemente convinti della necessità di competenze linguistiche (fig. 13), e molti di loro
applaudirebbero ai loro colleghi anglofoni se leggessero più pubblicazioni non-inglesi
(fig. 14). Anche queste opinioni sembrano corrispondere alla tendenza generale che
abbiamo trovato nelle risposte alle domande della prima sezione.

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 5 10 15

Figura 11: Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Specialised
communication in humanities is different from that in exact sciences.”
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 289

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 2 4 6 8 10 12 14

Figura 12:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -The linguistic features
(such as form and style) of scientific publications in humanities are important.”

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 5 10 15 20 25 30

Figura 13:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Classical archaeologists
should know foreign languages, in order to be able to read publications written in languages
other than their mother tongue”.

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18

Figura 14:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -English-speaking
classical archaeologists should read more non-English publications.”
290 KARL GERHARD HEMPEL

La nostra indagine si conclude con tre domande (figg. 15-17) relative alle opi-
nioni sul futuro della comunicazione multilingue in archeologia classica e sugli
obiettivi di eventuali politiche linguistiche. È interessante notare come i pareri su un
eventuale monolinguismo anglofono nella comunicazione specialistica in archeolo-
gia classica siano altamente divise (fig. 15): circa la metà dei partecipanti dichiara
di non avere un’opinione precisa. La maggioranza di quelli che esprimono un
parere, tuttavia, tende verso una visione monolinguistica, accettando in tal modo
l’idea di un uso generalizzato dell’inglese nel futuro.

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 5 10 15
Figura 15:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -In the future English
will be the only language used for scientific communication in Classical Archaeology.”

I pochi ulteriori commenti a questa domanda riflettono tale differenza di opi-


nioni, evidenziando che il processo di unificazione linguistica sarà in ogni caso
lungo, anche perché incontrerà presumibilmente degli ostacoli:

Having a shared scholarly language makes international research and cooperation much
easier. English has begun to play that role across the last thirty years, but it’ll be a long
time before it becomes the only important language in the field (perhaps another thirty
years).
I doubt it will come to this. In Greece, the move is in the opposite direction, with jour-
nal [sic] such as AEMTh taking central place for regional studies.

Un’immagine più uniforme risulta dalle risposte alle domande successive ri-
guardanti l’atteggiamento verso l’uso della lingua da parte di studiosi non anglofoni
e di eventuali misure di politica linguistica che potrebbero indurre loro a passare all’
inglese (figg. 16-17). Quasi tutti i partecipanti rifiutano l’idea di obbligare i colleghi
a usare l’inglese, mentre la stragrande maggioranza respinge anche l’eventuale
promozione dell’inglese come lingua accademica attraverso politiche specifiche,
per cui l’idea generale appare quella di un passaggio verso l’inglese, che però non
dovrebbe essere ulteriormente agevolato.
I numerosi (e talvolta estesi) commenti alle ultime due domande, come pure i
commenti finali riferiti all’intero questionario mostrano una serie di argomentazioni
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 291

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18

Figura 16:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Non-English speaking
classical archaeologists should publish the results of their research activities in English.”

strongly agree

agree

neither agree nor disagree

disagree

strongly disagree

0 2 4 6 8 10 12

Figura 17:
Risposte alla domanda “Do you agree with the following statement? -Language policy should
adopt measures to encourage the use of English for scientific communication in Classical
Archaeology”.

e motivi discorsuali ricorrenti che possono essere riassunti come segue: (1) una lin-
gua veicolare sarebbe utile, ma (2) non politicamente (o eticamente) corretta, per di
più (3) non risolverebbe il problema della bibliografia pregressa che comunque
deve essere consultata, formatasi nel tempo in quanto l’archeologia classica è stata
multilingue dai suoi albori, dando vita a varie tradizioni accademiche che devono
essere rispettate. (4) Gli archeologi non anglofoni devono affrontare difficoltà du-
rante la scrittura di testi accademici complessi non redatti nella loro lingua madre
(correndo anche il rischio di un inglese ‘cattivo’), per cui (5) l’uso dell’inglese
come lingua veicolare dovrebbe essere limitata alla comunicazione in congressi in-
ternazionali. (6) I giovani studiosi europei, tuttavia, potenzialmente interessati
all’accesso al mercato del lavoro accademico degli Stati Uniti potrebbero sentirsi
obbligati a produrre pubblicazioni in lingua inglese. Alcuni dei commenti che
esprimono tali pensieri sono i seguenti:
292 KARL GERHARD HEMPEL

While I’d be delighted if everything were written in English (and whereas English is a
fairly good scientific language because of both its extensive vocabulary choices and its
grammatical specificity), I think it extremely arrogant to force anyone to write in other
than her/his native tongue. […].
I still believe that it is important for classical archaeologists to be multi-lingual. Re-
quiring English is a form of ‘cultural imperialism’
Scholars should enjoy the freedom to publish in whatever language they wish to pub-
lish. This is an element of academic freedom
Obviously it would be more convenient for those of us who use English natively, but
practically this cannot work. Not having to read a foreign language would make ar-
chaeological work much easier for anyone. But there is no ethical way to argue that one
language should be given preference. With all of us being required to read scholarly
material in whatever language it appears, all of us face the same challenge. Moreover,
even if one could enforce such an exclusion, it would not address the vast body of
scholarship in various languages, which one still has to deal with. Thus, little would be
gained by decreeing that from now on only one language can be used.
Classical Archaeology has been an international, multi-lingual discipline from its be-
ginnings in the 18th c. The field would not benefit from changing this, and even if eve-
rything were written in English from now on, students and scholars would still need to
read the older publications.
I don’t think your study takes into account the need of scholars to examine old publica-
tions. We will always have to learn French, German, Italian, Russian, Greek, etc. to
look at the primary data collected in the 19th and 20th centuries. […].
I have had the job of editing submissions in English from scholars for whom English is
not the mother tongue. I would have preferred them to have written in their mother
tongue! Even if English is used increasingly in academic publishing, reading recent ar-
ticles is only a small part of a scholar’s job. He/she should be fluent in German, Italian,
and French.
Although it would be most convenient for us (and our students) to have everything
published in English, I respect the right of foreign nationals to use their own lan-
guage(s)--not least because sophisticated communication in the humanities is difficult
enough without the extra burden of doing it in a foreign tongue. If non English speakers
want their voices and ideas to be heard, read, disseminated, and discussed, however, as
a matter of practicality these languages should be restricted to the four or five listed
above. Conferences are another matter.
We have seen at conferences that English is becoming a way for an Italian, French,
German, Turkish, Israeli, Greek etc scholars to communicate with one another: having
English as a second language helps enormously to share information, across all the lan-
guage communities. For the languages not well studied at all internationally for the hu-
manities, like Polish or Dutch or Arabic or Hebrew etc, publishing in one of the four
major scholarly languages (English, French, German, Italian) is indispensable to make
an impact, in any case. […].
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 293

North America, and to some extent, the UK and Australia, remains a source of graduate
training grants and jobs that young scholars from around Euope [sic] and UK wish very
much to penetrate to get a good degree, and a job, especially from the countries with the
most corrupt and restricted systems for job procural and promotion: for career, being
able to speak scholarly English and perhaps even to write in it (or pay a translator) is in-
creasingly valuable for the survival of brilliant young people. […].
The US job market, although not great at the moment, may offer more opportunities
than the European market, in which case there is pressure on potential European appli-
cants to publish in English, both to demonstrate their language skills and to get a careful
read from committees reviewing their dossiers (committee members are frequently not
in classical archaeology— we are not as specialized here as in Europe). […]

3. CONCLUSIONI
Dalla nostra indagine risulta che l’atteggiamento degli archeologi classici negli
Stati Uniti (almeno di quelli che hanno risposto al nostro questionario) verso il
multilinguismo presenta caratteristiche sorprendentemente simili a quelle riscon-
trate tra gli studiosi europei; simili sono anche le argomentazioni sviluppate a so-
stegno delle loro idee. La maggior parte dei partecipanti è convinta che la comuni-
cazione specialistica nel campo al momento non può e non deve diventare
monolingue per diversi motivi saldamente radicati nella tradizione e nelle peculia-
rità della prassi accademica, come ad esempio il frequente riferimento alla lettera-
tura specializzata di vecchia data e l’importanza cruciale del lavoro sul campo nei
paesi classici, le cui lingue sono utilizzate anche per le pubblicazioni.
Per quanto riguarda il futuro sviluppo del multilinguismo, i pareri tra gli ar-
cheologi americani non sono unanimi; ma tale tendenza potrebbe essere dovuta non
tanto all’osservazione di quanto succede effettivamente in ambito accademico, ma
alla prevalenza di una posizione ideologica che attribuisce all’inglese un ruolo di
primo piano in tutti i settori chiave come l’economia, la ricerca scientifica e lo svi-
luppo tecnologico. Tale posizione agli occhi di molti, nonostante la situazione lin-
guistica particolare di determinate discipline, porterebbe nel futuro ad un inelutta-
bile dominio dell’inglese su tutto. Una tendenza simile si osserva anche tra gli
studiosi di lingua tedesca e italiana: una maggioranza di questi ultimi esprime forte
preoccupazione circa il futuro della lingua madre (Hempel , 2011, pp. 73-75; 2012,
pp. 101-104).
Gli archeologi classici negli Stati Uniti, tuttavia, sembrano sentire in maniera
più marcata rispetto ai loro colleghi europei alcune barriere comunicative legate al
carattere multilinguistico della materia. Nelle loro risposte alle nostre domande
sottolineano alcune difficoltà specifiche incontrate nell’insegnamento accademico,
in particolare con i laureandi, a causa di una progressiva perdita delle abilità lingui-
stiche nell’educazione scolastica negli Stati Uniti. Inoltre, alcuni degli intervistati
lamentano ostacoli materiali che impediscono loro di rimanere al passo con i più
recenti risultati della ricerca, in quanto le librerie si rifiutano di acquistare opere
294 KARL GERHARD HEMPEL

scritte in lingue accessibili a pochi utenti. Da questo punto di vista, l’archeologia


negli Stati Uniti potrebbe, secondo alcuni, correre il rischio di spostarsi verso una
posizione periferica rispetto alla ricerca europea, considerata da molti come punto
di riferimento. Per evitare questo, a mio parere sarebbero necessarie specifiche po-
litiche linguistiche nel mondo accademico americano, atte a migliorare le cono-
scenze di lingue straniere e a garantire la presenza della necessaria letteratura scien-
tifica nelle biblioteche.
Tornando alla prospettiva non anglofona e al nostro problema iniziale, vale a
dire la ricezione della letteratura archeologica redatta in lingue diverse dall’inglese,
si lamenta qualche perdita diretta o indiretta di impatto sul mondo accademico degli
Stati Uniti, a causa delle barriere linguistiche e dei loro effetti. Nonostante la fede
professata nel multilinguismo, appare evidente che la letteratura archeologica in in-
glese abbia maggiore probabilità di essere letta sia da ricercatori sia da studenti, an-
che se il metodo di indagine qui applicato non è in grado di fornire dati oggettivi
circa la concreta considerazione della letteratura non inglese da parte degli archeo-
logi statunitensi. La sensibilità degli archeologi non-anglofoni nei confronti di que-
sto problema risulta anche dal seguente commento fornito da un ricercatore europeo
che attualmente sta lavorando in un’università americana:

Many of my colleagues in the US are indeed fighting hard against the loss of know-
ledge of foreign languages among students and, generally, against a endency in the
American academia to acknowledge or even establish English as the only academic
language. […] And since I am teaching in the US it became very obvious that there are
no explicit attempts to establish English as the global academic language in Classical
Archaeology, but rather an overall development to privilege English scholarship on
reading lists, in bibliographies, in footnotes, in the acquisition policy of libraries, etc., a
tendency which is very obviously not based on an assessment of the international im-
portance or the amount of scholarly contributions in English, [but] resulting from an in-
creasing neglect of consulting international scholarship as well as from the inability to
read any foreign languages.

Per far luce sull’effettiva ricezione della bibliografia, sarebbero tuttavia neces-
sarie ulteriori ricerche basate sull’analisi delle citazioni, sulla scia di un interessante
studio sullo sviluppo dei riferimenti bibliografici presenti in alcune riviste statuni-
tensi di filosofia, linguistica, filologia classica e storia (Kellsey, Knievel 2004). Da
questa ricerca risulta che l’uso mirato della bibliografia non anglofona da parte de-
gli studiosi negli ultimi decenni è sostanzialmente costante, e si può supporre che la
tendenza in archeologia classica sarà simile.
Le barriere comunicative all’interno della comunità scientifica potrebbero es-
sere parzialmente rimosse garantendo un facile accesso alle informazioni sugli svi-
luppi nelle altre macroculture, p.es. con l’utilizzo di specifici rapporti in lingua in-
glese sulle ricerche nei Paesi non anglofoni, come è stato recentemente suggerito da
Ulrich Ammon (2012, pp. 350-352). Una misura del genere, come altre simili che
già sono diffuse in archeologia e nell’antichistica in generale (si pensi p.es. alla pre-
MULTILINGUISMO NELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA 295

senza di riviste con recensioni in inglese come il Bryn Mawr Classical Review,
all’aggiunta di abstract in lingua inglese oppure ad occasionali traduzioni), non di-
spenserebbe comunque gli utenti dall’acquisizione e dal miglioramento delle loro
conoscenze linguistiche.
A mio parere, le caratteristiche strutturali dell’organizzazione della ricerca in-
sieme agli atteggiamenti degli studiosi diffusi in diverse macroculture, dànno una
certa garanzia che l’archeologia classica possa (almeno a livello di pubblicazioni)
rimanere una disciplina multilingue per il futuro prevedibile. Decisiva in tal senso
sarà soprattutto la convinzione dei non-anglofoni di voler continuare a utilizzare la
propria lingua madre, nonostante qualche possibilità in meno di vedere i propri
contribute recepiti nella comunità scientifica. Anche dal punto di vista degli ar-
cheologi anglofoni, la responsabilità ultima ricade su chi pubblica e pertanto sceglie
anche la lingua, come risulta dal seguente commento di un archeologo statunitense
sugli atteggiamenti dei suoi colleghi europei verso l’uso della lingua:

As an American classical archaeologist who has lived and worked in Germany for a
number of years, I am acutely aware of the issue you are investigating. In my view, the
Germans are complicit in the demise of German as a scholarly language by being
overly eager to give papers and publish in English

A questo punto potrebbe essere rassicurante notare come gli archeologi clas-
sici, siano questi americani o europei, nonostante qualche difficoltà, siano costanti
nel sostenere il multilinguismo.

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MASSIMO VEDOVELLI
(Università per Stranieri di Siena)

Lingua e emigrazione italiana nel mondo: per uno spazio linguistico italiano
globale

1. L’EMIGRAZIONE ITALIANA: IERI E OGGI UN QUALCOSA DA NASCONDERE


1861-2011: 150 anni di storia unitaria italiana, ma nelle molte manifestazioni
celebrative che si sono tenute in tale ricorrenza sono state poche quelle che hanno
avuto come tema l’emigrazione italiana nel mondo. Dimenticanza? Forse, ma più
probabilmente, a nostro avviso, rimozione. Si è trattato di una rimozione vissuta in
Italia a livello istituzionale e sociale, segnale di un processo che ha coinvolto le
zone più profonde dalla nostra personalità collettiva, là dove si colloca l’essenza
generatrice della nostra identità. Eppure, nella storia effettuale del nostro Stato uni-
tario pochi altri tratti accompagnano strutturalmente lo svolgersi delle nostre vi-
cende collettive. Tale rilevanza per la nostra identità di italiani è tanto più vera
quanto più ci poniamo in una visione dialetticamente relazionale dell’identità: in
questa prospettiva, per gli stranieri, per gli altri Stati, l’Italia e i suoi cittadini come
entità unitaria sono caratterizzati anche dal tratto migratorio, dall’essere struttural-
mente un Paese di emigranti, dall’essere gli Italiani persone che sono emigrate a
milioni e che continuano ancor oggi a emigrare. In più, la presenza di consistenti
comunità di origine italiana nel mondo è ben sentita e presente nelle società estere
come loro fattore costitutivo: ormai pienamente integrate; ormai fatte da cittadini
statunitensi, argentini, australiani, belgi, ma che comunque manifestano i tratti di
una appartenenza di origine specifica, quella, appunto, italiana.
La dimenticanza istituzionale che si è concretizzata nello spazio marginale
dato all’analisi dell’emigrazione italiana nel mondo, nelle sue diverse fasi, modalità
e esiti, in occasione del centocinquantesimo dell’Unità nazionale ci sembra costi-
tuire un tratto negazionista verso la nostra eredità storico-linguistica, con un’azione
che investe tutta una serie di fatti e processi che possiamo racchiudere in una for-
mula, o più propriamente in un problema: la società italiana è multilingue? La so-
cietà italiana ha un approccio multilinguistico alle questioni del mondo globale? I
cittadini italiani hanno gli strumenti per gestire le dinamiche multi linguistiche del
mondo globale?
La risposta, a nostro avviso, è negativa. Un filo culturale, storico, politico lega
la marginalizzazione dell’emigrazione italiana, la vergogna che l’alimenta, il con-
centrarsi sull’immigrazione straniera in Italia sempre e solo come fatto emergen-
ziale, il far fallire con pervicace sadismo ogni tentativo di creare nella scuola ita-
liana le condizioni per un efficace insegnamento delle lingue straniere, il rifiutare di
prendere in considerazione le lingue immigrate in Italia insieme ai più di cinque
300 MASSIMO VEDOVELLI

milioni di stranieri adulti e bambini che le parlano, la retorica sulle fortune dell’ita-
liano nel mondo, il rifiuto nel riconoscere alla nostra lingua un ‘destino internazio-
nale’ capace di generare una forte industria linguistica capace di creare posti di la-
voro; la sistematica scissione operata fra la lingua e la ‘cultura’ con la conseguente
limitazione dello spazio linguistico italiano nel mondo alla sola dimensione cultu-
rale intellettuale. Qual è questo filo conduttore che accomuna una gran parte della
società e delle istituzioni? Il rifiuto del multilinguismo come valore, la paura ‘babe-
lica’ delle lingue degli altri, la mancata assunzione di responsabilità di doverci con-
frontare con gli altri attraverso le lingue -quali che esse siano.
Questo nostro contributo si ricollega all’esperienza che in anni ormai lontani –
eravamo alla fine degli anni Settanta – mise lo scrivente in contatto con Norbert
Dittmar, che guidava presso l’Università di Heidelberg il Pidgin-Gruppe, che stu-
diava i processi linguistici che vedevano impegnata la nostra emigrazione
nell’allora Repubblica Federale di Germania, in un momento di svolta i cui esiti
solo oggi ci appaiono chiari1. Il lavoro di Dittmar costituì un punto di riferimento
per coloro che negli anni immediatamente successivi si trovarono a studiare i pro-
cessi linguistici dell’allora nuovo fenomeno dell’immigrazione straniera in Italia.
La svolta epocale era data da quel fenomeno, che allora cominciava e che ora sta
strutturalmente cambiando l’identità della società italiana anche dal punto di vista
linguistico2: il mondo iniziava a caratterizzarsi sul piano culturale e linguistico di
quei tratti di ‘globalità’ che erano funzione dei processi di globalizzazione che orai
muovono merci e persone creando costellazioni di contatti come mai forse prima
nella storia del genere umano. E insieme alle merci e alle persone entrano in con-
tatto, sono entrati nelle realtà linguistiche locali nuovi idiomi come mai prima è av-
venuto, per lo meno in maniera tanto massiccia e sistematica.
Il mondo globale o post-globale appare caratterizzato dalla infinita mobilità
delle persone e delle loro lingue; si tratta di un mondo che ha trovato un equilibrio a
livello di funzioni strumentali in un idioma di uso globale (adesso l’inglese, domani
– chissà – magari il cinese), ma che vede comunque crescere, con il contatto, la cu-
riosità verso le lingue degli altri. Di tale situazione è segnale la sempre crescente
industria delle lingue, crescente nonostante le crisi3.

1
I risultati del progetto ISFOL-ME-DI/Sviluppo che ci permise di collaborare con il Pidgin-
Gruppe sono contenuti in AA.VV., 1980.
2
La bibliografia degli studi linguistici che hanno preso come loro oggetto (o anche -saussu-
rianamente - come loro materia) l’immigrazione straniera sono ormai moltissimi anche in Italia, e
questa non è la sede nemmeno per una loro sommaria ricognizione. Sulla dimensione ormai strut-
turale, anche dal punto di vista linguistico, dell’immigrazione straniera in Italia ci permettiamo di
rinviare a Vedovelli, 2012.
3
Gli studi sull’industria delle lingue costituiscono un capitolo rilevante dell’azione della
Commissione Europea; per una ricognizione ampia v. Rinsche, Portera Zanotti, 2009.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 301

L’infinita mobilità delle persone nel mondo globale mette in contatto gli
idiomi come non mai, creando nuove configurazioni di diversità che Vertovec
(2006, 2007, 2010) definisce di ‘superdiversità’, e che generano situazioni di super-
contatto linguistico (Barni, Vedovelli, 2009, 2011). In questo movimento infinito la
stessa nozione di ‘emigrante’ trova difficoltà a definirsi con specificità, al punto che
l’iperonimo migrante oggi tende a sostituire i termini emigrato-immigrato, segna-
lando in tal modo la difficoltà di determinare un cristallizzato assetto identitario sul
piano sociale, culturale e linguistico4.
Nuovi modelli concettuali sono elaborati per dare conto di nuove realtà; vec-
chie vergogne – il lasciare la propria terra, per trovare fortuna altrove, vista come
una sconfitta – persistono e connotano di sé anche le parole. Eppure, proprio in que-
sto contesto il processo del migrare emerge nella sua rilevanza, nella sua specificità
e insieme nella sua capacità di ridisegnare gli assetti identitari delle società, le loro
culture, le loro lingue. I processi migratori sono in grado, allora, di catalizzare una
gamma di questioni molto vasta e di diventare banco di prova delle scelte indivi-
duali, sociali, istituzionali nei confronti dei contatti fra lingue e culture, delle politi-
che di multilinguismo, delle prassi educative nel campo della comunicazione inter-
culturale. Il migrare diventa paradigma di ogni contesto dove la diversità delle lin-
gue e culture ridefinisce gli assetti individuali e collettivi.
La dimenticanza verso l’emigrazione italiana nel mondo, sia nel momento ce-
lebrativo dell’unità nazionale, sia negli anni – i nostri – in cui essa è ricominciata,
appare il segnale di un problema più vasto: quello della società italiana nei confronti
della sua eredità storica multilingue e nei confronti della sua attualità, dove è chia-
mata a proporsi con una sua identità entro le dinamiche del mondo globale.
Così, proprio a fronte di quella istituzionale dimenticanza verso l’emigrazione
italiana nel mondo, nel 2011 pubblicammo la prima Storia linguistica dell’Emi-
grazione Italiana nel Mondo – la SLEIM.

2. LA PRIMA STORIA LINGUISTICA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO


A fronte di una amplissima bibliografia concentrata sulle dinamiche delle sin-
gole aree geolinguistiche di arrivo dei nostri flussi migratori o su singoli temi trat-
tati trasversalmente, occorre rilevare che per molti anni è mancata una ricognizione

4
M. Tirabassi ha proposto di sintetizzare in glob-migrants, e di applicarla agli italiani,
l’espressione global migrants che si sta diffondendo per indicare i professionisti che vanno a collo-
care le proprie competenze in altri Paesi (comunicazione in occasione del Convegno organizzato
presso l’Università di Cassino da The Edinburgh Gadda Prize il 6 maggio 2013 sul tema No-
Where-Next / War-Diaspora-Origin. Convergenze ed esplorazioni di metodo intorno all’emigra-
zione italiana). Sul concetto di ‘mercato globale delle lingue’ v. Calvet, 2002 e De Mauro,
Vedovelli, Barni, Miraglia, 2002.
302 MASSIMO VEDOVELLI

generale di sintesi5. Così, chi scrive, insieme ad alcuni colleghi e collaboratori, ha


realizzato la prima Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo, pubbli-
cata proprio nel 2011 da Carocci (Roma) e intesa sia come piccolo contributo alle
celebrazioni dell’Unità d’Italia, sia come tentativo di colmare una lacuna entro la
bibliografia sull’argomento. Oltre allo scrivente hanno dato il proprio contributo
alla SLEIM Monica Barni, Carla Bagna, Sabrina Machetti, Francesca Gallina, Mika
Maruta, Raymond Siebetcheu dell’Università per Stranieri di Siena, M. Cristina Ca-
stellani dell’Università di Genova, J. Magos Guerrero dell’Università di Jeretaro,
Alberto Secci, che è stato per molti anni Dirigente scolastico all’estero.
Come tutte le opere di sintesi, anche la SLEIM corre il rischio di ridurre la
complessità delle questioni, di trascurare la rilevanza dei fenomeni locali. Consape-
voli di tale rischio, abbiamo distinto l’opera in due sezioni: la prima mira a proporre
un modello concettuale di descrizione e interpretazione delle dinamiche che hanno
coinvolto gli emigrati italiani all’estero; la seconda dedicata a ricostruire le vicende
linguistiche che li hanno coinvolti nelle varie aree del mondo, ovvero Europa, Ame-
rica del Nord, America Latina (con il Messico trattato separatamente), Europa, Au-
stralia, Africa, Asia e Estremo Oriente. Nella prima parte il modello descrittivo e
interpretativo prende in esame gli approcci alla questione a partire dalla Storia lin-
guistica dell’Italia unita, di Tullio De Mauro (1963), ancora oggi insostituibile per
le chiavi concettuali di lettura e per la lezione metodologica, ripercorrendo le altre
poche ricognizioni di sintesi esistenti. Il modello proposto dalla SLEIM si fonda su
una ricostruzione di ‘fasi’ linguistiche vissute dalla nostra emigrazione: da quella
del parallelismo a quella della discontinuità e, infine, a quella dello slittamento.
Non è questa la sede per entrare nell’analitica disamina dei tre concetti; vo-
gliamo solo ricordare, in sintesi, che li abbiamo usati per rappresentare non solo e
non tanto momenti, fasi temporali delle dinamiche linguistiche nei contesti migra-
tori a presenza italiana nel mondo, quanto modi di occorrenza di tali processi e i ca-
ratteri degli esiti che ne sono derivati. Così, il parallelismo sta a indicare lo sforzo
che ha visto impegnate le grandi ondate emigratorie ‘storiche’ post-unitarie, nelle
quali la forte pluralità idiomatica di origine e l’alto tasso di analfabetismo costitui-
vano i fattori di spinta verso la ricerca, se non la vera e propria creazione di moduli
condivisi di espressione e comunicazione, fondati su tutti i mezzi formali messi a
disposizione dagli idiomi che si incontravano entro le nostre comunità: i dialetti, le
lingue delle minoranze alloglotte, l’italiano, l’immagine dell’italiano che la maggio-
ranza dialettofona aveva, le lingue dei luoghi di arrivo dei nostri emigrati nelle va-
rietà con cui effettivamente questi potevano entrare in contatto, e sempre tali lingue
nella loro dimensione standard proposta dalla scuola e dalle istanze istituzionali e
sociali di governo. Parallelismo perché tale sforzo di convergenza, miscuglio, ten-

5
Tra le ricognizioni bibliografiche ricordiamo Tassello, Vedovelli, 1996 e Vedovelli, Villa-
rini, 1998, o il più recente Bettoni, Rubino, 2010; Krefeld, 2004 fonda un autonomo campo di stu-
dio entro le scienze del linguaggio: la Migrationslinguistik, Linguistica Migratoria/Migrazionale.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 303

sione verso koinè avviene anche nell’Italia post-unitaria, caratterizzata ugualmente


dalla pluralità idiomatica e dal prevalente analfabetismo.
La discontinuità segnala quanto avvenuto quando, ad esempio dopo la Se-
conda guerra mondiale, ripartono notevoli flussi di emigrazione, stavolta caratteriz-
zati dagli esiti delle vicende linguistiche dei decenni di vita dello Stato unitario:
emigrati con qualche anno di scolarizzazione, con maggiore esposizione all’italiano
(magari grazie alla televisione). Le forze della discontinuità e del parallelismo, al-
lora, vengono a ristrutturare l’identità complessiva delle nostre comunità all’estero,
sgranando il loro repertorio in rapporto alla collocazione sociale, alla fascia genera-
zionale, al luogo di emigrazione ecc.
Da tali forze in rapporto dialettico deriva l’attuale situazione, che vede lo slit-
tamento dell’italiano fuori del repertorio di riferimento delle generazioni giovanis-
sime dei discendenti dei nostri emigrati: per loro l’italiano è una lingua straniera, da
scegliere in quanto in competizione con le altre possibili lingue straniere da appren-
dere, e comunque lingua con la quale fare i conti nel ripercorrere la storia della pro-
pria identità attuale.
Il problema è che, pensando allo slittamento dell’italiano fuori dallo spazio di
espressione di tali giovanissime generazioni, si rischia di dare per scontata la sua
presenza entro le generazioni anziane e adulte: in realtà, il filo conduttore della
SLEIM è dato dal tentativo di dimostrare che il contesto migratorio, la storia mi-
gratoria degli italiani all’estero sono stati i fattori che hanno attivato processi di
conquista e, ancora di più, di ri-creazione dell’italiano presso gli emigrati: italiano
mai prima effettivamente posseduto e usato. Con tale approccio la SLEIM tema-
tizza le questioni della politica linguistica messa in atto dalle nostre Istituzioni verso
l’emigrazione: politica linguistica, o forse ‘non-politica’ linguistica (come abbiamo
cercato di dimostrare in Vedovelli, in stampa), oscillante fra un approccio naziona-
listico e uno consapevole della necessità di far recuperare radici culturali e di svi-
luppare la conquista dell’italiano entro un modello plurilinguistico di identità del
migrante; politica che ha investito risorse pubbliche notevolissime a favore delle as-
sociazioni che a vario titolo sono sorte entro le nostre comunità e a sostegno dei
‘corsi di lingua e cultura italiana’ promossi dalla legge 153/1972. Soprattutto, però,
ciò contro cui la SLEIM lotta è l’idea, sostanzialmente retorica, dei nostri emigrati
come ‘ambasciatori’ della lingua-cultura italiana all’estero: non lo sono mai stati
realmente, in quanto per lo più dialettofoni e impegnati in un processo di ricostru-
zione dell’identità linguistica; lo sono stati forse solo di recente e in alcune aree, in
corrispondenza dei nuovi valori culturali identitari associati all’italianità nel mondo
globale e come risultato dei recenti flussi emigratori di italiani scolarizzati e parlanti
i moduli unitario di italiano che oggi circolano nella nostra comunità nazionale. In-
somma, il modello concettuale tripolare che la SLEIM propone mira anche a ripor-
tare all’attenzione delle Istituzioni (e anche, a cascata, presso i mass media) quanto
è noto entro la comunità scientifica, ovvero la rilevanza dello sforzo di ridefinizione
dell’identità linguistica, spesso orientata anche verso l’italiano, che ha visto prota-
goniste le comunità emigrate: questa nostra lingua, però, non è partita insieme alla
304 MASSIMO VEDOVELLI

maggioranza degli emigrati, ma da loro è stata riconquistata, ricreata.


Nella seconda parte della SLEIM i contributi analizzano le dinamiche lingui-
stiche che si sono manifestate nelle singole aree che vedono la presenza delle co-
munità emigrate di origine italiana: i processi di erosione linguistica, di nascita delle
varietà miste (brocco lino, italiese, australitaliano, cocoliche ecc.) sono inseriti entro
la ricostruzione delle condizioni socioculturali proprie dei contesti locali e delle
forme che la nostra emigrazione ha preso localmente. Ci si è mossi, allora,
nell’analisi delle menzionate aree geolinguistiche, entro un paradigma macro-so-
ciolinguistico, capace di offrire quei dati di contesto ritenuti più fortemente capaci
di condizionare le dinamiche vissute dalle nostre comunità all’estero. Emergono,
perciò, i tratti comuni fra le varie aree (le dinamiche vissute nei grandi centri o
quelle di isolamento, ad esempio), così come le dinamiche specifiche: si pensi alla
condizione degli emigrati-colonizzatori nelle disgraziate imprese africane, oppure
alle connotazioni fortemente positive delle recenti emigrazioni verso i Paesi asiatici
(il Giappone in primo piano), con i nostri connazionali caratterizzati per l’alta quali-
ficazione nei settori della moda, della cucina, dei modelli di qualità della vita, ov-
vero nell’ambito del gusto e del buon gusto.
Il modello descrittivo e interpretativo della SLEIM, basato sui tre concetti so-
pra menzionati, mira, dunque, a superare l’idea della unitaria e comunque preva-
lente corrispondenza fra l’emigrato italiano all’estero e l’italiano come sua propria
lingua, per arrivare, invece, a dare conto dello spazio linguistico italiano globale
che riteniamo essere un modello più adeguato per delineare il repertorio global-
mente diffuso nel mondo là dove sono presenti le comunità di origine italiana.

3. LO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO


Tullio De Mauro parla di spazio linguistico in un suo importante lavoro del
1980, Guida all’uso delle parole, apparentemente opera divulgativa (anche per la
natura della collana in cui apparve, i Libri di Base degli Editori Riuniti), ma in
realtà caratterizzata sul piano teoretico, capace di racchiudere in un quadro unitario
le precedenti riflessioni semiotiche dell’Autore e di aprire le strade per le succes-
sive. Per De Mauro (1983), memore della lezione del Wittgenstein delle Ricerche
filosofiche, lo spazio linguistico è uno schema che si centra sull’idea di ‘competenza
linguistica’ individuale, ma che, a nostro avviso, riesce a dar conto anche di fatti
collettivi, sociali, perciò diventando anche un modello della configurazione idio-
matica italiana.
De Mauro applica la nozione di ‘spazio linguistico’ a un momento della condi-
zione linguistica italiana in cui era pressante l’esigenza di dare conto delle forti dina-
miche evolutive che, dal piano sociale, investivano l’assetto idiomatico tradizionale
della Penisola e che si manifestava ormai collocato su fasi prossime a un suo assesta-
mento strutturale. Nella dialettica fra l’italiano (con le sue varietà e registri), i dialetti
(con le loro varietà e registri), le lingue delle minoranze di antico insediamento entro i
confini nazionali (ugualmente, con le loro varietà e registri) negli anni Settanta appa-
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 305

riva sempre più netta l’idea che la riconfigurazione degli assetti idiomatici nazionali
non potesse andare unicamente e univocamente verso una omogeneizzazione capace
di annullare ogni idioma, ogni voce dissonante. Così, anche sotto la spinta della diffu-
sione degli studi dell’allora fiorente scienza sociolinguistica, il modello dello ‘spazio
linguistico’ dava forma a un volto linguistico italiano nuovo e insieme tradizionale
nella pluralità dei poli idiomatici costitutivi. Che oggi, proprio sotto la spinta dei mo-
vimenti di immigrazione straniera che riguardano l’Italia, si parli di ‘spazio linguistico
nazionale quadripolare’, considerando anche il polo delle lingue immigrate, conferma
la forza descrittiva e interpretativa del modello.
Che cos’è lo spazio linguistico? È un insieme in cui l’eterogeneità delle entità
fattuali viene ordinato in fatti omogenei secondo parametri. I fatti diventano omo-
genei proprio grazie ai parametri, e sono costituiti dalle lingue, dagli idiomi, dalle
varietà e dai registri linguistici che caratterizzano gli usi espressivi e comunicativi
della comunità linguistica nazionale.

Lo spazio in cui ci muoviamo con frasi e parole, lo spazio linguistico, non è il caos. Ci
sono degli ordini. Saper usare le parole significa essere consapevoli sia di questa grande
libertà che le parole ci danno sia dell’ordine, o meglio degli ordini, dello spazio lingui-
stico. (De Mauro, 1983, p. 102).

I parametri sono principi d’ordine per la materia linguistica, per il ‘caos’: sono
utilizzabili sul piano teoretico, della descrizione e interpretazione scientifica dei
fatto linguistici, e allora producono il modello dello spazio linguistico, ovvero la
costruzione teorica capace di organizzare sinotticamente e sincronicamente le varie
dimensioni degli usi linguistico-comunicativi nella competenza individuale e a li-
vello collettivo. In questo caso lo spazio linguistico è modello del repertorio idio-
matico. Sono utilizzabili a livello del singolo locutore, e ciò implica, come locutore,
il coinvolgimento della sua coscienza linguistica, il suo porsi sul piano metalingui-
stico dove si attua la riflessione sugli usi espressivo-comunicativi: è proprio tale
piano uno degli oggetti primari dell’azione formativa, mirante a dare ai locutori /
apprendenti gli strumenti e le guide per estendere la consapevolezza nella gestione
degli usi linguistici. Saper usare le parole e le frasi significa, nella prospettiva indi-
cata da De Mauro, muoversi scegliendo i mezzi per raggiungere gli scopi espressivi
e comunicativi che ci si propone: tanto più vasto sarà il bagaglio di tali mezzi a di-
sposizione, tanto migliore e più adeguata potrà essere la scelta (atto ‘etico’ fondante
l’attività espressiva) e perciò il risultato dell’evento espressivo-comunicativo.
Banfi (2008) allarga alla dimensione sincronica i confini dello spazio linguistico:

Mi riferisco al concetto di ‘spazio linguistico’ italiano: nozione che prende a prestito,


dalla terminologia delle scienze della terra e del cielo, il termine ‘spazio’, inteso nella
straordinaria complessità che gli è sottesa e còlto nella ricchezza degli elementi che lo
costituiscono, applicando questa nozione alla realtà sociale e linguistica della penisola
italiana. Con ‘spazio linguistico italiano’ si deve intendere, quindi, in prospettiva sin-
cronica, l’insieme delle varietà linguistiche che formano la realtà linguistica della peni-
306 MASSIMO VEDOVELLI

sola italiana (italiano standard, italiani regionali, italiano popolare, dialetti italo-ro-
manzi, lingue ‘altre’) e, in prospettiva diacronica, l’insieme delle varietà linguistiche
che, nel corso dei secoli, hanno caratterizzato la storia linguistico-culturale della nostra
penisola, baricentro del Mediterraneo.

Lo spazio linguistico è, nella prospettiva demauriana, un modello della com-


petenza individuale e degli usi collettivi, non più la prima intesa in senso ‘verticale’
come il progressivo avvicinamento ai livelli linguistici considerati più alti e avan-
zati entro un’unica norma linguistica funzione dei valori del gruppo dominante, ma
come la capacità di scegliere gli usi e perciò le norme di riferimento in rapporto alle
condizioni contestuali in cui avviene l’evento linguistico. Tale riconoscimento è il
risultato di una competenza culturale che allarga la natura dello spazio linguistico a
quella di uno spazio linguistico-culturale. La raffigurazione pluridimensionale dello
spazio linguistico demauriano è nota (v. immagini n. 1 e n. 2).
Il primo asse che crea lo spazio linguistico vede collocarsi gli usi da quelli più
idiolettali, privati, a quelli più pantolettali, pubblici. Lungo questo asse si addensano
usi (privati, colloquiali e pubblici) che attingono dagli strumenti linguistici propri
della realtà locale, di quella regionale, dello standard.
Il secondo asse che forma lo spazio linguistico vede situarsi gli usi andando da
quelli più informali (dove la struttura formale, fonomorfosintattica è più vaga, e
dove perciò l’appello alla situazione è decisivo per il successo dell’evento comuni-
cativo) a quelli più formali (dove il richiamo alla forma del messaggio è la garanzia
primaria per il successo dell’evento linguistico) a quelli formalizzati (gli usi lingui-
stici propri degli ambiti tecnico-specialistici, dove apposite convenzioni stabili-
scono le regole d’uso, i significati).
Lo spazio linguistico diventa pluridimensionale quando ai due precedenti si ag-
giunge la molteplicità degli assi rappresentati dai mezzi, dai canali usati per la comu-
nicazione: l’asse del parlato a voce, quello del linguaggio endofasico, dello scritto (a
mano, dattiloscritto, dell’sms ecc.), della radio e della televisione, della stampa, della
rete nel mondo globale informatizzato. Gli effetti dovuti ai diversi mezzi di comuni-
cazione amplificano la variabilità linguistica, la gamma delle scelte possibili.
La competenza linguistica assume configurazioni dinamiche e assetti variabili,
disegnandosi come l’area effettivamente accessibile al locutore in rapporto a quella
generale (formata dagli assi dello spazio linguistico) a disposizione potenzialmente
alla comunità: quanto più vasta sarà l’area degli strumenti espressivi utilizzabili dal
parlante, quelli fra i quali si applica la sua possibilità di selezionare usi e strumenti
espressivo-comunicativi, tanto maggiore sarà la sua competenza linguistico-comuni-
cativa.
Sottolineiamo che lo spazio linguistico da modello di competenza individuale
può essere assunto a schema del ventaglio di idiomi, varietà, registri a disposizione
di una collettività, di una comunità linguistica. In questo caso, l’asse che ordina gli
usi da quelli più idiolettali a quelli più pantolettali vede individuare i luoghi dove si
collocano gli usi che ricorrono al dialetto locale stretto, al dialetto regionale,
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 307

all’italiano regionale colloquiale, all’italiano popolare unitario, all’italiano standard,


all’italiano scientifico. In questa sua funzione di rappresentazione degli idiomi, va-
rietà e registri linguistici il modello dello spazio linguistico della comunità nazio-
nale funge da descrittore del repertorio linguistico collettivo, riferendosi a un para-
digma di analisi sociolinguistiche, che, appunto, mira a ricostruire i repertori degli
usi linguistici collettivi. In quanto anche modello di un repertorio, dinamicamente
coordinato agli spazi idiomatici individuali e collettivi, gli elementi costituenti
l’asse degli usi da quelli idiolettali a quelli più pantolettali si vede strutturato so-
stanzialmente nei poli del dialetto (e delle sue articolazioni, da quelle più locali a
quelle più sovralocali) e dell’italiano (e delle sue articolazioni, da quelle più in
contatto con le realtà dialettali a quelle più svincolate e proprie degli ambiti tecnico-
specialistici di comunicazione). Il terzo polo di tale strutturazione vede, proprio per
tenere presente la situazione linguistica dello Stato unitario, la presenza delle lingue
delle minoranze storicamente presenti entro i confini nazionali.
La forza euristica di tale modello, la sua capacità descrittiva e interpretativa
degli assetti linguistici italiani, la sua possibilità di indicare vie anche applicative
alla linguistica educativa spingono a chiederci se e fino a che punto sia utilizzabile
in rapporto alla materia che stiamo trattando. Altrove (Bagna, Machetti, Vedovelli,
2003) abbiamo fatto uso del concetto di ‘spazio linguistico’ in riferimento alle pro-
blematiche migratorie italiane per introdurre quello di ‘lingua immigrata’, e per
sottolineare il ruolo che tali lingue, entrate e stabilizzatesi entro i confini nazionali
al seguito dei flussi immigratori a partire dalla seconda metà degli anni Settanta,
stanno avendo nel cambiamento dell’assetto linguistico nazionale. Abbiamo propo-
sto, cioè, di inserire fra i poli, fra i principi ‘d’ordine’, dello spazio linguistico anche
quello delle lingue immigrate, con la loro pluralità, vitalità, visibilità.

4. LO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO GLOBALE


Nella SLEIM utilizziamo il modello dello spazio linguistico allargando il suo
campo di applicazione anche a ciò che accade fuori dei confini nazionali, consape-
voli di dover agire non tanto sull’asse che struttura gli usi a seconda del grado di in-
formalità – formalità – formalizzazione, né, sostanzialmente, su quello dei canali,
dei mezzi dell’espressione e della comunicazione. Occorre, pensando alla condi-
zione della nostra emigrazione, tenere certo presente il ruolo dei mezzi di comuni-
cazione di massa nella loro attività linguistica, allargando la lista a ciò che le tec-
nologie in vorticosa evoluzione propongono nel sempre più rapido superamento de-
gli strumenti e delle modalità espressivo-comunicative.
Chiamiamo spazio linguistico italiano globale la nostra proposta di integra-
zione dell’originale modello demauriano con le questioni che si pongono quando gli
utenti sono emigrati italiani all’estero o loro discendenti o stranieri, e che comunque
riguardano la presenza della lingua italiana e delle altre componenti dello spazio
linguistico nazionale nel momento in cui è inserito nelle dinamiche del mondo glo-
bale contemporaneo (v. immagine n. 2). Spazio linguistico italiano globale: globale,
308 MASSIMO VEDOVELLI

perché in grado di ricomporre le vicende passate (a partire dall’Unità d’Italia) e


quelle odierne concernenti l’emigrazione italiana; e anche perché capace di leggere
in maniera adeguata quanto sta accadendo in termini di movimenti migratori, di
spostamenti di popolazione, nell’attuale mondo globale.
Questo vede la presenza non secondaria dell’italiano come lingua oggetto di
apprendimento, idioma a forte impatto visivo nei panorami linguistici urbani, lingua
identitaria per i valori che propone e che sono complementari, non certo alternativi,
a quelli dei sistemi linguistico-culturali dominanti nel mondo globale6. L’italiano è
componente del profilo linguistico di varie fasce di emigrati di origine italiana,
come lingua ricreata in emigrazione, rielaborata nel contatto con i mass media che
la rendono raggiungibile da ogni parte del globo; lingua resa oggetto di formale ap-
prendimento entro un progetto individuale di ‘ricerca delle radici’ o all’interno delle
azioni promosse dalle Istituzioni italiane all’estero nei confronti dei giovani e gio-
vanissimi discendenti di nostri emigrati. Per questi giovani e giovanissimi, infine,
l’italiano è l’idioma con cui entrano in contatto quando fanno il ‘viaggio in Italia’,
presso le loro regioni di origine, sia come scelta individuale o familiare, sia
all’interno delle azioni di diverse Amministrazioni Regionali italiane, che svilup-
pano autonomi interventi rivolti alle loro comunità di emigrati nel mondo. In questo
nuovo ‘viaggio in Italia’ i giovani e giovanissimi discendenti degli emigrati entrano
anche in contatto diretto con la più ampia configurazione dello spazio linguistico
nazionale e locale: il loro rapporto è con l’italiano, nelle sue articolazioni, ma anche
con gli usi vivi delle parlate locali nelle loro attuali caratterizzazioni.
Il contesto globale viene a creare nuovi territori di contatto fra l’italiano e il
suo spazio linguistico da un lato, le altre lingue e gli spazi linguistici entro i quali
sono presenti anche le comunità di emigrati italiani, dall’altro. Gli spazi di contatto
si creano, allora, globalmente, coinvolgendo sia coloro che, non di origine italiana,
fanno la scelta consapevole di rivolgersi alla nostra lingua-cultura, sia coloro che
nel mondo hanno lo spazio linguistico-culturale italiano come proprio riferimento
originario; a ciò si devono aggiungere gli italiani in Italia e in mobilità ‘non migra-
toria’ nel mondo. Bassetti (2008) parla di comunità degli italici per dare conto di
questo ordine superiore di attori protagonisti della lingua-cultura italiana; altri si
tengono ancorati a prospettive più connotate dai tratti del nazionalismo linguistico,
spesso evocando istanze di purezza e di normatività che difficilmente possono es-
sere pretese per i contesti linguistici di contatto, miscuglio, sovrapposizione, interfe-
renza che si creano nelle relazioni sociali spontanee.
Quale che sia la scelta sul modo di guardare a tale materia, è indubbio che i
processi e i soggetti coinvolti nel contatto sono per molti versi nuovi, resi tali dalle
dinamiche del mondo globale, del suo nuovo ordine linguistico, tutto centrato sul
ruolo dell’inglese come lingua della transazione internazionale, e, ugualmente sono

6
Sui panorami linguistici urbani globali e sulla posizione dell’italiano al loro interno v.
Hélot, Barni, Jannsens, Bagna, 2012.
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 309

nuove le dinamiche e gli attori per il fatto che esiste ed è fortemente dinamico un
mercato globale delle lingue-culture-società-economie.

5. IL PRIMO ASSE DELLO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO GLOBALE: I POLI DIALETTO,


ITALIANO, LINGUA DEL PAESE

Creando un asse contiguo al primo dello spazio linguistico demauriano, rite-


niamo che in esso possano essere collocati i poli del contatto fra l’italiano e le altre
lingue nello spazio idiomatico globale. Tali poli, diversamente agiti da locutori di
origine italiana e stranieri, sono, a nostro avviso, i seguenti.

Dialetto (o lingua di una minoranza di antico insediamento nella Penisola ita-


liana: ad esempio, albanese dell’Italia meridionale. V. immagine n. 3):
˗ dialetto mantenuto in condizioni conservative in contesto isolato
˗ dialetto e italiano (dialetto locale, dialetto regionale, dialetto italianizzato,
usi mistilingue, neoformazioni a base dialettale da interferenze con
l’italiano)
˗ dialetto, italiano, lingua del Paese (dialetto locale, dialetto regionale, dia-
letto italianizzato, usi mistilingue, neoformazioni a base dialettale da in-
terferenze con gli altri idiomi).

Italiano (v. immagine n. 5):


˗ italiano popolare e dialetto (italiano interlinguistico)
˗ italiano popolare e lingua del Paese (italiano interlinguistico, usi mistilin-
gue, neoformazioni da interferenze)
˗ italiano popolare, dialetto e lingua del Paese (italiano interlinguistico, usi
mistilingue, neoformazioni da interferenze)
˗ italiano standard dei mass media italiani
˗ italiano dei mass media di origine comunitaria
˗ italiano L2 degli stranieri, appreso in contesto formale
˗ italiano L2 dei discendenti di emigrati italiani, appreso in contesto formale
˗ italiano presente nei panorami linguistici urbani (anche pseudoitalianismi)
˗ italiano di contatto degli immigrati stranieri in Italia
˗ italiano appreso in contesto formale da stranieri in Italia.

Lingua del Paese (v. immagine n. 6):


310 MASSIMO VEDOVELLI

˗ lingua del Paese, italiano, dialetto in acquisizione spontanea / mista


˗ lingua del Paese appresa in contesto formale
˗ lingua del Paese come L1.

Lingue immigrate:
˗ lingue di origine degli stranieri immigrati in Italia (usi intracomunitari, ex-
tracomunitari, usi mistilingue).

6. IL SECONDO ASSE DELLO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO GLOBALE: I POLI LINGUA


ETNICA, IDENTITARIA, NAZIONALE

Al primo asse, sul quale si dispongono i tre poli del dialetto, dell’italiano, della
lingua del Paese di vita degli emigrati e dei loro discendenti, ne corrisponde un altro
che vede dislocarsi le scelte da parte degli utenti sulla base delle funzioni generali
dell’idioma selezionato. I poli che vi sono coinvolti sono quello della lingua etnica,
della lingua identitaria e della lingua nazionale del Paese, intendendo con questa
espressione l’idioma usato nel tessuto quotidiano dell’interazione con locutori che
non siano italiani o discendenti di italiani.
Le scelte linguistiche si caricano, così, di valori simbolici, facendo assurgere le
lingue scelte a emblemi, a simboli dei ruoli che i locutori svolgono, proprio con le
loro scelte idiomatiche, entro la società del Paese. Tali scelte non sono mai collo-
cate fuori da contesti relazionali, e pertanto i tre poli della lingua etnica, identitaria,
nazionale si articolano in contesti in cui le scelte di uso linguistico hanno maggiori
probabilità di occorrenza.
Questo secondo asse si struttura, allora, nel modo seguente.
Lingua etnica (v. immagine n. 7):
˗ contesti familiari (gruppi di emigrati italiani)
˗ contesti intracomunitari (comunità degli emigrati italiani, su base paesana
o sovralocale)
˗ rapporti con la comunità di origine in Italia
˗ contesti dei panorami linguistici urbani (connotazioni etniche nella ristora-
zione e negli altri settori a forte valenza identitaria originaria).

Lingua identitaria:
˗ contesti ufficiali istituzionali (rapporti con le rappresentanze consolari,
vita dell’associazionismo di emigrazione nei rapporti con l’Italia)
˗ contesti formativi (attività linguistico-culturali rivolte ai discendenti degli
emigrati italiani)
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 311

˗ comunicazione sociale (panorami linguistici urbani)


˗ rapporti con italiani non emigrati
˗ rapporti con l’Italia (fuori degli ambiti propri della comunità di origine)
˗ contesti delle transazioni commerciali
˗ oggetto di apprendimento come L2.

Lingua nazionale del Paese:


˗ contesti di comunicazione informale e formale
˗ contesti scolastici
˗ contesti di interazione con stranieri di altra origine.

Inglese lingua della comunicazione planetaria.

7. IL TERZO ASSE DELLO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO GLOBALE: I CANALI DELLA


COMUNICAZIONE

All’elenco dei mezzi/canali della comunicazione che, in base alla loro natura e
alle costrizioni che impongono alla strutturazione del testo, è presentato in De
Mauro (1983) riteniamo opportuno aggiungere altri tratti che discendono da un lato
dai generali cambiamenti intervenuti nelle tecnologie, e che dall’altro sono presenti
in modo specifico nei contesti di emigrazione italiana nel mondo. Rimangono nel
modello dello spazio linguistico italiano globale i canali del parlato a voce e
dell’endofasia, ma quello dello scritto assume tratti diversi. Può mantenersi lo
scritto a mano, comunque sempre più limitato, soprattutto nei sistemi scolastici
all’estero e presso i giovani, dal ricorso alle tecnologie avanzate, ma la videoscrit-
tura di testi, l’uso della scrittura tramite i telefoni cellulari, la possibilità di scrivere
a mano direttamente su supporti elettronici o di simulare la continuità della scrittura
a mano su tastiere elettroniche, la scrittura di testi in internet e nelle varie sue mani-
festazioni sociali (chat ecc.) rappresentano ormai il nuovo panorama dove si svi-
luppa la comunicazione scritta coinvolgente il singolo individuo. Tali mezzi a tec-
nologia avanzata sono soggetti a rapida evoluzione (si pensi, ad esempio, alle nuove
tecniche di scrittura ‘lineare’ sulle tastiere dei cellulari, che stanno sostituendo la
digitalizzazione analitica dei caratteri) e presuppongono competenze specifiche di
gestione tecnica per sviluppare le potenzialità che possono attribuire all’espressione
individuale.
Per quanto riguarda la radio, questa ha avuto un ruolo molto forte negli anni
Sessanta – Settanta del Novecento, quando le onde medie consentivano ai nostri
emigrati di ascoltare le trasmissioni della RAI (dai giornali radio alle cronache do-
menicali delle partite di calcio), e quindi di stare in contatto con i modelli di uso
312 MASSIMO VEDOVELLI

italiano che passavano attraverso il mezzo radiofonico. Ora, internet rende possibile
ascoltare anche le trasmissioni radiofoniche via computer, non solo della emittente
pubblica, ma anche delle radio private, capaci queste di esibire un ventaglio di
idiomi, varietà e registri più ampio, dove l’italiano anche nei suoi specifici usi
adottati dai giovani si interlaccia con le lingue straniere (l’inglese, soprattutto, ma
anche altre: si pensi alle canzonette, tema prevalente delle radio private).
La TV ha avuto un ruolo decisivo nella svolta linguistica delle nostre comunità
all’estero: il satellite consente oggi di vedere le trasmissioni italiane praticamente in
tutto il mondo, con effetti linguistici di notevole portata: il legame è diretto e co-
stante con gli usi vivi che caratterizzano oggi la comunità italiana presente entro i
confini nazionali.
Anche la stampa in lingua italiana vede una presenza diffusa come mai prima
entro le nostre comunità. Le nuove tecnologie, consentendo all’estero la stampa dei
giornali italiani ‘in tempo reale’, annulla la distanza di tempo che fino a pochi anni
fa impediva a chi stava all’estero di leggere in modo aggiornato. Sono anche diffusi
quotidiani e altri periodici realizzati all’estero, a volte entro quadri di stampa pluri-
lingue destinata alle comunità presenti in un dato Paese.
Proprio le tecnologie avanzate, come abbiamo ricordato più volte, stanno con-
tribuendo a cambiare il volto linguistico delle comunità di origine italiana nel
mondo, reimmettendo al loro interno una gamma di usi vivi di italiano come mai
prima, e perciò agendo sui fattori che, soprattutto sulle generazioni di mezzo dei no-
stri emigrati, spingono verso moduli espressivi condivisi in lingua italiana.

8. I LOCUTORI
Gli utenti dello spazio linguistico italiano globale comprende diverse tipologie
di locutori, articolate a seconda delle fasce generazionali e della origine italiana /
non italiana.

Anziani
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana

Adulti
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana

Giovani
˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 313

Giovanissimi (adolescenti, bambini)


˗ di origine italiana
˗ non di origine italiana.

9. LE FUNZIONI DELLO SPAZIO LINGUISTICO ITALIANO GLOBALE


Lo spazio globale offre una raffigurazione delle potenzialità di uso dell’origi-
nario spazio linguistico, ampliate aggiungendovi le caratterizzazioni che può assu-
mere quando varca i confini nazionali al seguito degli emigrati, quando permane
entro la comunità emigrata disarticolandosi a seconda dei salti generazionali,
quando con esso entrano in contatto gli stranieri, coloro che non sono di origine
italiana. Da questo punto di vista, abbiamo anche inserito nel modello gli usi lingui-
stici degli immigrati stranieri in Italia, ritenendo che il loro idioma acquisito nelle
spontanee relazioni sociali (varietà interlinguistiche di italiano sviluppate per lo più
in contesti spontanei di socialità, dove l’input è l’italiano parlato, soprattutto, misto
agli idiomi locali) costituisca un ulteriore ampliamento della gamma di varietà
dell’italiano. Abbiamo anche introdotto le lingue degli immigrati (‘lingue immi-
grate’), che, quando stabilizzatesi entro le comunità locali, costituiscono una nuova
realtà idiomatica capace di interagire con gli altri poli dello spazio linguistico na-
zionale e anche di modificarne il suo assetto nei tempi futuri. Se abbiamo pertinen-
tizzato la dimensione linguistica dell’immigrazione straniera in Italia (sia pure per
sommi capi, non essendo l’oggetto del presente lavoro) è perché gli adulti (‘prime
generazioni’) e i giovani e giovanissimi (‘seconde e terze generazioni’) aggiungono
un ulteriore tratto di specificità al volto migratorio italiano, che consiste nel suo rin-
novato rapporto con la dimensione internazionale: soprattutto le generazioni più
giovani di immigrati e dei loro discendenti saranno ulteriori elementi di trasmis-
sione verso l’estero dell’articolata e dinamica realtà dello spazio linguistico nazio-
nale, con l’aggiunta di un fattore di plurilinguismo che appare di notevole interesse
per le implicazioni identitario-culturali e per quelle relative alla internazionalizza-
zione del nostro sistema economico-produttivo.
Qui ci interessa, però, soprattutto vedere come può funzionare un modello di
spazio linguistico italiano globale, come può dare conto, cioè, delle scelte circa gli
usi linguistici che possono essere fatte attingendo alle risorse idiomatiche che, an-
che grazie alle comunità dei nostri emigrati, si sono diffuse nel mondo. Ciò signi-
fica definire possibili confini per l’ampiezza della competenza espressivo-comuni-
cativa dei vari tipi di locutori menzionati.
Facciamo alcuni esempi al proposito.
Un anziano emigrato di origine italiana vede, secondo i dati di Italiano 2000
(De Mauro et al., 2002), la propria possibilità di escursione entro lo spazio lingui-
stico racchiusa fra i confini, sul primo asse, del dialetto mantenuto allo stato ‘ar-
caico’ in contesto isolato, dell’uso misto dialetto / italiano, e dialetto / italiano / lin-
gua del Paese (dialetto interlinguistico, usi mistilingue, neoformazioni da interfe-
314 MASSIMO VEDOVELLI

renze), intendendo l’italiano nella sua varietà popolare. Si tratta di un sistema di usi
che privilegia la lingua etnica, una identità linguistica legata soprattutto ai valori
dell’origine comunitaria. I suoi usi più orientati verso il dialetto o il misto dialetto /
italiano saranno collocati in ambito intrafamiliare e intracomunitario, soprattutto
intendendo con ciò il gruppo di emigrati provenienti tutti da uno stesso paese di una
regione italiana. In definitiva, è più ampia l’area degli usi idiolettali e di contesto
legato alla comunità di origine; la possibilità di accesso, tramite scelte più di natura
pantolettale, a una rete di contesti sociali più articolata nel Paese di vita non è facile.
Un anziano straniero, invece, potrà scegliere lo studio dell’italiano come L2
per i suoi valori culturali intellettuali, privilegiando cioè la conoscenza della tradi-
zione culturale italiana, escludendo perciò le funzioni ‘etniche’ della lingua e tutto
ciò che questo comporta in termini di usi dialettali o misti dialetto/italiano/lingua
del Paese. L’italiano sarà, per tale fascia di pubblico, una L2, una lingua straniera da
apprendere in contesto formativo.
Un adulto di origine italiana potrà muoversi con più ampia possibilità entro lo
spazio linguistico, potendo interagire con gli anziani in famiglia e nelle occasioni
sociali comunitarie (magari potendo solo capire il dialetto nelle sue forme conser-
vate più ‘pure’ nelle parlate dagli anziani, e ricorrendo più di frequente a moduli
misti italiano/dialetto/ lingua del Paese), ma anche potendo svolgere la propria atti-
vità professionale usando la lingua del Paese in vario grado di possesso a seconda
dell’età di arrivo nel Paese, dei modi di apprendimento ecc. Potrà usare l’italiano
nelle sue forme colloquiali nell’interazione in contesti istituzionali (uffici consolari,
enti gestori della formazione ecc.), e professionali (rapporti con italiani provenienti
dall’Italia, rapporti con ditte italiane ecc.). Potrà anche avere una competenza in
italiano standard tale da renderlo in grado di leggere la stampa italiana, seguire le
trasmissioni televisive italiane, e anche di scrivere in italiano se il livello di scolarità
in tale lingua glielo potrà consentire. Più ipotizzabile è la scrittura in italiano popo-
lare, soprattutto nei confronti della famiglia/comunità di origine in Italia: a tale pro-
posito è da valutare il ruolo che la posta elettronica ha nel favorire lo sganciamento
da usi molto misti e connotati da tratti dialettali.
Diverso è il caso degli italiani emigrati recentemente e impegnati in contesti di
alto livello culturale (università, enti di ricerca, attività professionali specializzate,
stampa e mass media ecc.). In questi casi la competenza in italiano standard è quella
del nativo, e si unisce alla competenza nella lingua del Paese come L2, lingua stra-
niera per lo più acquisita in contesti formali e usata abitualmente. La propensione
alla commutazione di codice è maggiore rispetto a quella verso il miscuglio deri-
vante dal contatto fra l’italiano e la lingua del Paese. Sono tali adulti a essere perce-
piti come la punta avanzata della diffusione dei valori propri della cultura italiana
nei contesti di prestigio all’estero.
Un adulto straniero, soprattutto giovane, potrà scegliere l’italiano come una L2
da apprendere in contesto formativo per finalità di studio (presso Università ita-
liane, progetti europei di mobilità ecc.) o professionali (rapporti con ditte italiane,
lavoro presso ditte italiane ecc.). Le attività professionali possono portarlo a attin-
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 315

gere ai mezzi della lingua italiana per aggiungere una connotazione valoriale posi-
tiva (ad esempio, nelle insegne dei negozi e, in generale, nella comunicazione so-
ciale, nella comunicazione che entra nei panorami linguistici urbani).
Un giovane adulto di origine italiana avrà una competenza piena nella lingua
del Paese, e una capacità di movimento soprattutto entro il polo dell’italiano: sarà
più netta la tendenza alla commutazione di codice rispetto alle scelte mistilingue. La
capacità di gestire il dialetto o le varietà miste dialetto/italiano sarà molto ridotta. La
scelta di orientarsi verso la ‘ricerca delle radici’ può avere una duplice finalità: una
più legata a una motivazione personale di conoscenza delle origini familiari;
un’altra più tesa a valorizzare l’ascendenza culturale e linguistica italiana in fun-
zione professionale, sfruttando l’indubbia capacità di evocazione di valori positivi
(di creatività, gusto, buon gusto ecc.) oggi percepiti globalmente come intrinseci
all’identità linguistico-culturale italiana.
I giovanissimi discendenti collocano il centro della propria attività linguistica
nella lingua del Paese che per loro è L1; il contatto con l’italiano può avvenire in
contesto formativo, e in tal caso allora è una L2, una lingua straniera. La gestione
degli idiomi e varietà più ‘etnici’, dei terreni di contatto fra dialetto e italiano è for-
temente ridotta, se non assente completamente.
I giovani e giovanissimi stranieri possono considerare l’italiano come L2, og-
getto di apprendimento in contesto formativo all’estero e/o in Italia: la motivazione
dello studio (a livello di scuola superiore e di università, scambi studenteschi e mo-
bilità) e quella della curiosità per un modo di vivere diverso sembrano prevalenti
per questo tipo di pubblico. La sua presenza appare crescente entro le attività lin-
guistico-culturali promosse dalle Istituzioni italiane e gestite dagli appositi enti
all’estero, e che inizialmente erano destinate ai soli discendenti degli emigrati ita-
liani: anche questa ristrutturazione dei pubblici di tali attività segnala, da un lato, la
crescente richiesta di lingua italiana da parte degli stranieri, ma anche la mancanza
di una politica di diffusione linguistica che sappia riconoscere la dimensione glo-
bale di tale richiesta, svincolata dalle connotazioni etniche e migratorie. Non infre-
quente è il caso che tali attività vedano presenti, oltre che i giovani e giovanissimi di
origine propria del Paese, anche i discendenti di gruppi emigrati non italiani: quasi
che il successo della lingua-cultura italiana sia considerato come segno del successo
del progetto migratorio della comunità italiana, preso a modello per il proprio
(come è avvenuto in Svizzera).
Le diverse possibilità di escursione, di movimento e di scelta entro lo spazio
linguistico italiano globale coinvolgono le comunità degli emigrati italiani segnan-
done l’articolazione generazionale interna, così come quella professionale e per
ceto. Il modello collega le comunità alle società del Paese di vita/di appartenenza,
pertinentizzando la nuova posizione della lingua italiana nel mercato globale delle
lingue-culture-società-economie in una prospettiva che la considera soggetto capace
di creare terreni di contatto con le altre in vista della promozione delle identità,
della spinta verso nuove frontiere di identità nel mondo globale. In questo senso, lo
spazio linguistico italiano globale diventa esempio delle realtà plurilingui create dagli
316 MASSIMO VEDOVELLI

spostamenti migratori e dalla ricomposizione delle società come loro conseguenza,


ammettendo sia fasi e contesti in cui è pertinente la commutazione di codice (e dove
sono richieste competenze adeguate a questo compito), sia processi di contatto e di
commistione per i quali ugualmente sono richieste adeguate competenze per evitare
che i loro esiti diventino gli emblemi della marginalità dei migranti.
Oltre a descrivere tali nuove realtà che vedono l’italiano come attore, il mo-
dello dello spazio linguistico italiano globale permette di individuare le esigenze
che emergono dalle dinamiche sociali e, di conseguenza, invita a interventi mirati e
efficaci entro un quadro che può consentire scelte coerenti. La politica linguistica
delle Istituzioni italiane non può fermarsi alla considerazione della dimensione ‘et-
nica’ delle esigenze linguistiche, né può considerare l’italiano come l’idioma prio-
ritariamente presente nella competenza dei singoli e negli assetti identitari delle
comunità di origine emigrata: da una tale considerazione deriva una contraddizione
interna che limita l’efficacia degli interventi e sbilancia l’equilibrio del generale si-
stema costituito dallo spazio linguistico italiano globale nel mondo oggi.
Un’ultima, e, a nostro avviso, non trascurabile funzione del modello è che con-
sente di liberarci dalle incongruenze e dai fraintendimenti che si hanno quando,
parlando della materia, si continua a pensare all’italiano come l’idioma connaturato
alla nostra emigrazione all’estero: come è noto, così non è stato in modo generale
né da sempre (a partire dall’Unità d’Italia). Le popolazioni italiane emigrate hanno
portato con sé un patrimonio idiomatico plurimo che ha vissuto complesse, intricate
e profonde dinamiche evolutive che hanno portato a esiti contraddittori, ovvero la
conquista dell’italiano da un lato e la sua perdita nelle generazioni giovanissime
dall’altro. Tutto ciò è avvenuto, comunque, entro un quadro che è rimasto plurimo e
che si è arricchito, nei vari momenti storici delle vicende emigratorie nazionali, di
nuovi elementi o di trasformazioni di quelli originari. Continuare a ricorrere al solo
termine italiano per definire anche solo lo stato attuale ci sembra non riuscire a dare
conto della sua complessità in diacronia e in sincronia. Tutto ciò vale, a maggior ra-
gione, se su tale riferimento si impostano misure di politica linguistica destinate alle
comunità di origine italiana all’estero. Adottare un modello più articolato, come
quello dello spazio linguistico italiano globale, potrebbe consentire l’elaborazione
di azioni effettivamente commisurate alle forze che animano le dinamiche linguisti-
che anche coinvolgenti le comunità di origine italiana nel mondo.

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318 MASSIMO VEDOVELLI

Immagine n. 1:
Lo spazio linguistico per De Mauro (1980)

Immagine n. 2:
Lo spazio linguistico italiano globale
Italiano LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 319

Italiano popolare e dialetto (it. Interlinguistico


It. popolare e lingua del Paese (it. Interling., usi mistilingui,
neoformazioni da interferenze
It. popolare, dialetto e lingua del Paese (it. interling., usi
mistil., neoform. da interferenze)
It. standard dei mass media italiani
It. standard dei mass media comunitari
It. L2 degli stranieri, appreso in contesto formale
It. L2 dei discendenti di emigrati it.
It. dei panorami ling. urbani globali
Pseudoit. dei pan. globali e delle merci
It. di contatto degli immigrati stran. in Italia
It. appreso in contesto formale in Italia da stranieri

Immagine n. 3:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese

Asse 1- Polo dialetto, italiano, lingua del Paese


Lingua del paese

Lingua del Paese come L1

Lingua del Paese appresa in contesto


formale

Lingua del Paese, italiano, dialetto in


moduli misti

Lingue immigrate in Italia

Immagine n. 5:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese
320 MASSIMO VEDOVELLI

(Dialetto o lingua di minoranza di antico insediamento nella


Penisola italiana, ad es. albanese nell’Italia meridionale)

Dialetto mantenuto in condizioni conservative in contesto isolato

Dialetto e italiano (dialetto locale, dialetto regionale, dialetto


italianizzato, usi mistilingue, neoformazioni a base dialettale da
interferenze)

Dialetto, italiano, lingua del Paese (dialetto locale, dialetto regionale,


dialetto italianizzato, usi mistilingue, neoformazioni da interferenze)

Immagine n. 6:
Spazio linguistico italiano globale - Primo asse: polo italiano, dialetto, lingua del Paese

Asse 2- Polo lingua etnica: funzioni e contesti


etnica--comunitaria

Contesti familiari (comunità di emigrati


italiani / di origine italiana)
Lingua etnica

Contesti intracomunitari (comunità di


emigrati italiani, su base paesana o
sovralocale

Rapporti con le comunità di origine in


Italia
Panorami linguistici urbani a
connotazioni etniche (ristorazione ecc.)
Immagine n. 7:
Polo lingua etnica, comunitaria, del Paese
LINGUA E EMIGRAZIONE ITALIANA NEL MONDO 321

Asse 2- Polo lingua identitaria: funzioni e contesti


Lingua identitaria

Contesti ufficiali istituzionali (rapporti con le


rappresentanze consolari, vita dell’associazionismo di
emigrazione in rel. con l’Italia)
Contesti formativi (attività linguistico-culturali rivolte ai
discendenti degli emigrati italiani)
Comunicazione sociale (panorami ling. urbani)
Rapporti con l’Italia (fuori degli ambiti propri della
comunità)
Contesti delle transazioni commerciali
Oggetto di apprendimento come L2

Immagine n. 8:
Polo lingua etnica, comunitaria, del Paese

Asse 2- Polo lingua del Paese; inglese: funzioni e contesti


Lingua nazionale del Paese

Inglese lingua strumentale della comunicazione


planetaria

Contesti di comunicazione informale e formale

Contesti scolastici

Contesti di interazione con stranieri di origine


non italiana

Immagine n. 9:
Polo lingua etnica, comunitaria, del Paese
IMMACOLATA TEMPESTA
(Università del Salento)

I registri e la rete. Vaghezza sociolinguistica dell’insulto*.

1. L’INSULTO NEL GIOCO DI FACCIA.


«In che posso ubbidirla?» disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo
della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo in cui eran proferite, voleva dir
chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati. […]
[Fra Cristoforo] disse, con guardinga umiltà: «vengo a proporle un atto di giu-
stizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il
nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato [...].
«Ebbene,» disse don Rodrigo, «giacché lei crede ch’io possa far molto per
questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...»
«Ebbene?» riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il conte-
gno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano
annunziare quelle parole.
«Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. [...]»
«La vostra protezione!» esclamò [fra Cristoforo], dando indietro due passi, po-
standosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra
con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati:
«la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una
tal proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.»
«Come parli frate? …»
«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio [...]. Verrà un giorno...»
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non
trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia
un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per
troncar quella dell’infausto profeta, gridò: «escimi di tra’ piedi, villano temerario,
poltrone incappucciato». […]

*
A Norbert Dittmar mi lega una lunga frequentazione scientifica, che inizia nell’ambito delle
ricerche condotte negli anni Ottanta-Novanta dal Gruppo di Lecce e che è continuata nel tempo.
Ringrazio il prof. Dittmar per l’offerta, sempre spassionata, delle ‘sue’ competenze, per rafforzare
le ‘mie’ competenze. Ogni discorso con lo studioso è stato per me una lezione, sempre.
La grande disponibilità professionale e umana dello studioso ha rafforzato, negli anni, il rap-
porto scientifico, con la partecipazione del prof. Dittmar a seminari e ricerche presso l’Università
del Salento.
324 IMMACOLATA TEMPESTA

«Villano rincivilito! », proseguì don Rodrigo: «tu tratti da par tuo. Ma ringra-
zia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si
fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa
volta; e la vedremo.»
Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per
cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Ro-
drigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia. [A. Manzoni, I Promessi
Sposi, Milano, 1840, a cura di Cesare Angelini, Torino, Unione Tipografa Editrice
Torinese, 1968, cap. VI, pp. 123-128].

La scena manzoniana, qui riportata nelle sue parti più significative, per motivi
di spazio, rappresenta uno spaccato esemplare delle strategie interazionali messe in
atto dai protagonisti, Don Rodrigo e Padre Cristoforo, in un incontro verbale diffi-
cile, in cui si confrontano due figure con caratteristiche e vissuti molto diversi, en-
trambe di grande forza, pur trattandosi di forze diverse.
La rete sociale è quella non confidenziale, fra attori che non hanno consuetudine
di frequentazione; il registro inizialmente formale, va via via abbassandosi, seguendo
le mosse pragmatiche che evolvono dal rispetto dell’apertura all’offesa finale.
L’interazione si sviluppa come un vero e proprio gioco di faccia goffmaniano;
fino a un certo punto fra Cristoforo cerca di non violare la ‘faccia’ dell’altro, ricor-
rendo a una presentazione positiva della richiesta che va a fare, mitigandone la
forza illocutoria (vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità) e a
blandi richiami (Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossi-
gnoria illustrissima).
L’impresa del frate, di convincere il signorotto a lasciare in pace Lucia, appare
però, fin dall’inizio, verbalmente complessa. Don Rodrigo non ammette nessuna
invasione nella sua vita.
L’interazione, divenuta un campo di battaglia, quella che Goffmann chiama di-
sgrazia rituale, provocata dalla rottura dell’integrità rituale, dalla violazione dell’im-
magine sociale dell’altro, si chiude con una minaccia e un ordine di allontanamento,
con il ripristino e l’esercizio di un potere interazionale e, prima di tutto, sociale.
Gli allocutivi, gli appellativi, i titoli, che rientrano fra le espressioni formulari
della cortesia, cioè tra le manifestazioni più esplicite, segnano l’evoluzione del dia-
logo da un’interazione in cui gli interlocutori rispettano la faccia altrui -sia fra Cri-
stoforo che Don Rodrigo usano il lei, fra Cristoforo ricorre anche alla formula “vos-
signoria illustrissima”- ad una interazione in cui fra Cristoforo passa al voi, don
Rodrigo al tu.
«Come parli frate» segna l’inizio dell’invettiva rodrighiana, con il passaggio
dall’allocutivo di cortesia “lei”, all’allocutivo “tu” che, lungi dall’essere un pronome
di solidarietà, serve a marcare la superiorità del signore verso il subordinato.
Il Manzoni descrive in modo magistrale anche i cambiamenti non verbali della
comunicazione: alzando la voce, gridò, additò sono azioni riferite a don Rodrigo,
chinò il capo riguarda invece fra Cristoforo.
I REGISTRI E LA RETE 325

Le contumelie -villano temerario, poltrone incappucciato- seguono l’invito mi-


naccioso a uscire (escimi di tra i piedi) espresso dall’imperativo e con un allocutivo di
dominanza (tu) e accompagnano tutta la chiusura della scena (Villano rincivilito! tu
tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti
salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue
gambe, per questa volta; e la vedremo).
La scena manzoniana è quanto mai emblematica del ruolo che in un’interazione
svolgono la relazione fra gli interlocutori e lo scopo che ognuno dei partecipanti vuole
raggiungere.
In un’interazione, in particolar modo nell’interazione faccia a faccia, come
avrebbe poi indicato Goffman, nulla è dato per scontato e le parole operano in siner-
gia con molti altri fattori. Quello che l’altro fa e dice non sempre risponde alle aspet-
tative dell’interlocutore e questo, non essendo congruente con la visione del mondo
dell’interlocutore, suscita un giudizio che non può essere considerato positivo1.

2. DALLA COOPERAZIONE ALLA ROTTURA


L’insulto è, per antonomasia, un atto che minaccia la faccia positiva del desti-
natario2, con cui si rinnega la positività della faccia altrui, in uno spazio conversa-
zionale di conflitto e di agonismo.
Come insegna Grice, il dialogo comporta un lavoro di collaborazione fra gli
interlocutori che si sono dati e, durante tutta l’interazione, continuano a darsi uno
scopo comune. All’interno dell’evento comunicativo ogni atto linguistico deter-
mina, com’è noto, effetti illocutori e, in alcuni casi, perlocutori: perché ciò accada è
necessario che l’interlocutore comprenda e accetti le intenzioni del parlante. In ogni
scambio linguistico i partecipanti sembrano seguire una serie di regole ben precise,
volte a rispettare quello che Grice (1975) chiama principio di cooperazione: il tuo
contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene,
dallo scopo e dall’orientamento accettato nello scambio linguistico in cui sei impe-
gnato. Quantità, Qualità, Relazione, Modo sono le quattro categorie che contengono
le massime indispensabili per il rispetto di questo principio.
Ricordiamo che, sulla Quantità, si richiede di dare un contributo tanto infor-
mativo quanto è richiesto dagli scopi condivisi nell’interazione in corso; per la
Qualità le massime riguardano la produzione di contributi per i quali si abbiano
prove adeguate, si possa dimostrare la ‘verità’. Sii pertinente sintetizza la massima
di Relazione. La categoria Modo – “Sii perspicuo”- presenta ben quattro massime:
1. evita l’oscurità; 2. evita l’ambiguità; 3. sii breve (evita la prolissità non necessa-
ria); 4. sii ordinato nell’espressione.

1
Burns T., Erving Goffman, Il Mulino, Bologna, 1997.
2
Cfr. Brown P., Levinson S., Politeness. Some universals in language usage, Cambridge,
Cambridge University Press, 1987.
326 IMMACOLATA TEMPESTA

Il rispetto di queste massime, seppure importante perché lo scambio di infor-


mazioni sia quanto più possibile efficiente, non è l’unica condizione per la buona
riuscita della comunicazione; esso va calibrato con altre regole, sociolinguistica-
mente più potenti3, che spingono verso comportamenti e usi della lingua diversi da,
se non addirittura opposti a, quelli richiesti dalle massime griceane.
Così il “non essere ambiguo” risulta in molti casi trasgredito, proprio per otte-
nere la cooperazione fra gli interlocutori, laddove l’esplicitezza e la chiarezza po-
trebbero divenire mezzi di attacco alla faccia altrui. Un esempio ci è dato dagli or-
dini, che, per essere strategici, devono lasciare una possibilità di diniego, e quindi
essere attenuati, vaghi, persino ambigui, in modo che in caso di diniego non si crei
un conflitto irrimediabile tra l’ordine impartito e il rifiuto dell’interlocutore.
Lakoff (1973) fra le tattiche verbali della cortesia riporta specificamente il non
imporsi, il lasciare alternative al destinatario.
Nello svolgersi dell’interazione sociale la relazione tra i soggetti partecipanti
appare, in altre parole, più importante del contenuto dell’informazione: l’insulto,
come si vedrà più avanti, è uno degli esempi più significativi di questo modo di
agire. Il grado di minaccia di un atto linguistico dipenderebbe, più che dall’espres-
sione linguistica, dalla distanza sociale tra parlante e ascoltatore, oltre che dal grado
di accettabilità, di ‘normalizzazione’ dell’atto all’interno della comunità in cui l’atto
minaccioso viene prodotto (Brown, Levinson, 1987).
Negli incontri sociali la lingua partecipa di quella visibilità sociale che il par-
lante dà alla propria linea di comportamento, alla propria faccia. Con il “gioco di
faccia” si rendono le proprie azioni coerenti con la propria immagine, con il sistema
di comportamenti assunto e socialmente riconosciuto4. Per la conservabilità della
faccia, su cui è costruito il contatto sociale positivo, si adottano procedure di elu-
sione, per evitare ostilità e asimmetrie (ad es. evitare di parlare ostentatamente delle
proprie capacità, neutralizzare, con un preambolo di spiegazione, una mossa poten-
zialmente aggressiva) e di riparazione, quando c’è stata una frattura.
L’insulto, nella sua funzione offensiva, è il massimo segnale di rottura, il mezzo
più potente per annientare la faccia, l’immagine sociale positiva dell’altro (fra Cristo-
foro diventa villano, temerario, poltrone, mascalzone). Si sviluppa al di fuori delle co-
siddette tattiche di cortesia verbale, che servono a conservare la faccia, a mettere il de-
stinatario a proprio agio, a creare un contatto amichevole (Lakoff,1973).
Il ricorso all’insulto e la potenza dissacratoria dello stesso, in interazioni che
griceaniamente risultano molto efficaci, portano ad un ridimensionamento della forza
del principio di cooperazione nella conversazione, attribuendo, piuttosto, un ruolo
fondamentale al rituale dell’interazione, alle immagini sociali degli interlocutori: an-

3
Ma anche morali, estetiche.
4
Per una sintesi della discussione sul concetto e l’applicazione del gioco di faccia si veda
Watts, 2005.
I REGISTRI E LA RETE 327

che in una situazione conversazionalmente efficace (chiara, breve, ordinata, argo-


mentabile), anche in presenza delle massime, l’insulto porta alla rottura rituale.
L’insulto, tuttavia, non è sempre e solo un mezzo di aggressione, di rottura.
Il ventaglio semantico dell’improperio, considerato primariamente come
espressione demistificatoria, presenta almeno due altri significati, altrettanto im-
portanti, sebbene poco studiati: diviene, in alcuni casi, una dichiarazione di forte
vincolo affettivo, serve, in altri, ad abbassare il grado di formalità del registro. In
entrambi i casi l’insulto si svuota della carica offensiva, assumendo un valore emo-
tivo o ludico, o entrambi.

3. L’INSULTO NEL CLUSTER


La forza della relazione sociale, nello svolgimento di un incontro sociale, di
un’interazione, e nelle scelte linguistiche con cui l’incontro viene realizzato, tra-
spare, in modo evidente, nell’uso che si fa dell’insulto in alcuni gruppi sociali e in
alcune fasce della rete sociale.
Se da una parte la carica destruens del turpiloquio, agendo, come abbiamo già
notato, oltre e contro le attese delle massime griceane, suggella conflitti e rotture,
dall’altra, disattendendo in modo provocatorio la massima della Qualità (non dire
cose false), può essere usato per rafforzare una comunicazione, un incontro sociale,
senza creare alcun danno alla faccia dell’interlocutore. In questo caso sembra san-
cire una sorta di provocazione affettiva, un voluto liberismo disfemistico che serve
a dichiarare la profondità e la solidità di un legame che va oltre le regole dell’imma-
gine sociale assunta con il resto della società.
Sembra molto importante anche la funzione di detabuizzazione del gioco di
faccia, con espressioni che aiutano a imparare a controllare, ad alleggerire eventuali
violazioni della propria faccia (si pensi, ad es., agli epiteti disfemistici rivolti affet-
tuosamente ai bambini).
In alcune situazioni gli insulti sono espressamente usati per segnalare l’appar-
tenenza a un gruppo, per esprimere una sorta di goliardia di rete.
Esistono alcuni usi (banters) molto diffusi fra i giovani, ma anche nei clusters
familiari, nei quali forme linguisticamente disfemistiche (epiteti offensivi, espres-
sioni ingiuriose) servono a rafforzare il grado di intimità degli interlocutori5. Due
esempi ci sono dati da alcuni dati giovanili che testimoniano l’uso dei cosiddetti
banters nel parlato spontaneo e nei social network.
I banters sono «prese in giro tra i parlanti, battute scherzose, che si basano
sulla condivisione di evidente falsità e condivisa ilarità del testo prodotto» (Tempe-

5
L’uso richiama il sounding laboviano (Labov, 1972), sebbene questo rappresentasse, per le
fasce giovanili di ceto basso, un vero e proprio gioco. Si veda Dittmar (1978). Della pratica del
flyting fra i giovani neri degli Stati uniti, nei Caraibi scrive Ong (1986). Uno dei giochi consiste
nell’insultare le rispettive madri dei partecipanti.
328 IMMACOLATA TEMPESTA

sta, 2000, p. 102); comprendono, oltre a giochi di parole, insulti veri e propri e raf-
forzano il sentimento di appartenenza al gruppo. Questa particolare forma ludica
della comunicazione è legata alle zone interne della rete sociale, alle celle amicali e
familiari, e a interazioni con basso grado di formalità e relazioni fra i parlanti fon-
date su valori e conoscenze condivise. Il linguaggio giovanile -e adolescenziale- è
ricco di esempi di questo genere. L’espressività ricercata attinge a disfemismi, alla
pornolalia ostentata, che perdono il loro riferimento semantico per assumere una
connotazione ironica o semplicemente giocosa (come per fighetto/a). Il carattere di
base del linguaggio giovanile non è quello di porsi come codice alternativo alla lin-
gua degli adulti, né quello di contrapporsi alla lingua tradizionale, ma piuttosto,
quello di riconoscersi in un gruppo, di segnalarne l’identificazione attraverso la di-
mensione ludica e scherzosa, senza freni inibitori.
Nel frammento (1) è riportata una parte di un’interazione spontanea che si
svolge in cella, fra tre giovani amiche, nell’abitazione di una di queste, a Cisternino
(Brindisi) (Tempesta, 2000, p. 103). La chiave è scherzosa, l’interazione presenta
molte prese in giro e molte risate.
L’appellativo disfemistico, al turno 14, sembra richiamare più l’intimità del
rapporto amichevole fra E ed A1, che non il rimprovero di E per la latitanza (che
fine hai fatto) di A1, tanto che A1 reagisce, al turno 15, esprimendo un ‘grazie’ e
giocando sull’insulto.

Frammento (1)
E 1 tee *…ciao
R 2 ss sta dormendo
E 3 e chi se ne frega /dai sediamoci
A2 4 dai poverina sta dormendo
E 5 sì, sediamoci qua così mo che si sveglia gli viene un collasso
A1 6 oo ragazze
A2 7 oo si è svegliata
R 8 chi non muore si rivede
E 9 guarda m..m.. ha il viso incorniciato da qualcosa. Ti sarai per
caso fatta monaca?
A1 10 bbe veramente la vocazione è quella, però
R 11 [In sovrapposizione con 10]
aspettate prima di litigare. Auguri
A1 12 auguri
A2 13 è vero, auguri
E 14 io non te li do perché sei una stronza
A1 15 grazie, però io te li do lo stesso. Auguri
E 16 non te li do bbe
A1 17 che mi dici
E 18 che fine hai fatto?
[…]
I REGISTRI E LA RETE 329

Nel frammento (2) i post riguardano tre giovani amiche, studentesse: B e C


hanno trascorso insieme la domenica, A esprime il suo disappunto (post 4) per non
essere stata insieme a loro. La carica offensiva dell’espressione di A appare com-
pletamente neutralizzata dalla mossa di C (post 5).

Frammento (2)
A 1 Giorno sorellina
B 2 Buongiornoo pazzerella mia! <3
C 3 […] SCUSATECI TUTTI MA.. DOVEVAMO
LAVORARE!! Ahhahah
A 4 Stronze
C 5 Domenica splenderà il sole, tranquilla!Ahahah

Lo stesso valore di rete sembra emergere nel frammento (3), un post in cui una
studentessa risponde al post di un’amica sull’opportunità di accettare una proposta
di voto per un esame sostenuto, dandole della ‘matta’ (6 davvero fuori?)

Frammento (3)
6 davvero fuori? Certo che devi accettàààà ☺ ☺ ☺

Sia nel parlato spontaneo che nel social network il carattere affettivo-ludico
dell’improperio è indicato da vari elementi: paralinguistici (intonazione, accento,
ritmo)6, e cinesici (gesti, mimica, sguardo) nell’interazione faccia a faccia, espe-
dienti grafici e segnali discorsivi nel web.
Sarà interessante rilevare, attraverso ricerche apposite, su un ampio corpus di
dati, se si possa definire quali voci siano ammissibili all’uso affettivo-ludico, quali,
invece conservino integralmente ed esclusivamente, il potenziale aggressivo e of-
fensivo e quali procedure si possono adottare per far transitare le forme del secondo
gruppo nel primo (come avviene, ad esempio nel baby talk, con l’uso di diminutivi,
‘scemino’, ‘scemetto’, di accrescitivi, ‘minchione’).
Per alcune voci, ad esempio quelle omofobe, sembra permanere il valore alta-
mente denigratorio, conflittuale, di minaccia e rottura della faccia altrui, non com-
parendo mai con altri significati sociali.

4. INDICATORE DI REGISTRO
Per tastare il polso al disfemismo nell’italiano contemporaneo è interessante
considerare i cambiamenti che, secondo Nora Galli de’ Paratesi (2009), hanno ri-

6
A questi aspetti è dedicato uno studio in corso di Barbara Gili Fivela, Università del Sa-
lento.
330 IMMACOLATA TEMPESTA

guardato il lessico dell’eufemismo dagli anni Sessanta ad oggi. Se l’eufemismo


serve a evitare i tabu linguistici Galli de’ Paratesi rileva come il ricorso a sostituti
sia via via diminuito dagli anni ’60 a oggi, a vantaggio di forme prima interdette.
Risulta, in particolare, in progressivo indebolimento la forza repressiva
dell’interdizione sulle aree del sesso e della scatologia7.
Per quanto riguarda l’insulto, nella comunicazione più recente, le sue due fun-
zioni, quella destruens, di contrassegno della disgrazia rituale e quella construens,
di marcatore di appartenenza e di vicinanza affettiva, sembrano convergere sempre
più in un processo che vede il repertorio dell’italiano fortemente orientato verso il
basso.
I social network ci offrono una serie infinita di questi usi ‘vaghi’ dell’insulto8,
che si disperdono fra gioco, identità comunitaria, trasgressione, lasciando sullo
sfondo gli usi conflittuali, provocatori di molte voci ingiuriose.
Troviamo, così, ricostruzioni disfemistiche di aforismi, come in (4):

Frammento (4)
A mali estremi estremi mavatteneaffanculo
(post di uno studente universitario);

si conducono analisi similterapeutiche, in cui sembra trasparire la liberazione da di-


vieti eufemistici:

Frammento (5)
Dovrei smetterla di essere educata, una frase in italiano corretto e garbato non
potrà mai sostituire l’essenza di un “Fottiti e se ti avanza tempo sparati” (da Insa-
nity, 1609 condivisioni al 7 maggio 2013).

Tra i commenti troviamo:

Frammento (6)
mah…mi piacerebbe tanto ma non ce l’ha farò mai ad esprimermi con un
modo cosi liberatorio….ti rovinano da piccoli con tanta educazione e autocontrollo
rigido…da grandi si blocca la parola in gola sic

7
Per dare il quadro generale, gli assi del cambiamento sarebbero tre: quello delle aree
semantiche colpite, quello dell’evoluzione dei sostituti linguistici, quello della forza repressiva
dell’interdizione (p. 139).
8
Esistono persino dei blog dedicati, in cui si possono pubblicare insulti (come nel blog <in-
sulti gratuiti e possibilmente creativi>, presente sul web al 16 giugno 2013). Contro il proliferare
degli insulti, intesi genericamente come post sarcastici per provocare attenzione, scrive Saviano su
La Repubblica dell’11 maggio 2013.
I REGISTRI E LA RETE 331

Una sorta di rivisitazione linguistica, in interazioni dirette e mediatiche, che ri-


guarda soprattutto l’universo giovanile ma che finisce col toccare e coinvolgere an-
che interlocutori di più generazioni.
Sono interessanti anche le indicazioni sul genere.
Da una breve ricerca condotta su un blog universitario (su 80 post, di cui 40
maschili e 40 femminili) risulta che il disfemismo ludico ricorre soprattutto fra i
bloggisti femminili.

5. CONCLUSIONE
I significati sociali delle espressioni di insulto sono, dunque, quanto mai vari,
presentando caratteri paralinguistici e extralinguistici diversi fra loro.
Premesso che in tutti i casi si tratta di usi altamente espressivi, emotivamente
connotati, della lingua, l’emittente ricorre a tutti i mezzi, non solo verbali, ma para-
linguistici e cinesici, in particolare mimici e dello sguardo, nel parlato, a enfatismi
grafici e a segnali discorsivi vari nella piazza virtuale, sul web, per raggiungere il
suo scopo socio-comunicativo.
a) L’insulto è considerato, primariamente, un elemento coprolalico, facente
parte di un comportamento non cooperativo e di rottura della faccia goff-
maniana. Rientra, con questo significato, in un contesto comunicativo ca-
ratterizzato dal turpiloquio. Linguaggio veloce, creativo, intonazioni e mo-
dulazione della voce molto espressive sono aspetti di quello che Sharp,
Smith (1995), trattando il comportamento aggressivo dei bulli, definiscono
un “abuso” linguistico, in una situazione in cui chi insulta ha, o presume di
avere, un ruolo di potere e di controllo sul destinatario.
Esistono vari mezzi per esacerbare l’intensità di un messaggio scortese,
come l’utilizzo di parole fortemente negative, di parole tabù, di modificatori
(“sei così stupido”), l’utilizzo e il supporto di mezzi prosodici e non verbali.
b) L’insulto può diventare un mezzo per esprimere vicinanza, identifica-
zione, cameratismo.
c) L’insulto può essere un mezzo per detabuizzare il lavoro di faccia, per
giocare a rompere la faccia positiva, senza creare una disgrazia rituale.
d) L’insulto, desemantizzato, può diventare un semplice indicatore di regi-
stro basso, di trivialità.

La vaghezza sociolinguistica dell’insulto nasce da questi usi eterogenei, in cui


è l’interazione tra i due interlocutori quello che conta maggiormente per una deco-
difica adeguata.
In un quadro più generale si è analizzato quanto un comportamento politically
correct, teso a uniformare abitudini e consuetudini comuni, così da non creare diffe-
renze sostanziali che possano in qualche modo disturbare l’ordine o offendere,
332 IMMACOLATA TEMPESTA

possa divenire fonte di repressione culturale e linguistica, portando all’ostentazione


della correttezza verbale e non verbale che si trasforma in occultamento di quella
che è la realtà. Culpeper (2011) considera questi due comportamenti, quello uni-
formante, centripeto, e quello libero, centrifugo, non assoluti, ma dipendenti da di-
versi fattori, tutti molto importanti, come il contesto, i rapporti che intercorrono tra
gli interlocutori, l’impostazione caratteriale e la concezione normativa degli stessi
interlocutori. La concezione normativa, come quella delle immagini sociali, è molto
legata alla cultura di ogni individuo.
In questo senso potremmo dire che l’insulto, assumendo significati diversi e
svolgendo varie funzioni, è un teste significativo della variabilità del lessico, verbale e
non verbale, dell’improperio, nei diversi contesti e in diverse relazioni di ruolo.
Mi piace concludere richiamando la sfida con cui Goffman riassume lo spirito
cooperativo, la buona riuscita di un’interazione, che vanno oltre l’interazione, oltre
le massime, oltre le regole della cortesia, puntando alla conoscenza comunicativa
dell’altro.

Conoscere bene una persona significa, non tanto impegnarsi a farsi strada verso il suo
vero io, ma, conoscendo i suoi modi comunicativi, identificare quali maschere e quali
strategie egli adotterà a seconda delle circostanze.

Come dire che l’insulto può far parte di diverse maschere, è importante che
l’interlocutore capisca quale l’emittente indosserà in una determinata situazione.

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