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IL DRAGO, LE DUE BESTIE

E L'IDOLATRIA DELLA BESTIA MARINA (Ap 12-13)

Spentasi la liturgia della settima tromba, Giovanni introduce sulla scena il Drago (Ap 12) e le due
Bestie suoi complici (Ap 13) che insieme con lui daranno vita alla triade nemica di Dio, nemica
della donna vestita di sole e del suo figlio, il Messia (Ap 12). È contro quella triade anti-divina che
Giovanni e il popolo messianico hanno ricevuto il mandato di profetizzare e testimoniare. Fra
l’altro, le due Bestie vengono l'una dal mare (13,1) e l’altra dalla terra (13,11). L'immagine della
donna avvolta di sole è conosciuta perché frequentissima nelle rappresentazioni della vergine
Maria, madre di Gesù.

Ap 12,1-2: La Donna, o primo segno, è circondata dell’alone di luce del sole (la creatura più bella
di Dio), e cammina sulla luna e quindi attraversa vittoriosa la bufera della storia, perché la luna per
gli antichi era l’astro che misurava i mesi e il tempo (cfr Sir 43,7-8). La corona di dodici stelle
mette la Donna in relazione con le dodici tribù per l’antico Testamento e con i dodici apostoli per il
Nuovo. La sua identità ha dunque a che fare con il popolo di Dio e con la sua storia, sia pre-
messianica che messianica. Dopo questi attributi di luce e di vittoria, alla Donna è dato poi
l’attributo della madre incinta, entrata già nell’affanno del parto. È un attributo di dolore fecondo e
insieme, come dirà il seguito, di dura battaglia.

Ap 12,3-4: A minacciare il frutto del parto appare allora il Drago, o secondo segno. Tutto parla
della sua pericolosità: il colore del fuoco, l’enorme statura, le sette teste e quindi la grande vitalità, i
dieci corni e quindi la grande potenza offensiva, i sette diademi e quindi lo smisurato potere politico
(il diadema era l’insegna di un re o imperatore, molti diademi lo sono di molti regni). L’ostilità è
connaturale al Drago perché, prima ancora che contro la Donna e contro il figlio di lei, il Drago si
scaglia contro le stelle del firmamento, meraviglie del creato.

Ap 12,4b-6: Del figlio che la Donna poi partorisce si parla con le parole del salmo (secondo la
versione greca: «Tu governerai le genti con scettro ferreo», Sal 2,9), ed è dunque evidente che lo si
vuole presentare come il Messia. Dopo le presentazioni dei tre antagonisti, viene lo scontro. Il
Drago si era posto di fronte alla madre per divorare il bambino, ma non gli è dato il tempo di agire
perché il neonato è messo in salvo con tutta tempestività presso il trono Dio. Per il Drago è l’inizio
della fine. Anche se è appena venuto sulla scena e anche se vi resterà fino ad Ap 20, il suo destino
di perdente è subito manifesto e deciso, perché la vittoria non può non essere che di Dio e del suo
Messia. Del riparo che la madre cerca nel deserto tornerà a parlare più giustamente il v. 14. La fuga
verso il deserto, che spesso nei testi biblici è il rifugio dei perseguitati, qui non è necessaria perché
il Drago tenta di inseguire non la Donna ma il figlio di lei. Questa anticipazione narrativa, che
rischia di portare fuori strada il lettore, se non altro completa fin d’ora il quadro delle ostilità: la
lotta del Drago contro il Messia si prolungherà in quella contro la madre. A incoraggiamento del
lettore, la sconfitta del Drago è dunque detta e ribadita, fin dal primo atto della sua scellerata
carriera.

Ap 12,7-9: Il testo non lo dice ma, portato che è al sicuro presso Dio, il neonato viene inseguito dal
Drago. Là gli eserciti angelici capeggiati da Michele difendono il Messia in una battaglia di cui non
si dicono né le armi né lo svolgimento ma l’esito perché, nel suo misurarsi con gli eserciti divini, il
Drago risulta impotente. Proprio quando deve dire che dal cielo il Drago sconfitto fu precipitato
sulla terra, Giovanni si sofferma a elencare i suoi titoli, identificandolo con il serpente che ingannò i
progenitori («il serpente antico», Gn 3) e con l’accanito accusatore di Giobbe («il satana», Gb 1-2).

Ap 12,10-11: La menzione della terra come luogo verso il quale il Drago è gettato prepara il seguito
della vicenda, ma per il momento in cielo si eleva un inno di vittoria in cui Dio e proclamato
salvatore, potente, sovrano che regna e vince attraverso il suo Cristo. Il cantico rivela che, oltre ad
avere attentato al Messia, in cielo il Drago ha accusato giorno e notte anche i suoi discepoli. Non
per nulla «satana» in ebraico significa «accusatore». Ma anch’essi lo hanno vinto: non per propria
forza o potere, bensì per mezzo del sangue dell’Agnello e, dunque, partecipando alla vittoria
pasquale del Cristo. Si tratta dei martiri cristiani perché di loro è detto che hanno messo a
repentaglio la loro vita fino alla morte.

Ap 12,12: Il cantico si rivolge poi al cielo e ai suoi abitanti, invitandoli a festeggiare la vittoria
sull’avversario. Ma poi preannunzia alla terra e al mare tempi difficili: proprio contro di loro,
infatti, lo sconfitto cercherà la sua rivalsa. Il Drago è furente, perché la sconfitta gli brucia e perché
il tempo di cui dispone è breve. Quel «tempo breve» e esortazione, come al solito, più che
indicazione cronologica da calcolare sul calendario. Siate forti e resistete, Giovanni vuole dire,
perché il tempo della battaglia non è lungo, e il Signore, con la ricompensa, è vicino.

Ap 12,15-16: Precipitato sulla terra, sulla terra il Drago si dà a inseguire e perseguitare (per questi
due concetti in greco basta un solo verbo) la Donna, madre del Messia. Ma anche la Donna fu
messa in salvo. La salvazione della Donna è narrata con immagini insolite e però splendide: la
Donna può mettersi in salvo con l’ausilio delle due ali della grande aquila (immagine che in Es 19,4
e Dt 52,11 era riferita all’esodo antico) e con la complicità della terra che inghiotte la fiumana
vomitata dalla bocca del Drago.

Ap 12,17-18: Di fronte a questa ulteriore sconfitta il Drago non può che aumentare la sua rabbia e
dirigere contro qualche altro la sua rappresaglia. Questa volta egli si scaglierà contro gli altri figli
della Donna, e cioè contro il popolo di Dio («osservano i comandamenti»), i fratelli del Messia
(«hanno la testimonianza di Gesù»). Questa terza battaglia del Drago si prolungherà per molti
capitoli, coinvolgendo complici e moltiplicando ostilità. Ma anch’essa si concluderà con la
sconfitta, quella finale (Ap 20).

Ap 13,1-2a: Lanciato all’attacco, il Drago si ferma poi d”improvviso sulla spiaggia del mare, in
attesa di complici. Il primo complice sale dal mare: Giovanni vede comparire prima i dieci corni di
una bestia, cinti di dieci diademi, poi le sue sette teste, e poi il corpo con membra di leopardo, orso,
leone. Il nome di bestemmia scritto sulle teste, l’aspetto ibrido e quindi disgustoso e minaccioso, la
sproporzione tra dieci corni e sette teste... dicono al lettore di guardarsi da questa bestia, che è tanto
pericolosa quanto e potente.

Ap 13,2b-4: Di quella bestia il Drago fa il proprio luogotenente e plenipotenziario affidandole la


sua potenza e il suo regno, con tutti i suoi poteri. A questi titoli di forza e di grandezza Giovanni
aggiunge però poi una nota di vulnerabilità: una delle sette teste della Bestia era come colpita a
morte. L’annotazione ha due risvolti: da un lato il lettore impara che la Bestia non è affatto
irresistibile e, dall’altro, poiché la testa colpita si riebbe, la Bestia diventa oggetto di ammirazione.
Tutta la terra si mette al suo seguito, presta a essa l’adorazione che si dovrebbe a Dio e, ammirata, si
domanda: «Chi e come la bestia?». É la domanda che l’uomo biblico pronunzia invece a proposito
di Dio («Chi è come te, Signore?», Es 15,11; cfr. Sal 35,10; 71,19...).

Ap 13,5-8: Poi per 4 volte Giovanni ripete che alla Bestia «fu dato... ». Il potere di pronunziare
parole di bestemmia e quello di esercitare ampio influsso su popoli e nazioni vengono
presumibilmente dal Drago. Quello invece di agire nel tempo limitato di quarantadue mesi e quello
di vincere i santi (mettendoli a morte) vanno attribuiti forse alla permissione divina. Giovanni torna
poi a menzionare l’adorazione che la terra tributa alla Bestia, ma si affretta ad aggiungere che il
nome di quegli idolatri non figura nel libro della vita.
Ap 13,9-10: Dicendo che la Bestia farà guerra ai santi (e cioè ai credenti in Gesù) e li metterà a
morte, Giovanni lascia intravedere come la prospettiva del martirio fosse molto concreta. Finita la
presentazione della Bestia, Giovanni si fa ancora più esplicito, chiedendo ai credenti di essere pronti
sia al carcere che alla morte. Come ben si vede, l’Apocalisse si rivela sempre più un libro scritto nel
mezzo di una situazione in cui poteva essere a rischio la libertà personale e a volte anche la vita. Ed
è significativo che a questo punto Giovanni si rivolga direttamente al lettore con un «Qui...!» che
sembra un dito puntato sul rischio che si corre e sulla posta in gioco. Lo farà altre 3 volte, sempre a
riguardo della Bestia che si fa adorare, 2 volte chiedendo perspicacia nell’individuarne l'identità
(Ap 13,18 e 17,9) e 2 volte chiedendo perseveranza e adesione fedele al Cristo (Ap 15,10 e 14,12).

Ap 13,11: L’accoppiata di Drago e Bestia si arricchisce poi di un terzo complice: la Bestia che sale
dalla terra. La sua vitalità e la sua potenza fisica sono minori di quelle della Bestia «marina» o di
quelle del Drago, perché essa ha soltanto una testa e soltanto due corni. Ciò che però non può non
mettere in allarme è che in virtù di quei corni la Bestia «terrestre» si camuffa da agnello e si fa
rivale dell'Agnello. Per questo, subito si dice che, appena apre la bocca, la sua voce rivela la sua
vera identità di complice del Drago.

Ap 13,12: Nella regione da cui proviene, l’Asia Minore, che è la terraferma di fronte a Patmos, la
seconda Bestia esercita tutto il potere della prima come in forza di una delega, soprattutto
promuovendone il culto e l'adorazione. La Bestia adorata al posto di Dio è vulnerabile e
l’adorazione a essa prestata è empia, torna però a ribadire Giovanni. Per questo egli chiama poi
«falso Profeta» la Bestia dalla terra (Ap 16,13, 19,20), per quel suo propagandare e promuovere un
culto blasfemo.

Ap 13,13-15: Datosi alla causa della Bestia marina con un disinteresse servile e senza scrupoli, il
falso profeta fa prodigi per strabiliare gli abitanti della regione. Scopo di tutto è di far costruire una
statua della Bestia e di farla adorare. L’adorazione della Bestia, che per la terza volta Giovanni
insiste a definire vulnerabile, non e più lasciata agli entusiasmi spontanei della gente, ma è ora
pilotata ad arte e con abilità. L’idea della statua costruita alla Bestia assente per adorarla come
presente sembra essere tratta dal libro della Sapienza dove è detto: «Le statue si adoravano anche
per ordine dei sovrani: i sudditi, non potendo onorarli di persona, riprodotte con arte le sembianze,
fecero un’immagine visibile del re venerato, per adulare con zelo l’assente, quasi fosse presente»
(Sap 14,17). Come il libro della Sapienza, l’Apocalisse fa riferimento ai templi e alle statue erette
per il culto dell’imperatore, culto particolarmente fervoroso nella provincia romana d’Asia dai
tempi di Alessandro Magno.

Ap 13,16-17: Se fin qui il falso profeta aveva agito da ministro del culto e della propaganda, ora si
fa anche ministro dell’economia, ma sempre al servizio del culto della Bestia marina. Si mette
infatti controllare i mercati e il commercio, escludendone chi non accetta il marchio della Bestia
sulla mano (i soldati romani avevano sulle mani le iniziali dell’imperatore) o sulla fronte (gli
schiavi vi portavano il marchio del padrone). Come si vede, i vantaggi della tessera di partito erano
conosciuti anche nell'antichità. Giovanni dice anche che cosa compariva sul marchio: il nome della
Bestia, scritto non in lettere ma in numeri. Giovanni dirà qual è quel numero così che, attraverso il
calcolo che bisogna saper fare, si risalga al nome del pericolo per eccellenza.

Ap 13,18: Giovanni sospende di nuovo la narrazione per rivolgere al lettore il suo secondo «Qui..».
Questa volta chiede acume e perspicacia per ricavare il nome della Bestia dal suo numero. Le lettere
degli alfabeti ebraico, greco e latino avevano anche valore numerico e sostituivano i numeri. Fatta
l’identificazione, sarà ovviamente più facile mettersi in guardia, tenere le distanze e ribadire la
propria fedeltà a Dio e al Cristo. L’aggiunta «che è numero da uomo» contiene un’importante
precisazione: la Bestia che si fa adorare è un uomo, probabilmente l’imperatore romano, come si è
visto. Il calcolo del numero «666» è stato fatto infinite volte, ad esempio nei secoli delle lotte
confessionali tra cattolici e protestanti e poi, spesso, per demonizzare i propri avversari o il tiranno
di turno. Al tempo di Ireneo di Lione (180 circa) erano diffuse tre identificazioni, delle quali la più
comprensibile per noi è lateinos, in alfabeto greco, e cioè «(impero romano)-latino››, mentre a
partire dagli anni Trenta dell’Ottocento si è andata sempre più imponendo l’interpretazione Neron
Qesar, in alfabeto ebraico, «Nerone imperatore». Le due interpretazioni vanno nella stessa
direzione, sia perché sono antiromane, sia perché collocano la Bestia nella storia contemporanea
alla composizione dell’Apocalisse.
Bisogna però dire che non si giungerà mai alla soluzione dell’enigma del «666». Anzitutto perché
non sappiamo in quale alfabeto il calcolo sia da fare. In secondo luogo perché non sappiamo di
quante lettere sia formato il nome. In terzo luogo perché le lettere dell’alfabeto greco ad esempio,
che venivano usate con valore numerico, erano ventisette: se dunque per ipotesi il nome fosse di
otto lettere come il lateinos di Ireneo, le incognite di base sarebbero otto e ognuna sarebbe da
elevare alla ventisettesima potenza. Stando così le cose, ignoramus et ignorabimus: ignoriamo ora e
ignoreremo per sempre. Il misterioso numero della Bestia ha comunque qualcosa da dire se lo si
colloca nel sistema dei numeri dell’Apocalisse. Il «666» (nella grafia greca formato dalla
successione di 600, 60 e 6) è per molti versi un multiplo del «6››, metà del «12››. Ora
nell’Apocalisse i numeri dimezzati hanno il valore di numeri fallimentari. Così, in Ap 13,5 si diceva
che la Bestia agisce in base al «5 e mezzo» e ai suoi equivalenti, e cioè secondo la metà del «7››,
che e invece il numero dell’agire del Cristo (sette messaggi alle sette Chiese, apertura dei sette
sigilli del rotolo) e dell’agire di Dio (squillo di sette trombe e versamento di sette coppe). Qui è il
«12» a essere numero dimezzato, così che anche nel nome («6», metà del 12) come già nell’agire
(«3 e mezzo», metà del 7) la Bestia è costantemente contraddistinta da misure fallimentari. Il lettore
apra gli occhi, dice Giovanni, e si schieri dalla parte giusta, dalla parte del «7» di Dio e
dell’Agnello, e dalla parte del «12» del popolo di Dio.

Sintesi. Lo splendore di Ap 12 universalmente conosciuto è quello della Donna avvolta di sole,


dominatrice della luna e incoronata di stelle. Sono splendenti poi tutte le numerose vittorie sul
Drago: la vittoria in cielo dove il Figlio è rapito e messo in salvo presso il trono, la vittoria dei
martiri che hanno vinto il Drago per mezzo del sangue dell’agnello, e la vittoria delle ali di aquila e
della fiumana ingoiata dalla terra a difesa della Madre messianica. Tutte dicono che le forze del
male «non prevarranno». Ed è luminosa anche la resistenza che opporranno al Drago i restanti figli
della Donna. I sostenuti dai comandamenti di Dio e dalla testimonianza di Gesù. Queste luci non si
spengono neanche in Ap 13, tutto dominato dalle due bestie del mare e della terra, perché Giovanni
dà la qualifica di «santi» a coloro che la bestia insidia, affinché tutti possiamo essere illuminati e
aiutati dalle sue esortazioni alla saggezza e alla perseveranza.

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