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Sinfobie

Larry Stylinson

Le note riempivano quella piccola stanza in cui a malapena ci si poteva


muovere, piena zeppa di scaffali e scatoloni sparsi in modo disordinato. Il
giovane Hemmings, che di scuola ne voleva davvero poco, aveva deciso quel
giorno di andare nel suo negozio di musica preferita a cercare l’ultimo cd di
quella band australiana che si ostinava ad ascoltare in modo ossessivo. Vecchi
vinili, cassette e cd: in quel piccolo negozio si poteva trovare di tutto e
sicuramente il ragazzo biondo ne era consapevole, dato che passava la maggior
parte del suo tempo fra quei cimeli di musica. Era entrato dalla porta decorata
con un bellissimo poster di Janis Joplin e subito l’odore di chiuso l’aveva
invaso, ma fortunatamente ci era abbastanza abituato, così corse
immediatamente alla ricerca del proprietario di quel piccolo negozio.
Non appena si avvicinò alla porta che conduceva al retrobottega, poté sentire
ancora più forte delle note di pianoforte che si incastravano fra di loro in
perfetta sintonia. Un po’ titubante, il biondino di nome Luke aprì la porta,
cercando di non interrompere quella meravigliosa melodia che lo stava attirando
e travolgendo come il mare in tempesta.
Luke non si era mai sentito così. Non aveva mai provato quella stretta al cuore
che aveva in quel momento per nessuna canzone a questo mondo, neanche una
di quella band australiana. Era come se dentro lui stesse crescendo una sorta di
malessere che in qualche modo era comunque piacevole. Una sofferenza che
aumentava sempre più ad ogni singola nota prodotta dal piano.
Seduto su uno sgabello, con gli occhi chiusi e i ciuffi rossi a coprigli il volto, il
pianista sembrava soffrire esattamente quanto Luke stesso, che per la troppa
emozione, si era anche dovuto sedere in una sedia qualsiasi là vicino, in mezzo
agli scatoli che contenevano la merce nuova.
Le lunghe dita del proprietario della bottega, notò il giovane, si muovevano abili
ma delicate sul bianco e sul nero di quel piano come una farfalla si posa sul più
bello dei fiori, danzando e vagando prima di trovare quello giusto, per poi
andarsene di nuovo verso un altro. Ed era così quella musica: composta da tanti
fiori meravigliosi che componevano un campo primaverile che non lasciava
indifferente proprio nessuno, neanche Luke, che nell’ipod a casa aveva solo
musica spacca timpani.
E mentre il cuore di quest’ultimo si stringeva in una morsa dolorosa di cui non
poteva più fare a meno, la melodia iniziò a scemare, diventando sempre più
lenta e leggera.
“Luke, hai saltato di nuovo la scuola?” chiese il pianista, concludendo con le
ultime battute e finendo la sua esecuzione. Il biondino, ancora un po’ scosso, ci
mise un bel po’ di secondi prima di ritornare sulla terra. Si strinse le mani, come
per cercare conforto e con la voce un po’ tremante disse “Era bellissima quella
cosa che hai suonato Ed.”
L’uomo, di circa ventidue anni, che si chiamava Ed Sheeran e aveva i capelli
rossi come una carota, gli sorrise amorevolmente, prima di alzarsi le maniche
mostrando i suoi innumerevoli tatuaggi,e prendere in mano uno degli scatoloni.
“Tua madre mi ammazza se sa che sei di nuovo nella mia bottega a quest’ora.”
Luke non si curò affatto delle sue parole, avvicinandosi al pianoforte che lo
aveva incantato. Sfiorò i tasti, premendone anche qualcuno di essi a caso.
“Come si chiamava quella melodia?” chiese, immaginando di poterla suonare
lui stesso.
Il proprietario della bottega lo guardò curioso, affascinato dall’interesse
mostrato dal ragazzino. Sapeva bene che Luke non aveva per niente quei gusti
musicali e vederlo così preso dalla musica classica non poté che intenerirlo.
“Non ha nome quella composizione.” rispose, sistemando gli scatoloni in ordine
di arrivo. Luke non si girò neanche, ma si sedette sullo sgabello del piano,
continuando a premere tasti a caso. “Chi l’ha scritta?” chiese ancora.
“Un certo Louis di cui non conosco il cognome.”
“E’ un tuo amico?”
Ed rise, lasciando perdere il suo lavoro e avvicinandosi al ragazzo. Bloccò le
sue mani, anche perché oltre a fare un rumore assurdo, non riusciva a sentirlo
bene.
“E’ vissuto in Russia circa un secolo fa.”
Luke lo guardò stranito, prima di liberarsi dalla sua presa. “Oh.” esclamò,
cercando di ricordare quella lezione di storia sulla Russia, forse una delle poche
a cui era stato attento.
“Ma non c’era la rivoluzione in quel periodo?” chiese titubante, cercando di
ricordarsi le date precise che la sua prof gli aveva detto tante volte di studiare.
“Esatto. Vedi che la scuola ti fa bene Hemmings?” rise ancora Ed, che era
persino più basso di lui ma aveva un cuore grande quanto tutta l’Inghilterra.
Il piccolo Luke però non rideva, era troppo impegnato a far funzionare le
rotelline del suo cervello e a sistemare in ordine cronologico tutti gli eventi della
prima guerra mondiale. “Come hai fatto ad avere lo spartito allora?”
“Quella musica è una storia d’amore troppo bella per non essere tramandata.”
rispose il rosso, facendosi leggermente pensieroso. Si grattò la testa e incerto
guardò il giovane che era ormai diventato come un fratello per lui. “Beh, visto
che ormai la scuola l’hai saltata, ti va di ascoltare questa storia?”
Luke non se lo fece ripetere due volte e annuì con forza mentre il più anziano si
sedeva accanto a lui.
“Vedi Luke, questa storia parte da molto lontano. Però devi sapere una cosa. La
melodia che hai sentito non è stata scritta a caso, né per scopi economici. Louis
scrisse quello spartito per una e una sola persona a questo mondo: il suo amato
Harry.”

Giugno 1916, San Pietroburgo.

Anastasija Nikolaevna Romanova aveva sempre avuto il vizio di arrampicarsi


sugli alberi dell’enorme giardino del Palazzo d’Inverno, anche con gli abiti
troppo ingombranti che le ostacolavano e non poco la salita. Le piaceva starsene
seduta sul ramo più alto, quello che le permetteva di avvicinarsi sempre più al
cielo che sovrastava San Pietroburgo e la proteggeva dal mondo esterno. Ma ad
Anastasija non piaceva quel compromesso tra cielo e Russia, voleva strappare
via quel velo azzurro e fuggire, volare verso le terre occidentali che sembravano
così lontane. Suo padre le raccontava di posti meravigliosi e le diceva anche che
quei luoghi un giorno sarebbero entrati a far parte dell’impero russo e che
avrebbe potuto visitarli quando voleva. Così la piccola quattordicenne si alzava
in piedi sul ramo e urlava il suo nome per ricordare a tutta la popolazione del
continente che lei era là e che sarebbe diventata la zarina di tutto il mondo,
nessun paese escluso.
Anastasija era brava a sognare, ma non era brava ad obbedire a suo padre. E dire
che suo padre era Nikolaj Aleksandrovic Romanov II, zar di tutte le Russie, tutti
gli obbedivano, tranne la piccola dai capelli lunghi e ramati e gli occhi
azzurrissimi.
Perché se la granduchessa avesse davvero ascoltato suo padre e non si fosse
arrampicata, non avrebbe di certo passato due giorni interi a letto con le
ginocchia piene di graffi e tagli e il piede fasciato.
“Anya, perché fai così? Ti avevo detto di non arrampicarti.” aveva sussurrato
piano lo zar stringendo la mano di sua figlia tra le sue. Era una delle rare volte
in cui il cuore di ghiaccio di Nikolaj si scioglieva e da imperatore si trasformava
in un semplice padre che amava la sua adorabile e numerosa prole in maniera
spropositata.
Anastasija voleva un bene immenso a quell’uomo che la teneva abbracciata
come se fosse la cosa più fragile del mondo, ma di certo non gli avrebbe mai e
poi mai detto che tutto ciò che faceva, tutte le monellerie che combinavano
erano per attirare l’attenzione di sua madre troppo occupata nel prendersi cura
del figlio minore, lo zarevic Aleksej. Così in tutta tranquillità rispondeva: “Mi
annoiavo.”, scrollava le spalle e poi mascherava il suo volto con un sorriso,
quello più bello, per accattivarsi le grazie del padre.
E lo zar ci cascava sempre, perché lui non cedeva agli attacchi sulle frontiere,
alle guerre, al malcontento e alle rivolte del popolo, ma cedeva al sorriso di sua
figlia.
Vedendola in quelle condizioni, con le bende e tutto il resto, gli si scioglieva il
cuore fatto di ghiaccio, come quello dei paesaggi tipici russi.
Nikolaj II non aveva mai viziato le figlie, perché il suo compito era quello di
farle crescere forti ma sempre umili e sobrie. Non avevano stanze lussuose o
chissà quali comodità, anzi tutt’altro: la piccola Anya condivideva la stanza con
la sorella Marija, di quattordici anni, e un bagno freddo alla mattina, uno caldo
alla sera, una brandina senza cuscino era tutto ciò che avevano. Ma quel giorno
lo zar fece una piccola eccezione, così accarezzandole il capo con la mano
chiese semplicemente “Vuoi che faccia qualcosa per te? Fra poco è anche il tuo
compleanno.”
Non era arrabbiato, non riusciva ad esserlo. Sapeva che Anastasija era la švibzik
della famiglia, la monella. Tutti i suoi figli erano diversi tra loro: Ol'ga, la figlia
maggiore ormai ventunenne, era conosciuta per la sua onestà, ma anche per la
sua schiettezza, di certo non mandava a dire le cose.
Tat'jana, di diciannove anni, era chiamata dalle sorelle “governante” perché le
piaceva occuparsi di tutti e tutto, sia della casa e delle faccende domestiche sia
dei suoi famigliari.
Marija invece era considerata l’angelo della famiglia, di una tranquillità e di una
disciplina fuori dalla norma, invidiata da tutti per la sua gentilezza infinita.
Il piccolo Aleksej, dodici anni era l’orgoglio di tutta la Russia, il successore di
Nikolaij al trono. Tutti si preoccupavano per lui, forse perché era l’unico
maschio, forse perché era seriamente malato.
Poi c’era Anya, quattordici anni e una mente a colori: qualsiasi cosa poteva
vivere nella sua fervida fantasia, nella sua testa. Non si fermava davanti a nulla,
era una bambina piena di vita, di gioia e allo stesso tempo molto furba e
intelligente, nonostante la sua giovane età. Era il pagliaccio di casa, un ragazzo
mancato, si era detto, che amava bombardare i soldati del palazzo con pallottole
di carta. Non si poteva non amare quella bambina, come non si poteva odiare
nessuno di quella famiglia, così dedicata al popolo come nessun altro.
Sul letto della sua cameretta, corrucciando la fronte pensierosa e con la mano
sotto al mento per riflettere meglio, “Un pianista! Voglio imparare a suonare il
piano.” fu il desiderio espresso da Anastasija, giungendo le mani fra di loro e
sorridendo apertamente.
Lo zar la guardò un po’ stranito, chiedendosi cosa frullasse nella testa della
giovane granduchessa. “Anya, ma hai già le lezioni di violino e di danza, e in
più tutte le altre discipline. Altri impegni ti stancheranno.” disse diplomatico,
come in tutto ciò che faceva.
Anastasija scrollò le spalle e abbracciò il padre più forte che poteva, un po’ per
accattivarselo, un po’ perché erano giorni interi che non lo faceva. “Ti prego!”
sussurrò al suo orecchio, piegando le labbra in una sorta di broncio di preghiera.
E no, lo zar vinceva tutte le guerre, ma non quella con sua figlia, la piccola
Anastasija che otteneva sempre ciò che desiderava.

“Perché mi stai raccontando della famiglia Romanov? Se sapevo me ne andavo


a scuola!” esclamò Luke, alzandosi dallo sgabello e sbuffando contrariato dalla
storia di Ed. Quest’ultimo si mise a ridere fragorosamente, riempiendo la stanza
con la sua risata cristallina che sostituiva gli ultimi residui di note della melodia.
Luke poteva ancora benissimo sentirla, o era forse il suo cuore ad andare a
tempo con lei?
Il rosso lo prese per un braccio con forza, facendolo risedere sullo sgabello e
bloccando il tuo tentativo di fuga. “Luke dai, tanto non puoi andare a casa
adesso, tua madre ti metterebbe in punizione a vita. E poi questo è solo l’inizio
della storia.” pronunciò, scombinando i capelli biondi del ragazzo di fronte a sé.
Il giovane Hemmings mise il broncio, ma poi sussurrò un lieve “Va bene.” e
fece cenno al suo amico di continuare con la storia.

Alle dodici spaccate del giorno dopo, un ragazzo con un colbacco in testa e
avvolto in un cappotto pesante, uno di quelli tipici con il colletto di pelliccia
folta, fece il suo ingresso al Palazzo d’Inverno, guardandosi intorno e
poggiando per terra la valigia contenente tutto ciò che aveva.
Una serva lo salutò allegra, andandogli incontro e prendendo il suo bagaglio,
prima di accompagnarlo a fare un giro per l‘edificio. Il ragazzo si strinse nel suo
cappotto, mentre i suoi occhi vagavano in ogni minimo dettaglio di quel palazzo
stupendo. Era vero che Nikolaij aveva abituato le figlie ad essere umili, eppure
quell’edificio sembrava tutto il contrario. Decorazioni in oro, pavimenti con
mosaici, elementi sia del Barocco che del Neoclassicismo, cose che il ragazzo
non aveva mai avuto l’onore di vedere. Ma il destino aveva deciso di
scommettere su di lui, così si ritrovò a camminare al palazzo dello zar senza
neanche rendersene conto.
La serva si fermò davanti ad una porta bianca in marmo , bussando piano.
“Avanti.” pronunciò una voce femminile e ovattata, dando la possibilità alla
serva di aprire la porta e mostrare a Louis la camera più bella che avesse mai
visto. Al centro si situavano due divanetti in tessuto rosso e con decorazioni in
oro. La stanza era illuminata da due grandi vetrate che mostravano i grandi
giardini del palazzo. Ai muri, vi erano appesi diversi quadri di autori
occidentali, o almeno così parvero al ragazzo che se ne intendeva molto poco di
arte europea.
Il giovane non aveva mai visto la zarina in persona. Era l’imperatrice di tutte le
Russie eppure non aveva mai avuto l’occasione di vederla, perché a differenza
del marito Nikolaij, non usciva molto in pubblico. La prima cosa che constatò fu
che le leggende sulla sua bellezza erano veritiere: Aleksandra Fëdorovna
Romanova aveva la pelle chiara ed era bionda come il grano. I suoi lineamenti
erano delicati e in qualche modo anche eleganti, le dita delle sue mani affusolate
e bianchissime. Indossava un vestito azzurro molto largo, con merli bianchi e
blu, che facevano risaltare i suoi occhi azzurrissimi, come il mare.
“Questo è il nuovo insegnante di pianoforte.” pronunciò la serva, prima di
dileguarsi in un batter d’occhio con un inchino.
Il ragazzo non si chiese perché la serva sapesse già chi fosse lui, probabilmente
perché lo aspettavano tutti a corte. Si ritrovò solo in quella stanza, di fronte alla
donna più potente del mondo. Si tolse il colbacco e si chinò pronunciando un
“Zdràstvujt'i, vostra Maestà.” farfugliato e imbarazzato.
La zarina non disse nulla dopo aver udito quel “Salve.”, ma continuò a
sorseggiare qualche cosa dalla sua tazza, in completa tranquillità. Il giovane
poté ancora notare che aveva delle labbra molto sottili, tipicamente tedesche. E
proprio come qualsiasi altro tedesco che avesse mai incontrato, la zarina
trasmetteva solamente una grande freddezza e un grande distacco che di certo
non lo turbò, perché in fondo anche lui era fatto così.
“Tu devi essere Louis.” disse Aleksandra, spostando una ciocca di capelli che
cadeva dall’acconciatura semplice che portava, bloccata da una corona di
diamanti simbolo della sua sovranità.
Il ragazzo annuì con forza, chinandosi di nuovo al suo cospetto. “Al suo
servizio.”
“Parlano ovunque della tua musica. Spero solo che non deluderai la mia piccola
Anastasija.”
Louis deglutì e scosse la testa, sperando di convincere sé stesso che poteva
farcela, poteva essere il migliore dei pianisti in tutta la Russia. E quella era
un’occasione d’oro, in tutti i sensi, e non poteva di certo rifiutarla.
“Lo spero anche io.” aggiunse il ragazzo, prima di essere trascinato via da un
servo che non aveva neanche sentito entrare. Lanciò un ultimo sguardo verso
quella camera e forse si sbagliava, ma vide le nocche della mano della zarina
farsi bianche, talmente la forza che stava imprimendo nel manico della tazzina.
Louis scosse la testa, niente e nessuno poteva turbare l’anima forte di
Aleksandra, o almeno così affermava tutto il popolo russo. Eppure, in quella
mano bianca come la neve, qualche cosa la vide.
Gli fu data una piccola stanza modesta, con un letto a baldacchino dalle
lenzuola bianche e con una piccola scrivania su cui Louis già si immaginava a
scrivere tante lettere alla sua famiglia. Veniva da Mosca, ma per il suo lavoro
era stato costretto a viaggiare in giro per la Russia, cavandosela con concerti
privati e lezioni date a figli dei nobili. Mise il suo vestito più bello, per
conoscere la granduchessa sua futura allieva.
“Ma aspetta Ed, ma in quel periodo non c’era la prima guerra mondiale?“ chiese
Luke, iniziando seriamente a perdersi nelle parole del rosso, affascinato dalla
cultura russa e da tutto ciò che gli stava raccontando. Aveva voglia di sapere di
più sulla storia di Louis, sul suo passato e dannazione, aveva seriamente voglia
di conoscere anche il famoso Harry.
“Esatto e Nikolaij II c‘era dentro fino al collo.” spiegò Ed, alzandosi per
prendere qualcosa da mangiare per il suo amico. Non aveva un granché al
negozio, così si limitò a porgergli un piccolo vassoio con tante caramelline.
Luke non rifiutò e mentre scartava una caramella all’arancia chiese: “Fra l’altro
la Russia non aveva già avuto problemi di rivolte?”
Ed lo guardò stranito, sorprendendosi di vedere il biondino così informato. Il
giovane Hemmings mostrò un sorriso soddisfatto da “Sarò bravo
all’interrogazione di storia”, mentre Ed prendeva una caramella anche per sé.
“Sì, nel 1905.” spiegò. “Ma in un modo o nell’altro Nikolaij II era riuscito a
reprimere la rivolta e malgrado i forti turbamenti, riuscì a portare l’impero
zarista allo splendore di un tempo, seppur con qualche compromesso.”
“Un uomo forte, questo Nikolaij.” affermò il più piccolo, girando la caramella
nella sua bocca per farla sciogliere.
“Abbastanza. Ma forse sua figlia Anastasija lo era ancor di più.”

Anastasija Nikolaevna Romanova odiava avere gli occhi azzurri. E se c’era una
ragione, era perché aveva gli stessi occhi di Aleksandra.
Anya le voleva bene, sì, ma da quando era nato il suo fratellino Aleksej aveva
iniziato a nutrire nei confronti di sua madre una sorta di odio, o almeno così lo
chiamava lei dentro sé, ma in realtà sapeva benissimo che era solo pura gelosia.
Avrebbe voluto averla tutta per sé, a sua disposizione, ma questo non era mai
successo e Anya soffriva molto per ciò. Eppure tutto ciò che si dipingeva sul
suo volto era sempre un sorriso, che fosse falso o fosse finto, Anastasija
sorrideva sempre.
O quasi.
Perché quando vide per la prima volta Louis, il pianista che suo padre stesso
aveva chiamato solo per lei, la granduchessa non sorrise affatto.
Anche Louis aveva gli occhi azzurri e Anya non ce la faceva più a sopportare
tutto quell’azzurro intorno a lei, tutto quel gelo.
Il giovane pianista era appena entrato nella stanza e di certo vedere il volto
quasi in lacrime di Anastasija non era nei suoi piani: non sapeva cosa le stava
succedendo e soprattutto non aveva la minima idea di cosa fare; così si limitò ad
inchinarsi e a dire “Sono il suo pianista, granduchessa Anastasija.”
Ma la bambina non aveva alcuna intenzione di rivolgergli la parola. Seduta su
uno dei due sgabelli davanti al pianoforte, tutta la voglia di imparare quello
strumento scomparve in un attimo, facendo spazio ad un forte risentimento nei
confronti di quello sconosciuto dagli occhi azzurri.
“Iniziamo la lezione?” provò ancora Louis, avvicinandosi al pianoforte. Suonò
qualche tasto per vedere in che condizioni fosse lo strumento e trovandosi
soddisfatto si sedette sullo sgabello libero con un sorriso stampato in volto,
cercando in qualche modo di apparire simpatico, con scarsi risultati. “Allora,
che cosa sai tu del pianoforte?”
“Niente.” rispose la piccola Anya, incrociando le braccia e mettendo il broncio,
come quando aveva dieci anni e nessuna delle sue sorelle voleva giocare con lei.
Con Louis poi, aveva già deciso che non voleva averci più avere nulla a che
fare.
“Ti va di imparare la scala di base?” chiese ancora il pianista, cercando di
mostrare anche nel tono una gentilezza che di solito non gli apparteneva. Ma la
bambina non rispose, tenendo le braccia strette al petto così forte che Louis capì
che quello sarebbe stato un lungo, lunghissimo inverno al Palazzo.

***

“Papà, non voglio più fare pianoforte!” disse Anastasija, cercando di sfoderare
le sue faccine dolci in modo tale da convincerlo. Ma lo zar in quel momento
aveva altro per la testa, e purtroppo per la piccola granduchessa, non poteva
perdere tempo in quelle sciocchezze. “Anya, ne abbiamo già parlato. Louis resta
e tu continui con le lezioni. Un Romanov non rinuncia mai ai suoi impegni, né
abbandona qualcosa.” rispose il vecchio, spingendo sua figlia lontano dalla sua
scrivania.
“Adesso va, che ho cose molto importanti da fare.”
La piccola fu costretta ad andar via e inutile dire che piangere non servì a nulla.
Mentre usciva dalla stanza del padre, incrociò lo sguardo austero di Aleksandra.
Subito Anya placò le sue lacrime, non poteva farsi vedere debole da lei.
Tuttavia, la zarina non ci fece neppure caso mentre entrava nella stanza del
marito.
“Nikolaij, hai nuove notizie?” chiese leggermente in ansia, chiudendosi la porta
alle spalle, lasciando la piccola granduchessa fuori a crogiolarsi nel dolore
perché stava per iniziare una nuova lezione di pianoforte.
“Francia e Inghilterra continuano con le guerre sottomarine.” pronunciò serio il
diretto interessato, appoggiando il mento nelle mani giunte. “La situazione è
troppo grave per lasciar correre e lasciar fare tutto al resto dell’Europa.”
“Sono preoccupata per i nostri figli.” aggiunse la donna dagli occhi azzurri,
mordendosi un labbro in apprensione. Probabilmente nessuno al di fuori del
marito l’aveva mai vista in quelle condizioni. Tutti sapevano che era una donna
austera e distaccata, molti pensavano persino che non avesse un cuore.
Ma quando era con suo marito, Aleksandra era sé stessa e si lasciava andare
nelle sue emozioni.
“Ci ho già pensato, tranquilla.” rispose lo zar, aggiungendo quell’aggettivo per
consolare sé stesso più che sua moglie. “Avranno delle guardie del corpo
personali, scelte da me tra i soldati migliori. Saranno al sicuro.”
“Per ora.” aggiunse la zarina, con quegli occhi quasi in lacrime che brillavano
sotto la luce della candela.

“Certo che Anastasija era una vera rompicog-”


“Luke.” rise Ed, interrompendo una qualsiasi forma di insulto nei confronti
della granduchessa russa.
“No sul serio, era un sacco complessata per essere una ragazzina!” continuò il
biondino, mangiucchiando la quinta caramella di fila e gettando la carta per
terra. Il rosso lo guardò male, un po’ per ciò che aveva detto, un po’ per
l’involucro della caramella scartata finito sul pavimento. Lo raccolse
contrariato, mentre il più piccolo non si faceva problemi a prendere anche la
sesta delizia.
“Aveva un sacco di pressione su di sé, anche se era solamente una
quattordicenne era pur sempre una Romanov.”
“Sarà.” commentò Luke, mentre nella sua mente tornava a delinearsi la bellezza
del Palazzo d’Inverno e dei suoi abitanti.

Ottobre 1916, San Pietroburgo.


Anastasija odiava le guerre, con tutto il cuore. Non voleva che il suo paese
perdesse ancora anime come già era successo quando era piccola. Aveva una
nobiltà d‘animo che pochi possedevano, anche se cercava in tutti i modi di
celarlo.
Quando suo padre le disse che gli avrebbe affiancato una guardia del corpo, la
piccola Anya simulò una risata, alquanto isterica tuttavia, e gli rispose: “Io so
difendermi da sola!”, non credendo per nulla alle sue stesse parole.
Alle dodici spaccate del giorno dopo, un ragazzo con un colbacco in testa e
avvolto in un cappotto pesante, uno di quelli tipici con il colletto di pelliccia
folta, fece il suo ingresso al Palazzo d’Inverno, guardandosi intorno e
poggiando per terra la valigia contenente tutto ciò che aveva.
Una serva - la solita serva che sapeva sempre tutto su tutti- lo salutò allegra,
andandogli incontro e prendendo il suo bagaglio, prima di accompagnarlo nella
stanza della granduchessa.
“Granduchessa, questo è la sua nuova guardia del corpo, Harry.”
Anastasija era intenta a guardare il pianoforte come un mostro, mentre Louis le
spiegava per l’ennesima volta le scale di base. La voce della serva interruppe la
loro lezione, facendoli voltare verso l’ospite appena presentato.

“E fu lì che accadde?” chiese Luke.


“E fu lì che accadde.” gli fece eco Ed.

Gli occhi azzurri di Louis si incastrarono perfettamente in quelli verdi del


giovane arrivato, dai capelli ricci e le labbra carnose che di così belle non ne
aveva mai viste. Il pianista distolse lo sguardo arrossendo visibilmente davanti
la bellezza di quel soldato.
La granduchessa sorrise e andò incontro ad Harry, abbracciandolo di slancio
come se fosse un suo vecchio amico. Era rimasta chiaramente affascinata da
quel ragazzo, esattamente come Louis.
“Tu devi essere Anya.” disse Harry, ricambiando l’abbraccio e prendendosi la
libertà di chiamarla con il nomignolo dei suoi parenti. Louis avrebbe dovuto
infastidirsi, come si permetteva a chiamare la granduchessa di tutte le Russie in
quel modo? Ma non ci riuscì, perché la voce strascicata del soldato continuava a
risuonargli nelle orecchie facendolo sciogliere, impedendogli di arrabbiarsi.
“E tu devi essere il mio angelo custode!” esclamò la bambina, battendo le mani
in segno di felicità. “Sono così felice che tu sia qui!” aggiunse, prima di volare
via dalla stanza con un “Vado a prepararti la camera!” urlato e rimasto a
mezz’aria.
Louis non si era mosso di un centimetro.Stava fissando i tasti del suo pianoforte,
contandoli uno per uno, pur di distrarsi da quegli occhi verdi come i campi
dell’Inghilterra che non aveva mai visitato, ma che poteva solo immaginare
attraverso i libri. Sentì gli stivali chiodati di Harry scricchiolare, mentre si
avvicinava sempre più allo strumento, lentamente, torturando la salute mentale
del povero pianista.
Lo sentiva dietro di sé, alle sue spalle, ma non aveva alcun coraggio di voltarsi.
Con la coda dell'occhio lo vide allungare un braccio, proprio verso i tasti del
pianoforte, alla sua sinistra. Premette qualche tasto bianco, poi qualcuno nero, a
caso. E poi Louis, ancora fermo e immobile come una fotografia, sentì per la
prima volta la sua risata. Bella, cristallina, mozzafiato. No, Louis non respirava
affatto mentre quel suono celestiale lo invadeva senza permesso, entrava nei
polmoni al posto dell’aria, lo uccideva quasi.
“Che grande invenzione il pianoforte!” esclamò Harry, allontanandosi dallo
strumento per poi sedersi in una poltroncina accanto. “Peccato che non ne
capisca nulla di musica.” aggiunse, con una smorfia di disappunto, grattandosi
la testa.
Louis si concesse allora di guardarlo di nuovo. Ammirò le sue dita affusolate
incastrate tra i ricci. Ammirò le ciglia lunghe, che incorniciavano perfettamente
quegli smeraldi che aveva al posto degli occhi. Si soffermò ad ammirare anche
le piccole fossette che decoravano il svolto, rendendolo quasi angelico. Ma no,
non si soffermò ad ammirare le sue labbra, perché era già troppo rosso in viso e
non voleva peggiorare la situazione. Harry rimase in silenzio, aspettando un
qualche commento che non arrivò. Aveva un sorrisetto sfacciato in volto e la
fronte corrugata in segno di curiosità.
“Ti hanno mangiato la lingua?” chiese, fissando il pianista insistentemente. Le
guance di Louis erano proprio in fiamme, ma cercò di non dare a vedere troppo
il suo imbarazzo scuotendo la testa e rispondendo con “Sono di poche parole.”
Scusa alquanto banale che fece assottigliare gli occhi di Harry e che lo fece
scoppiare a ridere.
“Ah beh, io tutto il contrario.” affermò compiaciuto. “Piacere, io sono Harry
comunque.” aggiunse, rialzandosi in piedi.
“Lo so.” mormorò Louis, tornando a fissare i tasti del pianoforte. Ma
nuovamente, il soldato si avvicinò con passo felino al suo sgabello, facendo
tendere il ragazzo dagli occhi azzurri come una corde di violino. Le sue dita
toccarono i tasti del piano, ancora, dal primo all’ultimo, costringendo anche
Louis a spostarsi di lato per permettergli di completare la scala.
“Lo so che lo sai.” mormorò Harry, con un sorriso beffardo in faccia. Louis
sussultò, sentendo la voce del ragazzo così calda e vicina, seducendo la sua
mente. “Ma te l’ho detto perché speravo di sapere il tuo, di nome.” sussurrò
ancora più piano, avvicinandosi all’orecchio di Louis.
Il pianista tremò appena, la vicinanza stava mandando in panne qualsiasi organo
vitale che aveva. Forse sarebbe morto, ma per una volta dovette ringraziare
Anastasija che irruppe nella stanza urlando di felicità.
“Harry! Andiamo ti porto nella tua camera!” Prese per un braccio la giovane
guardia portandola via e non curandosi minimamente di ciò che stava
succedendo davanti a quel pianoforte.
Ma Louis se ne curò invece tutta la notte, perché il volto angelico di Harry gli
impedì di fare qualsiasi altra cosa, compresa dormire.

***

La camera di Harry era abbastanza piccola, ma comunque una delle più lussuose
del palazzo. Avrebbe comunque passato poco tempo in quella stanza, giusto
quei pochi momenti che aveva a disposizione per dormire, quando avveniva il
cambio di guardia. Quella mattina, Harry si svegliò allegro.
Lo specchio rifletteva l’immagine di un ragazzo sorridente, ma in realtà persino
quell’oggetto di vetro sapeva che era un sorriso falso, di stanchezza. Indossò la
divisa verde scuro e gli stivaletti pesanti, cercando di aggiustare come poteva
quei ricci ribelli.
La sala della colazione era già piena, nonostante il giovane soldato avesse avuto
l’accortezza di svegliarsi presto per evitare di rimanere senza mangiare. Tutti gli
abitanti del Palazzo non appartenenti alla famiglia reale erano soliti alzarsi
prima dell’alba, in modo da far trovare a tutti Romanov colazione e bagno
pronti.
Harry, che di mattina aveva sempre poca voglia di parlare, cercò di evitare tutti
gli altri suoi compagni soldati, tenendo gli occhi bassi e cercando di scovare con
la coda nell’occhio una qualche forma di cibo.
Ma proprio per scampare alle chiacchiere futili dei suoi camerati, andò a
sbattere contro qualcuno che scatenò dentro di lui una serie di battiti del cuore
più veloci del dovuto.
“Buongiorno pianista.” disse allegro, cercando subito gli occhi azzurri che
avevano invaso la sua mente nelle ultime ventiquattro ore.
Louis dal canto suo si era già svegliato male quel giorno. Svegliato per modo di
dire poiché non aveva chiuso occhio tutta la notte. La vita al palazzo era già
abbastanza dura per lui, poiché la piccola Anastasija continuava a non seguire le
lezioni e a non voler esercitarsi. E di certo, la presenza di quel soldato che
trovava fin troppo carino, non aiutava. "Ciao." sussurrò piano, arrossendo fino
alla punta dei capelli. Cercava in tutti i modi di non guardarlo negli occhi, di
non perdersi in quelle profonde iridi verdi che lo affascinavano così tanto da
farlo stare male. Avrebbe voluto scappare via e fare colazione in tranquillità,
solo con sé stesso, ma la sala era così gremita di persone che non avrebbe avuto
comunque vie di fuga. "Sai dov‘è il tè nero? Non ne vedo qui in giro." chiese
Harry, facendo finta di guardarsi intorno ma in realtà senza mai farsi fuggire
dalla visuale il ragazzo dagli occhi blu, di cui fra l'altro, non conosceva ancora il
nome.
Il soldato notò che il suo interlocutore poco loquace aveva fra le mani un piatto
con dei biscotti e senza neanche chiedere il permesso ne afferrò uno,
portandoselo alla bocca. "Posso vero?" chiese, mentre le sue labbra carnose
avevano già sfiorato la delizia.
Louis per la seconda volta nell'arco di un giorno intero, pensò di morire. Lo vide
addentare il biscotto lentamente, gustandolo, spargendo briciole ovunque,
soprattutto su quelle collinette rosee che Louis avrebbe tanto voluto sfiorare con
le dita, con tocchi talmente leggeri da non farsi accorgere. Chiuse gli occhi,
nella speranza di dimenticare tutta quella bellezza in una sola bocca, stringendo
il piatto fra le mani così forte da farsi diventare le nocche bianche.
Harry smise di masticare quando si accorse dello stato in cui si trovava il
pianista. Lo trovò molto buffo, rosso in viso come un pomodoro, con gli occhi
chiusi e la bocca semiaperta. A quella meravigliosa vista non poté far altro che
accarezzargli la guancia con un dito, un contatto quasi impercettibile, di un
secondo esatto. Louis aprì gli occhi di scatto, facendo cadere per terra il piatto
con i biscotti, in uno scroscio che fece voltare la maggior parte dei presenti.
Harry mormorò uno “Scusa, non volevo farti spaventare.” prima di piegarsi in
ginocchio per raccogliere il disastro che avevano combinato. Louis restò fermo
nella sua posizione, col cuore in gola a battergli forte come un martello che
distruggeva un muro. Cercò di calmarsi regolando il respiro e poggiando una
mano sul petto. Poteva sentirlo, era là, il suo cuore scoppiettava come un
motore, pronto ad inquinare tutto il suo organismo, anima e mente compresi.
Contò fino a dieci, prima di piegarsi e aiutare il soldato, evitando accuratamente
il suo sguardo. “S-Scusa.” balbettò così piano che sperò persino che Harry non
l’avesse sentito. Ma l’aveva sentito forte e chiaro, invece, e infatti gli stava
sorridendo amorevolmente.
“Dai non preoccuparti! E’ stata colpa mia.” disse il riccio, allontanando le mani
del pianista dal piatto. Provò un leggero brivido su per la schiena al contatto con
le dita affusolate del ragazzo castano, ma diede la colpa alla gelida alba russa.
“Non toccare i cocci, potresti tagliarti.”
Louis lo guardò stranito, sempre col viso in faccia, ma comunque sorpreso da
quel gesto. “Le mani ti servono per lavorare.” aggiunse giustificandosi,
raccogliendo gli ultimi pezzi del piatto.
Non fece in tempo neanche a buttare i cocci nel cestino che Louis era già
fuggito via.

Novembre 1916, San Pietroburgo.

Erano passati circa cinque mesi da quando Louis era arrivato al Palazzo.
Fortunatamente per lui, nonostante Anastasija non facesse progressi, anche la
piccola Marija aveva iniziato a seguire le lezioni, sicuramente con più interesse
della sorella. Con la più piccola della famiglia si trovava a suo agio, un po’
perché imparava in fretta, un po’ perché stava lontano dalla guardia del corpo di
Anastasija.
Era passato circa un mese da quando Harry era arrivato al Palazzo e Louis
aveva fatto il possibile per riuscire ad evitarlo. Era disposto anche a saltare le
colazioni e a pranzare e a cenare in camera, pur di non incontrare i suoi occhi
splendenti.
Louis aveva paura di quella colorazione così verde e pura, che spesso a seconda
della luce gli ricordava anche la divisa che Harry indossava sempre.
La situazione diventava complicata ogni volta che il pianista doveva fare la
lezione con la granduchessa Anastasijia. Era costretto ad incontrarlo e a
salutarlo anche con un cenno del capo, tuttavia in un modo o nell’altro riusciva
a fuggire prima di ricevere una risposta.
Eccetto per quel giorno freddo di Novembre, e per tutti quelli successivi.
“Voglio ballare! Suona qualcosa di ballabile, Louis.” aveva ordinato Anastasija,
evidentemente troppo eccitata per fare una lezione seria. Quella mattina la
piccola granduchessa aveva passato un po’ di tempo col padre, dopo un periodo
di lontananza a causa della guerra. Per questo la ragazzina dai capelli ramati e
gli occhi come il mare scoppiava di gioia quel giorno, rallegrando tutti gli
abitanti del Palazzo d’Inverno. Quando lei sorrideva, non era poi così Inverno,
si ritrovò a pensare Louis, nonostante l’attrito nel loro rapporto.
Sospirò rassegnato, sperando nell’attenzione di Marija qualche ora dopo. Chiuse
gli occhi, prima di concentrarsi solo su quei tasti bianchi e neri. Quando
suonava, Louis non aveva bisogno di nient’altro che di quei due colori, gli
opposti fra di loro ma che si completavano e soprattutto che lo completavano.
Perché era così che si sentiva con la sua musica: completo.
Iniziò a suonare il Valzer dei fiori di Cajkovskij, così abilmente da far sbocciare
davvero i fiori di tutta la Russia, anche sotto la neve. Anastasija restò un attimo
immobile sorpresa da quella bravura: non aveva mai sentito il suo maestro
suonare in modo continuo, una melodia intera. I suoi occhi azzurri brillarono un
poco, esattamente come quelli del pianista che giocava, si divertiva, faceva
l’amore con quelle note.
Volteggiò nel suo vestito bianco, seguendo la melodia che pian piano riempiva
la stanza. Le balze della gonna piena di merletti si muovevano con lei, mentre il
fiocco bianco in testa, che spiccava tra i capelli rossicci.
“Harry vieni qui!” urlò ad un certo punto. Louis si bloccò un attimo, solo un
attimo, un silenzio che Anastasija scambiò per una pausa musicale qualsiasi.
Riprese a suonare immediatamente, col volto in fiamme stavolta. Di solito,
durante le lezioni, il soldato riccio stava fuori dalla porta, per fortuna di Louis,
per allontanare eventuali seccatori. Ma quando sentì quel nome un brivido lo
percosse, facendogli tremare quelle dita occupate a far musica. Cercò di non
farci caso, continuando la melodia e tentando di non perdere il ritmo.
La risata cristallina arrivò chiara alle orecchie di Louis, che per la prima volta
mentre suonava, udì qualcos’altro che non fosse il suo cuore. In quella risata,
aveva sentito anche il cuore di Harry, battere forte, vivace, vivacissimo,
allegrissimo, prestissimo e tutti quegli aggettivi che era solito attribuire alle
melodie.
Il soldato rise forte, mentre guardava Anastasija ballare con così tante energie e
trascinarlo con sé. “Non so ballare Anya!” urlò tra le risate, preso dalle mani
piccole della ragazzina.
Louis li sentiva dietro di sé. Sentiva i passi sicuramente disordinati di Harry, con
quegli stivaletti che facevano un rumore assurdo. Sentiva l’aria che si spostava a
causa dei mille salti e delle giravolte che faceva Anastasija, lo scroscio delle
pieghe del suo vestito bianco come la neve che copriva il giardino del Palazzo,
bianco come i tasti del pianoforte che continuava a premere sempre più forte,
pur di distrarsi dalla figura maschile che goffamente danzava.
Suonò per circa cinque minuti poi iniziò a far sfumare la melodia, facendola
rimanere nell’aria e forse nei cuori di tutti e tre. Sorrise soddisfatto, la musica
era l’unica cosa che lo faceva sentire bene e appagato.
Ma il suo sorriso si spense, perché si ricordò che prima o poi, avrebbe dovuto
voltarsi.
“Sei stato molto gentile Harry.” pronunciò Anastasija soddisfatta, facendo
un’ultima piroetta per chiudere il balletto con il soldato. “Vado a prenderti
qualcosa da mangiare, ti va?” chiese premurosa. Louis sorrise un poco, gli
faceva piacere sapere che almeno con Harry, Anya sapesse essere gentile e
cortese. Sapeva anzi, che lo era con tutti. Tutti tranne lui e questo gli faceva un
po’ male al cuore ma non lo ammetteva. Così come non si azzardava a girarsi.
“Nulla è tanto necessario a un giovane quanto la compagnia delle donne
intelligenti.”
“Tolstoj.” sussurrò Louis, sbattendo un paio di volte le palpebre e girandosi di
scatto. “Guerra e pace, Tolstoj.” ripeté ancora in direzione del soldato. Si
accorse solo l’attimo dopo che Anastasija era fuggita via e che gli occhi di
Harry, brillanti e vivaci, lo stavano osservando, analizzando da capo a fondo.
Arrossì immediatamente, portandosi la mano alla bocca come se avesse detto
chissà quale oscenità.
“Ma allora sai parlare!” esclamò il riccio sorpreso, sorridendogli e facendogli
mancare qualche battito.
Anche il mio cuore ha le pause musicali, pensò Louis guardando quel ragazzo.
“Quindi se sai riconoscere le citazioni prese da Guerre e pace sai anche dirmi
come ti chiami.” aveva sussurrato Harry, avvicinandosi al piano, esattamente
come la prima volta. Si sedette accanto a lui, nello sgabello destinato ad Anya
quando svolgeva le lezioni.
“Io, cioè, n-non pensavo conoscessi Tolstoj.” balbettò il pianista, cercando di
nascondere l’imbarazzo in un tentativo alquanto inutile, data la presenza del
color rosso fuoco sulle sue guance. Si passò una mano tra i capelli per trovare
fra di essi consolazione e appagamento, ma in realtà, mentre guardava i ricci di
Harry, sapeva benissimo che consolazione e appagamento li avrebbe trovati solo
in quel cespuglio adorabile che voleva toccare e curare con le sue dita da
pianista.
“Mi stai dando dell’ignorante?” commentò il soldato, aggrottando la fronte e
puntando i suoi occhi verdi dritto in quelli azzurri di Louis, il quale iniziò a
sventolare le mani davanti a sé velocemente per negare tutto.
“No assolutamente!” rispose con un tono di voce più alto del dovuto e un
tremolio che tradiva la sua preoccupazione.
Perché Louis era fatto di preoccupazioni e paure, di tremiti e brividi, di pianti
con lacrime che rimanevano intrappolate nei suoi occhi resi azzurri.
In quel momento poi, la sua mente era in completa confusione. La sua
preoccupazione era il rossore troppo visibile, la sua paura era averlo offeso, i
suoi tremiti e i suoi brividi erano quegli occhi verdi che parlavano.
“Sto scherzando.”
Harry gli sorrise un poco dopo aver detto quelle parole, avvicinando le dita al
viso del pianista esattamente come aveva fatto un mese prima, con la differenza
che Louis stavolta aveva gli occhi aperti, magari sul punto di piangere, aperti.
Gli accarezzò con il polpastrello dell’indice la guancia colorata, facendolo
tremare un poco, perdendosi nei suoi occhi che gli ricordavano il Neva.
“Visto che conosco e ho letto Tolstoj, posso avere l’onore di sapere il tuo
nome?” chiese cortese, continuando a toccare quel lembo di pelle in fiamme,
che lo attraeva come la calamita.
“L-Louis.” rispose il pianista in un sussurro. Si stava sciogliendo sotto quei
gesti delicati e lenti che erano diventati la peggiore delle torture.
“Un nome francese. Mi piace.” Harry si staccò a malincuore dalla guancia del
pianista, allontanandosi da lui a malincuore. “Louis.” ripeté ancora per provare
la sensazione di averlo sulle labbra, anche solo astrattamente. “Suona così
bene.”
Louis non disse niente, si limitò solamente a distogliere lo sguardo da quel viso
angelico e ad alzarsi in piedi, raccattando tutti gli spartiti lasciati in giro.
“Louis.” ripeté per la seconda volta il soldato, cercando di attirare la sua
attenzione. Il giovane pianista però, dentro di sé si era già ripromesso che per
quel giorno, perdersi negli occhi verdi dell’altro, gli era bastato, quindi non si
voltò.
“Vorrei solo che smettessi di evitarmi.” mormorò Harry a bassa voce, ma fu
comunque capace di fare infrangere a Louis la promessa.
E di nuovo, occhi verdi in occhi azzurri, esattamente come i tasti neri stavano in
quelli bianchi.
Non chiese il perché, non fece domande. “Va bene, Harry.”. Solamente quelle
parole uscirono dalla sua bocca, prima di fuggire via dalla stanza, con una
leggera stretta al cuore causata dal nome del soldato detto a voce alta.
Il cuore di Louis batteva in ‘allegretto‘.

***

La mattina seguente, Louis si preparò con un’estrema cura, pettinando i capelli


per bene, mettendosi il suo vestito più elegante e utilizzando il suo profumo
preferito. E dire che doveva andare solo a colazione.
Era circa un mese che saltava quel pasto importante, ma da quel giorno voleva
fare il possibile per non evitare Harry, anche se il suo cuore continuava a
giocargli brutti scherzi. Louis aveva paura del suo cuore. Spesso quest’ultimo
era in contrasto con la mente, più razionale, più attenta a non cadere nelle
trappole della vita. Ma il cuore invece decideva per sé e Louis avrebbe voluto
strapparselo pur di non provare emozioni che gli facevano paura, come quella
che provava quando era chiuso nel labirinto degli occhi di Harry.
Louis aveva paura del suo cuore, ma quella mattina lo accontentò e scese nella
sala della colazione.
Nonostante fosse presto, la sala era già piena come ogni mattina. Il pianista non
era abituato a tutta quella confusione, aveva dimenticato quanto fosse fastidiosa
la gente appena alzata. Il suo sguardo si perdeva tra la folla, in cerca di una
divisa verde militare e di capelli ricci che continuava a sognare ogni notte.
“Buongiorno Louis.”. Sentì la sua presenza alle spalle e balzò per lo spavento,
senza voltarsi. “Buongiorno Harry.” sussurrò piano, cercando di calmarsi con
respiri profondi. Si girò lentamente verso di lui e il suo sorriso lo colpì come un
mare in tempesta, come una lama tagliente dentro al petto. Faceva male da
morire quel sorriso, però Louis sapeva già dentro di sé che non poteva farne a
meno.
Le labbra carnose di Harry si schiusero ancora di più, rendendo il sorriso ancora
più luminoso. Louis cercò di ricambiare, ma la sua anima era troppo
scombussolata per mostrarsi in un gesto così semplice, così dovette limitarsi ad
un mezzo sorriso che probabilmente sembrava più una smorfia.
“Tutto bene?” chiese il soldato, spegnendo quel sorriso e corrugando la fronte.
“Sì.” mormorò Louis, ritentando un sorriso decente.
Harry si rilassò e ricambiò, con gli occhi che brillavano più del solito. “Ho
troppa fame! Hai già mangiato?” domandò all’altro, stiracchiando le braccia e
sbadigliando apertamente.
Louis lo guardò quasi intenerito, scuotendo la testa in risposta.
“Allora andiamo a cercare qualcosa da mettere sotto i denti, dai.”
Il soldato afferrò la manica della giacca di Louis, trascinandolo attraverso quella
folla, tentando di avvicinarsi ai tavoli sovraffollati.
“Aspettami qui.” sussurrò all’orecchio del pianista, prima di scomparire tra la
gente.
Louis ebbe un tremito per la posizione ravvicinata in cui Harry aveva
pronunciato quelle due parole, ma anche perché quella mattina, il soldato era
maledettamente bello. Mentre lo aspettava si ritrovò a pensare a quanto gli
stesse bene quell’uniforme verde che faceva risaltare i suoi occhi. Si ritrovò a
pensare ai suoi ricci disordinati che lo attiravano così tanto. Si ritrovò a pensare
alle sue labbra, rosse come una mela da mordere, succhiare, assaporare.
In fine, si ritrovò a pensare al fatto che tutte quelle cose, le pensava ogni santa
notte.
Lo vide rispuntare con un piatto e due bicchieri dall’ammasso di servi e soldati
che lottavano per avvicinarsi al tavolo. “Andiamocene.” pronunciò svelto,
sorridendo a Louis che faticò ad obbedire immediatamente. “Forza andiamo!” lo
incitò ancora Harry, muovendo il capo in direzione della porta d’uscita.
E Louis lo seguì, anche se dopo tutto, non aveva per nulla fame.
Il Palazzo d’Inverno era enorme, infinito. C’erano 1057 stanze, 1786 porte e
1945 finestre, un labirinto di mosaici, oro e quadri spettacolari.
Harry sembrava essersi ambientato bene ormai in quell’edificio, tanto da
conoscere quasi tutti i corridoi. Louis invece, che non usciva mai dalla sua
camera se non per le lezioni ad Anastasija e a Marija, non aveva mai visto quei
settori del palazzo in cui il soldato lo stava trascinando.
Camminarono per svariati minuti, Harry davanti a fischiettare qualcosa e Louis
pochi passi dietro in assoluto silenzio. Ad un tratto il soldato si fermò di botto e
per poco Louis non andò a sbattere contro la sua schiena.
“Eccoci qui.” sussurrò, aprendo la porta davanti alla quale si era fermato.
Entrarono in una stanza piccola, quasi al buio eccetto per una finestrella
alquanto malandata. Tutti i mobili erano coperti da lenzuoli bianchissimi, il
pavimento di marmo era ricoperto da almeno due strati di polvere, se non di più.
Louis storse la bocca, in segno di disapprovazione e Harry rise di gusto
guardando il volto dell’altro contorcersi.
“Scusa, lo so che non è una stanza lussuosa, però è una delle poche che non
viene utilizzata da nessuno.” spiegò il soldato, porgendo a Louis il piatto i
bicchieri. “Tieni un attimo.”
Si allontanò dal pianista per spalancare la finestra, facendo entrare così un po’
di aria pulita e fresca, anche se si gelava. Louis rabbrividì ma cercò di non
pensare al freddo, “Mi porterò qualcosa di più pesante la prossima volta.” pensò
tra sé e sé, come se una ‘prossima volta’ fosse scontata.
Harry prese uno di quei lenzuoli bianchi che coprivano uno dei mobili e lo tirò
via, facendo alzare un sacco di polvere. Sotto quel manto, vi era un divano
bianco con dei ricami in verde, che richiamava i colori del Palazzo. Il soldato si
avvicinò nuovamente a Louis, riprendendolo per una manica della giacca.
“Vieni, sediamoci.” sussurrò.
Il pianista lo seguì, sedendosi accanto a lui, col piatto sulle ginocchia e i due
bicchieri in mano, ma incapace di muovere un muscolo. Harry gliene sfilò dalle
dita uno dei due, iniziando a sorseggiare il contenuto.
“Ho preso il tè nero, perché non conosco nemmeno una persona a cui non piace,
quindi suppongo piaccia anche a te.”
Louis annuì, stringendo fra le mani il bicchiere con il tè caldo come, ormai di
routine, le sue guance. Guardò il piatto sulle sue gambe contenente, adesso che
ci faceva attenzione, due fette di pane bianco, due di pane nero, un vasetto
piccolo di marmellata e un coltello. Era completamente paralizzato, lo stomaco
si contorceva e Louis era sicuro che nessuna forma di nutrimento sarebbe
passata da lì.
Harry finì il suo tè nero, rattristandosi e preoccupandosi un po’ per il pianista.
Lo vedeva in tensione, completamente spiazzato da quella situazione,
sicuramente nuova per lui. Gli tolse il piatto grande d’acciaio dalle gambe,
poggiandolo sul divano e si alzò. Louis lo guardò stranito, mentre l’altro si
avvicinava ad un altro mobile coperto da un altro velo bianco. Sfilò proprio
quest’ultimo, rivelando un vecchio pianoforte a coda, non troppo piccolo che
occupava praticamente metà stanza.
Gli occhi di Louis si illuminarono improvvisamente e un sorriso sincero
comparve sul suo volto, facendo perdere qualche battito ad Harry. Il pianista si
alzò di scatto, come attirato da quel piano antico pieno di polvere.
“Ho scelto questa stanza perché sapevo che c’era questo aggeggio qua che
poteva interessarti.” spiegò il riccio, poggiando la mano sul pianoforte.
“E’ bellissimo, è di una marca pregiata tedesca costosissima. Non ne avevo mai
visto uno di presenza.” mormorò Louis, sfiorando i tasti ormai logori del piano.
Provò a premere uno di essi, ma il suono che ne uscì era orripilante, segno che il
pianoforte era scordato.
"E' la prima frase completa che ti sento dire." sussurrò Harry con un tono
angosciato.
Louis staccò le dita dal piano lentamente, stringendole in un pugno. Teneva gli
occhi bassi, fissi sul piano intarsiato da splendide decorazioni. "Mi dispiace.
Non è colpa tua."
A Louis non piaceva giustificarsi, ma in quel momento sentì il bisogno si far
sapere a Harry che non era colpa di quest'ultimo. Era soltanto colpa sua se non
riusciva a pronunciare parola con gli sconosciuti, se aveva paura di sbagliare a
parlare, di dire cose errate che potessero offendere la gente. Era solamente colpa
sua se lo stomaco era in subbuglio ogni volta che vedeva Harry, se non riusciva
a comunicare con lui perché troppo bloccato dalla mente. Era colpa sua se il
cuore voleva ribellarsi ma non glielo permetteva.
"Perché dici così?" chiese Harry, sorpreso dalla risposta del pianista. Si avvicinò
a lui col desiderio di sfiorargli per la terza volta la guancia, ma si limitò a
carezzargli invece il dorso della mano chiusa in un pugno.
"Perché sono un disastro con le altre persone."
Louis sorrise amaramente, mentre regalava ad Harry questa confessione. Il
riccio restò spiazzato da essa e fece scivolare le sue dita sul polso dell'altro
stringendolo dolcemente. Aveva notato il leggero tremolio di Louis, aveva
notato la voce leggermente spezzata e in quel momento più che mai avrebbe
voluto abbracciare quel ragazzo di cui conosceva solo il nome e la professione.
"Sono un soldato, so affrontare i disastri." gli disse, tenendolo stretto tra le sue
dita.
Gli occhi di Louis si riempirono di lacrime, ma con un groppo in gola, cercò di
non farle scivolare giù sulle guance. "Mangiamo?" propose per cambiare
discorso, sorridendo al soldato come non aveva mai fatto.
"Mangiamo." rispose Harry, con le labbra distese e gli occhi luminosi come
prima.
Il cuore di Louis batteva in ‘allegretto moderato‘.

“Che palle questa storia, Ed.”


“Taci Luke, tanto lo so che quando parlo di Harry e Louis pensi a te con
Calum.”
“Ok, sto zitto, ma non dire più queste cazzate.”
“E allora perché sei diventato rosso?”

Dicembre 1916, San Pietroburgo.

Louis e Harry avevano fatto colazione insieme poche volte in quel mese, poiché
i turni di guardia del soldato permettevano solo poche occasioni.
La routine era sempre la stessa: il riccio lottava contro la folla accalcata ai
tavoli, prendeva del cibo per entrambi e fuggivano via il prima possibile.
La loro stanza segreta era testimone di infinite chiacchiere: Louis ormai si era
sciolto, o quasi, e aveva iniziato a raccontare ad Harry un po’ di sé stesso. Gli
aveva raccontato che aveva ventidue anni, che era nato a Mosca dove aveva
vissuto per circa sedici anni, prima di diventare discretamente famoso come
pianista. Gli aveva raccontato ancora che la sua era una famiglia nobile e ciò gli
aveva permesso di evitare la leva militare. Aveva una madre e quattro sorelle
che amava più di sé stesso alle quali portava ogni compleanno tanti regali per
farsi perdonare dell’assenza durante l’anno, ma comunque si sentiva in colpa.
Gli aveva anche confessato che odiava i gatti e che la granduchessa Anastasija
lo metteva in soggezione.
Di Harry invece aveva scoperto che aveva ventitre anni, che a sedici era stato
costretto ad arruolarsi e che era stato mandato in guerra a diciotto. “La guerra
non finirà mai, esiste da sempre e continuerà ad esserci.” aveva detto
amaramente, con lo sguardo perso nel vuoto. Louis aveva scoperto ancora che il
soldato odiava le minestre, che avrebbe voluto provare il cibo occidentale e che
quando si rattristava i suoi occhi diventavano verdi scuro.
Louis aveva sempre conosciuto soltanto due colori: il bianco e il nero. Il bianco,
come i tasti del pianoforte ovviamente, ma anche della neve che cadeva giù in
continuazione, ricoprendo tutto ciò che incontrava, dagli alberi del giardino del
Palazzo alle case dei contadini. Il bianco degli argini del fiume Neva, il bianco
dei muri che caratterizzavano l’edificio, il bianco dei vestiti delle granduchesse
che erano sue allieve.
E poi c’era il nero. Louis il nero non lo aveva mai capito: sul piano musicale,
era costretto ad usare i tasti neri. E fin lì tutto semplice, era il suo campo, sapeva
in che dose somministrare quel nero alla gente.
Ma quando si trattava del nero dentro di sé, Louis proprio non si raccapezzava.
La sua anima era un puzzle fatto di paure, continue preoccupazioni che si
incastravano fra di loro formando un unico manto di angoscia nero. Il giovane
avrebbe voluto tanto sfilarsi quel velo che lo copriva, che lo rendeva così
fragile, ma non ci riusciva perché il freddo intorno a lui era troppo forte.
Non aveva nessuno con cui potersi confidare, da cui cercare riparo e calore. In
fondo, Louis sotto quel manto nero, si sentiva protetto. Forse sbagliato, sì, ma
comunque al sicuro in quell’involucro di silenzi e fobie.
Ma da quando aveva conosciuto Harry, qualcosa stava cambiando. Non
esistevano più solo il bianco e nero, ma tanti altri colori, belli e brutti, che prima
d’allora non aveva mai notato.
C’era il verde chiaro, ad esempio. Un verde splendente, bellissimo che si
illuminava ancora di più con i riflessi del colore della neve. Louis iniziava ad
amare quel colore, un po’ perché gli dava pace e serenità, un po’ perché era
comunque il colore degli occhi del riccio.
C’era il verde scuro, un po’ più triste del suo omonimo chiaro, poiché a Louis
ricordava la divisa militare e quindi di conseguenza la guerra. La guerra era
verde scuro, come l’ammasso di soldati dai cuori spaventati e i fucili puntati.
Verde scuro, come le foglie macchiate del sangue di uomini che perdevano la
vita per un’ideale che non apparteneva a loro. Verde scuro, come le pianure
delle cartine che aveva visto una volta nella stanza dello zar che
rappresentavano i luoghi dell’Europa divenuti nemici.
C’era il rosa chiaro della pelle di Harry. Pallido, delicato, morbido che Louis
avrebbe voluto toccare senza mai fermarsi, facendo scorrere le sue dita su
qualsiasi lembo rosa dell’altro ragazzo. Sfiorandolo leggermente o magari anche
facendo pressione, per imprimere su di essa il suo marchio invisibile. Avrebbe
voluto assaggiarla, un pensiero che teneva nascosto negli antri sperduti della sua
mente. Con le sue labbra, avrebbe voluto assaporarla e gustarne ogni minimo
particolare, come si fa con i piatti più prelibati.
Louis, grazie ad Harry, aveva conosciuto un sacco di colori.
Eppure ce n’era uno che gli faceva particolarmente paura.
Il rosso.
Rosso come il sangue di millenni di storia russa, di guerre e battaglie inutili che
avevano sconvolto milioni di vite. Rosso come le esplosioni delle bombe a
mano, delle urla dei soldati e delle madri a casa alla notizia dei loro figli morti.
Rosso come quell’entità che, a detta dello zar, stava intaccando l’impero: il
comunismo.
Rosso come le labbra carnose di Harry, da mordere e succhiare fino allo
sfinimento, e ancora dormire su quelle labbra, sognarci e magari svegliarsi col
sapore del riccio dentro la bocca e dentro le ossa, come il migliore dei veleni.
E Louis non era sicuro di voler permettere a quelle labbra di strappare a morsi il
velo nero che lo avvolgeva.

***

Una notte a metà Dicembre, Louis si era appena svegliato dopo un orribile
incubo. Le immagini che aveva visto passare davanti mentre dormiva erano
ancora fresche e vivide nella sua mente, mentre il respiro cercava di
regolarizzarsi.
Aveva sognato le sue sorelle e sua madre nella sua vecchia casa a Mosca. Era
piccolina ma accogliente, e tutte e cinque le donne della sua vita erano sedute in
salotto. Poi un boato che Louis poteva ancora benissimo sentire risuonare nelle
sue orecchie. Finestre che si rompono, la stanza si riempie di rosso.
Poi il nulla, poi il risveglio.
Il giovane madido di sudore si mise a sedere, facendo leva sulle mani ancora
leggermente tremanti. Strinse fra le dita le lenzuola bianche, provando in tutti i
modi a calmarsi. La gola era secca e gli bruciava, gli occhi pieni di lacrime:
aveva bisogno di una boccata d’aria fresca e di un bicchiere d’acqua.
Si alzò dal letto con fatica, poiché le gambe sembravano esser appena
schiacciate da un tir. Indossò una vestaglia qualunque sopra il pigiama e infilò i
piedi freddi dentro le ciabatte, prima di uscire dalla sua camera. A quell’ora il
palazzo era quasi deserto. Vi era qualche servo sveglio per eventuali richiami da
parte della famiglia imperiale, qualche guardia in giro e nessun altro. Louis
puntava di andare dritto in cucina, a recuperare una qualsiasi bevanda idratante,
ma a circa metà tragitto si sentì chiamare.
“Louis!” ripeté ancora la voce che costrinse il pianista a voltarsi. In fondo al
corridoio, poco prima delle scale si situava la stanza di Anastasija e Marija.
Quella notte, Harry era di guardia.
“Che ci fai sveglio?” chiese, abbassando questa volta la voce poiché tutto il
Palazzo dormiva. Louis si avvicinò con passi lenti al soldato, facendo scivolare
sul pavimento le ciabatte per non fare rumore.
“Brutta nottata.” disse solamente, passandosi una mano tra i capelli e sospirando
pesantemente.
“Di nuovo una notte insonne e tormentosa : io provo questo sentimento -”
cominciò Harry a citare, prima di essere interrotto da Louis e dalla sua voce
bassa , che soffiava in un sussurro effimero.“-io, che ridevo delle sofferenze
degl'innamorati. Quello di cui ti ridi è poi quello che servi.” concluse il pianista.
“Mi piace quando cogli le citazioni di Tolstoj.” mormorò Harry, guardando la
finestra del corridoio davanti a sé. La divisa stretta ai fianchi e i soliti stivaletti
neri lo rendevano ancora più bello, pensò Louis che di conseguenza arrossì.
O probabilmente era già arrossito per quella frase sugli innamorati, sulle notti
insonni e tormentata dalla figura di chi si ama e che popola la mente e i sogni.
Louis non aveva mai conosciuto l’amore.
L’aveva sempre osservato dall’esterno, stando molto attento a non avvicinarsi
troppo per non scottarsi. Ne aveva visti così tanti di innamorati che ormai quasi
non gli facevano più effetto. Erano ovunque, ballavano sulla sua musica, si
baciavano di nascosto alle feste da ballo in cui suonava, si abbracciavano ai suoi
concerti.
Ma dentro di sé lo sentiva che qualcosa stava cambiando. Anche perché
altrimenti una semplice frase di Tolstoj sull’amore non gli avrebbe fatto un certo
effetto.
O era forse la voce di Harry?
“La tua notte insonne e tormentosa è causa di una sofferenza da innamorato?”
chiese Harry dopo qualche istante di silenzio. Si sedette per terra, appoggiato
allo stipite della porta della stanza delle granduchesse, con lo sguardo più scuro
del solito, nonostante la luce della luna che filtrava dalla finestra.
Louis arrossì leggermente, ma per fortuna la semi oscurità gli permetteva di
celare il suo imbarazzo. “Hai qualcuno Louis? Qualcuno che ti ami intendo,
qualcuno che aspetta il tuo ritorno a casa.” continuò il riccio, senza neanche
guardarlo negli occhi, trovando più interessante osservare le sue mani
bianchissime.
Louis rabbrividì a quelle parole, o meglio, rabbrividì al tono con cui erano state
dette. Era forse deluso Harry? Non voleva crederci, il pianista sperava di
fraintendere. Ma da qualche parte dentro il suo cuore sapeva che non voleva
affatto sbagliarsi. Per questo, si sedette accanto a lui.
Appoggiati entrambi alla porta, guardavano la finestra davanti a loro come il
quadro più bello del palazzo. La notte russa era come incorniciata, le stelle
apparivano come macchie di colore piccolissime che rendevano la tela buia una
meraviglia.
Uno di fianco all’altro, probabilmente avrebbero voluto raggiungere insieme
quelle stelle. Ma dovevano accontentarsi di poggiare le loro mani vicine sul
pavimento senza mai toccarsi.
“Ho la mia famiglia.” rispose Louis, dopo svariati minuti di silenzio. “Nessun
altro.” aggiunse poi.
Harry appoggiò la testa indietro, evitando di guardare il ragazzo accanto. Ma la
sua mano parlava per lui: si era mossa automaticamente verso quella di Louis
ancora appoggiata sul pavimento e aveva subito trovato le dita del pianista,
accarezzandole lentamente con i polpastrelli. Sfiorò tutte e cinque le dita per
conoscerle una ad una per poi staccarsi da quel contatto così piacevole.
Louis non mosse la mano di un millimetro. Si era lasciato toccare, godendosi
quei tocchi delicati che riscaldavano le dita fredde. “T- tu hai qualcuno?” chiese
titubante, rannicchiandosi con le ginocchia portate al petto e il mento su di esse.
Neanche lui osava guardare l’altro. Se Harry avesse risposto positivamente, si
sarebbe dovuto rassegnare e lasciarlo perdere, magari non parlandogli più e
andandosene dritto a letto senza comunque dormire. Ma se Harry avesse
risposto negativamente, la cosa si faceva ancora più complicata.
“Quando si è soldati, quando si va in guerra.. Non si può avere nessuno Louis.”
rispose il riccio amaramente, con un il sorriso più triste del mondo.
Il pianista smise di farsi tutti quei problemi. Per la prima volta in vita sua reagì
d’istinto, non preoccupandosi di niente. Dentro, le sue fobie gli stavano urlando
di non farlo, ma fuori c’era quel sorriso triste di Harry che avrebbe vinto su
qualsiasi altra cosa.
Così, voltandosi verso di lui, strinse la mano del riccio nella sua.
E intrecciò anche le dita con quelle sue, perché ormai il gioco era fatto.
Harry si lasciò stringere, accarezzare dal polpastrello del pollice del pianista,
mentre mostrava a Louis un sorriso più acceso del precedente.
“Meravigliosa notte di luna; le urla degli ubriachi, la folla, la polvere non
guastano la bellezza; una radura umida, chiara sotto la luna, dove cantano le
rane e i grilli, e qualcosa ti attira là; ma arrivi là e qualcosa ti attirerà ancor più
lontano. La bellezza della natura non suscita nella mia anima piacere, ma
qualcosa come un dolce dolore.” citò Louis, perdendosi negli occhi del riccio
che sembravano davvero una radura umida, chiara sotto la luna.
Con la mano libera, Harry gli accarezzò la guancia, come ormai era diventato
d’abitudine. “Cos’hai sognato?” chiese in un sussurro.
Louis si beò di quel contatto, chiudendo gli occhi e rilassandosi mentre Harry si
prendeva cura della sua pelle come nessun altro aveva mai fatto.
“Ho sognato la guerra.” rispose, dopo circa un minuto di pausa. “E non riesco a
pensare a ciò che c’è fuori da questo palazzo, non riesco a pensare al fatto che la
guerra per te non è solo un sogno ma la cruda realtà.”
Louis aveva il cuore un po’ più leggero dopo quella confessione. Gli aveva
rivelato una delle sue paure e implicitamente anche la paura di perdere quel
soldato dagli occhi verdi splendenti.
Tremò leggermente al ricordo di quell’incubo e forse Harry se ne accorse pure
perché l’istante dopo aveva avvicinato alla sua bocca la mano di Louis,
osservandola come se fosse la cosa più bella del mondo. “Non tremare.”
mormorò Harry con la sua voce rauca che fece rabbrividire Louis ancora di più.
Il riccio appoggiò le labbra sulla pelle fredda del pianista, ricoprendola di veloci
baci delicati. Come aveva immaginato. “Non tremare.” ripeté ancora fra un
bacio e l’altro.
Un turbinio di emozioni invase Louis come non era mai successo. Quei tocchi
bruciavano sulla sua pelle come marchi indelebili, mentre il respiro si mozzava
e il cuore iniziava a mancare di qualche battito. Le cure delle labbra di Harry
erano il miglior modo che avesse mai provato per superare un incubo e le paure
che ogni giorno lo affliggevano. Ed era fantastico, pensò in quel momento
Louis, godendosi ogni piccolo bacio del soldato.
Poi sentirono un rumore proveniente dalla stanza. Il pianista ritirò la mano di
scatto, alzandosi immediatamente. “Si sono svegliate forse, devo andare.” disse
senza neanche guardarlo negli occhi, riferendosi chiaramente alle granduchesse.
Anche Harry si mise in piedi, un po’ deluso da quel ritiro improvviso del più
piccolo. “Buonanotte Lou.” sussurrò, ma il diretto interessato era già troppo
lontano per sentire quell’augurio lieve.
Il pianista decise che la cosa migliore da fare era infilarsi sotto le coperte
sperando in sogni migliori, ora che parte di quell’incubo era andato via dalla sua
mente.
Il cuore di Louis batteva in ‘allegramente’.
***

Anastasija Nikolaevna Romanova era sempre stata una ragazzina molto gelosa.
Non possedeva chissà quali gioielli perché era ancora piccola e portarli le
procurava disturbo e neanche alcun tipo di giocattolo estremamente particolare.
Lei era gelosa delle persone.
Era gelosa ad esempio del suo fratellino Aleksej, perché tutti al Palazzo
volevano prendersi cura di lui. Questo le dava un fastidio enorme poiché voleva
lei l’esclusiva nel dare affetto al suo unico fratello, malato per giunta.
Era gelosa poi anche di suo padre, talmente gelosa che quando qualcuno di
importante si presentava al palazzo, lei faceva di tutto per stringere a sé il padre
e marcare il territorio.
Così, quando sua sorella Marija dal nulla se ne spuntò con un semplice “Ieri
notte Harry e Louis parlavano davanti la nostra stanza.” e un sorriso sulle
labbra, Anastasija Nikolaevna Romanova capì che non sarebbe mai guarita dalla
gelosia.
Harry era la sua guardia personale e più passavano i giorni e le settimane e più
si affezionava a lui. Aleksej era il suo unico fratello, ma da quando il soldato era
arrivato alla corte imperiale, aveva visto in lui un fratello maggiore mancato.
Aveva Tat'jana e Ol’ga certamente, ma loro erano troppo impegnate a fare le
donne mature di famiglia per dedicare del tempo alla piccola Anya.
Con Harry invece era diverso perché era in qualche modo costretto a passare un
tempo infinito con lei. Parlavano di tutto quando erano insieme, da ciò che
amavano fare a quello che pensavano della servitù del Palazzo, dalla cameriera
troppo pettegola al cocchiere scorbutico.
In realtà qualcosa tra Louis e Harry l’aveva già notata. Aveva potuto notare gli
sguardi che si lanciavano non appena le lezioni finivano e il pianista usciva
dalla porta, sorridendo al soldato che aspettava fuori. Aveva notato come gli
occhi di Harry si illuminavano quando per sbaglio la piccola Anya nominava
quel nome francese che, detto dal soldato stesso, aveva poesia dentro sé.
Non poteva tollerare che qualcun altro gli portasse via la sua guardia, il suo
nuovo amico, il suo quasi fratello. L’odio per Louis aumentò quindi in maniera
spropositata, nonostante ne provasse già abbastanza per quei maledetti occhi
azzurri. Il solo pensiero che Harry era caduto per quegli occhi, la faceva
impazzire.
Decise quindi di fare qualcosa.

5 Gennaio 1917, San Pietroburgo.

Vedi Luke, se c’era qualcosa che importava ai russi più della guerra, erano
certamente le tradizioni. Potevano portare loro via qualsiasi cosa, la bella casa, i
vestiti, tutto. Ma non gli usi e la cultura.
Per questo nel Gennaio del 1917, nonostante il popolo iniziasse ad agitarsi e a
fermentare, il Natale venne festeggiato lo stesso.
Il Palazzo d’Inverno in particolare era diventato qualcosa di meraviglioso. La
piccola Anastasija era così fiera di come la servitù aveva addobbato tutte le
stanze. Oro, rosso e verde erano i colori principali che dominavano: vi erano
festoni appesi ai muri e intorno ai quadri, ghirlande attaccate alla porte e fiocchi
e fiocchetti disposti praticamente ovunque.
Ma la cosa che sorprendeva chiunque, anche chi viveva lì da diversi anni, era
sempre e comunque l’albero nella sala da ballo. Era altissimo, enorme, quasi
spaventoso. La sua maestosità era il simbolo della potenza dello zar di tutte le
Russie che, ahimè, da lì a poche settimane, si sarebbe spenta per sempre.
Anastasija il 5 Gennaio, ben due giorni prima del Natale, aveva già posizionato i
regali per la sua famiglia sotto l’albero, sedendosi là davanti per circa un’ora ad
ammirare ogni singola decorazione, che fosse un angioletto dorato o una palla
rossa lucida che rifletteva il suo dolce visino.
La piccola Anya aveva sempre amato il Natale e non per il lato materiale della
tradizione, ma perché era l’unico momento dell’anno in cui la sua famiglia stava
veramente insieme. Era forse l’unico giorno in cui la fredda e distaccata
Aleksandra sorrideva sinceramente.
La gioia di Anastasija per quella festa era immensa, tanto che da diversi giorni
non si preoccupava più di nulla, né della guerra fuori, né della salute
cagionevole del piccolo Alekseij, né di Harry e Louis. O almeno così pensava
fino a quando, proprio il 5 Gennaio, il soldato dagli occhi verdi come l’albero
nella sala da ballo non le chiese “Anastasija andiamo fuori a fare un pupazzo di
neve? Viene anche Louis.”
Forse per la prima volta in vita sua, la gelosia superò persino la gioia per il
Natale imminente.
***

Louis non amava molto il Natale. Ogni anno era costretto a passarlo fuori, in
chissà quale città lontano dalle sua sorelle e da sua madre. Questo lo faceva
soffrire molto, sentiva ogni giorno sempre più la mancanza della sua famiglia,
ma il lavoro era più importante, o almeno lo diventava se esso serviva mandare
avanti baracca e burattini.
In quei giorni freddissimi di fine Dicembre e inizio Gennaio, Louis camminava
come se fosse un fantasma. Non rivolgeva la parola a nessuno, teneva gli occhi
bassi per non fare vedere al mondo che in realtà erano tristi. Durante le lezioni,
non si disperava neanche più di tanto appresso alla piccola Anya, né mostrava
chissà quale eccitazione per una scala ben fatta da parte di Marija. Con Harry
poi, non si erano neanche visti più di tanto, solo qualche sguardo fugace e basta.
Quella mattina del 5 Gennaio però ebbe la fortuna di scontrarsi direttamente con
lui, a causa dei suoi occhi sempre bassi.
“Scus-” mormorò, prima di alzare la testa e incontrare quegli occhi meravigliosi
in cui ormai si stava abituando a perdersi. Un labirinto meraviglioso di dolci
ricordi, come le labbra del soldato sulla sua pelle, la bocca sorridente, i ricci al
chiaro di luna. “Harry!” esclamò, avvampando come sempre.
“Buongiorno pianista.” disse il riccio, sorridendogli apertamente e bloccando
con la mano il polso dell’altro, così da non farlo andare troppo lontano da lui.
“Come stai?”
“B-Bene.” rispose fin troppo in fretta Louis, mentre il lembo di pelle toccato da
Harry si scottava come carne al fuoco. Il riccio lo guardò corrucciato,
avvicinandosi più del dovuto e appoggiando la sua fronte contro quella del
pianista.
“I tuoi occhi dicono tutt’altro.” affermò, spostando le sue mani dietro la schiena
dell’altro, in un dolce abbraccio che fece tremare Louis più del solito.
Proprio per questo lo spinse via, con tanta forza quanta era la paura che aveva
dentro. “Tu non li conosci i miei occhi.” rispose anche, indietreggiando di
qualche passo ed evitando lo sguardo del riccio che, deluso dal gesto di
allontanamento del ragazzo, aveva perso il suo sorriso.
“Sei tu che non mi permetti di conoscerli.”
Louis non seppe come rispondere dopo quella affermazione. Aveva capito ormai
che Harry in qualche modo voleva approfondire quell’amicizia nata dal caso,
ma dentro sé era consapevole che se lui non si fosse sbloccato, il riccio presto o
tardi avrebbe mollato tutto.
Ed era questo quello che voleva Louis? Non lo sapeva neanche lui. Si stava
affezionando a quel soldato, al suo profumo e al tocco delle labbra sulla pelle,
ma aveva così paura di quel rapporto che ogni volta riusciva a rovinare tutto.
Aveva paura di ferirlo col suo carattere difficile, con il suo blocco mentale, col
suo cuore freddo come un ghiacciaio. E non poteva permettere di fare del male
ad Harry che era diventato il suo sole, il suo sorriso e il calore che provava
all’incirca dove si trova il petto.
“Stavo andando da Anya a chiederle se volesse uscire fuori a giocare con la
neve. Ti va di venire?” Il soldato interruppe i pensieri del ragazzo dagli occhi
blu che, sorpreso da quell’invito nonostante la conversazione appena avuta, non
poté fare a meno di annuire debolmente, mentre si voltava per andare a prendere
il cappotto pesante. “Ti aspetto all’entrata.” fu l’ultima cosa che sentì prima di
girare l’angolo.

***

Sia Anastasija che Harry si erano vestiti pesantemente, notò Louis non appena
arrivò davanti l’entrata del Palazzo. Harry indossava un sorriso sincero mentre
Anastasija indossava un brutto broncio. Il pianista sospirò, la conversazione
avuta poco prima con Harry l’aveva fatto rattristare e l’odio che Anya provava
proprio per il pianista di certo non aiutava. Ma decise comunque di uscire fuori
con loro.
Lo spettacolo che si parò davanti ai suoi occhi era meraviglioso: non aveva
avuto occasione di uscire dal Palazzo in quei giorni, anche perché era molto
pericoloso. Gli alberi spogli erano completamente ricoperti di neve, e il freddo
si insediò nelle sue ossa immediatamente, in una sensazione fastidiosa ma anche
leggermente piacevole. Piccoli fiocchi di neve danzanti scendevano giù dal cielo
cupo russo, ma nonostante tutto ciò, Louis pensò che il giardino imperiale
innevato era uno dei luoghi più belli che avesse mai visto.
Anastasija si era già immersa in quel paesaggio dal bianco manto. Andava in
giro correndo, lasciando le impronte dei suoi stivaletti ovunque e prendendo tra
le mani quei soffici fiocchi, per poi lanciarli in aria di nuovo.
“Hai freddo?” chiese Harry avvicinandosi al pianista di soppiatto. Louis scosse
la testa in segno di negazione, anche se in realtà stava gelando. Non aveva molta
voglia di parlare, quindi si limitò a infilare le mani in tasca e a nascondere il
viso dentro l’enorme sciarpa.
Harry ancora una volta rattristato, si allontanò da lui, andando a giocare con
Anastasija e rinunciando ad una qualsiasi parola del pianista.
Louis si sedette su una panchina, osservandoli in silenzio. Anastasija indossava
un cappotto bianco e quasi si confondeva con l’ambiente intorno a lei se non
fosse stato per i suoi capelli rossicci. Era così felice in quel momento che anche
a Louis si scaldò il cuore a vederla così allegra, nonostante il brutto rapporto.
Harry invece non sembrava poi così tanto allegro. Era un sorriso di gentilezza
nei confronti di Anastasija quello che indossava, ma non era felice quanto la
ragazzina. Louis si domandò se fosse causa sua. Gli faceva un po’ male al cuore
vederlo così, per colpa sua. Avrebbe voluto che sorridesse sempre, perché lui
era il suo sole e doveva sciogliere la neve che aveva dentro, ma pensare che
tutto ciò era causa sua lo faceva stare malissimo. Louis era completamente
confuso. Doveva scegliere se fargli del male lasciandolo perdere completamente
o se fargli del male stando accanto a lui, con tutte le sue fobie e paure. In un
modo o nell’altro, l’avrebbe ferito, di questo Louis ne era certo. Tuttavia per
quel giorno, decise di ferirlo avvicinandosi al pupazzo di neve in costruzione e
regalando al soldato, oltre ad un sorriso, un “Posso aiutarvi?”
La piccola Anya sbuffò a quella richiesta, ma a Louis non importava perché
Harry aveva appena rilasciato nell’aria una delle sue risate più belle con un
“Certo pianista.”. Il ragazzo dagli occhi blu iniziò quindi a raccogliere con le
mani quanta più neve poteva, ammassandola in quello che sembrava essere la
pancia del pupazzo. Ci misero un bel po’, anche perché la piccola Anastasija
aveva praticamente deciso di distruggere ogni parte del corpo che Louis faceva,
o forse perché Harry non stava più costruendo nulla, troppo impegnato a
lanciare palle di neve al pianista e a trovare una qualsiasi scusa per sfiorargli la
mano.
Louis non rideva così tanto da tempo. Aveva dimenticato quale fosse il suono
della sua risata, come fosse il dolore agli angoli della bocca e anche quella
sensazione di pace interiore. Si erano divertiti tutti e tre in una battaglia di neve
senza fine, forse da una parte lo fecero per dimenticare la battaglia che c’era
fuori dai cancelli del Palazzo, forse dall’altra parte per dimenticare le battaglie
interiori.
Successe poi che il destino voleva fare di nuovo la sua parte, facendo scivolare
Louis per terra in una disastrosa caduta poco elegante e successe anche che
Harry ne voleva un po’ approfittare di quel destino amico che era dal suo lato,
così si piegò in ginocchio accanto al povero pianista con il sedere dolorante,
appoggiando le mani ai lati della sua testa e non preoccupandosi della presenza
di Anastasija.
“Ti sei fatto male?” aveva chiesto il riccio, guardando più le labbra dell’altro
che gli occhi. Louis alzò un poco la testa, diminuendo la distanza tra quelle due
bocche che tanto si bramavano ma troppo timide per confessare il loro
desiderio.
“Scusa se non ti permetto di farti conoscere i miei occhi.” disse il pianista, con
lo sguardo lucido di chi voleva quasi mettersi a piangere. “Scusa se sono fatto
così.” aggiunse poi con un tono sinceramente dispiaciuto.
“Sono bravo a fare amicizia con tutti. Vorrà dire che con i tuoi occhi ci metterò
un po’ più di tempo.” riuscì a rispondere il soldato con quella sua voce roca che
tanto faceva impazzire Louis, prima di essere trascinato via dalla granduchessa
che lanciava ad entrambi sguardi d’odio così intensi che il pianista pensò di
morire. Ma poteva benissimo morire, perché comunque la sua ultima immagine
nella mente sarebbe stata il volto di Harry, dei suoi ricci che cadevano sulla
fronte come i fiocchi di neve stavano cadendo su di lui e dei suoi occhi che
finalmente brillavano di nuovo.
Il cuore di Louis batteva in ‘vivace’.

7 Gennaio 1917, San Pietroburgo

La cena di Natale era stata leggermente meno abbondante del solito, aveva
notato la granduchessa. Era pur sempre un periodo di guerra e nonostante le
ricchezze infinite dello zar, la crisi si faceva sentire lo stesso. In ogni caso, la
tavolata era ricca di cibi tradizionali in enormi quantità, la servitù aveva
disposto tutto perfettamente per l’occasione, rendendo tutto piacevole.
Lo scambio di regali era una cosa invece molto intima, infatti tutti i Romanov si
riunivano nello studio dello zar e per una sola volta all’anno, dimostravano di
essere una vera famiglia. Per questo la piccola Anastasija, quando era ora di
andare a letto, era felice.
Tutt’altro si poteva dire di Louis invece. Dopo quella giornata passata fuori,
aveva avuto la sfortuna di beccarsi l’influenza, così era stato costretto a restare a
letto per due giorni interi, compreso il giorno di Natale stesso. Quella sera però
il suo stomaco più che vuoto decise di reclamare una qualsiasi forma di sostanza
nutritiva, così, con sciarpa guanti e vestaglia, Louis si alzò dal letto (con molta
fatica perché persino le ossa gli facevano male) e si diresse verso la cucina.
Ma la strada verso essa era sempre la stessa, per cui gli toccò passare davanti la
porta delle due granduchesse più piccole. Era socchiusa e Louis si sorprese un
poco di non trovare Harry fuori a far da guardia, così senza esitazione e tirando
su con il naso per il fastidioso raffreddore, si avvicinò alla porta della camera
sbirciando dentro.
Ad illuminare la stanza c’era solamente un candelabro acceso, che schiariva i
volti dei presenti. Marija dormiva già. Il suo letto, proprio accanto a quello di
Anastasija, era ricoperto da una grande quantità di coperte e Louis immaginò la
sua allieva preferita sognare posti lontani.
Nell’altro letto invece, Anya stava poggiata contro la spalliera, già in pigiama e
con le coperte addosso, mentre con una mano teneva quella di Harry, seduto
accanto a lei. “Ti sei divertita oggi?” chiese il riccio, mentre il pianista si
appoggiava sempre più alla porta per sentire e guardare meglio.
“Un sacco! Mamma mi ha persino regalato una collana sua.” aveva esclamato la
piccola Anastasija, non curandosi del sonno di Marija.
“Sono felice per te allora, ma ancora non hai finito di ricevere regali.”
Harry tirò fuori dalla tasca della divisa qualcosa, ma Louis non riusciva a vedere
bene di cosa si trattasse. Ma quando Anastasija lo prese tra le sue mani
portandolo alla luce delle candele, vide uno dei più belli carillon che avesse mai
visto.
Era piccolino, in oro (o almeno così sembrava) e verde, come i colori del
Palazzo.
“E’ bellissimo.” sussurrò Anya, ispezionando con lo sguardo quell’aggeggio che
pareva preziosissimo.
“Gira la chiave.”
Non appena la granduchessa obbedì all’ordine di Harry, il carillon si aprì
rivelando due piccoli pupazzetti danzanti che rappresentavano lo zar Nikolaij II
e la zarina Aleksandra, che ballavano sulle note di una melodia che Louis
conosceva fin troppo bene. Ma fu Harry, invece, a decidere di cantare sopra
quella sinfonia.

Festa e balli, fantasia


è il ricordo di sempre
ed un canto vola via
quando viene dicembre.
Sembra come un attimo
dei cavalli s'impennano
torna quella melodia
che il tempo portò via?

Ma non fece nemmeno in tempo a iniziare la seconda strofa che già Anastasija
dormiva sogni beati. Le tolse dalle mani il carillon, chiudendolo e
interrompendo quella bellissima melodia. Lo poggiò nel comodino e prima di
uscire dalla stanza, lasciò un leggero bacio sulla fronte della granduchessa.
Louis era appoggiato allo stipite della porta, aspettando che uscisse.
“La conosco anche io quella canzone.” sussurrò, non appena lo vide sbucare
fuori dalla stanza. Harry rimase per qualche attimo un po’ sorpreso, ma poi si
rilassò, mostrando il suo sorriso alla luna che si specchiava come ogni notte nel
vetro della finestra del corridoio. “Me la cantava sempre mia madre.” aggiunse
il pianista, pronunciando le parole con fatica a causa del raffreddore.
“Lou, mi puoi aspettare davanti la nostra stanza? Devo fare una cosa, arrivo
subito.”
Il pianista non ebbe neanche il tempo di ribattere poiché il soldato era già
scappato via in fretta e furia. Louis infilò le mani in tasca, rassegnato ad
aspettarlo davanti quella che era diventata la loro stanza.
L’attesa non durò a lungo, Harry tornò da Louis in cinque minuti, un po’
trafelato e col fiatone. “Scusami, dovevo farmi sostituire davanti la porta delle
ragazze.”
“Volevi dirmi qualcosa?” chiese il pianista, leggermente in ansia. Non sapeva
cosa aspettarsi, il riccio era sempre pieno di sorprese e qualsiasi cosa pensava di
lui, si sbagliava sempre.
Harry non rispose, però gli prese la mano, toccando prima le dita per chiedergli
il permesso, in modo delicato e leggero, e quando vide che l’altro non si ritirava,
incastrò le loro mani insieme in una stretta forte e decisa. “Ti fidi di me?” chiese
il soldato, con gli occhi che brillavano e i denti tra le labbra.
“No.” rispose Louis, anche se la risposta dentro era un’altra. Harry rise, mentre
apriva la porta della camera. Era tutto buio, quindi il ragazzo dagli occhi blu
non riusciva a distinguere nemmeno i mobili. Dovette lasciare la mano di Harry
con molto dispiacere, perché quest’ultimo si era avvicinato all’unico candelabro
della stanza, accendendolo con un fiammifero che probabilmente si era
procurato prima.
Louis restò immobilizzato, quando la luce fu abbastanza forte da illuminare
tutto. Le lenzuola bianche non c’erano più, così come erano scomparsi gli strati
di polvere. C’erano persino delle ghirlande e decorazioni natalizie, che
rendevano più bello il tutto. Harry nel frattempo si era avvicinato al pianoforte,
anch’esso pulitissimo, e premette qualche tasto a caso. Louis notò subito la
differenza di suono e mandò uno sguardo interrogativo al soldato.
“Un mio compagno ne capiva qualcosa di musica così gliel’ho fatto accordare.
Puoi suonare quando vuoi adesso.”
A Louis però in quel momento non gliene fregava nulla del pianoforte. Senza
esitare un secondo si gettò sull’altro, abbracciandolo di slancio e incrociando le
braccia dietro al suo collo.
Era la prima volta che lo abbracciava ed era anche la prima volta che si sentiva
così bene e completo. Poggiò la testa sul petto dell’altro, per sentire il suo cuore
battere forte. Tutto ciò che aveva fatto per lui era meraviglioso, dalle pulizie
della loro camera al pianoforte sistemato. Tutto questo Louis non se lo sarebbe
mai aspettato e arrossiva al solo pensiero che qualcuno aveva fatto qualcosa di
carino per lui. Harry era la dolcezza fatta persona e tra le sue braccia tutte le sue
paure sparirono, sostituendosi ad una dolce sinfonia che proveniva dal cuore.
Il riccio restò immobile per un secondo esatto, ma poi ricambiò l’abbraccio
stringendolo ancora più a sé.
“Grazie.” sussurrò Louis, non guardandolo in faccia per l’imbarazzo del gesto
appena compiuto. Harry gli scompigliò i capelli, giocherellandoci e facendoli
incastrare tra le sue dita.
“Avrei voluto portare anche il vischio.” disse poi proprio il riccio, facendo
mancare un battito all’altro. A quella frase diventò più rosso di quanto non lo
fosse già, allontanandosi da lui di scatto e sciogliendo quell’abbraccio perfetto.
Harry però fu più veloce, riportandolo tra le sue braccia al sicuro, stringendolo
ancora più forte.
“Stavo scherzando.” aggiunse, accarezzandogli la schiena con gentilezza.
“Sono un idiota.” affermò Louis, nascondendosi dal suo sguardo.
“Vorrei solo passare del tempo con te, non voglio obbligarti a fare nulla che tu
non voglia.”
Louis allora si staccò leggermente da lui, per poterlo guardare in faccia. E sì,
avrebbe voluto che ci fosse stato un vischio sopra di lui, tanto per avere una
semplice giustificazione da mostrare alle sue paure. La sua mano fredda si
avvicinò al volto del riccio, che iniziava ad imporporarsi. Coprì una guancia con
le sue dita, toccando con i polpastrelli anche quella fossetta che trovava
adorabile.
Si alzò in punta di piedi, avvicinando i loro visi come non avevano mai fatto. I
respiri ora si mescolavano, le mani di Louis stringevano le braccia di Harry
come se fossero l’unica salvezza, e il cuore batteva così velocemente che
credeva sarebbe morto d’infarto.
Ma come al solito il destino non era dalla sua parte, quindi fu costretto a voltarsi
perché uno starnuto improvviso era in arrivo.
Harry rise, mentre Louis dispiaciuto tirava su col naso e asciugava gli occhi
lucidi. “Non c’è niente di divertente.” aveva detto, mettendo il broncio come un
bimbo.
“Dormi con me.” aveva poi chiesto Harry, non appena le risate si erano placate.
Il pianista non rispose, ma si lasciò trascinare sul divano.
Sdraiati entrambi sotto una coperta, solo i loro respiri riempivano la stanza.
Harry abbracciava Louis da dietro e quest’ultimo si sentiva così protetto e al
sicuro da non volere più staccarsi dal riccio.
“Non riesco a dormire.” pronunciò il ragazzo dagli occhi blu, troppo teso per
addormentarsi. Allora Harry fece la cosa più bella di quella serata: cantò per lui.

Sembra come un attimo


dei cavalli s'impennano
sento quella melodia,
nella memoria mia?
forse un giorno tornerò
il mio cuore lo sente?
ed allora capirò
il ricordo di sempre?
ed un canto vola via?
quando viene dicembre.

Il pianista con un sorriso sulle labbra e la voce bellissima di Harry nelle


orecchie, si addormentò.
Il cuore di Louis batteva in ‘vivo’.
“E poi arrivò Lenin.” sussurrò Luke, giocherellando col suo piercing al labbro.
“Non ancora. Però iniziano le rivolte del popolo e quindi Harry e Louis iniziano
a vedersi sempre meno, poiché il soldato è sempre impegnato costantemente
con i turni di guardia.” spiegò Ed, dondolandosi sullo sgabello. Si stava
divertendo molto a raccontare quella storia al giovane davanti a sé, un po’
perché gli piaceva da morire narrare quella storia d’amore - la sua preferita fra
l’altro-, e un po’ perché amava osservare tutte le espressioni di Luke. In quel
momento, il biondo era più corrucciato del solito.
“A Febbraio lo zar abdica. Questo me lo ricordo bene però.”
“Esatto Lukey. Ma neanche suo fratello Mikhail vuole prendere il posto al
trono, così si forma un governo provvisorio.”
“Ma in realtà non aveva così tanto potere come sembrava, perché il comunismo
aveva già preso piede in lungo e largo.” continuò Luke, sforzandosi di ricordare
il più possibile.
“Bravo!” esclamò entusiasta Ed, guardando il biondo battere le mani a sé stesso.
“Sei proprio un bimbo.” aggiunse poi, facendolo imbronciare.

Febbraio 1917, San Pietroburgo.

“Ti capita a volte di volerti sentire diverso, Louis?” aveva chiesto una notte di
Febbraio il giovane soldato, stringendo a sé l’altro ragazzo. Erano seduti sul
pavimento delle cucine, appoggiati alla enorme credenza che conteneva più cibo
di quanto ne avesse il popolo stesso russo.
Abbracciati l’uno a l’altro, si nascondevano come ladri. Harry rinunciava
persino alle poche ore che aveva per riposarsi pur di stare con Louis e per ciò il
pianista non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, anche se fra le sue braccia,
il peso nel cuore si alleggeriva un bel po’.
“Sempre.” sussurrò in risposta, accoccolandosi sul petto del riccio. Gli abbracci
erano l’unica cosa che era rimasta loro. Il Palazzo d’Inverno, da quando lo zar
aveva abdicato, era caduto nella più totale depressione. Tutti erano consapevoli
che la fine dell’impero zarista era vicina e che Lenin non appena fosse tornato
in Russia, avrebbe preso tutto il potere. Lo sapeva Nikolaij che usciva
pochissimo dalla sua stanza, lo sapeva la zarina i cui occhi erano diventati
ancora più gelidi.
Lo sapevano tutte le granduchesse, che avevano anche creato un piccolo
ospedale all’interno del Palazzo per curare le vittime di guerra, o almeno il più
possibile.
E lo sapevano anche Louis e Harry che sognavano luoghi lontani e al sole, mano
nella mano, lontani da qualsiasi responsabilità. Ma uscire dal Palazzo era troppo
pericoloso per sognare qualsiasi tipo di fuga romantica.
“Come vorresti essere?” chiese ancora Harry, carezzandogli i capelli e
stringendo con la mano con quella libera.
“Con meno ghiacciai dentro.” fu la risposta pronta di Louis, che ricevette un
breve bacio sulla fronte. “E tu?” aveva chiesto poi, curioso di sapere la sua
risposta. Ma Harry non rispose affatto. Restò in silenzio, per minuti interi che a
Louis parvero anni. “Non mi parli mai di ciò che provi tu.” aveva aggiunto
ancora, in una mezza e celata accusa.
Harry si stacco un po’ dall’altro, lanciandogli un’occhiata interrogativa. “In che
senso?” aveva chiesto.
Louis si era allontanato, sciogliendo le loro dita intrecciate e rispondendo alla
domanda del soldato. “Harry io mi sto aprendo piano piano con te, ma tu non
stai facendo lo stesso con me.” aveva detto, con la voce leggermente tremante.
“Sei sempre col sorriso sulle labbra, ma io lo so che c’è qualcosa che ti turba,
perché non me ne vuoi parlare?”.
La sua mano si avvicinò nuovamente al riccio, cercando quella guancia con la
fossetta che ormai era diventata la sua casa, ma Harry fu più veloce e si scostò,
alzandosi in piedi. “No, non ne voglio parlare.” aveva risposto rude, causando
una stretta al cuore al povero pianista, che col respiro mozzato aveva chiesto il
perché.
“Perché tu non lo sai quello che ho vissuto io! Tu non sai niente del mio passato
quindi non puoi pretendere che io te lo racconti come se niente fosse.”
Per la prima volta Louis sentì la voce di Harry tremare, come se volesse
piangere. Si sentì terribilmente in colpa per ciò che aveva detto e avrebbe voluto
tornare tra le sue braccia per consolarlo, per dirgli che andava tutto bene.
“Io non voglio obbligarti a dire niente, Harry!” urlò il ragazzo esasperato, non
curandosi di essere scoperti. “Però se davvero ci tieni a me, ti fideresti anche.”
continuò, concentrando lo sguardo a terra per non fare vedere al soldato che
stava già piangendo.
“Non capisci niente, Louis.” affermò in fine il riccio, così piano che più che le
parole a Louis arrivò il tono d’odio con cui erano state dette. Lo lasciò lì solo
con quelle parole, mentre Louis si accasciava a terra in quel pavimento freddo
come la sua anima, di nuovo. Accovacciato e terribilmente infreddolito, pianse
tutto ciò che aveva in corpo.
Il cuore di Louis non batteva più.

Marzo 1917, San Pietroburgo.

Anastasija non vedeva Louis da circa due settimane. Un servo le aveva detto
che il pianista era malato, e che le lezioni sarebbero continuate solamente
quando fosse stato meglio. Ma la ragazzina non era per niente stupida e quando
notò che Harry era ogni giorno più triste, collegò entrambe le cose.
Avrebbe dovuto sentirsi felice per ciò, ma vedere il suo adorato Harry in quelle
condizioni non faceva altro che farla stare male. Lo abbracciava spesso e lui
ormai non ricambiava quasi mai. Gli sorrideva spesso, ma lui pareva aver
dimenticato come si sorridesse. E questo la faceva sentire anche peggio di come
stava Harry stesso.
Ma la situazione a San Pietroburgo era ancor più grave, perciò Anastasija non
aveva molto tempo per pensare al suo soldato e al suo pianista.
Tra il popolo serpeggiava il malcontento, la crisi era aumentata in maniera
drastica e i poveri contadini non arrivavano più a fine mese. Il comunismo si era
ormai insidiato ovunque, e né lo zar, né il Governo Provvisorio potevano fare
qualcosa.
Louis, però, non ne sapeva nulla di tutto questo. L’unica cosa che aveva visto in
quelle due settimane erano le sue lenzuola e la finestra della sua camera, da cui
raramente filtrava un po’ di luce. Si era chiuso in quella stanza e non era più
uscito. Non piangeva più però, il povero Louis. Si era ormai rassegnato all’idea
che tutto ciò che aveva pensato su di Harry era sbagliato. Era riuscito a fargli del
male anche con delle semplici parole e il senso di colpa gli stava lacerando
l’anima, consumandola per sempre.
Durante quelle notti e quei giorni sotto le lenzuola, a compiangersi e a
disperarsi, Louis arrivò ad una sola soluzione. Era innamorato di Harry, lo
amava. Altrimenti di certo non si sarebbe sentito così male da non uscire dal
letto per giorni interi.
Quando era arrivato al Palazzo, di certo non avrebbe mai pensato che si sarebbe
innamorato di qualcun altro. E poi era arrivato lui, col suo sorriso e i suoi occhi
splendenti che avevano distrutto ogni briciolo di difesa che Louis negli anni
aveva costruito. Si stava anche lasciando andare con lui, tra carezze e coccole,
ma poi aveva sbagliato a parlare e tutto era crollato come un castello di carta.
Gli mancava da morire Harry. Gli mancavano le sue mani, il suo profumo, la
sua risata bellissima che gli entrava sempre dritto nel cuore, la più bella sinfonia
di sempre. Ma ormai era tutto andato e Louis aveva provato in tutti i modi a
dimenticarlo, con scarsi risultati ovviamente anche perché vivevano comunque
sotto lo stesso enorme e magnifico tetto.
Una mattina a inizio Marzo, la solita serva pagata profumatamente da Louis
affinché gli portasse qualcosa da mangiare ogni giorno durante la sua prigionia
in camera, entrò in stanza con un vassoio pieno di pane, bevande e altri viveri,
quanto bastava per sopravvivere tutta la giornata. “Grazie Eleanor.” aveva detto
alla serva, provando a sorridere. Ma prima che Eleanor chiudesse la porta alle
sue spalle, una grande mano la bloccò e Louis l’avrebbe riconosciuta tra mille.
Il suo cuore si bloccò e le lacrime già premevano per uscire.
Harry si infilò subito dentro la stanza, lasciando la cameriera un po’ scioccata,
che però chiuse ugualmente la porta.
“Che cosa vuoi Harry?” chiese Louis, sedendosi sul letto e evitando il suo
sguardo. Non aveva il coraggio di guardarlo in faccia, di vedere in che
condizioni fosse. Non aveva il coraggio di riguardare quegli occhi che tanto
amava e quelle labbra che tanto desiderava.
“Parlarti.” aveva risposto solamente, avvicinandosi al pianista con passi lenti e
facendo scricchiolare i suoi stivali neri. “Lou hai una pessima cera.”
Su questo certo non poteva dargli torno. Era dimagrito molto in quelle due
settimane, aveva due occhiaie marcatissime e il volto scarno. La barbetta ben
curata era diventata più lunga e incolta, le guance che di solito si imporporavano
erano due fossi ormai.
“Io non voglio parlarti.” aveva detto duro Louis, cercando di apparire più
sincero possibile. Harry aprì la bocca in segno di stupore, mentre i suoi occhi
verdi diventavano leggermente lucidi. Si piegò sulle ginocchia, accanto a Louis
seduto sul letto, prendendogli una mano. “Ti prego.” mormorò ancora il soldato,
in una preghiera che il pianista non avrebbe ascoltato.
“Vattene.” continuò Louis, spingendo via la sua mano e alzandosi dal letto.
“Non voglio più parlarti Harry. Vorrei anche non vederti più, ma in questo
Palazzo mi è impossibile quindi per favore, ti sto chiedendo di andartene.”
“Lou..” disse piano il soldato, cercando lo sguardo dell’altro. Ma Louis, di
fronte alla finestra a guardare chissà che cosa, non si azzardava neanche a
voltarsi.
Così il soldato fu costretto a ritirarsi per quella volta, ma di certo non si sarebbe
arreso così facilmente.
Quando Harry se ne fu andato e la porta sbatté in un rumore sordo, Louis pianse
tantissimo. Era stato costretto a mandarlo via, anche se in realtà tutto ciò che
voleva fare era abbracciarlo e baciarlo come non aveva mai fatto. Ma gli aveva
già fatto del male una volta e non voleva fargliene ancora. Lo aveva cacciato
dalla sua stanza, ma di certo ancora non era il tempo di cacciarlo dal suo cuore.

Aprile 1917, San Pietroburgo.

Louis dopo tre settimane di pausa, aveva ripreso le lezioni. Ma era come se non
ci fosse. Il suo corpo era lì, ad insegnare ad Anastasija accordi che lei non
avrebbe mai imparato, mentre la sua mente era altrove, più precisamente dietro
la porta, dove Harry faceva la guardia. Non si salutavano nemmeno più, Louis
era bravo a fuggire via senza neanche guardarlo in faccia.
Anya aveva notato ogni cosa, ma si limitava ad osservare in silenzio tutto ciò
che accadeva. Un giorno, tra le braccia di Harry, aveva chiesto proprio a
quest’ultimo se Louis gli mancasse.
Il riccio la guardò sorpreso ma fu costretto a dire “Perché dici così? Io e Louis
non abbiamo mai avuto un rapporto oltre i saluti.”
Persino Anastasija sapeva che era una bugia. Lo sapevano tutti al Palazzo, ma
tutti restavano in silenzio. Alla fine le andava bene così, Harry si sarebbe ripreso
e lo avrebbe avuto di nuovo tutto per sé. E proprio mentre lo abbracciava le
sfuggì qualcosa che aveva deciso di non dirgli, per non farlo soffrire
ulteriormente.
“Louis ha deciso di andarsene.” disse senza pensarci, un segreto che doveva
rimanere solo dentro lei. Un attimo dopo, Anastasija era sola in quella stanza,
non aveva neanche fatto in tempo a rendersene conto che Harry era già uscito.

***
Louis stava preparando il suo bagaglio proprio in quell’esatto momento. Era una
decisione già presa qualche giorno prima, poiché non riusciva più a sopportare
di dover ignorare Harry e i suoi occhi, di non dovergli parlare.
Non sapeva dove sarebbe andato. Non gli importava più che altro. Ma sarebbe
fuggito via con la coda tra le gambe da quel Palazzo che era stato luogo di mille
emozioni, sia belle che brutte. Louis non aveva mai provato così tante emozioni
diverse. E tutto grazie a Harry. Nonostante lo stesse per abbandonare per
sempre, lo avrebbe ringraziato ogni giorno della sua vita. Per avergli fatto capire
cos’era l’amore, o quella cosa che provava per lui ogni volta che lo vedeva. Per
avergli fatto capire in che tempo musicale batteva il suo cuore, per aver sciolto i
ghiacciai e parte delle fobie che regnavano dentro la sua anima.
Harry quel giorno però non si servì di nessuna cameriera per entrare nella
stanza. Non si premurò neanche di bussare, scivolò nella stanza in silenzio,
appoggiandosi alla porta con le mani dietro la schiena. “Non puoi andartene.”
disse semplicemente. Louis lo aveva sentito arrivare. Lo sentiva sempre, nella
sua mente, nelle sue mani e lo aveva sentito anche mentre entrava in camera
senza permesso. Non lo guardò neanche però, concentrandosi solo sulla sua
valigia.
“Da quando decidi tu della mia vita?” aveva detto acidamente, o almeno così
voleva apparire, ma con scarsi risultati.
“Non puoi uscire da questo Palazzo. C’è la guerra là fuori, non capisci?”
Harry si era staccato dalla porta, avvicinandosi all’altro ragazzo che non fece
una piega, continuando a sistemare i suoi vestiti. “Già, io non capisco niente.”
aveva aggiunto Louis, riprendendo le parole del soldato che tanto gli avevano
fatto male.
E a quel punto Harry non ce la fece più. Iniziò a sbottonarsi la giacca della
divisa verde militare con una calma estrema e un’espressione impassibile sul
volto. Louis lo guardò sconcertato, iniziando ad avere un po’ di paura. “C- Che
stai facendo?” chiese il pianista, con la voce che gli tremava. Harry non rispose,
sfilandosi anche la canotta bianca che era rimasta sul suo busto.
A Louis mancò il fiato. La pelle candida del riccio risaltava ancora di più con
quella poca luce che filtrava dalle tapparelle e dal tendaggio bianco. Le spalle e
il petto muscoloso erano solo una parte di ciò che a Louis fece mancare l’aria.
All’altezza della pancia piatta, leggermente a destra, si situava la cosa più brutta
che il pianista avesse mai visto. Era una cicatrice, orrenda, ormai parte
integrante della pelle candida del riccio, che la deturpava e la stuprava in un
gesto violento che gli occhi di Louis non riuscirono più a sopportare, quindi
dovette distogliere lo sguardo. “Harry..” chiamò, in un gemito di dolore mentre
si portava le mani davanti la bocca, cercando di non piangere.
“Vedi perché non ti posso dire che cosa ho passato?” iniziò il riccio, sedendosi
sul letto a baldacchino dalle lenzuola verdi e bianche. “Non voglio condividere
questo dolore con te. La guerra è una cosa troppo grande per tutti. Persino per
me che sono un soldato.”
Louis lo vide nascondere il volto tra le mani, e poi lo vide anche muoversi
scosso da diversi sussulti. Non lo aveva mai visto piangere e questa cosa lo
devastò come un uragano. Subito si sedette accanto a lui, carezzandogli la
schiena tremante, mentre anche il suo volto si rigava di lacrime di dolore.
“Lou, ho visto cose che..” Harry non riuscì neanche a finire la frase che Louis lo
stava già abbracciando, più stretto che poteva, coccolandolo e prendendosene
cura come di solito faceva Harry con lui.
I fantasmi della guerra vivevano con il riccio, in ogni istante, in ogni momento.
In quella cicatrice risiedevano tutti i brutti ricordi e tutte le brutte esperienze che
aveva vissuto. L’unica cosa che Louis poteva farlo era abbracciarlo e curarlo da
quelle ferite indelebili dell’anima, che bruciavano più della cicatrice stessa.
“Non andartene ti prego.” aveva detto poi il riccio, alzando lo sguardo e
incastrando i suoi occhi pieni di lacrime in quelli di Louis, che erano diventati
un mare in tempesta. Il pianista scosse la testa, devastato da quel volto
addolorato. “Volevo andarmene perché non faccio altro che farti del male
Harry.” spiegò Louis, non preoccupandosi più delle lacrime che cadevano giù
come un fiume in piena, bagnando i suoi vestiti e bagnando la pelle di Harry.
“Ogni cosa che dico e che faccio è sbagliata, ti rattrista e ti addolora e non ce la
faccio più a ferirti.” confessò con la voce rotta dall’emozione. Non riusciva
neanche a respirare bene, faceva fatica a tirare fuori le parole da quell’anima e
dal cuore troppo addolorati per le lacrime versate dal riccio.
“Siamo due idioti.” disse semplicemente Harry, portando le sue dita sulla
guancia bagnata di Louis, come la prima volta e quella successiva, come
sempre.
Louis sorrise un po’ a quell’affermazione, appoggiando la fronte contro quella
di Harry, aggiungendo uno “Scusa”, come sempre faceva.
“Lou non devi scusarti di niente. Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.
Non devi neanche azzardarti a dire che mi fai del male, perché non è vero. Tu
sei la mia cura, la mia medicina a queste cicatrici che ho dentro e fuori.” disse,
ricominciando a piangere, ma questa volta perché troppo emozionato dalle
parole d’amore che stava regalando a Louis. Quest’ultimo lo strinse a sé,
incapace di trovare qualsiasi parola che potesse esprimere quanto ci tenesse a
quel ragazzo. Lo fece sdraiare nel letto, togliendogli gli stivali e facendolo
infilare sotto le coperte. Restarono così a piangere insieme per molto tempo,
Harry a petto nudo e con i pantaloni della divisa e Louis con il suo maglione
preferito grigio, a riscaldare i cuori e le pelli.
Iniziarono ad amare quel silenzio, perché qualsiasi parola sarebbe stata
superflua. Si accontentavano di dolci carezze, di abbracci, di baci sulle guance,
sulla fronte, di mani incastrate e gambe incrociate, in un puzzle perfetto.
Louis sfiorava il petto di Harry, facendo finta di suonare tasti di pianoforte
invisibili, mentre l’altro gli carezzava i capelli beandosi di quel tocco. Ma poi le
dita di Louis scesero, esitando un po’, fino alla cicatrice. “Ti fa male se la
tocco?” chiese titubante. Il riccio scosse la testa in segno di diniego. “Non più.”
Il pianista toccò quella pelle deturpata, la sfiorò piano per paura di fargli del
male. Harry però non lo fermò, così decise di continuare a sfregare i suoi
polpastrelli su quella ferita, appoggiando la testa sul petto dell’altro per sentire a
che tempo musicale batteva il suo cuore. Poi scese un po’ più giù con il capo,
sfiorando quella brutta cicatrice con le labbra e poggiandogli un bacio leggero.
I cuori di Louis e Harry battevano in ‘vivacissimo’.

Maggio 1917, San Pietroburgo.

Maggio passò relativamente in modo tranquillo. Con l’arrivo di Lenin e


l’esposizione delle sue Tesi D’Aprile, il potere dello zar era ormai praticamente
pari a zero, ma al Palazzo tutti cercavano di continuare la propria vita come se
nulla fosse.
Anastasija era preoccupata per la salute di suo padre. Non lo vedeva uscire da
giorni interi dal suo studio, né mangiava più con il resto della famiglia a pranzo
o a cena. La zarina invece manteneva la sua maschera di impassibilità, anche se
forse era quella che soffriva più di tutti, troppo preoccupata per i suoi figli
nonostante non lo desse a vedere.
La piccola granduchessa avrebbe voluto confidarsi con qualcuno, ma quel
qualcuno era di nuovo lontano, troppo impegnato a passare il suo tempo libero
con il suo pianista. La gelosia iniziò a farsi sentire con la primavera arrivata.
Nonostante cercasse di separarli il più possibile per poter anche solo parlare un
po’ con Harry, erano proprio rare le volte in cui ci riusciva.
Avrebbe preferito che il mese prima Louis se ne fosse andato. Ma non sapeva
cosa era successo di così eclatante da farli cambiare idea, e il sospetto che
c’entrasse Harry in quella decisione la faceva stare male. Almeno però, il
soldato era tornato a sorridere.
La guerra fuori e la primavera dentro. Così avrebbero definito Louis e Harry
quel periodo. Si vedevano poco perché Harry era costantemente impegnato, ma
quei pochi attimi che passavano insieme valevano più di tutte le ricchezze dello
zar.

“Ma se non hanno ancora neanche limonato!” esclamò Luke, interrompendo


sconcertato il discorso di Ed, il quale scoppiò a ridere apertamente.
“Luke! Taci e ascolta.” lo rimproverò, tornando al racconto.

La loro stanza o anche quella di Louis erano diventate testimoni di carezze


fugaci, di pochi istante d’amore, prima di tornare ai loro impieghi. Harry aveva
iniziato ad aprirsi di più. Aveva iniziato a raccontare esperienze di guerra, a
volte piangendo, a volte con gli occhi vuoti come un baratro. Louis gli stava
accanto, accarezzandogli i ricci disordinati e asciugando le sue lacrime con le
labbra.
Il pianista si era sciolto anche dal punto di vista fisico. Non si faceva più
problemi a fare il primo passo per un abbraccio o una carezza. Era diventato
molto più affettuoso e questo rendeva molto felice Harry che però avrebbe
voluto qualcosa di più. Ma lo avrebbe aspettato anche per anni interi, pur di
restargli accanto.
Il soldato non possedeva chissà quale somma di denaro, ma un giorno a metà
Maggio decise di pagare la cameriera Eleanor affinché dicesse a tutti che era
malato e che quel giorno non poteva fare il suo turno di guardia.
Davanti la porta della camera delle granduchesse venne quindi piazzata una
guardia in sostituzione, mentre il giovane Harry sgattaiolava nella stanza di
Louis ancora dormiente. Si infilò sotto le coperte abbracciandolo da dietro e
svegliandolo con leggeri baci sulla tempia. “Sto sognando vero?” mormorò
Louis, con la voce rauca di chi appena sveglio e con un sorriso sulle labbra.
Harry rise piano, lasciandogli un leggero morso sul collo dell’altro, facendolo
svegliare completamente. “Alzati dormiglione.” sussurrò, alzandosi in piedi e
aprendo la finestra. La luce di quel poco sole che c’era filtrò e Louis fu costretto
ad aprire gli occhi, rabbrividendo per il morso appena ricevuto e per la fredda
mattinata.
“Non dovresti essere di guardia tu?” aveva chiesto sbadigliando e
stiracchiandosi, godendosi quegli ultimi istanti di calore delle coperte.
“Eleanor mi ha coperto, è pettegola quella ragazza, ma sa il fatto suo.” spiegò
Harry aprendo i cassetti del comò come se fosse camera sua. Lanciò un
maglione e un paio di pantaloni a Louis, sorpreso da quel gesto. “Che stai
facendo?” chiese perplesso.
“Ti porto fuori. Cioè fuori in giardino.” aggiunse specificando, poiché di uscire
fuori dai cancelli del Palazzo non se ne parlava neanche. “Ti aspetto fuori.”
Louis lo guardò andarsene, alzandosi di scatto e cercando di fare più in fretta
possibile. Era curioso di sapere che cosa avesse il soldato in serbo per lui,
quindi si diede una lavata veloce e si vestì rapidamente.
Non appena fu fuori dalla stanza, Harry lo prese per mano e iniziò a correre,
prendendo corridoi mai visti prima d’allora. “Harry aspetta!” urlò Louis già con
il fiatone. Harry si bloccò di colpo, cambiando improvvisamente direzione e
entrando in una stanza lì vicino. Chiuse la porta, sbattendoci Louis in modo
poco elegante mentre col dito faceva segno di fare silenzio. Il pianista rideva
piano, trovando l’altro molto buffo mentre tentava in tutti i modi di non farsi
scoprire da nessuno.
“Non posso farmi vedere in giro, tecnicamente sono malato.” spiegò,
appoggiando le mani ai lati della testa di Louis, sulla porta fredda di legno.
Louis si beò di quegli istanti, guardandolo meglio. Il viso di Harry era
concentrato nel sentire i passi che pian piano si avvicinavano. Gli occhi
assottigliati per udire meglio qualsiasi rumore, non facevano vedere molto il
colore verde che apparteneva loro, ma Louis li amò lo stesso.
Poi la sua attenzione si rivolse verso quelle labbra, che in quel momento
venivano torturate dai denti bianchissimi del ragazzo. Aveva così tanta voglia di
baciarlo che si avvicinò senza pensarci, con gli occhi lucidi per il desiderio e le
labbra già semiaperte. Ma Harry era troppo preso dal non essere scoperto, così
non si accorse neanche del repentino avvicinamento di Louis. Lo trascinò via
dalla stanza non appena il rumore di passi svanì, portandolo in un luogo
abbastanza appartato in giardino.
La primavera in Russia iniziava ufficialmente a Marzo, ma si doveva attendere
proprio Maggio per avere qualche grado in più sopra lo zero. Louis si strinse nel
suo cappotto, amareggiato per la mancata occasione di bacio con Harry. Voleva
davvero farlo, ma il destino come il solito non era mai dalla sua parte. Decise di
riprovarci durante quella giornata, sperando di essere più fortunato.
Sotto un albero ancora spoglio per il passato inverno, vi era una tovaglia da
picnic con sopra un cestino probabilmente pieno di chissà quante leccornie.
Louis sorrise felice, ogni giorno con Harry era sempre una sorpresa. Era così
romantico quel ragazzo che il pianista credeva davvero di sognare.
Mangiarono e chiacchierarono allegramente, parlando del tempo, delle persone
del Palazzo, dei loro ricordi da bambini, dei libri che avevano letto. E più Harry
parlava con quelle labbra morbide più Louis sognava di prenderle e farle sue,
mordendole e succhiandole fino alla morte. “Voglio baciarti.” si lasciò scappare
infatti, mentre era imbambolato a guardare quelle colline rosse. Non appena si
rese conto che aveva detto ad alta voce un suo pensiero arrossì, ma non distolse
lo sguardo dal volto di Harry, adesso sorridente. “Non ti fermo.” aveva risposto
leggermente emozionato. “No.” Louis disse, mettendo però subito le mani
avanti. “C-cioè non così. Avrei voluto baciarti di sorpresa per farti capire che io
sono pronto.” aveva confessato, troppo imbarazzato da non voler mostrare più il
suo volto, nascosto fra le mani.
Harry rise piano, avvicinandosi all’altro e scostando quelle dita che coprivano il
viso rosso del pianista. “Ok allora facciamo così: io faccio finta di parlare del
tempo o di qualcos’altro di futile, poi mi giro e tu mi baci all’improvviso, va
bene?”
E Louis lo baciò, lasciandolo davvero di sorpresa. Appoggiò le labbra contro
quelle del riccio con forza, mostrando tutto il desiderio represso dei mesi
passati. Assaggiò quelle labbra, beandosi del loro sapore e della loro
morbidezza. Harry ci mise qualche attimo per realizzare ciò che stava
succedendo, ma fu subito pronto a infilare le dita tra i capelli di Louis e
spingerlo ancora più contro sé. Il riccio aprì leggermente la bocca, leccando le
labbra sottili e leggermente ruvide per il freddo e chiedendo il permesso di
entrata.
Il pianista si staccò da quel bacio e subito Harry sentì più freddo del solito, ma
quando notò che Louis si era staccato per posizionarsi tra le sue gambe, il cuore
tornò a scaldarsi. In quella posizione era più facile abbracciare il pianista, che
aveva nuovamente posato le sue labbra in un nuovo bacio, più approfondito.
Louis gli aveva lasciato libero accesso e avevano iniziato entrambi ad esplorarsi
con la lingua, mentre i cuori battevano più velocemente del solito. Cercavano di
respirare l’uno dentro la bocca dell’altro, cercando sempre di più,
approfondendo più che potevano.
Harry fu il primo a staccarsi, unendo le loro fronti per riprendere fiato. Il
pianista pensò che non c’era niente di più tenero al mondo, vederlo con le
guance arrossate, quelle fossette da riempire di baci e quegli occhi lucidi per il
desiderio e la voglia, gli fece credere che non ci fosse nulla di più giusto della
loro relazione.
“Sono un idiota.” affermò, giocherellando con i ricci dell’altro. “Ho aspettato
così tanto tempo per una cosa così bella, sono un idiota.” ripeté ancora.
Harry rise piano, prima di avvicinare di nuovo le loro labbra.
“Non preoccuparti. Abbiamo una vita davanti.”
I cuori di Louis e Harry battevano in ‘allegrissimo’.

Settembre 1917, San Pietroburgo.

Harry e Louis avevano passato tutta l'estate a baciarsi ovunque. Si baciavano


appena svegli se avevano dormito insieme, si baciavano prima di andare a letto
se non potevano dormire insieme. Si baciavano quando Harry lo trascinava in
stanze buie e abbandonate perché sentiva la sua mancanza, si baciavano quando
Anastasija finiva la lezione e scappava via per portare qualcosa da mangiare a
Harry. Le labbra del riccio erano ormai diventate come una seconda casa per lui
e non poteva più farne a meno. Avevano provato anche ad andare oltre i baci,
anche perché più passava il tempo più diventavano passionali e voraci,
accompagnati da mani che fremevano di toccare qualsiasi lembo di pelle.
Una sera di Agosto nella camera di Louis, Harry era persino riuscito a
spogliarlo lasciandolo a petto nudo e giocando col suo collo, leccandoglielo,
succhiandolo in diversi punti mentre erano sdraiati sul letto. La sua mano
scorreva veloce verso il basso, giocherellando con l'elastico delle mutande
dell’altro.
"Aspetta" aveva detto Louis, mentre guardava le dita di Harry immobilizzarsi
immediatamente. "Io non ho mai.." pronunciò lentamente, cercando di fare
capire al giovane soldato che era completamente inesperto in quel campo. Harry
lo baciò sulle labbra, cercando di calmarlo, succhiando quella bocca di cui
ormai conosceva ogni sapore. "Ti fidi di me?" gli aveva chiesto, prendendo il
suo mento fra le dita e scavando nei suoi occhi azzurrissimi per il desiderio.
Louis non ci pensò neanche un attimo e annuì deciso, cambiando la risposta ad
una
domanda che gli era già stata fatta mesi prima. Harry sorrise, lasciandogli un
leggero bacio a fior di labbra e scendendo di nuovo giù col volto. Questa volta
Louis non lo fermò quando Harry infilò la mano dentro i -

"Ed! Non voglio sentirle queste cose!" esclamò Luke rosso in volto, sorpreso
dalla sfacciataggine dell'amico.
"Oh su non fare il pudico adesso. Tu fai anche di peggio col tuo amichetto."
rispose il rosso, riferendosi chiaramente a Calum.
"Ma..". Ma Luke non trovò alcuna giustificazione possibile, così Ed continuò il
racconto.

La mano di Harry scivolò dentro i boxer di Louis, che era già completamente
eccitato. Quest'ultimo si lasciò anche sfuggire un gemito, che il riccio prese
come una risposta positiva ai suoi tocchi. Così iniziò a massaggiare lentamente
l'erezione dell'altro, ancora coperta dai boxer divenuti fin troppo fastidiosi. Le
dita calde di Harry si prendevano cura di Louis con una calma e una bravura
disarmante, tanto che il pianista pensò di morire sotto quei tocchi. Gemette
quando le dita dell'altro si strinsero in una leggera morsa, iniziando a muoversi
su e giù in un movimento costante che stava facendo impazzire Louis. Mosse il
bacino verso l'alto, troppo estasiato dal piacere immane che stava provando da
non accorgersi che Harry aveva avvicinato il volto alla sua erezione, con le
labbra schiuse. Quando Louis capì le intenzioni dell'altro era già troppo tardi:
Harry gli aveva abbassato i boxer e lo aveva preso tutto in bocca, assaggiandolo
in tutta la sua lunghezza.
“Harry!” urlò, mettendosi a sedere e scostando il riccio.
“Non dirmi che non ti piaceva!”
“No, cioè sì che mi piaceva!” balbettò il pianista col fiato corto per tutte le
emozioni che stava provando. “Ma non sei obbligato.” aggiunse, accarezzando i
capelli dell’altro che scoppiò in una sonora risata.
“Ma stai zitto e rilassati.” gli ordinò quest‘ultimo, tornando a occuparsi
dell’erezione di Louis. La leccò lentamente, facendo esasperare il povero
pianista che stava per esplodere. Gli massaggiò i testicoli e poi la punta
arrossata, per poi leccarla e baciarla con quelle labbra che sembravano plasmate
proprio per quel lavoro. Louis stringeva le coperte con una mano, mentre l’altra
si incastrava tra i ricci di Harry, accompagnando le spinte in basso della testa
mentre il soldato riprendeva a pompare il suo membro.
“Harry..” chiamò ancora Louis, questa volta in un gemito di piacere, mentre
reclinava la testa all’indietro e chiudeva gli occhi per il troppo godimento.
Il riccio gli afferrò le natiche, per posizionarlo meglio mentre continuava a
giocare con la lingua, portandolo dritto dritto al culmine. “Harry sto..” ma non
fece nemmeno in tempo a finire la frase che in un urlo strozzato venne dentro la
bocca del soldato che, piuttosto compiaciuto del lavoro ben fatto, si asciugò la
bocca col dorso di una mano mentre con l’altra continuava a stringere una
natica.
I cuori di Louis e Harry battevano in ‘presto’.
“Chi è che non è obbligato?” domandò a Louis, guardandolo con un sorriso di
strafottenza prima di impossessarsi della sua bocca e baciarlo fino allo
sfinimento.
O meglio, fino a quando non sentirono la voce di Anastasija dal corridoio.
I gemiti che avevano riempito quella stanza vennero sostituite velocemente
dalle imprecazioni poco carine di Harry che di certo non sarebbero piaciute alla
Chiesa Ortodossa. Si rivestirono in fretta, anche se Louis era ancora
leggermente scosso a causa dell’orgasmo appena avuto.
“Louis, Harry è lì con te?” chiese Anya bussando alla porta.
“Emh, no, qui non c’è!” esclamò abbastanza forte da farsi sentire dal Palazzo
intero probabilmente, mentre passava la camicia al riccio.
“Ma stai bene? Sembri strano?” insistette ancora la piccola Anya, che di certo
non peccava di intelligenza.
“Sì, tranquilla.” la rassicurò Louis, guardandosi all’unico specchio presente in
camera per dare una forma decente ai suoi capelli. Anche se per quel rossore
delle guance proprio non poteva farci nulla.
“Posso entrare?” chiese ancora la granduchessa, facendo alzare gli occhi al cielo
ad Harry che stava facendo scendere giù chissà quale santo. Fu costretto persino
a nascondersi sotto al letto, un’apertura tanto stretta quanto impolverata.
Anastasija non vide Harry in quella stanza, ma le lenzuola sfatte, le guance
bollenti di Louis e gli stivaletti neri del soldato erano buoni elementi per
supporre che il riccio fosse lì. Non fece domande, ma con la tristezza nel cuore
chiuse la porta dietro sé e andò a piangere nel suo letto.
Quella fu l’unica volta in cui si spinsero più avanti dei baci, anche perché poi
iniziò Settembre e i guai arrivarono proprio con l’autunno.
Nonostante il Governo Provvisorio avesse già poco potere, i pilastri dell’impero
assoluto zarista stavano iniziando a crollare. Tra il popolo l’idea del comunismo
iniziava ad apparire come la cosa giusta, l’esempio da seguire, mentre i
bolscevichi capitanati da Lenin acquistavano sempre più consensi e quindi di
conseguenza potere.
“E’ tutto sotto controllo.” diceva ogni giorno la zarina Aleksandra, parole a cui
non credeva neanche lei stessa. Marija non mangiava neanche quasi più, Ol’ga e
Tat'jana praticamente non dormivano mai, in ansia per la salute della loro
famiglia.
Le condizioni di salute di Aleksej peggioravano di giorno in giorno, e
Anastasija non sorrideva più, anche se questo era ormai appurato da diverse
settimane.
La consapevolezza che tutto stava per finire e che probabilmente sarebbe anche
finita molto male li stava divorando vivi. Affrontavano la situazione ognuno in
modo diverso certo, ma tutti con un’unica sola preoccupazione: la morte.

25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 16:00.

“A che pensi Louis?” chiese Harry seduto comodamente sul divanetto con
l‘altro, carezzandogli i capelli. Anastasija aveva appena finito la lezione di
pianoforte ed era uscita per prendere un po’ d’aria. Stare rinchiusa ventiquattro
ore su ventiquattro non le faceva affatto bene, e anche se sostare in giardino era
molto pericoloso, ne aveva bisogno.
Avevano deciso di continuare le lezioni, perché gradite o meno, erano gli unici
momenti in cui Anastasija smetteva di pensare alla guerra. Aveva anche fatto
progressi negli ultimi mesi, forse anche perché sperava che se avesse imparato
in fretta tutte le nozioni, Louis se ne sarebbe andato da Palazzo.
“Non so che pensare.” rispose, facendo intrecciare le loro mani. “Là fuori c’è la
fine del mondo e ho tanta, tantissima paura.” confessò, chiudendo gli occhi,
cercando di godersi le attenzioni del soldato.
“Andrà tutto bene.” lo consolò Harry, rincuorandolo che parole che sapevano di
bugia. Ma volevano crederci comunque, perché non era rimasto loro nient’altro.
“Sono preoccupato per la mia famiglia.” aggiunse poi Louis, dopo qualche
attimo di silenzio. Harry lo strinse ancora più forte a sé, in un abbraccio quasi
soffocante, ma che serviva a fargli capire che lui c’era e che ci sarebbe sempre
stato.
“Loro sono lontani da tutto questo, sono al sicuro.” gli disse il riccio riferendosi
alla madre e alle sorelle del giovane accanto.
“Siamo noi a non essere al sicuro.”
“Farò di tutto per farti restare al sicuro. Te lo prometto.”
Harry si sporse in avanti per poterlo baciare, ma l’altro si scostò
immediatamente, con una leggera risata per smorzare quell’aria tesa che si era
venuta a creare.
“Ci scopriranno, scemo.” gli aveva detto, spingendolo via. Ma Harry rise con
lui, riabbracciandolo di nuovo e prendendogli il mento tra le dita, iniziando a
baciargli tutta la mandibola ricoperta da un po’ di barbetta incolta. “Voglio solo
suggellare questa promessa.” insistette, premendo finalmente le sue labbra
contro quelle del pianista, che non si oppose per nulla, ma anzi, gli diede libero
accesso.
In quel bacio trovarono speranza, ma in quel bacio trovarono anche la loro
rovina, perché dalla porta che Anastasija aveva lasciato socchiusa, c’era la
cameriera Eleanor che proprio quel giorno aveva deciso di compiere a dovere il
suo lavoro e pulire tutte le stanze.
Rimase sconcertata da ciò che vide. Era immorale che due uomini si baciassero
e ancora di più lo era se si trattava di una persona di un certo livello come Louis
e un semplice mercenario.
Non perse tempo, lasciò scopa e pezze proprio lì davanti la porta e andò dritto
dalla zarina, a confessare qualcosa che mai il Palazzo d’Inverno aveva visto.

25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 19:00.

Due ore dopo, Louis il pianista acclamato da moltissime persone in Russia, fu


convocato alla presenza della zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova, che pur
di non pensare alla guerra, aveva deciso di preoccuparsi delle cose che
riguardavano il suo adorato Palazzo, lasciato nelle sue mani dal marito Nikolaij
II partito per la guerra.
“Vostra Maestà.” si inchinò il giovane, sorpreso per quella chiamata improvvisa
e curioso di sapere che cosa volesse da lui la donna più potente del mondo.
Quello che vide fu come un dejà vu: la zarina era seduta comodamente sul
divanetto, sorseggiando tè nero d’alta qualità, esattamente come la prima volta
che si erano incontrati.
La differenza stava nel fatto che gli occhi di Aleksandra erano di un azzurro
spento, quasi assente, e persino la sua maschera da donna austera non riusciva a
coprire quella perdita improvvisa di colore. Louis si morse un labbro: sapeva
che anche lei in fondo, aveva un cuore d’oro e che la guerra la stava
distruggendo, come stava distruggendo tutta la popolazione russa.
“Hai fatto un ottimo lavoro in questi mesi.” aveva iniziato la donna, senza
neanche guardarlo negli occhi. “Hai persino insegnato qualcosa a quelle teste
dure delle mie bambine.”
Louis si sforzò di fare un sorriso, mentre sussurrava un debole “Grazie.”.
“Sai, avresti potuto anche continuare a lavorare qui, magari insegnando il
pianoforte alle mie figlie. Ma poi mi è giunta voce di una certa relazione che sai,
caro Louis, non ci fa fare di certo una bella figura di fronte agli altri.”
Il cuore di Louis mancò di un battito. O forse di due, tre.
Era certo che stesse parlando di lui e Harry, li avevano scoperti, se lo sentiva. Il
suo labbro tremò, gli occhi si riempirono di lacrime ma da qualche parte dentro
sé trovò la forza per chiedere “In che senso, vostra Maestà?”
“Devi andartene, Louis, entro stasera. Non possiamo cacciare via il soldato
perché in un momento come questo una guardia in più non può farci che
comodo, ma un pianista al momento non è più richiesto.”
Louis inghiottì, incapace di rispondere. La sua mente era annebbiata,
l’immagine della zarina era ormai sfocata. Immobile e cercando di non cedere al
dolore davanti Aleksandra, si inchinò come aveva fatto appena era entrato e
disse: “Sono stato onorato di lavorare al vostro servizio. E’ stata l’occasione più
grande della mia vita. E non mi pento di nulla.”
La zarina rimase sorpresa per quella grande forza che aveva mostrato il pianista.
Aveva colto la leggera frecciatina dell’ultima frase, ma non gli diede peso più di
tanto, poiché aveva capito che Louis era davvero un brav’uomo.
“Dasvidania, vostra Maestà. Le auguro il meglio.” salutò Louis in un veloce
addio, prima di uscire dalla sua stanza in modo diplomatico e lasciarsi dilaniare
dal dolore definitivamente.
Si accasciò dietro la porta della zarina, non pensando che se fosse uscita
l’avrebbe visto in quello stato. Chiuse gli occhi, cercando di respirare
regolarmente, ma gli mancava l’aria, la stretta al cuore era troppo forte e si
sentiva morire. Appoggiò le mani a terra per trovare la forza di alzarsi, ma ci
vollero diversi tentativi prima che ci riuscisse. Mentre camminava dovette
aiutarsi a stare in piedi sostenendosi con una mano sul muro. Non sapeva dove
stava andando, non gli importava. Avrebbe tanto voluto cercare Harry e dirgli la
verità, ma con che faccia poteva dire all’uomo che amava che erano costretti a
separarsi? Alcune lacrime sfuggirono al controllo, rigando le guance portatrici
di tanti ricordi. Le asciugò in fretta, sperando che nessuno che passava accanto a
lui le avesse notate.
I suoi piedi lo portarono nella loro camera, mentre la sua testa era in un’altra
dimensione: stava rivivendo ogni singolo momento passato col riccio, dal primo
incontro, dalla prima colazione, al primo bacio, al primo pianto insieme.
Gli aveva regalato tutto ciò che aveva. L’anima, il corpo, la mente, era stato
tutto donato a quel ragazzo che in realtà si era già preso tutto senza neanche
chiederlo.
Lo amava, ormai ne era più sicuro. Lo amava con ogni singola fibra del corpo,
ogni singola ossa e anche se ce n’erano milioni, anche con ogni singola cellula.
Si sedette sullo sgabello davanti a quel pianoforte che con tanta gentilezza
Harry aveva fatto riparare per lui. Si ricordò che non lo aveva mai ringraziato
abbastanza per quel gesto, e che lo avrebbe fatto prima di dirgli addio.
Non riusciva neanche a pensarla quella parola. Non poteva neanche concepire di
separarsi da lui, non dopo quell’anno meraviglioso che avevano passato
insieme, seppur con qualche mese di stallo.
Senza di Harry, non gli sarebbe rimasto più nulla. O forse sì, una sola cosa: la
musica. Per questo, iniziò a premere i tasti del pianoforte davanti a sé,
rifugiandosi nell’unico mondo oltre le braccia di Harry in cui si sentiva protetto.
Tasti neri e tasti bianchi, tasti bianchi e tasti neri e poi insieme e poi separati, in
una danza guidata da quelle dita affusolate che in quel momento desideravano
essere incastrati tra i ricci del soldato, o accoccolate nelle sue guance e nelle sue
fossette.
Un sussulto ad una nota alta: Louis iniziò a piangere seriamente, versando tutta
l’anima in quei tasti che potevano capire il dolore che stava provando.
Non stava suonando una musica conosciuta, né di Strauss, né di Cajkovski. Era
solo un’accozzaglia di note che insieme suonavano dolorosamente bene. Era la
musica di Harry e Louis, dei loro ricordi, delle loro speranze, delle loro
sofferenze.
Quella sera, Louis non fece altro che scrivere e suonare.
Scrivere su pentagrammi che erano diventati pentadrammi, scrivere sinfonie che
erano diventate sinfobie.
Il cuore di Louis non batteva più.

25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 22:30.

Harry era di turno quella sera. Lui e Anya avevano deciso di leggere un bel libro
insieme, seduti insieme nel divanetto della stanza dove di solito si svolgevano le
lezioni di piano.
“… Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei,
come si vede il sole, anche senza guardare.” leggeva il riccio, con la testa della
piccola granduchessa appoggiata sulla sua spalla. Sorrise un po’ Harry a quella
frase appartenente al romanzo “Anna Karenina” , perché mentre la pronunciava
a voce alta, gli veniva in mente solo una persona che per lui potesse essere
definita “sole”.
La lettura però purtroppo fu interrotta dalla zarina, che con la sua solita
eleganza era entrata nella stanza, strascicando la gonna lunga del suo vestito
bianco e meraviglioso. “Anastasija.” chiamò severa, attirando la loro attenzione.
“Tua sorella Marija vuole andare a letto, perché non la accompagni?” aveva
chiesto, spostandosi una ciocca di quei capelli biondissimi.
Anya si alzò dal divanetto, scoccando un leggero bacio sulla guancia del riccio,
pronta ad obbedire all’ordine di sua madre che era in procinto di uscire dalla
porta.
“Ah, un’altra cosa.” aggiunse, fermandosi con una mano sullo stipite della
porta. “Da oggi in poi non seguirai più le lezioni di pianoforte. Ho licenziato
Louis.” disse, facendo immobilizzare sia Harry che la piccola rossa. “Aveva una
certa relazione con un certo soldato e questo faceva male all’immagine dei
Romanov e del Palazzo.” aveva aggiunto guardando proprio il riccio, in uno
sguardo severo, prima di scomparire.
Anastasija era sconvolta da quella notizia. Con la bocca aperta rimuginò sulle
parole di sua madre, e anche se avrebbe dovuto sentirsi felice, si sentiva uno
strazio invece. E questo era perché sentiva il dolore di Harry anche senza
voltarsi e guardarlo in faccia. Inghiottì, ma il groppo in gola rimase e con le
lacrime agli occhi si girò verso il soldato.
Aveva gli occhi spalancati, fissi per terra, così vuoti che Anastasija si sentì
gettata contro il nulla solo guardandoli. Le mani gli tremavano e a quella vista la
piccola granduchessa iniziò a piangere. “Harry..” sussurrò, avvicinandosi a lui e
prendendo una di quelle, grande il doppio della sua.
“Che cosa ho fatto Anya..” mormorò Harry, incapace di qualsiasi espressione,
muovendo la bocca come un automa. “E’ colpa mia, ci hanno visti baciarci.”
Anastasija Nikolaevna Romanova per la prima volta, mise da parte la gelosia e
decise di fare qualcosa per Harry, la sua adorata guardia.
Gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarla negli occhi. Un grande
freddo la invase quando si specchiò in quegli occhi verdi spenti. La
consapevolezza di avere gli occhi azzurri sbagliati, di avere gli occhi azzurri che
Harry non desiderava, la fece soffrire un po’, provocandole una leggera morsa al
cuore, ma cercò di non farci troppo caso, mentre poggiava le labbra sulla fronte
del riccio.
“Vai a cercarlo.” disse solamente, lasciandolo solo nella stanza e andando a
piangere per l’ennesima volta sul cuscino della sua camera.

***

Louis aveva smesso di suonare. I fogli con la nuova sinfonia scritta erano sparsi
per terra, gettati via per la disperazione. Piegato sulla tastiera ormai coperta
dalla tavola di legno, stava piangendo come non mai, scosso da brividi e fremiti,
incapace di fermarsi. Non sentì neanche la porta aprirsi e chiudersi, perché il
rumore dei suoi pensieri era troppo forte, più forte di qualsiasi altro suono. Sentì
due braccia stringerlo da dietro, due braccia il cui tocco e la stazza avrebbe
riconosciuto ovunque e pianse ancora di più, con sonori gemiti di dolore.
“Non piangere amore mio.” sussurrò Harry tra i suoi capelli, baciandogli la
testa, stringendolo a sé come se da un momento all’altro potesse spezzarsi.
Louis ebbe un fremito più forte degli altri non appena sentì la parola amore,
detta da quella voce che adorava tanto. “Non chiamarmi amore, non chiamarmi
più Harry.” mormorò, il volto ancora coperto dalle mani e appoggiato alla
tastiera chiusa.
Harry lo costrinse a voltarsi, tirandogli le braccia e scostando le mani dal suo
volto completamente bagnato. Quella visione lo spezzò completamente, ma lui
era il soldato, quello forte, quello che aveva promesso di proteggerlo da
qualsiasi intemperie e lo avrebbe fatto anche in quel momento. Gli prese il viso
tra le mani, mentre i suoi occhi iniziavano a diventare lucidi. Non ce la faceva
neanche lui a sopportare quella situazione.
“Ascoltami Louis.” iniziò, stringendo le sue gambe contro quelle del pianista,
per non farlo scappare via. “Non mi importa di nulla se non di te. Non ti lascio
andare fuori da questo Palazzo senza me, è chiaro? Fuggiamo insieme, andiamo
a Mosca dalla tua famiglia o anche in Francia o in America o ovunque tu voglia.
Ma non azzardarti a lasciarmi perché io senza te sono solo maceria.”
“Ti amo.” disse solo Louis, in due parole semplicissime che esprimevano tutto
ciò che provava in quel momento. Perché l’amore che viveva dentro Louis non
era solo felicità e gioia, ma anche dolore e sofferenza e con quelle parole voleva
solo dimostrare a Harry che non voleva lasciarlo, che sarebbero fuggiti insieme
e che tutto si sarebbe risolto per il meglio. E per credere anche lui nei suoi stessi
pensieri, baciò Harry, assaggiandolo e facendolo suo, per l’ennesima volta.
Piangeva ancora però, perché il sapore di Harry era troppo buono, perché le
grandi mani del soldato si erano già spostate sui suoi fianchi e li avevano stretti
in una dolce morsa, con le unghie conficcate nella sua carne, in segno di
possesso. Louis spostò le sue mani nei ricci dell’altro, spingendolo ancor di più
contro la sua bocca e aprendola, facendo danzare le loro lingue vogliose l’una
dell’altra in movimenti tanto veloci quanto passionali. Harry spostò la testa di
lato, per approfondire meglio quel bacio, mentre iniziava ad alzare il maglione
che indossava Louis, toccandogli la poca pancetta che aveva, sfiorando con i
polpastrelli l’ombelico per poi salire fino ai capezzoli, giocandoci un po’,
pizzicandoli e facendo rabbrividire di piacere il pianista. Gli tolse il maglione
interrompendo quel bacio, un istante che a Louis parve un anno intero, quindi
ritornò in cerca della lingua dell’altro non appena fu nudo. Iniziò a spogliare il
soldato da quella divisa che ormai odiava, che gli ricordava ogni giorno che
cosa avesse vissuto Harry e soprattutto che cosa doveva ancora vivere, dato che
la guerra imperversava fuori dalla finestra come la peggiore delle tempeste.
Cercò di non pensarci, mentre sfilava via dalle sue spalle quell’indumento,
rivelando anche la cicatrice sul fianco del riccio.
Louis la accarezzò, senza interrompere il bacio, per fargli capire che avrebbe
continuato a curare le sue ferite, anzi, che avrebbero continuato a curarsi a
vicenda, che fossero stati fuori o dentro il Palazzo.
Harry strinse le cosce dell’altro, trascinandolo sopra di sé e facendo scontrare i
loro bacini, che provocarono l’uscita di un gemito da parte di entrambi. Louis
sorrise, asciugandosi le lacrime rimaste con le mani, mentre tornava a dedicarsi
alla bocca famelica del riccio. Iniziò a strusciarsi contro il bacino di
quest’ultimo, facendo accrescere sempre più entrambe le erezioni.
Quel gesto sorprese non poco il soldato, che mai si sarebbe aspettato un passo
avanti del genere dal suo ragazzo. Perché ormai lo definiva così, il suo ragazzo.
Stavano insieme e lo sarebbero stati per sempre e questo pensiero fece
aumentare in lui la voglia di farlo suo, di entrare dentro di lui e restarci
all’infinito.
Lo sollevò leggermente, sempre prendendolo dalle cosce, abbassandogli di poco
i pantaloni e i boxer con essi. Louis lo lasciò fare, anche mentre il riccio iniziava
a muovere lentamente la mano sul suo membro.
Ma la verità era che non voleva sentirsi da meno e che vedere Harry godere
sarebbe stata la cosa più bella del mondo, quindi con un po’ di coraggio e fra un
gemito e l’altro, iniziò a slacciare la cintura dell’altro e a sbottonargli i
pantaloni. Con la mano leggermente tremante e l’altra a stringere forte una
spalla di Harry, si insinuò dentro quella stoffa, toccando l’erezione già formata
del riccio. Era caldissima e dura e Louis la trovò perfetta per la sua mani,
iniziandola a massaggiare un po’ inesperto ma con la speranza di fare la cosa
giusta.
“Louis!” gemette Harry, avvicinando la sua bocca alla spalla dell’altro per
poterla mordere e soffocare i suoi gemiti su quella pelle candida. “Continua.” lo
incitò, baciandogli e succhiandogli il collo, mentre con la mano continuava a
dargli piacere.
Le loro mani sul membro dell’altro, le bocche a succhiare lembi di pelle chiara,
i loro cuori a battere in sintonia. Non si sentivano sbagliati, come celatamente li
aveva definiti la zarina. Non si sentivano neanche giusti, perché stavano facendo
qualcosa di insolito. Si sentivano solo Harry e Louis, due innamorati pronti a
fare l’amore, ad appartenersi come nessun altro si era mai appartenuto prima di
allora.
Il desiderio di entrambi però aumentava spropositatamente, così Harry si alzò in
piedi, alzando con lui il pianista che tra le sue braccia sembrava ancora più
piccolo. Lo appoggiò sul legno del coperchio della tastiera, sfilandogli
definitivamente quei pantaloni e quei boxer e gettandoli via, seguiti a ruota dalla
divisa e dagli stivaletti neri.
Le mani di Louis tornarono tra i capelli di Harry, il quale riprese il bacio
interrotto dai gemiti e iniziò ad accarezzare ogni singola parte del corpo del
pianista.
“Che non si dica in giro che non ne capisca niente di pianoforte.” aveva
mugugnato tra le sue labbra, mentre Louis roteava gli occhi rassegnato.
“Idiota.” gli disse anche. Harry rise tra le sue labbra, per poi catturarle e
torturarle ancora e ancora, mentre le sue mani iniziavano ad aprire le cosce del
pianista. Staccandosi dal bacio, portò due dita sulle sue stesse labbra, leccandole
e bagnandole più che poteva. Quella scena fece eccitare ancora di più Louis, che
ormai senza imbarazzo e vergogna, ormai donatosi completamente a Harry,
aveva iniziato a masturbarsi da solo, con le labbra schiuse, il respiro pesante e
gli occhi lucidi per la troppa voglia di sentirlo dentro. Harry non resistette a
quella visione di Louis che si dava piacere di sole, così senza avvertirlo
conficcò un dito sulla sua stretta apertura, cercando di allargarlo il più possibile.
Louis urlò di dolore, aggrappandosi forte alle spalle dell’altro e conficcando là
le sue unghie che avrebbero lasciato il segno per molti giorni. Strinse i denti e
chiuse gli occhi, mentre sentiva che stava per dividersi in due, soprattutto
quando Harry aggiunse l’altro dito e iniziando a sforbiciare. Una lacrima uscì e
rigò il volto di Louis, ma fu raccolta immediatamente dalle labbra del riccio, che
fra un sospiro e l’altro disse: “Rilassati Lou, farà meno male.”
Louis volle credergli e provò con tutte le forze a rilassarsi. Ci mise qualche
minuto, ma finalmente il dolore iniziò ad essere sostituito da un forte piacere,
che lo fece gemere più forte di prima.
Harry si beò di quel volto gemente di piacere, guardando la cosa più bella del
mondo e desiderando più che mai di possederla. Così sfilò le dita e guardò negli
occhi Louis, unendo le loro fronti. “Voglio sentirti dentro.” fu tutto quello che
disse il pianista, aprendo ancora di più le gambe e cingendole al bacino di
Harry, che non facendoselo ripetere due volte, entrò in lui in un’unica botta.
Louis urlò nuovo di dolore, cercando con tutte le forze di non piangere. Ma
seguì nuovamente il consiglio di Harry e aggrappandosi al bordo del pianoforte,
si rilassò, facendo segno al riccio di continuare con le spinte. Queste
diventarono sempre più veloci, Harry stava impazzendo dentro quella carne,
l’avrebbe fatta sua ancora e ancora, unendosi alla persona più importante della
sua vita in un abbraccio di pelli e cuori infinito. Louis iniziò ad abituarsi,
muovendo il bacino in sincronia con quello di Harry, in movimenti veloci e
contemporanei.
Non c’era nient’altro intorno a loro, solo il rumore delle pelli che sbattevano e
dei cuori che palpitavano.
Non sentirono null’altro che i loro respiri mescolarsi, i loro gemiti incontrarsi e i
loro brividi unirsi.
Non sentirono che fuori dal palazzo, i Bolscevichi stavano già prendendo san
Pietroburgo, in una battaglia di sangue e orrori. Non sentirono che i rossi
stavano per arrivare al Palazzo, non sentirono le urla delle popolazioni. Non
sentirono che la Rivoluzione d’Ottobre era già iniziata.
I cuori di Louis e Harry battevano in ‘prestissimo’.

***

“A che pensi adesso Louis?” aveva richiesto Harry, abbracciandolo dopo


l’orgasmo appena avuto. Gli accarezzò le guance arrossate, facendolo scendere
dal pianoforte senza mai lasciarlo.
“Voglio andare a Mosca. E anche in Francia e in America.” rispose il pianista,
baciandolo a fior di labbra. “Voglio andare ovunque, con te.”
“Ti porterò ovunque.” gli sorrise il riccio, staccandosi da lui per cercare i propri
abiti, lanciati chissà dove nella foga del momento vissuto poco prima.
Si rivestirono in silenzio, senza mai staccarsi gli occhi di dosso, senza smettere
di sorridersi l’un l’altro, senza smettere di appartenersi anche a distanza.
Non appena il soldato infilò l’ultimo bottone nell’ultima asola della camicia, si
avvicinò nuovamente a Louis, prendendogli la mano e stringendola con forza e
delicatezza allo stesso tempo, giocherellando quelle dita di cui il ricordo sul suo
corpo era ancora freschissimo.
“Vai a fare la valigia, io vado a salutare Anastasija. Non posso fuggire senza
salutarla.” gli disse, baciandogli una tempia. Louis gli sistemò il colletto della
camicia annuendo a quelle parole. Harry e Anya avevano sempre avuto un
ottimo rapporto ed era normale che il riccio avesse il desiderio di dirle addio,
prima della loro fuga d’amore. Tremò a quel pensiero perché aveva tantissima
paura. Ma finché era con Harry, tutto sarebbe andato bene.
“Dille da parte mia che è stata l’alunna più cocciuta che io abbia mai avuto.”
Sospirò, ripensando a tutte le lezioni passate con la granduchessa, a tutti i suoi
bronci e ai suoi dispetti e poi sorrise, aggiungendo “E che le voglio bene.”.
Harry lo baciò, mordendogli piano le labbra e chiedendo per l’ennesima volta
l’accesso alla sua bocca, che però gli fu negato. “Vai a salutarla.” gli ordinò,
spingendolo lontano, per poi riavvicinarlo a sé, tirando quella camicia logora di
ricordi. “Però prima promettimi che tornerai presto da me.”
Una frase sincera che suonava di più come una preghiera, proveniente dal cuore
di Louis senza fermate o ritardi, una richiesta che arrivò ad Harry come la più
bella promessa da dover mantenere.
Il soldato gli baciò la fronte, poi le palpebre e il naso, poi le labbra e il mento.
“Ti amo.” rispose, promettendo non solo di tornare presto, ma di restargli
accanto per sempre, a proteggerlo, come i migliori dei soldati dell’esercito
dell’amore.
Si staccarono controvoglia, salutandosi un’ultima volta con uno scontro lieve di
labbra per poi separare le loro strade, una verso una valigia da preparare, una
verso la piccola Anastasija.

26 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 00:30.

Camminando tra i lunghi corridoi del Palazzo che sembravano labirinti, Harry
notò che era successo qualcosa. Di solito a quell’ora della notte c’erano solo
poche persone in giro, solo qualche cameriere e qualche guardia di turno. Quella
notte invece c’era un via vai di servi e soldati, chi correva, chi portava tra le
mani una quantità enorme di vestiti. Senza pensarci più di tanto, il soldato corse
verso la camera delle piccole granduchesse, sperando che Anastasija fosse
ancora sveglia.
Ma la verità era che in quella stanza, tutta la famiglia Romanov, meno lo zar, era
riunita in un religioso silenzio che spaventò Harry. Nell’enorme stanza affollata
dalla famiglia imperiale e da qualche guardia, c’era così tanta tensione che il
soldato riccio non poté fare a meno di sentirsi male.
La prima persona che notò fu la zarina, affacciata alla finestra della camera con
gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, in un’espressione di stupore che mai
prima d’allora aveva solcato il suo volto. Harry chiuse gli occhi, forse era solo
un incubo quel volto di dolore della zarina. Ma poi guardò in faccia i suoi figli e
non poté fare a meno di pensare a Louis che aveva lasciato solo.
Anastasija corse ad abbracciarlo, bagnandogli la camicia di lacrime.
“Oh Harry, sei tu.” aveva detto la piccola Marija, con il suo abitino bianco tutto
stropicciato dalle sue mani che per l’ansia non riuscivano a stare ferme.
Harry abbracciò forte la piccola granduchessa, chiedendole cosa fosse successo.
Fu Ol’ga a rispondere, tenendo sulle ginocchia il piccolo Aleksej che poche
volte il soldato aveva visto fuori dalla sua personale stanza, di solito sempre
chiusa.
“Hanno preso San Pietroburgo.” aveva risposto la più grande, dai capelli
lunghissimi color nero corvino, attorcigliati in una grande treccia.
Harry non comprese subito quelle semplici parole. Continuando ad accarezzare
la schiena di Anastasija che piangeva a dirotto senza accennare a smettere, si
chiese se Louis avesse fatto la valigia, se Louis avesse già saputo dell’orrenda
notizia, se Louis stesse bene.
Louis, Louis, Louis solo lui nei suoi pensieri.
Avrebbe voluto piangere però. Non solo perché doveva dire addio a quella
ragazza che aveva tra le braccia, ma anche perché con la presa di San
Pietroburgo, la fuga d’amore con Louis si sarebbe complicata drasticamente.
Non era più sicuro di niente, non era più sicuro di farcela. Sapeva solo che
avrebbe preso la mano del suo ragazzo e l’avrebbe trascinato fuori da quella
città, dal dolore, dalla guerra. Avrebbero attraversato strade con in nemici
armati, con i feriti urlanti, con le vittime di quel massacro che avrebbe segnato
per sempre la storia della Russia.
Rabbrividì a quel pensiero, ma Harry non poteva permettersi di perdere la
lucidità in quel momento. Tenendola stretta, portò la piccola Anya in un angolo
della stanza, asciugandole le lacrime e cercando di non farla piangere più.
“Louis dice che ti vuole bene sai?” le disse, sforzandosi di sorridere anche se
non era proprio il momento. “Ti saluta tanto.” aggiunse, cercando di farla
distrarre dai pensieri sulla guerra. Anastasija si asciugò gli occhi col dorso della
mano, tirando su con il naso. “Ma io l’ho sempre trattato male.” confessò,
sorpresa da quella dichiarazione.
Harry le lasciò un bacio in fronte, abbracciandola di nuovo. “Non gli importa, ti
vuole bene lo stesso.”
E Anastasija pianse più forte pentendosi di ogni momento di gelosia provato, di
ogni istante in cui aveva cercato di separare quei due che sembravano nati per
stare insieme. Pianse perché la fine era vicina, lo sentiva nelle ossa e nelle
membra, pianse perché lei non aveva mai avuto occasione di innamorarsi.
Pianse perché si era pentita non aver mai abbracciato Louis. Pianse perché
avrebbe dovuto difenderli e evitare il licenziamento del pianista. Pianse perché
semplicemente avrebbe dovuto lasciarli andare via dal palazzo mesi e mesi
prima, quando ancora Sanpietroburgo non conosceva il sangue che colava dagli
angoli dei marciapiedi.
“Prendiamo il passaggio segreto e fuggiamo da San Pietroburgo.” aveva detto
Aleksandra, interrompendo i pensieri di chiunque in quella stanza.
Con un’estrema eleganza, si allontanò dalla finestra e con passi leggiadri e
delicati, aprì una porticina accanto all’armadio. Harry era sempre stato a
conoscenza di quel passaggio che portava fuori città, un’uscita di emergenza dal
Palazzo.
Aleksandra prese in braccio il figlio più piccolo, e avvolse entrambi nel suo
scialle bianchissimo come la neve. Col braccio libero e con al collo le mani del
piccolo Aleksej, tolse la corona di diademi simbolo di tutta la sua potenza,
poggiandola sul comò.
“Sono arrivati.” aveva detto infine, facendo segno alle figlie più grandi di
entrare nel passaggio.
Subito dopo, si sentì una fortissima esplosione, che fece tremare i vetri della
finestra e i letti a baldacchino. I rossi erano arrivati ed avevano tutte le
intenzioni di conquistare anche il Palazzo d’Inverno, l’ultimo simbolo del potere
dello zar, che ormai stava svanendo nell’aria come il fumo di quella bomba
lanciata sul cancello del Palazzo, disintegrandolo e dando libero accesso al
Palazzo.
Nessuno ebbe il tempo di pensare, le guardie spinsero verso il tunnel tutti i
membri della famiglia Romanov.
Harry però rimase immobile, paralizzato dalla paura. Non riusciva nemmeno a
respirare, gli girava la testa, non riusciva a collegare tutto ciò che era successo
in quei pochi istanti. Anastasija lo spinse via in un gesto di lucidità spontanea.
“Va da Louis!” gli urlò, prima di baciargli una guancia e entrare nel passaggio
segreto, che venne chiuso un istante dopo dalla granduchessa stessa.
Quella fu l’ultima volta che Harry vide Anastasija, e quando esattamente tre
secondi dopo capì che doveva correre da Louis, la ringraziò con tutto il cuore
per avergli permesso di salvare l’amore della sua vita.

***

Uscì dalla stanza come un razzo, ma la folla di persone della servitù lo avvolse,
rendendo difficile ogni movimento. C’era chi urlava, chi piangeva, chi cercava
una qualche via d’uscita, ma la consapevolezza che tutto sarebbe finito in pochi
istanti li rendeva dolore fatto in carne e ossa.
Harry cercò di non arrendersi però. Conosceva il Palazzo come le sue tasche e
avrebbe trovato una soluzione. Ma la cosa da fare prima di tutto era trovare
Louis e portarlo in salvo. Notò che nessun soldato era in quella folla, erano tutti
all’entrata a cercare di bloccare l’avanzata dei rossi.
Passavano i minuti, ma di Louis nessuna traccia. L’ansia stava iniziando a
impossessarsi di nuovo di lui, la sua mente diventava poco lucida, stava
letteralmente impazzendo al pensiero che gli avessero fatto del male. Sentì
ancora urlare, colpi di pistola e pianti silenziosi di donne del Palazzo che
avevano perso ogni speranza, abbracciando per l’ultima volta il proprio figlio e
rimpiangendo di essere nate in Russia.
A Harry mancò l’aria mentre vagava per quelle stanze. Si appoggiò al muro,
cercando di riprendere le forze, mentre le lacrime gli rigavano il volto e nella
sua mente comparivano le peggiori immagini: non riusciva neanche a pensare
che avessero già preso Louis, non riusciva neanche a pensare che l’avessero..
Gemette dal dolore, aprendo gli occhi e continuando la sua ricerca. Lo chiamò a
voce alta, urlò il suo nome, lo invocò sperando di ricevere una qualche forma di
risposta, ma non c’era nessuno a gridare “Harry”, non c’era nessuno.
Ma poi lo vide e fu come respirare, come uscire dall’acqua dopo essere quasi
annegati, come toccare terra dopo essersi lanciati nel vuoto senza sfracellarsi.
Era lì davanti a sé, in un corridoio affollato in cerca di spazio per passare.
I loro sguardi si incrociarono e nessun quadro aveva i colori più belli di
quell’azzurro e di quel verde mescolati insieme con una sfumatura di speranza.
“Harry!” urlò più forte che poté Louis, spingendo persone e liberando la strada
verso il soldato.
Harry fece lo stesso, piangendo ancora e ancora, fino a quando non riuscì a
prendere la mano dell’altro, in una scossa elettrica mai sentita prima d’allora.
Avrebbe voluto abbracciarlo e dirgli che ce l’avrebbero fatta, ma non c’era
tempo, così fu costretto a distogliere lo sguardo dal volto del pianista e stringere
la sua mano così forte da farla diventare più bianca del normale, per poi
trascinarlo correndo verso una probabile uscita.
Corsero per un tempo infinito in quel Palazzo. Sentivano che i rossi stavano
avanzando, che le guardie non avrebbero resistito per molto e quindi dovevano
sbrigarsi. “Di qua.” gridò Harry, svoltando improvvisamente ad un vincolo che,
però, si rivelò cieco. “Maledizione.” imprecò ancora, mordendosi un labbro
senza però darsi per vinto. Tornarono indietro, continuando quel lungo corridoio
che terminava con una scalinata. Scesero velocemente, rischiando più volte di
inciampare, mano nella mano sarebbero crollati tutti e due.
Ma era così che ormai funzionava, o nessuno o entrambi. Erano diventati una
sola persona, se uno dei due non c’era, l’altro non respirava.
“Harry.” chiamò Louis, in quella che sembrava un gemito di dolore piuttosto
che una richiesta. Il riccio non si voltò verso di lui, ma iniziò a sfregare il
pollice contro il dorso della mano del pianista, per farlo calmare e per dirgli che
era al sicuro.
Ma ormai di sicuro non c’era più niente.
Arrivarono nei sotterranei del Palazzo, luoghi bui e impolverati probabilmente
mai utilizzati. Louis tremò per il freddo che regnava in quelle stanze, ma
continuò a correre seguendo il passo del soldato, che sembrava conoscere bene
le strade.
“Dove stiamo andando Harry?” chiese con fatica per il fiato che mancava, sia
per la corsa, sia per la paura.
“Dovrebbe esserci una stanza con un passaggio che porta fuori.” spiegò il riccio,
guardandosi intorno tentando di ricordare quale fosse la porta giusta.
Poi un sospiro di sollievo: l’aveva trovata.
Si voltò verso Louis, con gli occhi che brillavano, facendogli capire che l’uscita
era in quella stanza, davanti alla quale si erano fermati.
Aprì la porta della stanza, piccola e angusta, con qualche vecchio mobile
probabilmente intaccato dalle tarme. Sentirono passi scendere dalle scale su cui
erano passati: l’avanzata era vicina, le guardie avevano ceduto. Harry si fece
coraggio e entrò nella stanza, trascinando Louis con sé e chiudendo la porta. La
poca luce che filtrava permetteva di individuare la porta del passaggio di cui
Harry si ricordava. L’aveva scoperto l’anno prima, quando una notte annoiato e
senza sonno, aveva vagato nel Palazzo in cerca di una stanza per lui e Louis. Si
avvicinò a quella porticina, girandone la maniglia con ansia, mentre il pianista
dietro di lui fremeva perché nonostante tutto avevano trovato la via d’uscita.
Harry riuscì addirittura a sorridere, mentre tirava verso di sé la porta.
Un sorriso che durò esattamente un secondo.
Un secondo in musica è un’unità fondamentale. In un secondo puoi riprodurre
più di una nota. Puoi inserire una pausa, oppure iniziare una nuova battuta. Puoi
inserire un inizio di scala o di un arpeggio, oppure puoi semplicemente metterti
davanti al metronomo e ascoltare il ticchettio. Un solo ticchettio in un secondo.
Un secondo nella vita è un’unità fondamentale. In un secondo puoi baciare il
tuo ragazzo a fior di labbra, puoi sfiorargli la guancia oppure puoi anche farlo
ridere. Un secondo può essere riempito con un sorriso o con un gemito di
piacere, con un “Ti amo” detto all’improvviso o con l’inizio di una citazione di
Tolstoj. Un secondo può essere anche il passo dell’armata nemica che avanzava.
Un secondo può essere la consapevolezza della fine, che tutto era perduto.
In un secondo ci si può anche rendere conto che il passaggio segreto visto un
anno prima e in cui tanto speravi era stato murato.
Un solo battito di cuore in un secondo.
Poi il nulla.
Harry si voltò verso Louis, dopo essersi reso conto che era tutto finito. Lo
superò velocemente, spostando davanti la porta un vecchio comò malridotto,
cercando per quanto era possibile di ritardare l’arrivo dei rossi.
Louis era rimasto nella sua posizione, aveva chiuso gli occhi e aveva rivolto il
suo pensiero alla sua famiglia. Mentalmente aveva detto addio alle sue quattro
sorelle, ricordandosi dei loro sorrisi e dei loro abbracci. Aveva detto addio anche
a sua madre, la donna più importante della sua vita, sperando che non soffrisse
troppo per la perdita di un figlio. Pregò un dio che forse non esisteva e che li
aveva destinati alla morte affinché la sua famiglia fosse in salvo.
Harry intanto aveva teso l’orecchio verso la porta della stanza, cercando di
sentire dove erano arrivati i nemici. Ed erano più vicini di quanto pensasse.
L’unica cosa che gli rimase da fare, perciò, era voltarsi vero l’amore della sua
vita e baciarlo per l’ultima volta. Fu un bacio devastante che presto iniziò ad
avere il gusto amaro delle lacrime, di gemiti di dolore e di speranze perdute.
Le loro lingue stavano vorticando in una pericolosa danza della morte.
“L'amore impedisce la morte. L'amore è vita.” pronunciò Harry, non appena di
staccò da quel bacio costruito sulla sofferenza.
“Tutto, tutto ciò che io capisco, lo capisco solamente perché amo.” aveva
continuato Louis, citando forse per l’ultima volta il loro amato Tolstoj, che in
qualche modo li aveva uniti. O forse, si sarebbero ritrovati comunque, in
un’altra vita senza guerra, senza fobie, senza nulla che potesse separarli.
“È solo questo che tiene insieme tutto quanto.” concluse Harry, abbracciando
l’altro e aspettando la loro fine.
Non ebbero bisogno di dirsi altro. I loro sguardi, incastrati l’uno dentro l’altro,
parlavano per loro.
Lo sguardo verde ringraziò quello azzurro per aver guarito le ferite di guerra,
per avergli fatto conoscere un mondo bellissimo, per avergli permesso di farsi
amare.
Lo sguardo azzurro ringraziò quello verde per avergli insegnato ad amare, per
averlo fatto innamorare e per averlo salvato da sé stesso e dalle sue paure.
Poi una spinta contro la porta: qualcuno stava cercando di entrare.
Louis sorrise a Harry.
Harry sorrise a Louis.
Non si pentirono di nulla. Tutte le scelte prese aveva portato le loro strade ad
unirsi, per questo non avevano alcun rimpianto o rimorso.
Andava bene loro così, andava bene anche morire. Purché lo facessero insieme.
Un’altra spinta contro la porta: questa volta il comò dalle gambe troppo logore
per far forza, si spostò di qualche centimetro.
Harry però aveva voglia di fare un’ultima cosa, prima di cadere in balia dei
nemici. Voleva toccargli la guancia. Era così che aveva iniziato ad amarlo per la
prima volta. Perché sì, si era già innamorato del pianista al loro primo incontro e
poi anche al secondo e al terzo. Più passavano i giorni, più Harry si innamorava
di Louis.
Così, con la mano leggermente tremante, appoggiò le dita sulle guance bagnate
del pianista, salutandolo in questo modo.
Gli disse addio proprio come gli aveva detto ciao, all’inizio di quella che sarà
per sempre la più bella storia d’amore.
L’ultima spinta contro la porta: il tonfo del vecchio mobile che aveva ceduto.
I cuori di Louis e Harry batterono per l’ultima volta.
In sincronia.

Le lacrime di Luke scendevano copiose, bagnando tutta la felpa di Ed che lo


aveva abbracciato vedendolo in quello stato disastroso. Il giovane si era
commosso per la storia appena raccontata, lui, il piccolo Luke che non piangeva
mai per nulla.
Ed si era intenerito quella vista, così lo aveva stretto forte a sé cercando di
consolarlo con qualche parola di conforto.
Dopo qualche minuto, Luke riuscì a riprendersi, scusandosi per la felpa bagnata.
“Dovevi avvertirmi all’inizio che sarebbe finita così male.” disse, mollando un
pugno sulla spalla del rosso che sussultò per il dolore. “La prossima volta non ti
racconto niente, stai tranquillo!” rispose col braccio sofferente, fingendosi
arrabbiato.
“Come hai fatto ad avere questa sinfonia allora? I fogli erano rimasti nella
stanza di Louis e Harry.” aveva chiesto curioso il biondo, con la fronte
corrugata.
“Si vede che qualcuno ha avuto il buon senso di recuperarli e tramandarli ai
posteri.”
“Ma tu come la sai allora questa storia? Non è che te la sei inventata di sana
pianta?” lo accusò Luke, imbronciandosi e incrociando le braccia.
“Vai a casa Hemmings, si è fatto tardi.”
Luke sbuffò, guardando l’orologio: si era fatto davvero molto tardi, così senza
neanche pensarci più di tanto scappò via dal negozio, per evitare l’ennesimo
rimprovero di sua madre. Eppure, Ed Sheeran lo sapeva.
Sapeva che Luke era stato profondamente colpito da quella storia e che sarebbe
tornato per risentirla. Sapeva che quella melodia che aveva sentito, l’avrebbe
segnato per sempre e magari avrebbe voluto anche suonarla da sé.
Chiuse la tastiera del pianoforte, così come chiuse gli occhi, rispondendo
mentalmente all’ultima domanda posta da Luke.

Giugno 1918, Ekaterinburg.

“Caro Diario,
Questa prigionia mi sta uccidendo dentro. Preferirei che mi uccidessero subito
piuttosto che farmi soffrire in questo modo. Siamo tutti distrutti da questa
situazione, non c’è speranza. Ma ormai ci siamo arresi alla cruda realtà e la
sottoscritta Anastasija Nikolaevna Romanova di certo non ha paura di morire.
Forse un po’, ma tanto tu caro diario, rimarrai segreto.
Sai una cosa? Oggi voglio raccontarti una storia bellissima. Gli altri dormono,
quindi posso scrivere tranquillamente.
C’era una volta un soldato di nome Harry e un pianista di nome Louis e..”

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