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LO SPETTATORE E LE NUOVE PRATICHE DELLA VISIONE

di Mariagrazia Fanchi - XXI Secolo (2009)

(fonte:http://www.treccani.it/enciclopedia/lo-spettatore-e-le-nuove-pratiche-della-visione_%28XXI-
Secolo%29/)

Lo spettatore e le nuove pratiche della visione

Nell’arco di pochi anni, con una rapidità che non ha eguali nella storia delle tecnologie, la
digitalizzazione dei sistemi di comunicazione ha trasformato l’assetto e l’esperienza dei media.
L’identità degli apparati (anche dei più longevi, come i giornali, la radio, il cinema), la rete di
relazioni che li lega, le modalità di erogazione dei contenuti e il rapporto con i fruitori sono stati
così profondamente riconfigurati da rendere improvvisamente inadeguati i tradizionali paradigmi
della comunicazione mediata. Anche previsioni recenti sulle trasformazioni attese dalla conversione
al digitale sono state superate dagli scenari, complessi e ambivalenti, aperti dallo switch on, cioè
dall’avvio della transizione dal sistema analogico a quello binario.

Sebbene la palingenesi dei dispositivi mediali sia ancora in corso, e in alcuni settori non più che in
una fase aurorale, e pur a fronte della magmaticità delle forme che essa assume, alcune linee di
cambiamento sembrano ormai precisate e offrono al fruitore un primo sistema di coordinate
all’interno del quale ridefinire il proprio statuto e la propria esperienza.

La palingenesi dei sistemi mediali

La trasformazione dei dispositivi mediali si sta distendendo lungo quattro principali direttrici.
Anzitutto la diffusione delle tecnologie digitali ha innescato un processo di convergenza fra i media
(Jenkins 2006). L’adozione per tutti i mezzi (televisione, cinema, radio, editoria) di un unico
metodo di codifica dei mezzi ha reso finalmente fluidi e aproblematici i rapporti fra gli apparati.
L’intermedialità, cioè l’istituzione di una rete di relazioni fra i dispositivi di comunicazione,
condizione virtuosa, ricercata fin dalla nascita dell’industria culturale e dal costituirsi a sistema dei
suoi molti settori, risulta per la prima volta pienamente realizzabile. L’impiego del codice binario,
che va a sostituire diversi linguaggi adottati dai media (dalle immagini e dai suoni impressi sulla
pellicola per il cinema, al linguaggio elettronico della televisione), facilita infatti il passaggio di
contenuti da un apparato a un altro, favorendo la loro riallocazione in ambienti mediali talora anche
lontani, per caratteristiche tecniche e funzionali, dalla piattaforma d’origine.

La libera circolazione dei prodotti fra le piattaforme, oltre a rientrare in una logica consolidata di
sfruttamento intensivo degli immaginari, per cui temi, personaggi, intrecci vanno a rifornire
l’offerta di più mezzi, costituisce anche una risorsa indispensabile nello scenario attuale della
comunicazione. L’ingresso di nuovi supporti e il potenziamento di quelli già esistenti creano, infatti,
un bisogno crescente di contenuti e, se in passato il problema è stato quello di sfrondare, ora la
questione è di reperire materiale in quantità sufficiente a riempire i palinsesti dei molti mezzi che si
contendono l’attenzione degli utenti. Per fare l’esempio più ovvio, si pensi a come la
digitalizzazione del sistema televisivo e la conseguente moltiplicazione dei canali abbiano generato
una richiesta di contenuti cui è diventato difficile fare fronte tramite le strategie produttive
tradizionali. Di qui, fra le altre, la soluzione di sfruttare i testi prodotti dagli stessi spettatori
televisivi. Si tratta del fenomeno degli user generated contents, letteralmente contenuti generati
dagli utenti, sui quali si tornerà più avanti.

Se la frontiera verso cui sta conducendo il digitale è quella della permeabilità fra le piattaforme
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(obiettivo perseguito anche attraverso la costruzione di società che inglobano e controllano più
apparati, orchestrandone le sinergie), il processo di convergenza mostra però dei limiti.
L’omologazione dei linguaggi non abbatte, infatti, completamente le barriere fra gli ambienti
mediali e la digitalizzazione delle tecniche di produzione lascia inevasa la questione dei formati,
ossia della confezione che occorre dare a un contenuto per renderlo fruibile all’interno di uno
specifico ambiente. Un film, per es., per quanto sia ‘consumabile’ attraverso la mediazione di molti
apparati (dalla televisione al personal computer, dalla PlayStation ai lettori MP4 fino ad arrivare al
videofonino) manifesta una patente inconciliabilità con molti di essi. Si pensi a cosa possa
significare guardare un’inquadratura in campo lungo su uno schermo di pochi pollici, ma anche a
che cosa significhi vedere un film in un contesto ‘non dedicato’ e in modo discontinuo, condizioni
d’impiego usuali per molti devices mobili della comunicazione. Più che al libero scambio,
l’economia del simbolico sta dunque puntando a un modello di franchise (S. Gunelius, Harry Potter.
The story of a global business phenomenon, 2008; trad. it. Harry Potter. Come creare un business da
favola, 2008) che prevede, a partire da un nucleo tematico, la produzione di una pluralità di testi,
diversi, per formato e per contenuto, a seconda delle piattaforme che li veicoleranno. È esemplare il
caso dei mobisodes, storie brevi, che si esauriscono nell’arco di pochi minuti, ispirate a serie
televisive di successo di cui sviluppano nuclei narrativi secondari, e destinate alla telefonia mobile.

Il processo di digitalizzazione comporta, in seconda istanza, una partecipazione più estesa alla
comunicazione (Lévy 2001). La maggiore flessibilità delle piattaforme digitali e il più ampio
margine di manovra che esse concedono al fruitore moltiplicano le occasioni di consumo. Per
vedere un programma televisivo non è più necessario sintonizzarsi sul canale che lo trasmette al
momento della sua messa in onda ed è persino possibile fruirlo al di fuori del tv-set. La
digitalizzazione, infatti, allarga le possibilità di time shift-ing, eliminando i vincoli temporali della
fruizione mediante l’introduzione di nuove e più semplici procedure di registrazione dei testi (è il
caso del servizio, offerto da alcune piattaforme televisive, che consente di conservare un
programma e di renderlo disponibile per una visione successiva senza dover ricorrere a strumenti di
registrazione come il lettore VHS o il DVD recorder). Inoltre la diffusione delle tecnologie digitali
mobili rende i contenuti ubiqui e fruibili ovunque: con il videofonino, infatti, lo spettatore è in
grado di ricevere la propria trasmissione preferita in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.

Nonostante la capacità delle tecnologie digitali di diffondersi più capillarmente nel tessuto sociale e
di interpolarsi con le abitudini di vita degli utenti, la realizzazione di un sistema demotico di
comunicazione è, nei fatti, ancora di là da venire. Vedremo più avanti, tracciando il profilo del
nuovo spettatore, come l’eliminazione delle ‘barriere’ fra media e utente venga almeno in parte
pregiudicata dal permanere di soglie culturali (sociali ed economiche) che reintroducono una
divisione fra soggetti sociali ‘informati’ e altri esclusi dai flussi comunicativi e quindi anche,
nell’attuale ‘società dell’informazione’, dal consesso pubblico.

Il terzo portato dell’introduzione delle tecnologie digitali è il potenziamento e la moltiplicazione dei


servizi che ciascuna piattaforma offre. Ogni media ha la possibilità, rispetto al passato, di erogare
un volume di contenuti maggiore e, insieme, di mettere a disposizione dei propri utenti un ampio e
diversificato ventaglio di servizi (Menduni 2007). Prendiamo nuovamente il caso della televisione.
Il passaggio dai sistemi di trasmissione analogici ai sistemi binari ha, come noto, fatto crescere
esponenzialmente il bouquet di canali. Contemporaneamente, la televisione ha anche incrementato
le proprie funzioni: non più solo terminale per fruire testi audiovisivi, ma anche, per es., memoria in
cui custodire (senza il bisogno di altri supporti) le trasmissioni preferite; strumento per navigare in
rete; interfaccia con le amministrazioni locali. In linea di principio, attraverso la sola televisione
diventa cioè possibile soddisfare una serie di bisogni per i quali era prima necessario affidarsi a
supporti molteplici. La digitalizzazione determina, dunque, la concentrazione e l’omologazione
delle funzioni delle nuove piattaforme della comunicazione cosicché, almeno idealmente, ognuna
diventa capace di erogare servizi che in precedenza richiedevano l’azione combinata di più mezzi e
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diventa anche totalmente interscambiabile con essi.

Come per la convergenza e l’accessibilità, anche in questo caso, però, le forme concrete assunte
dalla comunicazione digitale confermano solo in parte la possibilità e anche l’opportunità di
favorire la cosiddetta interoperatività degli apparati, cioè appunto la loro capacità di svolgere
contemporaneamente più funzioni. Ai vantaggi che possono derivare dall’incrementare le
prerogative dei singoli media, si affianca infatti il rischio di una perdita di identità dei dispositivi
(tutti uguali a tutti) che pregiudica la loro possibilità di trovare un posizionamento nel mercato e di
stabilire una relazione forte con l’utente.

Fra i molti cambiamenti che lo switch on ha avviato, il più noto è senz’altro la ridefinizione del
ruolo dello spettatore e del suo rapporto con i media (New media worlds, 2007). Lo sforzo
impiegato per aggiornare i supporti tecnologici e apprendere le regole del nuovo sistema ha come
contropartita per il fruitore la nobilitazione del suo statuto, il riconoscimento della sua dignità e del
peso del suo giudizio sulle scelte editoriali degli apparati. Il digitale consente infatti di stabilire una
relazione addirittura paritetica fra consumatore e medium. È stato citato il fenomeno degli user
generated contents, cioè dei contenuti prodotti dai consumatori e immessi nei circuiti comunicativi
alla stessa stregua dei prodotti creati dagli apparati. Anche senza arrivare a questa forma estrema,
che evidentemente presuppone una propositività non comune da parte dei fruitori, si possono
annoverare altre e più accessibili espressioni di interattività. In primo luogo, il digitale permette agli
utenti di personalizzare la comunicazione mediata, modellandola sulle proprie esigenze. Già in
epoca analogica venivano approntati supporti per esercitare un controllo sui flussi comunicativi e
adattarli ai ritmi dei consumatori. Il successo e la diffusione di tecnologie quali il VCR o,
successivamente, il lettore DVD dicono molto sul bisogno degli utenti di negoziare modi e tempi
del consumo. Con la digitalizzazione gli spazi di intervento del destinatario della comunicazione
assumono dimensioni persino inopinate. Non solo si può decidere il quando e il dove della fruizione
(se ne è parlato a proposito dell’accessibilità), ma lo spettatore può addirittura contrattare con
l’emittente i contenuti da ricevere. Il VOD (Video On Demand) permette di scegliere che cosa fruire
e quando farlo. E anche nel caso in cui l’erogazione dei contenuti segua percorsi tradizionali (per es.,
con le reti tematiche satellitari o terrestri) la sovrabbondanza di proposte consente una libertà di
scelta senza precedenti. In seconda istanza, l’utente può stabilire un vero e proprio dialogo con
l’apparato. I dispositivi tradizionali della comunicazione mediale hanno sempre sofferto
dell’impossibilità di ricevere un feedback diretto dal consumatore, a conferma (o disconferma) della
bontà delle scelte di programmazione. Se, infatti, i dati d’ascolto consentono di stimare con buona
approssimazione la diffusione e la visibilità di un contenuto, rilevarne il gradimento si presenta
come un problema metodologicamente quasi irrisolvibile. Con il digitale la comunicazione mediale
diventa bilaterale, uno scambio non solo virtuale (quello che per la teoria dell’enunciazione si
compiva all’interno del testo, fra simulacri del destinatore e del destinatario), ma reale. Il DTT
(Digital Terrestrial Television), cioè la televisione digitale terrestre, prevede, per es., la possibilità di
mettere in collegamento l’apparato con ogni set di visione attraverso la rete telefonica. Uno
spettatore può così chiedere e ottenere informazioni sul programma in onda; esprimere il proprio
giudizio su quanto sta vedendo semplicemente pigiando un tasto del telecomando; o anche
gareggiare in un gioco a premi con i concorrenti presenti in studio. L’attivazione del canale di
ritorno permette inoltre, come si anticipava in apertura, di interagire con le istituzioni. I progetti di
T-Government, in molti Paesi già in fase avanzata, prevedono la possibilità di accedere attraverso il
televisore agli sportelli virtuali di amministrazioni locali, centri ospedalieri, istituti bancari così
come di ottenere informazioni e documenti (per es., gli esiti di esami clinici, il proprio estratto
conto bancario o ancora attestati anagrafici). La digitalizzazione, infine, offre allo spettatore la
possibilità di intervenire sui contenuti della comunicazione. Siamo a un passo dalla ‘generazione’ di
testi, tanto più che la manipolazione dei prodotti mediali già esistenti si configura sovente come una
prassi creativa. Sono esemplari gli interventi cui vengono sottoposte le opere cinematografiche
nello spazio ‘franco’ della rete informatica. Si tratta in larga misura di operazioni ‘tecniche’
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indispensabili a far circolare il film, come l’inserimento di sottotitoli, qualora la lingua originale del
testo non lo renda facilmente fruibile, o anche, più frequentemente, l’elisione di parti considerate
accessorie per ridurre l’ingombro e il peso dei file e accelerare così le procedure di download
dell’opera. Sono tuttavia in crescita anche forme di manipolazione più profonde, che riscrivono il
senso del testo, come quando una sequenza famosa viene parodiata o anche come quando un film o,
più spesso, una serie cinematografica alimentano attività grassroots, cioè dal basso, che nascono nel
‘sottobosco’ dei fan, e che ne ridiscorsivizzano l’immaginario (Klinger 2006). Una delle forme più
frequenti è quella costituita dalle action figures, sorta di cartoni animati che rimettono in scena i
topoi del testo, i suoi personaggi e i suoi principali passaggi narrativi, aggiungendo in alcuni casi
dettagli e porzioni di intreccio.

Anche con l’interattività ci si trova tuttavia di fronte a una svolta più attesa che reale e non solo per
il particolare momento che i media stanno vivendo, letteralmente a metà del guado fra il vecchio e il
nuovo sistema. Come si dirà più estesamente tratteggiando il profilo del nuovo spettatore, insieme
ai limiti della digitalizzazione, vi sono anche difficoltà più profonde legate all’investimento che la
comunicazione mediale chiede e al senso che ambisce ad avere. Se le pratiche interattive sono
dunque certamente destinate a diffondersi come correlato delle nuove tecnologie, le forme che
probabilmente si affermeranno sono quelle più blande, che poco aggiungono alle ‘attività’ già svolte
dallo spettatore analogico.

Le nuove coordinate della comunicazione

Anche se la digitalizzazione sta marciando più lentamente di quanto previsto e il suo passaggio non
ha generato quelle trasformazioni benefiche che erano state annunciate, la comparsa delle nuove
tecnologie ha indubbiamente evidenziato la vetustà dei modelli comunicativi e delle strategie
precedentemente in uso. Quel sistema di regole che nell’arco di alcuni decenni, almeno dalla
comparsa della televisione in poi, era stato costruito per rafforzare l’impatto dei media e per
assicurare la buona riuscita delle loro istanze appare oggi fatalmente anacronistico e i soggetti della
comunicazione, i produttori come i fruitori, si trovano attualmente a dover fissare ex novo i confini
e le coordinate della propria azione.

In particolare lo scenario aperto dalle tecnologie digitali sta mettendo in crisi le tre regole d’oro
della comunicazione mediale.

Anzitutto, la convergenza fra gli apparati, la possibilità per un contenuto di passare da un ambiente
mediale a un altro, senza limitazioni né necessari adattamenti, fa saltare il principio
dell’adeguazione, che prevede che un testo, per comunicare efficacemente, debba sapere da chi e
soprattutto in quale condizioni sarà fruito. L’ostensione dello spettatore, la simulazione del contesto
di consumo, la presupposizione del proprio destinatario elettivo, con le sue competenze, interessi,
disponibilità di tempo e di attenzione, procedure usate per mettere in sintonia il contenuto con la
situazione di consumo, si rivelano inefficaci e, di più, inutili dal momento che destinatario e
contesto fruitivo restano ignoti. Anche quando si ha un’idea del percorso che il contenuto cui si sta
lavorando compirà all’interno dell’arco mediale, gli ambienti che si trova ad attraversare sono così
diversi da rendere estremamente difficoltoso, se non impossibile, calibrarlo. Prendiamo il caso di un
film (È tutto un altro film. Più coraggio e più idee per il cinema italiano, a cura di F. Casetti, S.
Salvemini, 2007). Il suo iter di sfruttamento già da tempo prevede la dislocazione successiva in
ambienti mediali diversi, per tipo di supporto (la distinzione più macroscopica è quella fra grande e
piccolo schermo) e per tipo di esperienza di consumo. Ciò nonostante nella realizzazione del film
l’autore (e il produttore) possono fare riferimento alla sala cinematografica come destinazione
prima e ideale dell’opera: transito obbligato per accedere al mercato televisivo e dell’home
entertainment e soprattutto canone di visione che il pubblico si sforza di riprodurre anche dentro il
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salotto di casa propria. Questo fino a quando il digitale non ha moltiplicato i supporti in grado di
mostrare un film, proponendone anche di incommensurabili alla sala cinematografica (come i
supporti mobili), e fino a quando non ha degerarchizzato gli apparati, per cui se anche il passaggio
al cinema continua a costituire una prerogativa di successo del film, essa non si impone più né come
prima e necessaria tappa del suo sfruttamento, né come habitat ideale per la visione. Il tentativo di
accorciare o persino di abbattere le windows, cioè le finestre temporali che devono intercorrere fra
la presentazione del film in sala e il suo inserimento nelle altre piattaforme, è esemplare della
trasformazione che sta investendo il ciclo di vita del film; e così pure è esemplare la diffusione di
modalità di fruizione che non hanno nulla, o poco, a che vedere con quelle prototipiche del cinema:
in primo luogo il buio, il silenzio, e la ‘quasi immobilità’ dello spettatore. Si rimanda nuovamente a
titolo di esempio all’esperienza che del film si fa attraverso il personal computer.

Il secondo principio spazzato via dall’entropia della comunicazione mediata è quello della
pertinentizzazione dei contesti di fruizione, ovvero della loro organizzazione in funzione del testo e
delle sue peculiarità. Convergenza e interoperatività scombinano di nuovo le carte creando una
situazione nella quale sono virtuose le piattaforme che non esprimono alcuna predisposizione per un
contenuto e che accolgono esperienze e prodotti diversi; e, di contro, vengono penalizzati i contesti
che rimandano esclusivamente (o elettivamente) a un certo tipo di esperienza di consumo. Tornando
al caso del cinema, il lungo processo di definizione degli assetti della sala (dalla progressiva
eliminazione delle luci, fino alla codifica di un’etichetta della visione), finalizzato a corrispondere
al testo filmico, compromette oggi la possibilità per l’esercizio cinematografico di sfruttare la
flessibilità di destinazione offerta (o imposta) dalle nuove tecnologie. I sistemi digitali di
acquisizione dei contenuti permetterebbero, infatti, di includere nella programmazione a fianco dei
film la diretta di spettacoli teatrali, eventi sportivi o concerti. Un’opportunità che la rigidità fisica e
performativa dello spazio di visione, che lo rende inidoneo a ospitare forme di fruizione e contenuti
diversi da quelli filmici, impedisce di cogliere. Analogo problema per la televisione: per quanto
dotata di una versatilità senz’altro maggiore di quella del cinema e di altre piattaforme, anch’essa
fatica a rivedere i propri supporti per sostenere le funzioni che le sono state assegnate. In particolare,
appare complesso il lavoro di revisione delle interfacce, sia quelle software (la partizione dello
schermo), sia quelle hardware (anzitutto il telecomando), necessario a sostenere le molte e differenti
strategie di erogazione dei contenuti (dalla televisione generalista, ai canali tematici al VOD, così
come i nuovi servizi interattivi).

Da ultimo, è il principio stesso della comunicazione mediale a essere messo in discussione dalle
recenti innovazioni tecnologiche e la particolare natura della relazione che unisce lo spettatore al
medium (Bolter, Grusin 1999; Hesmondhalgh 2002). La sparizione del tradizionale modello del
broadcaster, che distribuisce contenuti senza quasi conoscere il proprio destinatario (non a caso per
lungo tempo considerato come un soggetto collettivo, non meglio identificato) e che si pone con
esso in un rapporto di tipo verticale (facendolo oggetto di un flusso di informazioni e di norme), e
l’imporsi di un modello orizzontale di comunicazione, in cui l’apparato riconosce i propri utenti e li
tratta ‘da pari a pari’ arrivando al punto di affidare loro la creazione dei contenuti, porta a
compimento il processo di avvicinamento dei media ai fruitori, già avviato in epoca analogica con
la sperimentazione di forme ‘primitive’ di interazione e di personalizzazione dell’offerta. Esso,
tuttavia, chiede anche al fruitore un impegno del tutto inedito in termini di competenze, senso
critico e propositività, che quest’ultimo non sempre vuole o può assumersi.

In particolare il neofruitore si trova a fronteggiare tre sfide che ne ridefiniscono il profilo e le azioni:
conoscere il nuovo sistema dei media, acquisire familiarità con i suoi supporti, con quelli nuovi e
con le nuove forme assunte dagli apparati tradizionali, e decidere quali utilizzare e con quali
funzioni; fissare un nuovo sistema di regole per interagire appropriatamente e produttivamente con
le piattaforme, stabilire i tempi, i modi, persino la prossemica del consumo; collaborare
fattivamente alla definizione del senso e del valore della comunicazione mediata: ripensare il ruolo
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sociale e culturale dei media e partecipare alla costruzione della loro proposta comunicativa.

Il neoconsumatore: profili e sfide

Moltiplicazione dei supporti, crescita delle funzioni e dei servizi che ciascuna piattaforma può
offrire, denegazione del rapporto elettivo fra contenuto e piattaforma: la prima sfida che la
digitalizzazione lancia al fruitore è quella di decidere quale uso fare dei diversi supporti della
comunicazione (La digitalizzazione dei media, a cura di F. Colombo, 2007). Come è già stato detto,
l’azzeramento dell’identità rappresenta in epoca digitale un vantaggio competitivo per un medium,
che può candidarsi a ospitare più contenuti ed esperienze di consumo. Contemporaneamente
l’eliminazione dello specifico delle piattaforme costringe però l’utente a un lavoro di
semantizzazione e di redistribuzione di funzioni prima avocate di imperio dai vari mezzi di
comunicazione. Così, per es., per informarsi si può decidere di acquistare il quotidiano in edicola,
oppure navigare in rete o ancora affidarsi agli aggiornamenti recapitati sul proprio telefono cellulare.
Il contenuto può anche essere lo stesso, ma l’esperienza che l’utente fa è evidentemente differente.
Sul telefono cellulare si potrà ottenere un’informazione aggiornata, ma necessariamente breve e
priva di approfondimenti. Il quotidiano tradizionale potrà invece supportare l’utente che desidera un
commento o una riflessione a margine dell’evento. E ancora ai siti Internet ci si rivolgerà per avere
informazioni ‘in tempo reale’ o da fonti alternative: si pensi alla fondamentale funzione di
conoscenza che la rete ha avuto per alcuni eventi non coperti dalla stampa ufficiale. In questo caso,
il gioco di distribuzione delle funzioni è semplice, ma vi sono realtà più complesse, in cui la
specificità della proposta delle piattaforme appare meno decifrabile, sia perché i supporti non sono
ancora pienamente conosciuti dagli utenti, sia perché la peculiarità dell’offerta è più sfumata. È
quanto avviene per le piattaforme televisive digitali. Complice l’apparente uniformità dei set di
visione, gli strumenti per la fruizione dei contenuti televisivi faticano a delineare un ambito di
impiego proprio, imponendo allo spettatore un lavoro oneroso di comparazione e di scelta, in cui
svolgono un ruolo determinante la familiarità con il medium, la facilità con cui viene introdotto
nello spazio domestico, la natura e la varietà della sua offerta, e anche fattori come il valore
intrinseco della tecnologia o la sua capacità di riattivare modalità collettive di fruizione. La
difficoltà a ritagliarsi uno spazio nello scenario dei media anche da parte di tecnologie
espressamente pensate per gettare un ponte fra analogico e digitale e per fare da volano alla
conversione al nuovo sistema dipende sovente dall’opacità della loro proposta. Esemplare l’iniziale
fallimento del DTT in Italia, da imputare a difficoltà di ordine tecnico (in particolare ai persistenti
problemi di ricezione), ma soprattutto a una comunicazione generica e vaga delle prerogative della
nuova piattaforma. Va detto che, per la società italiana, la scarsa diffusione del DTT ha significato
non solo una grave battuta d’arresto nel processo complessivo di digitalizzazione e un’innaturale
estensione della fase di switch over, cioè di coesistenza delle tecnologie analogiche e di quelle
digitali, ma anche l’approfondirsi del solco fra chi possiede le risorse economiche e culturali
necessarie ad accedere ad altre piattaforme televisive digitali (dalla televisione satellitare all’IPTV,
Internet Protocol Television, che indica le emittenti che trasmettono utilizzando la rete telefonica a
banda larga) e chi non ha opportunità né capacità per affrancarsi dai sempre più poveri ambienti
analogici. All’ideale dello spettatore che sceglie consapevolmente e con piena discrezionalità i
supporti a cui appoggiarsi si contrappone dunque la realtà di un utente ancora vincolato ad alcuni
supporti e ad alcuni contenuti, il cui accesso al plesso dei mezzi di comunicazione è tutt’altro che
garantito e che alterna l’anelito a esplorare le opportunità offerte dal digitale, l’interesse e
l’attenzione verso le sue proposte, con un’attitudine passiva e inerte degna dell’esecrato couch
potato, lo spettatore vittima dei raggiri e degli allettamenti dell’industria mediale su cui tanto è stato
scritto in epoca analogica.

La lentezza con cui le prassi interattive si stanno diffondendo mette in discussione anche un
secondo e fondamentale assioma delle teorie sul digitale. Per quanto il ritardo sia determinato in
buona parte dall’immaturità del sistema, che ha solo cominciato a sviluppare le applicazioni
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necessarie a consentire forme di comunicazione più partecipate, esso dipende anche
dall’indisponibilità dei fruitori, che faticano a ripensare il proprio statuto e le modalità di relazione
con gli apparati. Cade in tal modo la tesi che assegna alle tecnologie digitali la capacità di
emancipare ipso facto i fruitori, e agli utenti che personalizzano le pratiche di visione e stabiliscono
un dialogo con il medium si affiancano i molti che patiscono la mancanza di vincoli e che si
sforzano di riprodurre situazioni di consumo il più possibile simili a quelle a cui sono avvezzi (Terre
incognite. Lo spettatore italiano e le nuove forme dell’esperienza di visione del film, a cura di F.
Casetti, M. Fanchi, 2006). Si pensi al tentativo di regolamentare le pratiche d’uso di Internet,
introducendo un insieme di norme destinate a ricondurre le azioni degli utenti a protocolli definiti.
Lo scambio di file audiovisivi o musicali attraverso i sistemi peer to peer prevede, per es., che per
accedere ai materiali si debbano mettere a disposizione degli altri utenti contenuti propri, secondo
una logica che richiama quella del baratto, o prevede l’assegnazione di una priorità nelle liste di
attesa per scaricare l’ultimo blockbuster a chi è collegato in banda larga e che dunque è in grado di
completare più rapidamente le operazioni di download. Quando poi i siti di scambio sono
specializzati, l’utente deve dare prova della propria affiliazione culturale alla comunità,
padroneggiando lo slang del gruppo ed esibendo le proprie competenze sugli argomenti a cui il sito
è dedicato, pena lo scherno e l’esclusione dall’interazione. La normazione degli ambienti e delle
situazioni di consumo digitali si esprime anche in forme meno eclatanti ma significative, come
quando si tenta di ripristinare tempi e modi tradizionali di fruizione. Vedere sullo schermo
televisivo un film scaricato dalla rete, magari allestendo il set di visione ‘come’ una sala
cinematografica; o ancora usare la televisione digitale satellitare come si faceva con la televisione
generalista, adottando una logica per appuntamento e limitando le proprie incursioni entro un range
di pochi canali; o anche trascurare le funzioni avanzate delle piattaforme e circoscrivere l’uso ai soli
servizi di base sono altrettanti segnali del permanere di un’utenza ‘tradizionale’, che avverte tutto il
carico della libertà che i nuovi media concedono e che si sforza di contenere le proprie esperienze
entro perimetri noti.

Vi è almeno un terzo profilo di fruitore che lo scenario dei mezzi di comunicazione e le forme che il
consumo assume relegano fra le previsioni non (ancora) realizzate. L’intangibilità del testo è
l’ultimo dei tabù della comunicazione mediata a cadere sotto gli strali dell’innovazione tecnologica
(Klinger 2006). Anche quando in epoca analogica l’evoluzione dei supporti già prevedeva la
possibilità di manipolare, per quanto in modo blando, i prodotti mediali, chi ne violava l’integrità
era soggetto a reprimende: che si trattasse dell’emittente che interrompeva la trasmissione di un film
per mandare in onda annunci pubblicitari o dell’audience che fruiva in modo discontinuo un
programma televisivo. La cosiddetta visione monitorata, che prevede un consumo a intermittenza, o
ancora di più l’idling, in cui la comunicazione televisiva viene ridotta a rumore di fondo, venivano
considerate forme corrotte di visione, per quanto le più comuni. La posta in gioco, si diceva, era la
preservazione dell’istanza comunicativa del testo, dissipata da condizioni e da modalità di consumo
irrispettose della sua organicità. Al punto che anche l’uso di lettori di VHS o di DVD sollevavano
qualche dubbio di legittimità. Nel caso del testo filmico, in particolare, il dibattito denunciava lo
stravolgimento delle istanze pragmatiche dell’opera, ovvero del suo peculiare modo di mettersi in
relazione con lo spettatore e di coinvolgerlo, a favore di un’esperienza epidermica, fàtica, più simile
a quella del telespettatore. Le prospettive aperte dalla digitalizzazione evidentemente rendono
anacronistica la crociata in difesa dei testi: perché non vi sono più (o così dovrebbe essere)
specificità dei dispositivi comunicativi da preservare, né prototipi di situazione di consumo da
emulare e perché l’azione del fruitore sul testo è indizio della sua conoscenza dei supporti e delle
loro potenzialità e della sua capacità di personalizzare l’esperienza di consumo. Inoltre, come già si
ricordava, le iniziative degli utenti costituiscono una riserva cruciale di risorse creative di cui i
media hanno sempre più bisogno. Tuttavia, contro ogni previsione, l’esigenza di preservare il testo
si ripresenta oggi con prepotenza. Per un verso, essa è espressione dell’inerzia del sistema, come
prova il permanere di norme per la tutela del diritto d’autore evidentemente anacronistiche sia a
fronte del diffuso lavoro di appropriazione e di ridiscorsivizzazione dei prodotti mediali condotto
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dagli utenti (emblematici i già citati movimenti grassroots), sia a fronte della messa in circolazione
di opere di cui non si conoscono gli autori o che addirittura sono prodotto di un lavoro collettivo,
come avviene con i sistemi open source, software che vengono definiti progressivamente attraverso
l’intervento degli utenti. Per un altro verso, il rispetto per l’opera s’impone come condizione
insopprimibile della comunicazione. Legittimare gli interventi sul testo, mettere fra parentesi il
principio della fedeltà all’originale significa, infatti, pregiudicare l’atto comunicativo stesso. Ancor
prima della dissipazione dell’aura dell’opera, cioè del suo fascino, della sua ricchezza semantica ed
estetica (problema enunciato già all’inizio del secolo scorso, quando con la comparsa dei nuovi
mezzi di comunicazione, che consentivano la riproduzione meccanica, ci s’interrogava sulla
possibilità per l’opera d’arte di mantenere intatto il proprio potenziale simbolico) in gioco vi è la
conservazione del senso che s’intende comunicare. Senza invocare il principio della fedeltà
filologica al testo, è incontrovertibile che un film di cui si taglino le inquadrature per adattarlo al
formato televisivo ‘perde’ una parte del proprio patrimonio semantico e, in generale, del proprio
valore. Ed è incontrovertibile che un testo di cui si decurtino componenti, fossero anche i titoli di
testa e di coda, per alleggerirlo e per renderlo più facilmente ‘trasportabile’ attraverso il web diventa
un testo diverso dall’originale, con un proprio portato comunicativo. Inoltre, anche e solo la
‘possibilità’ di modificare il testo si rivela un fatto dirompente per i meccanismi della
comunicazione, nella misura in cui rende incerto il suo contenuto, la credibilità di ciò che enuncia e
quindi anche il senso complessivo che gli va attribuito. L’esperienza cui vanno incontro gli
‘avventurieri’ di Internet, che fra le pieghe della rete informatica cercano film, brani musicali o
anche e solo informazioni, e che si trovano a fare i conti con l’indecidibilità del valore di ciò che
hanno reperito, sembra destinata a marcare in un futuro prossimo tutta la comunicazione mediale e a
collocarla all’interno di un nuovo orizzonte teleologico, in cui il fine non pare più essere il
passaggio di informazioni, bensì l’esperienza complessiva del fruitore, anche a prescindere da
quanto comunicato. Il fenomeno del ‘pubblico autore’, per es., e segnatamente i casi sempre più
numerosi di produzione collettiva di testi, evidenziano un deciso spostamento del baricentro della
comunicazione dal contenuto alla relazione. Nella pratica del pass along, strategia creativa
sperimentata nell’ambito del web cinema (etichetta data alle opere ‘cinematografiche’ realizzate in
digitale e prodotte e distribuite attraverso il sostegno della rete informatica) e che prevede che il
film venga ‘scritto’ dagli spettatori, ciascuno dei quali contribuisce al suo sviluppo aggiungendo
parti o, nei frequenti casi di plot seriali, interi episodi, il senso va ricercato, prima che nel risultato,
nel sodalizio che si viene a creare fra soggetti che non si conoscono e che sono non di rado distanti
sia geograficamente sia culturalmente. Così pure lo scambio di contenuti sulla rete sembra in taluni
casi finalizzato più al contatto (con altri utenti, con cui si condivide la passione per un genere o un
testo) che all’acquisizione di prodotti. E ancora la generazione di contenuti a opera dei fruitori
attesta un desiderio di accesso alla ribalta sociale, inteso in un’accezione debole come ricerca di
notorietà, ma anche con un significato più forte di presenza nelle politiche sociali e culturali.

La connotazione iperbolica assunta dal fruitore di media (che la qualifica di iperspettatore ben
definisce) non vale dunque solo a denotare la sua capacità di destreggiarsi fra i meandri del nuovo
sistema mediale, di padroneggiare i molti supporti che lo costituiscono, maneggiandoli con
spregiudicatezza e piegandone le istanze alle proprie esigenze, ma anche, e forse primariamente, a
misurare la difficoltà del mandato di dare una nuova forma alla comunicazione mediale. Compito
che si può adempiere anche senza aderire ai modelli di performatività estrema preconizzati dalla
mitologia digitale, e facendo persino un passo indietro, verso forme di consumo più tradizionali e
meno attive. Sempre però nella consapevolezza che le scelte di questa fase sono destinate a lasciare
un segno profondo sulle forme che la comunicazione mediale assumerà negli anni a venire (Culture
in the communication age, 2001; Silverstone 2007). La posta in gioco è alta: è la possibilità di
sostituire alla logica della speculazione quella del dono; al criterio dell’esclusività quello della
condivisione; alla prospettiva del ricavo quella del servizio; all’idea dei media come mondi paralleli
e alternativi quella di un insieme di strumenti atti a promuovere la vita relazionale e civile. Cogliere
questa opportunità significa assicurarsi che la comunicazione mediale si evolva in una direzione
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autenticamente antropocentrica, rivolta alla promozione della persona e della società.

Bibliografia

J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it.
Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002).
P. Lévy, Cyberdémocratie. Essai de philosophie politique, Paris 2001 (trad. it. Milano 2008).
L. Manovich, The language of new media, Cambridge (Mass.) 2001 (trad. it. Milano 2002).
Culture in the communication age, ed. J. Lull, London-New York 2001.
D. Hesmondhalgh, The cultural industries, London 2002 (trad. it. Milano 2008).
H. Jenkins, Convergence culture. Where old and new media collide, New York 2006 (trad. it.
Milano 2007).
B. Klinger, Beyond the multiplex. Cinema, new technologies, and the home, Berkeley (Cal.) 2006.
E. Menduni, I media digitali. Tecnologie, linguaggi, usi sociali, Roma-Bari 2007.
R. Silverstone, Media and morality. On the rise of the mediapolis, Cambridge-Malden (Mass.) 2007.
New media worlds. Challenges for convergence, ed. V. Nightingale, T. Dwyer, Oxford 2007.

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