Sei sulla pagina 1di 6

CONSIDERAZIONI SCENICHE SULL’ORESTE FOLLE DI EURIPIDE (1)

Serena Ferrando

Il pubblico dell’Ifigenia in Tauride è continuamente affascinato dai favolosi scenari


entro i quali sconfina la fantasia di un Euripide sempre innamorato dell’inatteso colpo
di scena.
Chi assiste all’Oreste non assapora invece l’avventura vissuta in luoghi fantastici
perché Euripide non vuole che il suo pubblico venga distratto, qui, da quella variopinta
congerie di elementi esotici che rapiscono tutta l’attenzione nell’Ifigenia in Tauride, dove
il matricidio è semplicemente presupposto e appartiene al passato. Anche nell’Oreste il
sangue non scorre sulla scena, anche nell’Oreste s’immagina il dopo-delitto. Euripide
vuole persino mostrare al pubblico che cosa accade quando qualcuno decide di uccidere
la propria madre. Penso alla prima scena. Il pubblico capisce che Oreste sarà il prota-
gonista della tragedia: lo ha saputo dal titolo. Eppure, istintivamente sente Oreste già
protagonista di altre e terribili vicende, vicende passate, che sente quasi di conoscere. Il
peso di quel passato terribile, Oreste ce l’ha scolpito sul volto, in tutta la sua persona,
negli atteggiamenti prostrati del corpo fiaccato. Lo interroghiamo tutti con lo sguardo,
mentre giace miseramente accasciato su un letto, amorevolmente assistito dalla discreta
e commiserante presenza di Elettra. La sua figura è ancora quella del matricida, ma la
sua mente è in preda ad un’oscura follia.
Oreste non è nuovo a questo genere di turbe mentali: nell’Ifigenia in Tauride (2) il
mandriano racconta alla protagonista della tragedia e al pubblico la furia assassina che
ha invaso il figlio di Agamennone inducendolo al massacro impietoso di una mandria
di buoi – novello Aiace dall’onta incancellabile. Ma in quel caso la pazzia di Oreste era
per Euripide uno dei tanti fioretti decorativi con i quali sapientemente aveva abbellito,
quasi fino al barocco, il frutto della sua fantasia tragica.
Nell’Oreste, invece, la pazzia costituisce una vera e propria novità. Eschilo aveva
creduto più agghiacciante che il suo personaggio, e soltanto lui, vedesse le Erinni intor-
no a sé, che ne fuggisse penosamente impedito da un opprimente e incubale senso di
impotenza. Ma in Eschilo non c’è una descrizione della follia, dei movimenti inconsulti
di Oreste (3), delle sue scomposte azioni. Tutto, in Eschilo, è terribile allusione.

(1) Questo articolo prende spunto da una rielaborazione dell’argomento presentato nella mia
tesi di laurea, Oreste nella tragedia greca, discussa nel 1995 con il Prof. Umberto Albini.
(2) Eur. IT. 238 ss.
(3) La follia di Oreste è studiata da O. Ameduri, Sui versi 211-315 dell’Oreste di Euripide,
«Rass. Vich. Stud. Filolog. e Stor.» 5 (2003), pp. 178-182: l’autore ritiene che la follia descritta da
Euripide in questo caso risenta del De morbo sacro di Ippocrate e delle teorie sulle patologie mentali
del retore Antifonte.

34 Serena Ferrando
E invece Euripide sembra voler offrire il giovane matricida al giudizio del pubblico
rendendone tangibile e concreta la follia. Come si offre una vittima al sacrificio. Cosa
ne è stato di Oreste? È un malato terminale sul letto di morte, un folle prostrato fisi-
camente e mentalmente. Il problema è come Euripide gestisca sulla scena l’attore che
personifica Oreste. Lo possiamo immaginare giacente al suolo. Questa soluzione non
sarebbe però compatibile con la sua grave condizione fisica. Possiamo pensare che sulla
scena fosse già stato collocato precedentemente un letto. Questo significa che Oreste è
entrato con le proprie gambe, ha raggiunto il letto e cominciato a dolersi come un di-
sperato. Oppure è lecito immaginare che due portantini siano arrivati improvvisamente
sulla scena caracollando e traslando il malato sdraiato comodamente su una sorta di
barella, depositandolo poi nel luogo deputato al calvario, per poi abbandonare la scena?
Questa soluzione avrebbe un sapore eccessivamente grottesco. Mi viene in mente a
proposito l’inizio delle Nuvole di Aristofane (4), dove Strepsiade, sdraiato sul letto, si
lamenta dei debiti che il figlio gli ha fatto contrarre con la sua incontenibile “equinoma-
nia”. Ma le Nuvole sono una commedia molto divertente. Per l’Oreste questa soluzione
scenica costituirebbe un problema. Voglio allora riflettere sulla questione cercando di
immaginare concretamente lo spazio scenico di questa tragedia (5).
Oreste è steso su un lettino, importante oggetto-scenico. Ritengo che sia necessa-
rio allora porsi due domande: 1) questo lettino si trova all’interno della reggia di Argo,
oppure fuori dalla reggia?
2) Possiamo vedere concretamente sulla scena il palazzo degli Atridi, importantis-
simo elemento scenico, perché da qui esce Elena, perché da qui fuggirà lo schiavo frigio
nella sua rocambolesca performance atletica quando Oreste e Pilade ne varcheranno la
soglia per uccidere la sposa di Menelao? Sul tetto del palazzo, oltrettutto, compaiono
i due eroici amici Oreste e Pilade e puntano il coltello alla gola di Ermione presa in
ostaggio. E sempre il palazzo dei suoi padri Oreste minaccia di incendiare…
Per alcuni studiosi (6) la scena si doveva svolgere in parte davanti alla reggia in
parte all’interno del palazzo: probabilmente per la prima parte la tragedia si svolgeva
all’interno della reggia e qui andava dunque collocato anche il letto di Oreste. Credo
tuttavia che questo avrebbe comportato un problema scenico non indifferente, poiché il
pubblico avrebbe potuto vedere Oreste sdraiato davanti al palazzo, che necessariamente
veniva a costituire, per così dire, lo sfondo della scena. Neppure le considerazioni di
Webster (7) e Di Benedetto (8) convincono del tutto, anche perché si sarebbe ricorso in
questo caso alla tanto comoda quanto spesso approssimativa soluzione dell’ejgkuvklhma
(9). Preferisco pensare che Euripide confidi nella suggestione al negativo del pubblico,
ovvero operi attraverso la sapiente e consapevole mancanza di ogni tipo di descrizione
scenica. Ora il nostro occhio può spaziare con una certa sicurezza sulla scena della
tragedia.

(4) Aristoph. nub. 1-55.


(5) Si occupa ampiamente del problema scenico in questa tragedia euripidea D. Galeotti Papi,
Allestimento scenico e implicazioni tematiche nell’Oreste di Euripide, «Orpheus» 12 (1991), p. 342.
(6) C. W. Willink, Euripides, Orestes, Oxford 1986, p. 34.
(7) T. B. L. Webster, The Tragedies of Euripides, London 1967, p. 247.
(8) V. Di Benedetto, Euripidis Orestes, Firenze 1965, ad v.147.
(9) K. Rees, (in A. Pickard-Cambridge, The Theatre of Dionysus at Athens, Oxford 1946, p.
80), pensava piuttosto ad un portico sulla scena.

Considerazioni sceniche sull’Oreste folle di Euripide 35


Il prologo è affidato alle parole di Elettra, che si trova accanto al fratello infermo
nel corpo e nella mente. Inizia allora un triste e lugubre elenco di illustri infelici, quasi
una tormentosa lista funebre. Sono tutti nomi noti al pubblico: Tantalo, Pelope, Atreo
e Tieste, Agamennone, Menelao, Oreste, le sue sorelle (10).
Immaginiamo quello che accade sulla scena. Elettra parla della stirpe degli Atri-
di e intanto tiene accanto a sé il fratello mortalmente prostrato, in preda a un’oscura
follia. I personaggi di cui la giovane parla sono assolutamente terribili, hanno avuto in
sorte un destino tremendo, hanno vissuto storie spaventose; ma sono anche personaggi
perseguitati e afflitti, sono dei poveri infelici come Tantalo, assillato dal masso che gli
incombe sulla testa, come Tieste, costretto ad abbassare lo sguardo sulle carni fredde
dei propri figli. Il nome di Oreste brilla in coda alla triste genealogia degli Atridi come
una stella dal bagliore funesto. Attendiamo istintivamente la capitolazione definitiva.
Ma improvvisamente subentra un elemento inatteso: l’oracolo di Apollo.
Elettra non riuscirebbe mai ad accusare un dio di ingiustizia, ma è chiaro che lei
non può non ricordare che è stato proprio lui, Apollo, che è un dio, a convincere il
fratello a diventare matricida. Dal canto suo, Oreste ha ucciso la madre per debolezza:
non ha saputo ribellarsi alla volontà del cielo. Elettra continua e dice che anche lei ha
partecipato al delitto, perché Oreste aveva deciso di obbedire al dio e di compiere que-
sto assassinio terribile, ma precisa che lo ha fatto come può farlo una donna, in silenzio,
accanto a Pilade.
La giovane si perde per un attimo dietro questi tristi pensieri di morte, dietro
questo rammarico che cova in seno. Poi il discorso cambia: Elettra passa a parlare del
fratello, consumato da un male crudelmente incurabile, dal morso feroce del matricidio
che lo ha sconvolto. La situazione è disperata: la città ha rigettato impietosamente i
matricidi (11) come due cancri contaminanti cresciuti nel suo stesso seno, estirpati dal
quale li ha poi confinati nel buio gelido della solitudine e del più assoluto isolamento,
votandoli alla morte per lapidazione. Oggi è il giorno del verdetto. È un giorno funesto.
La disperazione sembra essersi impossessata della donna, quando all’improvviso le si
accende un barlume di speranza: Menelao è tornato da Troia, e forse li potrà salvare.
Ma la speranza è fievole: Menelao non è tornato solo, in patria: ha con sé la donna
che ha procurato infiniti mali alla Grecia, Elena. Si presagisce allora che la salvezza dei
due fratelli non è più così scontata.
Quasi evocata dai pensieri di Elettra, ecco entrare in scena Elena: (12) il confronto
con la figlia di Agamennone è assolutamente pesante, poiché Elettra le attribuisce tutte

(10) Eur. Or. 1-33.


(11) Oreste è portatore di un mivasma contaminante; eppure, a differenza di quanto accade
nel mondo arcaico di Eschilo, per Euripide il problema della purificazione non riveste più nessuna
importanza e si può ignorare. Viene meno in questo modo il nesso matricidio-follia e l’Oreste di
Euripide, pur essendo portatore di un contagioso morbo di dannato, deve per forza entrare in con-
tatto con gli altri personaggi, perché l’azione deve procedere. E parla addirittura all’assemblea degli
Argivi. Eschilo è davvero molto lontano.
(12) Voglio qui citare le parole di D. Lanza, Unità e significato dell’Oreste euripideo, “Dio-
niso” 35 (1961), pp. 58-59: “La menzione di Elena e quindi subito la sua apparizione di fronte al
sofferente Oreste conferiscono alla tragedia, fin dall’inizio, una tematica assai complessa. Il matri-
cidio è infatti indicato già nel prologo come il punto di confluenza della lugubre eredità della casa
dei Tantalidi con l’altrettanto funesto scatenarsi di violenze prodotto dalla guerra di Troia”.

36
le colpe, la detesta, odia il suo modo di fare, è nauseata da ogni suo atteggiamento.
Quello che le fa più rabbia è che la bella di Troia abbia spedito la figlia Ermione a offri-
re sulla tomba di Clitemestra il delizioso ricciolo di capelli che si è appena tagliato dalle
chiome profumate: ma è stata ben attenta a non rovinare la seducente acconciatura-
osserva malignamente (13). A questo punto il coro irrompe sulla scena. Le donne sono
venute a vedere come sta Oreste. È un misero corpo inerte, quello di Oreste, accovac-
ciato sotto le coperte, in cerca di protezione. È come se in quell’abbraccio delle coltri
cercasse inconsapevolmente il calore dell’abbraccio di colei che lo ha generato e che le
sue mani hanno ucciso impietosamente. Il matricida a tratti si agita, a tratti è fermo e
immobile, è come morto – osserva Elettra – è pericolosamente e paurosamente simile a
un morto – osserva anche il Coro, che consiglia alla giovane di accertarsi che il fratello
respiri ancora. (14)
Finalmente, la voce di Oreste. Quello che abbiamo davanti agli occhi è un povero
malato, di cui Euripide descrive coscienziosamente il confuso stato mentale (15). Euri-
pide ha voluto e saputo rappresentare concretamente una follia i cui stadi si susseguono
attraverso passaggi impercettibili, rapidi, imprevedibili e irrimediabili: Oreste sembra
lucido, e un attimo dopo crolla annebbiato dalla penosa follia che lo sfibra.
Certo, Euripide ha scelto intelligentemente di presentare la crisi di Oreste come
incruenta, evitando, in questo modo, la noiosa e poco efficace intermediazione del rac-
conto, necessario invece per la crisi dell’Ifigenia in Tauride, così violenta, così funestata
dal sangue. In questo momento Oreste non uccide, anzi, non fa male a nessuno: fa
male a se stesso, soffre infinitamente, in modo terribile, cerca di fuggire dal suo letto
di lungodegente, sgrana le pupille stravolte davanti ai volti putridi delle Erinni che lo
fissano avidamente, protende le braccia verso un’intangibile salvezza, ma è prigioniero
di un’inquietante immobilità, poiché rimane penosamente ancorato al suo lettuccio. È
perseguitato, eppure giace.
La sorella si è improvvisata, tristemente, medico, ha provato a definire questa turba
terribile del fratello: Oreste nosei` (16) di un’ ajgriva/ novsw/ non ben definita. La malattia
ha però un’origine ben precisa: to; mhtro;~ dΔ ai|mav nin troxhlatei` manivaisin.
Questo, il preludio. Passiamo poi all’angosciante momento della crisi, che, co-
me nell’Eracle, è introdotta da una serie di movimenti intorno al personaggio, che
improvvisamente si sveglia dal sonno e dialoga con la sorella. Le donne del coro, tut-
tavia, osservano schiettamente che Oreste è prigioniero di una situazione assurda e
contraddittoria, a prima vista senza scampo. E l’impossibile condizione di Oreste piace

(13) Eur. Or. 71-139.


(14) Eur. Or. 140-210.
(15) La follia di Oreste è studiata con precisione nei saggi di W. Nestle, Euripides, der Dichter
der griechischen Aufklärung, Stuttgart 1901, p. 437; R. P. Winnington-Ingram, Euripides and Diony-
sus, Cambridge 1948; M. Foucault, Folie et déraison. Histoire de la folie à l’age classique, Paris 1961;
H. Waldmann, Der Wahnsinn in griechischen Mythos, München 1962; J. Mattes, Der Wahnsinn im
griechischen Mythos und in der Dichtung bis zum Drama des fünften Jahrhünderts, Heidelberg 1970;
G. Roccatagliata, Storia della psichiatria antica, Milano 1973. Mi riferisco inoltre anche ai saggi di
M.G. Ciani, Lessico e funzione della follia nella tragedia greca, «Boll. Fil. Gr. Univ. Pad.» 1 (1974),
pp. 70-110; F. Donadi, In margine alla follia di Oreste, «Boll. Fil. Gr. Univ. Pad.» 1 (1974), pp.
111-127; O. Longo, Proposte di lettura dell’Oreste di Euripide, «Maia» 27 4 (1975), p. 265.
(16) Eur.Or. 34-35.

Considerazioni sceniche sull’Oreste folle di Euripide 37


infinitamente al poeta, che ne è sollecitato e giustificato a cimentarsi in una duplice e
fittissima dialettica, sia letteraria che scenica, dibattendo i più vari problemi e sfog-
giando la propria consueta e insuperata abilità di sofista. E tutto, per ottenere questo,
è perfettamente funzionale: la fangosa responsabilità di Apollo, la truce persecuzione
delle Erinni, il terribile conflitto interiore tra istinto morale e dovere di vendetta.
Euripide approfitta evidentemente della situazione per esprimere la propria opi-
nione sugli dèi e sul loro rapporto con gli uomini, quando presenta la complicità di
Apollo, decide invece di mostrare la pazzia di Oreste che vede le Erinni, quando allude
all’intimo conflitto della coscienza, concedendosi una fitta discussione che appesantisce
il dramma, direi, con il fardello di minuziose terminologie giuridiche.
A questo punto il pubblico allunga lo sguardo su Oreste, vuole vederlo meglio. Le
parole dei due fratelli sembrano descrivere una tremenda malattia, un acutissimo stato di
sofferenza e di prostrazione. Oreste è inquieto, è come Fedra, è come l’Eracle delle Tra-
chinie, ma non ne raggiunge l’altissima drammaticità, sebbene si esibisca in smanie incon-
tenibili. Le sue prime parole sembrano coerenti e potrebbero avere una logica: il povero
malato si sveglia dopo un benefico sonno ristoratore, che ha interrotto soltanto per poco
le sue sofferenze, e la grazia del sonno è per lui una panacea al male giunta al momento
opportuno. Smarrito, Oreste non ricorda in che modo sia arrivato in quel luogo, ma,
pur nella prostrazione che lo abbatte, ammette di aver perduto quel senno che un tempo
gli apparteneva. La consapevolezza di sé lo rende infelice. Queste prime parole rivelano
uno stato di profondo abbattimento interiore: lo vediamo dall’invocazione affettuosa al
sonno, anzi, all’oblio che il sonno gli ha concesso così generosamente, dal rammarico per
aver perduto la ragione, dal tono di lamento continuo del breve e triste discorso.
Elettra, a questo punto, è chiamata a comunicare con il fratello. Questo, certo, la
spaventa, perché in quel forsennato in delirio Elettra non riconosce più l’Oreste di un
tempo. Il fratello le è lontano, ormai, anche se fisicamente è lì accanto a lei. Ma ora la
donna è chiamata a cercare un codice di comunicazione con quel povero perseguitato:
deve necessariamente scendere sullo stesso piano dell’infelice, quando gli si rivolge,
deve usare parole affettuose, gentili, quasi sussurrate, non deve turbare l’equilibrio già
labile del malato: “Caro, mi hai fatto contenta, abbandonandoti al sonno; vuoi che ti
abbracci? Vuoi che conceda sollievo al tuo corpo?” (17) . Le tenerezze tra i due sono as-
solutamente prevedibili. Oreste, è naturale, continua sullo stesso tono, con voce pacata,
ma quasi lamentevole. Il suo discorso segue il tono dolce della sorella amorevole. “Sì, sì,
prendimi. I miei occhi, la mia povera bocca, asciugali da questa bava raggrumata”. (18)
La scena assume tinte patetiche.
Oreste chiede che la sorella gli asciughi gli occhi dalle lacrime del dolore e della
crisi, la bocca da quella terribile schiuma che gli scende dalle labbra ora che la crisi è
finita, ora che è tornato in sé. Poi la prega di sostenere il suo fianco, di liberargli il viso
dai capelli sporchi, perché, nello stato in cui si trova, riesce a vedere soltanto a stento.
(19) Il povero infelice si scuote allora dal torpore, vuole che la sorella lo muova, che
offra un sollievo al suo corpo. E questo desiderio di cambiare il suo stato fisico potrebbe
sembrare un segno di evoluzione nel personaggio del matricida. Ma questa evoluzione,

(17) Eur. Or. 217-218.


(18) Eur. Or. 219-220. Lo schema metrico delle parole di Oreste prostrato dalla confusione
mentale è ricco di sostituzioni.
(19) Eur. Or. 223-224.

38 Serena Ferrando
purtroppo, non lo porterà a nulla: fa parte della sua malattia. Oreste passa, come un
perseguitato, come un folle disperato, dal più tragico immobilismo alla smania incon-
tenibile di movimento e fuga. Nella sua mente offuscata è come se egli continuasse a
fuggire dalle Erinni che lo hanno inseguito dopo il matricidio, è come se tragicamente
dovesse continuare a rivivere quei momenti come in un’ossessione, come in un incubo,
come la sorella Ifigenia, che per volere di Artemide deve ripetere all’infinito il gesto del
sacrificio che ad Aulide stava per troncare la sua vita, nell’Ifigenia in Tauride.
La mente e il corpo di Oreste barcollano. Il suo lamento diventa estenuante: egli
non vuole più che Elettra lo tiri su dal letto, ora vuole rimanere disteso, perché il suo
corpo è debole, lui non ha forze. Elettra è ancora una volta una povera vittima, e ob-
bedisce pietosamente alla volontà del fratello. Ma ecco che Oreste cambia ancora idea:
ora vuole alzarsi dal letto e tornare nella posizione di prima. (20)
La situazione è assurda e paradossale. Il fratello è un triste perseguitato, ma almeno
l’eccesso di follia si è calmato. Potrebbe essere il momento, pensa Elettra, di parlargli
dell’arrivo di Menelao. E Oreste capisce, anzi, sembra fare discorsi coerenti: compren-
de che l’arrivo di Elena insieme a Menelao non è un bene: è un autentico flagello.
Purtroppo però, alla fine di questo suo discorso, che sembra del tutto logico, Oreste
riprende a vaneggiare:” Distinguiti, tu, da quelle terribili: tu lo puoi fare con facilità. E
non soltanto a parole, ma anche nei pensieri”. (21) Raggelata da queste ultime parole, la
sorella capisce e vede l’occhio del fratello che si intorbida. (22) Oreste è di nuovo perso:
invoca la madre, vede le Erinni intorno al suo letto, non vuole che i mostri terribili della
sua coscienza lo assalgano, tenta di fuggire dai loro inesorabili attacchi. (23)
La povera sorella è di nuovo proiettata nel vortice di quest’oscura follia. Cerca
dunque di fermare i movimenti convulsi del povero demente, che la guarda e fugge
inorridito dalla sua pietà amorevole perché nella sua mente sconvolta crede che Elettra
sia un’Erinni. La povera giovane non sa come reagire. Il suo, ormai, è quasi soltanto un
soliloquio: Oreste è come se non fosse più lì. Nel suo delirio convulso, Oreste vuole
che gli si porga l’arco di Apollo, l’arco infallibile, così scaccerà per sempre le tristi
persecutrici.
Il rapporto con Apollo, il mandante del delitto (24), è terribile, per lui, anche ora.
Ne vuole l’arco infallibile per scacciare le Erinni, invoca l’oracolo del dio come estrema
salvezza. Poi, il ritorno confuso alla lucidità: “ Ma dove, dove, dove sono finito io, bal-
zato fuori dal mio letto? Lasciati i marosi, posso rivedere la bonaccia”. (25)

SERENA FERRANDO

(20) Eur. Or. 225-236. Anche ai vv. 231-232 si trovano funzionalmente molte sostituzioni, e
così anche al verso 236.
(21) Eur. Or. 251-252.
(22) Eur. Or. 253.
(23) Eur. Or. 255-257. Da notare come Euripide riservi soltanto al primo dei due versi le
sostituzioni all’interno del trimetro giambico: questo sottolinea lo sconvolgimento di Oreste, che
probabilmente doveva strascicare e balbettare questa prima battuta, resa difficile, appunto, dalle
sostituzioni; il secondo verso, invece, non mostra sostituzioni perché contiene termini alti, elevati,
che l’attore doveva scandire con chiarezza, e non strascicare, forse anche per evitare confusioni nella
dizione.
(24) Eur. Or. 268 ss.
(25) Eur. Or. 268-269.

Considerazioni sceniche sull’Oreste folle di Euripide 39

Potrebbero piacerti anche