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Serena Ferrando
(1) Questo articolo prende spunto da una rielaborazione dell’argomento presentato nella mia
tesi di laurea, Oreste nella tragedia greca, discussa nel 1995 con il Prof. Umberto Albini.
(2) Eur. IT. 238 ss.
(3) La follia di Oreste è studiata da O. Ameduri, Sui versi 211-315 dell’Oreste di Euripide,
«Rass. Vich. Stud. Filolog. e Stor.» 5 (2003), pp. 178-182: l’autore ritiene che la follia descritta da
Euripide in questo caso risenta del De morbo sacro di Ippocrate e delle teorie sulle patologie mentali
del retore Antifonte.
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E invece Euripide sembra voler offrire il giovane matricida al giudizio del pubblico
rendendone tangibile e concreta la follia. Come si offre una vittima al sacrificio. Cosa
ne è stato di Oreste? È un malato terminale sul letto di morte, un folle prostrato fisi-
camente e mentalmente. Il problema è come Euripide gestisca sulla scena l’attore che
personifica Oreste. Lo possiamo immaginare giacente al suolo. Questa soluzione non
sarebbe però compatibile con la sua grave condizione fisica. Possiamo pensare che sulla
scena fosse già stato collocato precedentemente un letto. Questo significa che Oreste è
entrato con le proprie gambe, ha raggiunto il letto e cominciato a dolersi come un di-
sperato. Oppure è lecito immaginare che due portantini siano arrivati improvvisamente
sulla scena caracollando e traslando il malato sdraiato comodamente su una sorta di
barella, depositandolo poi nel luogo deputato al calvario, per poi abbandonare la scena?
Questa soluzione avrebbe un sapore eccessivamente grottesco. Mi viene in mente a
proposito l’inizio delle Nuvole di Aristofane (4), dove Strepsiade, sdraiato sul letto, si
lamenta dei debiti che il figlio gli ha fatto contrarre con la sua incontenibile “equinoma-
nia”. Ma le Nuvole sono una commedia molto divertente. Per l’Oreste questa soluzione
scenica costituirebbe un problema. Voglio allora riflettere sulla questione cercando di
immaginare concretamente lo spazio scenico di questa tragedia (5).
Oreste è steso su un lettino, importante oggetto-scenico. Ritengo che sia necessa-
rio allora porsi due domande: 1) questo lettino si trova all’interno della reggia di Argo,
oppure fuori dalla reggia?
2) Possiamo vedere concretamente sulla scena il palazzo degli Atridi, importantis-
simo elemento scenico, perché da qui esce Elena, perché da qui fuggirà lo schiavo frigio
nella sua rocambolesca performance atletica quando Oreste e Pilade ne varcheranno la
soglia per uccidere la sposa di Menelao? Sul tetto del palazzo, oltrettutto, compaiono
i due eroici amici Oreste e Pilade e puntano il coltello alla gola di Ermione presa in
ostaggio. E sempre il palazzo dei suoi padri Oreste minaccia di incendiare…
Per alcuni studiosi (6) la scena si doveva svolgere in parte davanti alla reggia in
parte all’interno del palazzo: probabilmente per la prima parte la tragedia si svolgeva
all’interno della reggia e qui andava dunque collocato anche il letto di Oreste. Credo
tuttavia che questo avrebbe comportato un problema scenico non indifferente, poiché il
pubblico avrebbe potuto vedere Oreste sdraiato davanti al palazzo, che necessariamente
veniva a costituire, per così dire, lo sfondo della scena. Neppure le considerazioni di
Webster (7) e Di Benedetto (8) convincono del tutto, anche perché si sarebbe ricorso in
questo caso alla tanto comoda quanto spesso approssimativa soluzione dell’ejgkuvklhma
(9). Preferisco pensare che Euripide confidi nella suggestione al negativo del pubblico,
ovvero operi attraverso la sapiente e consapevole mancanza di ogni tipo di descrizione
scenica. Ora il nostro occhio può spaziare con una certa sicurezza sulla scena della
tragedia.
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le colpe, la detesta, odia il suo modo di fare, è nauseata da ogni suo atteggiamento.
Quello che le fa più rabbia è che la bella di Troia abbia spedito la figlia Ermione a offri-
re sulla tomba di Clitemestra il delizioso ricciolo di capelli che si è appena tagliato dalle
chiome profumate: ma è stata ben attenta a non rovinare la seducente acconciatura-
osserva malignamente (13). A questo punto il coro irrompe sulla scena. Le donne sono
venute a vedere come sta Oreste. È un misero corpo inerte, quello di Oreste, accovac-
ciato sotto le coperte, in cerca di protezione. È come se in quell’abbraccio delle coltri
cercasse inconsapevolmente il calore dell’abbraccio di colei che lo ha generato e che le
sue mani hanno ucciso impietosamente. Il matricida a tratti si agita, a tratti è fermo e
immobile, è come morto – osserva Elettra – è pericolosamente e paurosamente simile a
un morto – osserva anche il Coro, che consiglia alla giovane di accertarsi che il fratello
respiri ancora. (14)
Finalmente, la voce di Oreste. Quello che abbiamo davanti agli occhi è un povero
malato, di cui Euripide descrive coscienziosamente il confuso stato mentale (15). Euri-
pide ha voluto e saputo rappresentare concretamente una follia i cui stadi si susseguono
attraverso passaggi impercettibili, rapidi, imprevedibili e irrimediabili: Oreste sembra
lucido, e un attimo dopo crolla annebbiato dalla penosa follia che lo sfibra.
Certo, Euripide ha scelto intelligentemente di presentare la crisi di Oreste come
incruenta, evitando, in questo modo, la noiosa e poco efficace intermediazione del rac-
conto, necessario invece per la crisi dell’Ifigenia in Tauride, così violenta, così funestata
dal sangue. In questo momento Oreste non uccide, anzi, non fa male a nessuno: fa
male a se stesso, soffre infinitamente, in modo terribile, cerca di fuggire dal suo letto
di lungodegente, sgrana le pupille stravolte davanti ai volti putridi delle Erinni che lo
fissano avidamente, protende le braccia verso un’intangibile salvezza, ma è prigioniero
di un’inquietante immobilità, poiché rimane penosamente ancorato al suo lettuccio. È
perseguitato, eppure giace.
La sorella si è improvvisata, tristemente, medico, ha provato a definire questa turba
terribile del fratello: Oreste nosei` (16) di un’ ajgriva/ novsw/ non ben definita. La malattia
ha però un’origine ben precisa: to; mhtro;~ dΔ ai|mav nin troxhlatei` manivaisin.
Questo, il preludio. Passiamo poi all’angosciante momento della crisi, che, co-
me nell’Eracle, è introdotta da una serie di movimenti intorno al personaggio, che
improvvisamente si sveglia dal sonno e dialoga con la sorella. Le donne del coro, tut-
tavia, osservano schiettamente che Oreste è prigioniero di una situazione assurda e
contraddittoria, a prima vista senza scampo. E l’impossibile condizione di Oreste piace
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purtroppo, non lo porterà a nulla: fa parte della sua malattia. Oreste passa, come un
perseguitato, come un folle disperato, dal più tragico immobilismo alla smania incon-
tenibile di movimento e fuga. Nella sua mente offuscata è come se egli continuasse a
fuggire dalle Erinni che lo hanno inseguito dopo il matricidio, è come se tragicamente
dovesse continuare a rivivere quei momenti come in un’ossessione, come in un incubo,
come la sorella Ifigenia, che per volere di Artemide deve ripetere all’infinito il gesto del
sacrificio che ad Aulide stava per troncare la sua vita, nell’Ifigenia in Tauride.
La mente e il corpo di Oreste barcollano. Il suo lamento diventa estenuante: egli
non vuole più che Elettra lo tiri su dal letto, ora vuole rimanere disteso, perché il suo
corpo è debole, lui non ha forze. Elettra è ancora una volta una povera vittima, e ob-
bedisce pietosamente alla volontà del fratello. Ma ecco che Oreste cambia ancora idea:
ora vuole alzarsi dal letto e tornare nella posizione di prima. (20)
La situazione è assurda e paradossale. Il fratello è un triste perseguitato, ma almeno
l’eccesso di follia si è calmato. Potrebbe essere il momento, pensa Elettra, di parlargli
dell’arrivo di Menelao. E Oreste capisce, anzi, sembra fare discorsi coerenti: compren-
de che l’arrivo di Elena insieme a Menelao non è un bene: è un autentico flagello.
Purtroppo però, alla fine di questo suo discorso, che sembra del tutto logico, Oreste
riprende a vaneggiare:” Distinguiti, tu, da quelle terribili: tu lo puoi fare con facilità. E
non soltanto a parole, ma anche nei pensieri”. (21) Raggelata da queste ultime parole, la
sorella capisce e vede l’occhio del fratello che si intorbida. (22) Oreste è di nuovo perso:
invoca la madre, vede le Erinni intorno al suo letto, non vuole che i mostri terribili della
sua coscienza lo assalgano, tenta di fuggire dai loro inesorabili attacchi. (23)
La povera sorella è di nuovo proiettata nel vortice di quest’oscura follia. Cerca
dunque di fermare i movimenti convulsi del povero demente, che la guarda e fugge
inorridito dalla sua pietà amorevole perché nella sua mente sconvolta crede che Elettra
sia un’Erinni. La povera giovane non sa come reagire. Il suo, ormai, è quasi soltanto un
soliloquio: Oreste è come se non fosse più lì. Nel suo delirio convulso, Oreste vuole
che gli si porga l’arco di Apollo, l’arco infallibile, così scaccerà per sempre le tristi
persecutrici.
Il rapporto con Apollo, il mandante del delitto (24), è terribile, per lui, anche ora.
Ne vuole l’arco infallibile per scacciare le Erinni, invoca l’oracolo del dio come estrema
salvezza. Poi, il ritorno confuso alla lucidità: “ Ma dove, dove, dove sono finito io, bal-
zato fuori dal mio letto? Lasciati i marosi, posso rivedere la bonaccia”. (25)
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(20) Eur. Or. 225-236. Anche ai vv. 231-232 si trovano funzionalmente molte sostituzioni, e
così anche al verso 236.
(21) Eur. Or. 251-252.
(22) Eur. Or. 253.
(23) Eur. Or. 255-257. Da notare come Euripide riservi soltanto al primo dei due versi le
sostituzioni all’interno del trimetro giambico: questo sottolinea lo sconvolgimento di Oreste, che
probabilmente doveva strascicare e balbettare questa prima battuta, resa difficile, appunto, dalle
sostituzioni; il secondo verso, invece, non mostra sostituzioni perché contiene termini alti, elevati,
che l’attore doveva scandire con chiarezza, e non strascicare, forse anche per evitare confusioni nella
dizione.
(24) Eur. Or. 268 ss.
(25) Eur. Or. 268-269.