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Premessa
Vi sono degli enti, come gli Stati sovrani e indipendenti, i quali hanno piena soggettività
internazionale, ed altri, come gli insorti, che hanno una limitata capacità internazionale e sono
destinatari solo di alcune situazioni giuridiche soggettive.
1. Enti territoriali: quelli che esercitano il potere di governo su una comunità territoriale (stati
sovrani indipendenti, insorti);
2. Enti NON territoriali ma che tendono all'acquisizione di un potere di governo (Governi in
esilio, Comitati nazionali all'estero, Movimenti di liberazione nazionale);
3. Enti non territoriali e che non aspirano ad acquisire il territorio (Santa sede, Ordine di Malta,
Comitato internazionale della Croce Rossa);
4. Organizzazioni internazionali, che sorgono per volontà degli Stati e che mantengono durante
la loro esistenza un legame indissolubile con essi;
• Controverso è lo status dell'individuo che non è partecipe di nessuna delle tre funzioni
dell'ordinamento internazionale (produzione, accertamento e realizzazione coercitiva del diritto)
ENTI TERRITORIALI
Stati sovrani e indipendenti
Sono enti dotati di potestà territoriale e sono i soggetti principali del diritto internazionale.
NON hanno soggettività internazionale Stati membri di Stati Federali perché NON sono
indipendenti (è lo Stato Federale che è ritenuto responsabile sul piano internazionale per
eventuali illeciti compiuti da organi di Stati membri).
Ai fini dell'acquisto della soggettività internazionale NON è importante la dimensione di un
territorio o della popolazione
NON è rilevante nemmeno la capacità di stipulare trattati attribuita dalla Costituzione
• Gli Stati protetti (Marocco, Tunisia) sono soggetti di diritto internazionale, anche mancando
del requisito dell’indipendenza.
nascono durante il periodo coloniale, in cui lo Stato protettore assumeva la rappresentanza
internazionale dello stato protetto e stipulava per suo conto i trattati internazionali, avendo
anche un'ingerenza più o meno penetrante dei confronti dell'ordinamento interno dello stato
protetto (concorso o sostituzione di organi).
I rapporti tra Stato protettore e Stato protetto erano disciplinati dal trattato internazionale
concluso tra due soggetti, ma oggi sarebbe invalido perché contrario al “divieto di
ristabilimento di una dominazione coloniale e situazioni assimilabili”, una norma imperativa
del diritto internazionale.
Tuttavia, viene in considerazione il protettorato di diritto internazionale che presuppone
l'esistenza di due stati e non il protettorato di diritto coloniale, che era un accordo stipulato con i
capi-tribù e una forma di espansione coloniale.
Questo deve essere distinto dai territori sotto mandato e da quelli sotto amministrazione
fiduciaria (entità prive di soggettività internazionale) poiché questi ultimi venivano amministrati
nell'interesse della popolazione locale.
Tra i soggetti NON aventi qualità statuale, vi sono anche quelle entità dotate di autonomia
all'interno di uno Stato, che dovrebbero diventare il nucleo su cui costituire un futuro Stato, come
la Palestina, amministrata dall’ANP che manca dei requisiti dell'effettività e dell'indipendenza e
ha limitata soggettività internazionale e la sua statualità è in “statu nascendi” (quando sarà
completato il processo di autodeterminazione).
NON sono stati, mancando del requisito dell’indipendenza, gli Stati fantoccio, creati
dall'occupante durante la guerra, atto proibito dal diritto internazionale (Manchukuo, nato
durante l'occupazione giapponese della Manciuria)
L’art. 1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati (1933) dà la seguente
definizione di Stato: ai fini dell'assunzione di personalità giuridica internazionale è necessaria la
presenza di:
• Una popolazione permanente
• Un territorio definito
• Un potere di governo esclusivo
• La capacità di intrattenere rapporti con altri stati
Questa definizione è relativa allo: Stato-comunità secondo la triade governo-territorio-
popolazione
Nel diritto internazionale si fa riferimento allo Stato-organizzazione, quel complesso ristretto di
organi che dirige l’ente.
Territorio popolazione sono elementi identificativi dello Stato ma NON sono elementi costitutivi
della personalità dello Stato
La teoria degli Stati risorti secondo cui la personalità internazionale dello Stato non sarebbe
venuta meno, nonostante l'incorporazione da parte di un’altro Stato, è da considerarsi una mera
“fictio iuris”.
La prassi attesta che i failed States, continuano ad essere membri delle organizzazioni
internazionali (Sierra Leone, Somalia e Libano).
Insorti
Partecipano alla vita di relazione internazionale quali enti territoriali anche gli insorti, i quali
perseguono mediante la lotta armata il rovesciamento del governo legittimo di uno Stato, la
secessione di una parte del territorio dello stato medesimo, purché abbiano acquisito controllo
esclusivo o abbastanza stabile su una porzione del territorio (non in caso di semplici tensioni o
disordini interni, come le sommosse).
La rilevanza internazionale è legata al principio di effettività, Il movimento insurrezionale è
temporaneo, poiché suscettibile di un'evoluzione (vincendo si sostituisce allo Stato legittimo) o di
una involuzione (perdendo retrocede a semplice gruppo di individui): ne segue una capacità
internazionale limitata
Nella guerra civile, Il governo legittimo può lecitamente reprimere l'insurrezione, avendo limiti
di natura umanitaria stabiliti dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e
dal II Protocollo addizionale del 1977.
I membri delle forze armate insurrezionali non sono legittimi combattenti e, ove catturati, non
hanno diritto allo status di prigioniero di guerra.
I terzi possono aver subito danni degli insorti: se l'insurrezione sconfitta, il governo legittimo non
è responsabile per danni provocati dagli insorti; Il nuovo governo è tenuto a riparare i danni
Infine i terzi possono aiutare il governo costituito ma non gli insorti, in quanto commetterebbero
un illecito internazionale (ISIS).
Ordine di malta
L'ordine di Malta ha esercitato autorità di governo prima su Gerusalemme, poi a San Giovanni
d'Acri, poi a Cipro, a Rodi e dal 1530 ebbe in feudo Malta, da cui fu cacciato da Napoleone nel
1798.
Dal 1834 ha sede a Roma, non esercitando alcuna sovranità territoriale dei due palazzi di via
Condotti e dell’Aventino.
Il 5 dicembre 1998 concluso un accordo con Malta per una concessione in affitto di una piccola
porzione di territorio per 99 anni.
Ha svolto diverse attività di rilievo internazionale:
• intrattenere relazioni diplomatiche con un certo numero di Stati
• Importanti funzioni di carattere umanitario
• I suoi rappresentanti sono accreditati presso alcune organizzazioni internazionali
(Organizzazione Mondiale della Sanità).
Nel 1994 l'ordine è stato ammesso come osservatore presso l'Assemblea Generale, anche s.
Inoltre gli viene riconosciuta immunità dalla giurisdizione civile, relativamente attività
concernenti i fini pubblici dell’Ordine.
Una parte della dottrina nega la soggettività di diritto internazionale dell’Ordine, contestando il
difetto di indipendenza dell'ordine dalla Santa Sede. Così l'ordine sarebbe persona solo nei
confronti dei soggetti che lo riconoscono.
2: IL RICONOSCIMENTO
4: IL TERRITORIO
La sovranità territoriale
Il territorio è l’ambito entro cui lo Stato esercita la sua potestà di governo (imperium, da non
confondere con il dominium, che ha una connotazione privatistica) ad esclusione di altri soggetti
di diritto internazionale (ius excludendi alios)
Il diritto internazionale protegge:
• la sovranità territoriale: mediante l’indisturbato esercizio dei poteri dello Stato nel proprio
territorio e attraverso il potere di cedere parte del proprio territorio, ma tale potere che in
passato era assoluto, oggi deve fare i conti con il principio di autodeterminazione dei popoli
• e l’integrità territoriale dello Stato, mediante proibizione della sottrazione di parti del suo
territorio, senza una valida giustificazione.
Il potere di governo dello Stato nel proprio territorio incontra limiti derivanti dal diritto
internazionale consuetudinario e pattizio, che riguardano il trattamento che deve essere
riservato agli Stati stranieri, ai loro organi e ai loro cittadini (ad es. immunità agli agenti
diplomatici). Tale potere incontra dei limiti anche per il trattamento dei propri cittadini, secondo
le norme stabilite dal diritto internazionale consuetudinario o dai trattati internazionali relativi alla
protezione dei diritti umani che lo Stato abbia ratificato.
Oggetto del diritto di sovranità territoriale sono il territorio, il mare territoriale e lo spazio aereo
sovrastante.
Nelle aree adiacenti al mare territoriale, lo Stato costiero non esercita alcun diritto di sovranità
territoriale, ma solo poteri di natura funzionale (zona contigua e archeologica, devono essere
istituite dallo Stato costiero con proclamazione come le ZEE) e diritti sovrani connessi allo
sfruttamento delle risorse naturali del suolo e sottosuolo marino (piattaforma continentale,
attributo necessario dello Stato costiero) e delle risorse biologiche (ZEE).
La sovranità sul territorio può essere esercitata congiuntamente da due o più stati = codominio
Il dominio riservato
Lo Stato è libero di assoggettare alla disciplina che più gli conviene i rapporti che si svolgono
all’interno del proprio territorio: il dominio riservato.
La Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che il dominio riservato ha per oggetto tutte le
materie in relazione alle quali il principio di sovranità degli Stati lascia ai soggetti di diritto
internazionale libertà di scelta (come la forma di Stato e di governo).
Il dominio riservato è disciplinato nell’art. 2, par. 7 della Carta ONU e indica quelle materie di
esclusiva competenza statale, per cui “nessuna disposizione della Carta autorizza l’ONU ad
intervenire in tali materie”. Tuttavia, tale principio non pregiudica però l’applicazione di misure
coercitive
Esistono due teorie principali per determinare la sfera di libertà dello Stato, entro cui l’ONU non
può intervenire:
1. la teoria giuridica del dominio riservato: secondo la quale non fanno parte del dominio
riservato le questioni che sono disciplinate del diritto internazionale consuetudinario o
pattizio;
2. una seconda tesi che restringe la sfera della competenza domestica e che afferma che non
rientrano nel dominio riservato neanche quelle materie che sono state oggetto di attenzione
da parte dell’ONU con l’adozione di risoluzione di carattere generale (Dichiarazione universali
dei diritti dell’uomo, decolonizzazione).
L’Onu può intervenire in una questione che ricade nella competenza domestica in due casi:
1. quando ha il consenso dell’avente diritto (uno stato consentire che l’ONU intervenga per
controllare una competizione elettorale);
2. oppure quando il Consiglio di sicurezza ritenga che una tal situazione domestica costituisca
una minaccia o una violazione alla pace
La frontiera
La frontiera è la linea che delimita la sovranità statale e viene stabilita mediante due
procedimenti:
1. la demarcazione (trasposizione dei dati geografici sul terreno)
2. la delimitazione (mediante coordinate geografiche)
La delimitazione è un atto bilaterale tra due Stati confinanti, che si concretizza nella stipulazione
di un trattato internazionale e può aver luogo ad opera di un tribunale internazionale in caso di
controversia, ma può avvenire anche in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza
dell’ONU
In materia di delimitazione, esiste l’uti possidetis (riconosciuta dalla Corte internazionale di
giustizia come norma di diritto consuetudinario), nato a livello regionale in America Latina,
secondo cui i confini degli stati latino-americani erano da presumersi eguali a quelli delle vecchie
circoscrizioni coloniali.
Si tratta dunque di una consuetudine generale che ha perso i caratteri di consuetudine locale.
Si è affermato come principio connesso alla formazione degli Stati di nuova indipendenza per
secessione o smembramento di uno Stato federale (e trascende l’ambito della decolonizzazione)
In caso di secessione o smembramento lo stato di nuova indipendenza eserciterà la propria
sovranità nell’ambito dei confini che prima della successione delimitavano la provincia o regione
divenuta indipendente.
Esistono altri principi di diritto consuetudinario:
• Quando i confini fra due Stati sono delimitati dai Fiumi:
- non navigabili: la linea di confine è quella mediana, cioè quella che passa nel mezzo del
Fiumi includendo anche le isole;
- navigabili: la linea di confine è quella del Thalweg, cioè del punto più alto della corrente.
• per i laghi di frontiera si applica la linea mediana
se il lago è circondato da più Stati, occorre congiungere questa con i confini di terraferma,
tracciando linee;
• per le catene montuose si adotta il criterio dello spartiacque o di una linea che unisce le vette
più alte.
Tutti questi criteri sono derogabili mediante accordo.
• La delimitazione può riguardare anche la frontiera marittima, nel caso di Stati adiacenti o
frontisti, per cui l’estensione delle aree marine risulta da un atto unilaterale dello Stato
costiero, ma deve essere conforme al diritto internazionale: pertanto uno Stato potrà fissare il
mare territoriale a 12 miglia dalla linea di base o inferiore (nel caso di Stati adiacenti o
frontisti, la delimitazione unilaterale non è possibile in mancanza di accordo).
• Per quanto riguarda il mare territoriale, il criterio da seguire è la linea mediana (art. 15 della
Convenzione dell’ONU sul diritto del mare: nessuno degli Stati frontisti può, salvo accordo,
estendere il proprio mare territoriale aldilà della linea mediana), ma tale criterio non trova
applicazione in ragione dell’esistenza di titoli storici o altre circostanze speciali.
• Per quanto concerne la piattaforma continentale, è stato abbandonato il criterio della linea
mediana (art. 6 Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale), ed è stato’’
adottato un criterio diverso, per cui la delimitazione deve effettuarsi mediante accordo
conformemente al diritto internazionale, determinato dall’art. 38 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia, al fine di prevenire ad un’equa soluzione. La delimitazione equa
viene applicata soprattutto quando gli Stati si rivolgono a un arbitro o ad un giudice: in tal caso
la delimitazione avviene con lodo o sentenza arbitrale.
La zona economica esclusiva ZEE di Stati adiacenti e frontisti viene delimitata con gli stessi criteri
della piattaforma continentale (delimitazione mediante accordo) 200 Miglia dalla linea di base
(art. 74 Convenzione ONU): è un'area del mare, adiacente le acque territoriali, in cui uno Stato
costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di
installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione
dell'ambiente marino.
Le controversie territoriali non possono essere risolte con l’uso della forza (Atto finale di Helsinki
della CSCE).
I rapporti occasionati dalla contiguità territoriale sono compresi nella categoria dei rapporti di
vicinato e disciplinati mediante accordi internazionali.
Frontiera e successione tra stati
In caso di successione tra Stati, la frontiera non può essere rimessa in discussione, poiché vige il
principio della stabilità delle frontiere per questi motivi:
• qualora la frontiera sia stata delimitata mediante trattato, non viene in considerazione una
vera e propria successione nei trattati, poiché il trattato di delimitazione, una volta eseguito,
esaurisce i suoi effetti;
• l’art. 11 della Convenzione di Vienna sulla successione tra Stati nei trattati del 1978 stabilisce
che il mutamento non reca pregiudizio alla frontiera stabilita da un trattato;
• il principio dell’uti possidetis porta a concludere che, nel caso di uno Stato di nuova
indipendenza, i confini del nuovo Stato corrispondono alle delimitazioni della regione o
provincia su cui esso si è costituito
Le servitù internazionali
Si parla di servitù personali più che di servitù internazionali
La prassi ammette che mediante trattato gli Stati possano imprimere vincoli ad una parte del loro
territorio, che non sono meramente obbligatori, ma hanno il carattere della realità
Altre volte la servitù ha per oggetto la costituzione di una zona franca
Anche il diritto di passaggio costituisce un classico esempio di servitù.
Un diritto di accesso al mare per gli Stati privi di litorale, accorda a tutti gli Stati il diritto alla
libertà di navigazione, ma non esiste una consuetudine per cui lo Stato che circonda il territorio
dello Stato enclavè sia obbligato a concedere un diritto di transito.
Per cui l’art. 125 della Convenzione dell’ONU sul diritto del mare accorda agli Stati privi di
litorale un diritto di accesso al mare, le cui modalità devono essere concordate con lo Stato
costiero.
Spesso le servitù hanno per oggetto territori:
• neutralizzati: la neutralizzazione ha per oggetto una parte del territorio statale in cui non
debbono essere compiute, in caso di guerra, operazioni militari né dal sovrano territoriale,
né da terzi; non viene meno in tempo di guerra.
• smilitarizzati: consiste nell’obbligo di non costruire fortificazioni militari o di mantenere
forze militari nella zona.
• ci può essere una neutralizzazione senza smilitarizzazione, tuttavia i due regimi sono
spesso contemporaneamente presenti
• Anche le vie d’acqua artificiali e gli stretti internazionali sono talvolta neutralizzati allo
scopo di escluderli dal teatro di guerra, in caso di conflitto armato
L’antartide
Lo strumento di base in materia di disciplina dei territori antartici e aree marittime adiacenti è il
Trattato di Washington del 1959, entrato in vigore nel 1961, il quale stabilisce che:
Art. 1 l’Antartide deve essere usata esclusivamente per fini pacifici, comportando il divieto di
svolgere qualsiasi attività militare
l’art. 5, il divieto di esplosioni nucleari o deposito di materiale radioattivo. È consentito
comunque l’impiego di personale o di materiale militare per la ricerca scientifica.
art. 2 il principio di libertà di ricerca scientifica
nell’art. 4 congela le pretese di sovranità: disponendo che nessuna norma del trattato dovrà
essere interpretata come una rinuncia alle rivendicazioni di sovranità ne dovrà pregiudicare la
posizione degli Stati che non riconoscono tali pretese
In virtù del Trattato del 1959, la gestione del continente antartico è affidato al Comitato delle
Parti Consultive (accanto alle quali vi sono Parti non Consultive), di cui sono membri i 12 Stati che
hanno negoziato il Trattato e quelli che hanno conseguito successivamente tale status per aver
svolto una sostanziale attività di ricerca scientifica stabilendovi basi o effettuando spedizioni
scientifiche nel continente (Italia nel 1987).
Al Trattato di Washington sono da aggiungere altri negoziati:
• la Convenzione sulla protezione della foca antartica (1972)
• la Convenzione sulla conservazione della flora e della fauna marine dell’Antartico (1980)
(importante per lo sfruttamento ottimale delle risorse biologiche in particolare del krill.)
Nel 1988 è stato adottato a Wellington un trattato per la disciplina delle attività minerarie
antartiche (essendovi presente rame, carbone, oro e argento). Gli Stati avevano voluto
conseguentemente prevenire una corsa indiscriminata allo sfruttamento dell’Antartide,
indirizzando le future attività minerarie nel quadro di un sistema istituzionale che offrisse
adeguate garanzie sia per gli investitori che per la comunità internazionale (art. 4, par. 2 della
Convenzione: nessuna attività mineraria in Antartide avrebbe potuto essere intrapresa finché
non fosse stato stabilito con certezza che tale attività non avrebbe determinato effetti
pregiudizievoli sull’ambiente antartico). Tuttavia, alcuni Stati avrebbero voluto che l’Antartide
divenisse patrimonio comune dell’umanità, sottraendolo a qualunque attività mineraria (paesi in
via di sviluppo).
Tali spinte insieme a quelle delle organizzazioni ambientaliste hanno prevalso:
il Trattato di Wellington non è mai entrato in vigore e nel 1991 è stato concluso un Protocollo
sulla protezione dell’ambiente antartico, entrato in vigore nel 1998, il quale dichiara l’Antartide
una riserva naturale, votata alla pace e alla scienza
Nel 2003 è stato istituito un segretariato del Trattato antartico.
L’artico
Il Polo Nord non è composto da terre emerse, ma solo da acque marine ricoperte da ghiacci.
Le acque dell’Artico adiacenti agli Stati costieri sono quindi assoggettate al regime del mare
territoriale, mentre le zone al di là del limite sono soggette al principio della libertà dell’alto
mare
La piattaforma continentale artica è soggetta ai diritti di sfruttamento esclusivo degli Stati
costieri e sulle acque sovrastanti la piattaforma lo Stato costiero ha diritto di istituire una Zona
economica esclusiva
Le terre emerse site nell’Oceano Artico sono soggette al diritto di sovranità territoriale
Nel 1996 è stato istituito il Consiglio Artico (foro di consultazione), di cui fanno parte gli 8 Stati
che vi si affacciano o storicamente attivi nella regione.
La consuetudine
L’art. 38 dello statuto della CIG definisce la consuetudine come “una pratica generale accettata
quale diritto”, la quale si compone di due elementi costitutivi:
1. la diurnitas: la ripetizione costante di un comportamento da parte degli Stati (elemento
materiale);
2. l’opinio iuris ac necessitatis: la convinzione generale che tale comportamento sia conforme a
diritto (elemento psicologico).
Perché si possa ravvisare l’elemento naturale della consuetudine, è necessario che un determinato
comportamento sia ripetuto nel tempo, in modo uniforme, dagli Stati e il tempo di formazione
della consuetudine può essere più o meno esteso (non esistono consuetudini istantanee).
La prassi deve essere virtualmente uniforme e seguita dalla generalità degli Stati (ossia la maggior
parte).
La prassi negativa non prova l’esistenza di un obbligo di non facere ed è necessario che essa sia
sorretta dall’opinio iuris.
Parimenti, la prassi incompatibile non è elemento sufficiente a produrre l’abrogazione di una
norma preesistente (sentenza Nicaragua - Usa, 1986).
L’elemento psicologico può consistere anche nella convinzione di esercitare un diritto: a tal
proposito, le risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU possono fornire elementi importanti
per provare l’opinio iuris, ma bisogna tener conto del contenuto della risoluzione e delle
condizioni della sua adozione, peraltro, la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che una
serie di risoluzioni successive prova l’esistenza di opinio iuris.
La consuetudine è fonte idonea a creare norme di diritto internazionale generale, vincolanti tutti
i membri della comunità internazionale (ogni Stato è tenuto ad osservare una norma
consuetudinaria, indipendentemente dalla partecipazione alla sua formazione o all’accettazione di
essa e parimenti, gli Stati di nuova formazione sono vincolati dalle norme consuetudinarie
generali vigenti al momento della loro nascita)
Non è accettabile la tesi secondo cui la consuetudine non vincola lo Stato il quale si sia
persistentemente opposto, in modo palese e inequivocabile, al suo processo di formazione (teoria
dell’obbiettore permanente).
• L’idoneità della consuetudine a produrre norme generali non esclude la presenza di norme
consuetudinarie vincolanti solo una stretta cerchia di soggetti (consuetudini particolari): si
tratta di consuetudini regionali o locali, vincolanti solo gli Stati appartenenti ad una
determinata area geografica geopolitica (ad es. il principio dell’utis possidetis in America
Latina).
Una seconda ipotesi di consuetudine particolare sarebbe data da quelle consuetudini che si
formano in deroga a regole pattizie).
L’Accordo
L’accordo (o trattato o convenzione) è fonte del diritto internazionale.
L’art. 38, par. 1, a) dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, nell’elencare le norme
applicabili dalla Corte per risolvere una controversia internazionale, dispone che la Corte applica
“le convenzioni internazionali sia generali che particolari che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite”.
La procedura di conclusione dei trattati, i loro effetti, le riserve, l’invalidità e l’estinzione sono
disciplinati dal diritto internazionale consuetudinario.
Nel 1969 è stata conclusa la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (non ratificata né da
Francia, né da USA e gli Stati parti sono poco più della metà degli Stati della comunità
internazionale, inclusa l’Italia), che è “un trattato sui trattati”.
L’art. 2, contiene la definizione giuridica di trattato: “l’espressione ‘trattato’ significa un accordo
internazionale concluso per iscritto fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale, contenuto
sia in un unico strumento, sia in due o più strumento connessi, e quale che sia la sua particolare
denominazione”.
Da tale enunciazione possiamo:
• ricavare che il trattato è suscettibile di avere varie denominazioni (trattato, convenzione,
accordo, carta, statuto, protocollo, patto, dichiarazione);
• la volontà di concludere un trattato può essere consegnata in un unico strumento, oppure in
due o più strumenti connessi (scambio di note o lettere);
• l’accordo deve essere disciplinato dal diritto internazionale. Non costituisce trattato né un
accordo che trova fondamento nel diritto pubblico interno di uno degli stati, né uno strumento
non avente natura giuridicamente vincolante e appartenente alla soft law
La Convenzione di Vienna disciplina solo gli accordi tra Stati
tuttavia, costituiscono trattati anche accordi conclusi tra Stati e altri soggetti del diritto
internazionale o tra soggetti di diritto internazionale diversi dagli Stati (organizzazioni
internazionali).
Sono disciplinati solo gli accordi in forma scritta, non orale
Non esistono materie specifiche che possono essere incluse o meno in un accordo internazionale,
in quanto l’accordo può disciplinare tutte le materie, anche quelle facenti parte del dominio
riservato degli Stati (forma di governo): il solo limite è rappresentato dallo ius cogens, poiché un
accordo contrario ad esso è nullo.
L’accordo produce solo diritto internazionale particolare (crea diritti e obblighi tra gli Stati parti),
ciò non toglie che possa riprodurre una regola consuetudinaria preesistente o trasformarsi in
diritto consuetudinario (art. 38).
La giurisprudenza e la dottrina
L’art. 38, par. 1, d) dello Statuto della CIG fa riferimento alla giurisprudenza e alla dottrina, che
costituiscono mezzi sussidiari per l’accertamento delle norme giuridiche, e non fonti del diritto
internazionale.
Ai fini dell’individuazione del contenuto delle norme internazionali, vengono in considerazioni le
sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e dei tribunali arbitrari, ma con la proliferazione
dei tribunali, il compito dell’interprete è aumentato (ad es. per il diritto internazionale umanitario
occorre far riferimento ai due tribunali ad hoc, ai tribunali ibridi e alla Corte penale
internazionale).
Anche i pareri consultivi della CIG hanno una loro importanza, benché l’art. 38 faccia riferimento
alle “decisioni giudiziarie”, cioè ad atti giuridicamente vincolanti e non ai pareri (non obbligatori),
dei quali si tiene conto per la ricostruzione di una norma di diritto internazionale (importanti sono:
il parere sulle riserve alla convenzione sul genocidio.
L’art. 38 menziona la dottrina come mezzo sussidiario per la determinazione delle norme di
diritto internazionale. Di regola, la dottrina non viene citata nelle sentenze della CIG, mentre
talvolta è presa in considerazione da altri tribunali internazionali
Pur essendo, giurisprudenza e dottrina posti sullo stesso piano, alla prima è da dare maggiore
importanza.
Equità
Lo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia abilita la Corte ad adottare sentenze ex aequo
et bono (secondo quanto è giusto ed equo), purché le parti le attribuiscano tale potere
In tal caso, la Corte giudica in base a principi extra-giuridici (art. 38, par. 2).
L’equità non è un principio facente parte dell’ordinamento internazionale (quindi non è
ammessa l’equità contra legem, ma solo infra legem o secundum legem), ma ricavato dal comune
sentire in merito alla giustizia.
Quando la Corte decide secondo equità, la sentenza ha valore dispositivo, anziché di mero
accertamento, ed è tale sentenza (e non l’equità) che si configura come fonte di diritto nei
rapporti tra le parti (in particolare è una fonte prevista da accordo, poiché trae la sua forza
obbligatoria dall’accordo tra le parti, che hanno chiesto alla Corte di risolvere la loro controversia
secondo equità)
Pur non essendo fonte di diritto, l’equità può assumere rilevanza anche quando una norma di
diritto internazionale impone il ricorso a criteri equitativi (l’equità ha assunto grande rilevanza
nella delimitazione marittima e specialmente nella divisione della piattaforma continentale e
della ZEE tra Stati adiacenti e frontisti, nei casi in cui, in assenza di accordo, le parti di una
controversia si rivolgono ad un tribunale internazionale).
In questi casi, “la nozione giuridica di equità è un principio generale direttamente applicabile
come diritto” In particolare, l’equità viene in considerazione come riferimento agli “equi principi”
che si applicano nella delimitazione marittima, ed essi incorporano l’equità e sono ricavabili da una
norma di diritto internazionale consuetudinario.
Il soft law
Con il termine soft law si identificano le disposizioni non giuridicamente vincolanti.
La loro fonte sono atti adottati dalle organizzazioni internazionali, quali raccomandazioni
internazionali, “codici di condotta” o atti adottati da conferenze internazionali non aventi
dignità di trattato (es. atti adottati nel quadro dell’OSCE; risoluzioni adottate dalle conferenze
sull’ambiente).
Il soft law può contribuire alla creazione di diritto:
• In primo luogo, una serie ripetuta di risoluzioni delle organizzazioni internazionali può
contribuire alla creazione di consuetudini internazionali. Le risoluzioni possono essere
d’ausilio al consolidamento dell’opinio iuris
• In secondo luogo, il soft law può costituire la fonte materiale di diritti e obblighi giuridici. I
principi contenuti nelle risoluzioni di conferenze internazionali possono essere tradotti in un
trattato internazionale, oppure essere richiamati in un trattato in cui è espressamente
stabilito che gli Stati si obbligano a rispettare le disposizioni dell’atto di soft law richiamato.
• In terzo luogo, il soft law limita il dominio riservato degli Stati, nel senso che il richiamo agli
“obblighi politici”, stabiliti dagli atti di soft law non costituisce “intervento negli affari interni
di un altro Stato”, sia che il richiamo sia operato dagli Stati sia che sia fatto da
un’organizzazione internazionale.
Premessa
Il diritto dei trattati è stato in larga parte codificato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati del 23 maggio 1969 ed è entrata in vigore solo il 27 gennaio 1980 (l’Italia ha ratificato il 25
luglio 1974, ma non è stata conseguita l’universalità degli Stati).
La Convenzione, che consta di 85 articoli ed un allegato
La convenzione regola tutte le fasi della vita del trattato: conclusione ed entrata in vigore;
rispetto, applicazione ed interpretazione; emendamento e modifica; invalidità, estinzione e
sospensione; funzioni del depositario, notifiche, correzione del testo e registrazione.
La Convenzione non regola:
le questioni successorie che sono disciplinate da una convenzione ad hoc, né le questioni relative
alla responsabilità degli Stati e agli effetti della guerra sui trattati continuando parimenti e lasciata
impregiudicata la questione degli obblighi che potrebbero sorgere rispetto ad un trattato per lo
Stato aggressore.
La Convenzione di Vienna è un trattato sui trattati e contiene disposizioni che sono dichiarative
del diritto consuetudinario in vigore ed altre che ne costituiscono uno sviluppo progressivo.
Le riserve
La riserva è definita come “una dichiarazione unilaterale, quale che sia la sua articolazione o
denominazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o
vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune
disposizione del trattato nella loro applicazione allo Stato medesimo” (art. 2 d).
La riserva può essere:
• “eccettuativa”, in quanto lo Stato riservante mira ad escludere l’applicazione di una
determinata clausola del trattato;
• “modificativa” o “interpretativa”, in quanto volta a modificare gli effetti di talune
disposizioni del trattato o a conferirne una determinata interpretazione ad un termine o ad
una clausola;
Sono riserve le dichiarazioni che hanno lo scopo di escludere o modificare una clausola del
trattato (non sono riserve le dichiarazioni di natura politica).
La riserva può essere apposta solo ad un trattato multilaterale (in un trattato bilaterale sarebbe
inconcepibile, equivalendo ad un’offerta a concludere un nuovo trattato).
È stato abbandonato il principio dell’integrità del trattato (lo Stato che formulava una riserva
poteva divenirne parte solo se il trattato prevedeva la possibilità di apporre riserve o, in mancanza,
se questa veniva accettata da tutti gli Stati contraenti), è invece prevalso il principio della
flessibilità, per cui se il trattato disciplina espressamente la possibilità di apporre delle riserve, le
relative disposizioni vanno rispettate.
Tuttavia, quando il trattato NON dice nulla circa la possibilità di apporre delle riserve, non è più
necessario che la riserva sia accettata da tutte le altre parti, ma è sufficiente che uno Stato
contraente accetti la riserva, affinché il suo autore possa divenire parte del trattato.
Tale sistema è stato consacrato nel parere della CIG relativo alle riserve alla Convenzione sul
genocidio (1951), che ha inoltre affermato il principio secondo cui sono inammissibili le riserve
incompatibili con l’oggetto o lo scopo del trattato.
Di fronte alla riserva altrui, uno Stato può accettarla oppure formulare un’obiezione.
Così si riassumono i rapporti contrattuali tra Stati riservanti e altri Stati parti:
• Nei rapporti tra Stato riservante e Stato accettante, il trattato si applica ad eccezione della
clausola oggetto della riserva (eccettuativa) o con le modifiche, o nell’interpretazione volute
dallo Stato riservante (modificativa o interpretativa);
• Nei rapporti tra Stato riservante e Stato obiettante, il trattato non si applica;
• Nei rapporti tra Stati non riservanti, il trattato si applica integralmente.
La Convenzione di Vienna ha innovato questo regime, poiché prescrive che uno Stato, nel
formulare l’obiezione, debba precisare che non intende avere nessun rapporto contrattuale con
lo Stato riservante.
Altrimenti, di fronte ad una semplice obiezione, lo Stato obiettante diventa parte nei confronti
dello Stato riservante ed il trattato si applica ad eccezione della clausola oggetto della riserva
(art. 21, par. 3).
La Convenzione di Vienna, quindi, indebolisce la forza dell’obiezione e rende problematica la sua
formulazione da parte dei piccoli Stati nei confronti delle grandi potenze
Particolari problemi sollevano i trattati che stabiliscono i vincoli solidali nei confronti di tutte le
parti contraenti (es. in materia di diritti dell’uomo). In tal caso, l’obiezione è priva di significato
pratico, poiché se uno Stato non applica il trattato nei confronti dello Stato riservante, viola il
trattato nei confronti di tutti gli altri Stati.
Occorre seguire una determinata procedura temporale per l’apposizione di una riserva:
essa può essere formulata al momento della firma, o in occasione della ratifica o adesione; la
riserva può essere ritirata in qualsiasi momento senza il consenso dello Stato accettante.
Dopo la ratifica o adesione non è più possibile formulare riserve, ma la prassi riporta casi di
“riserve tardive”. Tranne che esse siano ammesse dal trattato, per produrre effetti, devono essere
accettate da tutti gli Stati contraenti o incontrarne l’acquiescenza.
Gli Stati hanno un illimitato diritto di effettuare obiezioni, che possono essere formulate anche
da un semplice firmatario: in questo caso, però, l’obiezione produce i suoi effetti nel momento in
cui lo Stato firmatario diventa parte del trattato.
L’accettazione della riserva deve provenire da uno Stato contraente per produrre i suoi effetti.
Poiché l’accettazione può essere tacita, l’art. 20, par. 5, stabilisce che uno Stato, qualora intenda
obiettare, deve farlo entro 12 mesi dalla data della ricezione della notifica della riserva.
Il sindacato giurisdizionale da parte del giudice interno sui trattati e sugli atti
delle organizzazioni internazionali
Può il giudice interno sindacare la vigenza degli atti internazionali, siano essi trattati o atti di
organizzazioni internazionali?
a. Per quanto riguarda i trattati, una risoluzione dell’Institut de droit international del 1993,
sull’attività dei giudici internazionali e le relazioni internazionali dei loro Stati, afferma che il
giudice nazionale non dovrebbe applicare un trattato che esso consideri invalido o estinto.
Ma tale affermazione si scontra con la teoria dell’atto politico cui fanno spesso ricorso non
solo i giudici di common law, ma anche quelli italiani.
La particolare valenza conferita ai trattati dall’art. 117, 1° comma Cost. porta ad affermare
che il trattato non sarebbe sindacabile dal giudice interno.
Ci sono varie ipotesi:
a) Il trattato affetto da invalidità relativa, cioè da un vizio sanabile (artt. 46-50 della
Convenzione di Vienna del 1969): poiché l’acquiescenza fa perdere il diritto di invocare la
causa di invalidità, la non contestazione del trattato rientra tra le scelte di politica estera
dell’esecutivo, che non possono essere vanificate dal giudice.
Solo quando le modalità di stipulazione del trattato fossero chiaramente in contrasto con la
Costituzione, il giudice interno dovrebbe rinviare la questione alla Corte Costituzionale (si
tratterebbe di sollevare la questione di costituzionalità della legge di autorizzazione alla ratifica
e di esecuzione del trattato nella parte contenente l’ordine di esecuzione).
b) Al contrario, il giudice potrebbe dichiarare invalido il trattato, incidenter tantum, se ricorra
una causa di invalidità assoluta (artt. 51-53). Spetterà all’esecutivo impugnare il trattato e
seguire le disposizioni di procedura dettate dalla Convenzione di Vienna, qualora si intenda
avere una definitiva declaratoria di invalidità.
c) Tale regola è applicabile “mutatis mutandis” all’estinzione dei trattati.
Il giudice interno non applicherà, incidenter tantum, il trattato, qualora ricorra una causa
automatica di estinzione, quale il termine finale oppure un mutamento di sovranità, che
determini l’estinzione del trattato o la guerra, nei casi in cui essa comporti l’automatica
estinzione. Negli altri casi, essendo l’estinzione del trattato rimessa alla volontà dell’esecutivo
(denuncia), il giudice, non applicando il trattato, finirebbe per invadere competenze non sue.
b. Quanto agli atti delle organizzazioni internazionali occorre distinguere:
a. Nel sistema dell’UE, in cui spetta al giudice UE statuire sulla validità dell’atto, il giudice
nazionale non può dichiarare l’atto invalido, ma al massimo è concepibile un rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE;
b. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, nell’adottare le sue decisioni è vincolato dalla Carta
dell’ONU, e un atto del Consiglio contrario a tali disposizioni dovrebbe essere considerato
invalido. Tuttavia le giurisdizioni interne si sono dichiarate incompetenti.
La Corte Federale Svizzera ha affermato che le corti interne non possono statuire sulla
validità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza, tranne che questa sia contraria ad una
norma imperativa del diritto internazionale (caso Nada c. Svizzera, 2007).
Si può concludere affermando che, qualora la validità dell’atto interno che dà esecuzione alla
risoluzione del Consiglio dipenda dalla validità della risoluzione stessa, il giudice interno,
potrebbe dichiarare, incidenter tantum, invalida la risoluzione e disapplicarla nel caso
concreto.
Premessa
Occorre distinguere tra accertamento del diritto internazionale e soluzione delle controversie
internazionali (tra Stati o in generale tra soggetti di diritto internazionale):
da un lato la soluzione di una controversia internazionale non si traduce necessariamente in un
atto di accertamento del diritto, potendosi tradurre nella creazione di nuovo diritto nei rapporti
tra le parti;
dall’altro, se è vero che nel diritto internazionale generale l’accertamento del diritto presuppone
sempre una controversia internazionale, esistono però numerosi trattati e persino alcuni atti di
organizzazioni internazionali, che istituiscono meccanismi per l’accertamento del diritto, che
non presuppongono una tale controversia (es. trattati in materia di diritti dell’uomo, atti istitutivi
dei Tribunali penali internazionali e i ricorsi nell’ambito dell’UE).
Premessa
Il movimento internazionale per la protezione dei diritti dell’uomo si è sviluppato con l’entrata in
vigore della Carta dell’ONU, nel 1945. La tutela dei diritti dell’uomo nell’epoca precedente è ben
poca cosa, anche a causa della scarsa considerazione data all’individuo quale persona, come
dimostrato dal fatto che la dottrina considerasse l’individuo come oggetto di un diritto reale, da
parte dello Stato, al pari del territorio.
La tutela dei diritti umani viene realizzata mediante accordi internazionali, che disciplinano sia i
diritti che gli Stati sono obbligati ad accordare agli individui che si trovino sotto la loro
giurisdizione, sia gli strumenti di garanzia.
Non mancano norme consuetudinarie (e di diritto cogente) poste a tutela dei diritti umani (es.
norme relative ai crimini internazionali, come il divieto di genocidio).
La protezione essenziale della persona umana è oggetto di una norma di diritto internazionale
generale, ed un comportamento dello Stato che violasse i diritti elementari dell’uomo
costituirebbe un illecito internazionale (es. divieto di trattamenti inumani e degradanti; divieto
della schiavitù; divieto del lavoro forzato).
Distinte dalle regole dei diritti dell’uomo, vi sono le regole del diritto internazionale umanitario
che disciplinano i rapporti tra i belligeranti e la protezione della popolazione civile in periodo di
conflitto armato. Tra le due categorie vi è un rapporto di lex generalis (diritti dell’uomo) lex
specialis (diritto umanitario), per cui in caso di conflitto si dà prevalenza al secondo.
L’Onu
La Carta dell’ONU contiene articoli relativi ai diritti dell’uomo, quali il rispetto di questi e la
salvaguardia delle libertà fondamentali (Preambolo e art. 1) (L’art. 55 afferma che l’ONU
promuoverà il rispetto e l’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali senza
discriminazione; l’art. 56 obbliga gli Stati ad agire collettivamente o singolarmente in cooperazione
con l’organizzazione, per raggiungere i fini stabiliti dall’art. 55; gli artt. 13 e 62 attribuiscono
all’Assemblea Generale e al Consiglio economico e sociale la competenza ad occuparsi di questioni
relative ai diritti dell’uomo)
La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea Generale il 10
dicembre 1948, rappresenta uno dei primi strumenti attraverso il quale si prendono in
considerazione i diritti degli individui in quanto tali. Anche se non è giuridicamente vincolante, la
Dichiarazione ha posto le premesse per la stipulazione di trattati in materia di diritti umani, sia a
livello regionale che universale.
La Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio è stata conclusa nel
1948 ed ha lo scopo di salvaguardare il diritto dell’esistenza fisica di membri del gruppo
(nazionale, etnico, razziale o religioso).
Il genocidio è qualificato come un crimine internazionale, tanto in tempo di pace, quanto in
tempo di guerra ed è costituito da:
1. elemento materiale (es. uccisione di membri del gruppo)
2. elemento psicologico (es. intenzione di sterminare il gruppo).
Sul genocidio hanno giurisdizione il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia e quello
per il Ruanda, oltre che la Corte penale internazionale.
La Convenzione relativa allo status di rifugiato del 1951 e il Protocollo del 1967 non
attribuiscono agli individui il diritto d’asilo e non obbligano gli Stati a concederlo. Il solo obbligo
a carico degli Stati contraenti è l’obbligo di non respingimento del richiedente asilo verso le
frontiere di uno Stato ove la sua vita o libertà sarebbero minacciare.
L’art. 31 obbliga inoltre gli Stati a non assoggettare a sanzioni penali i rifugiati che entrino
illegalmente nel territorio dello Stato a cui intendono chiedere asilo.
Uno dei maggiori risultati raggiunti dall’ONU è stato la conclusione di due Patti nel 1966, che
traducono in forma giuridicamente vincolante le disposizioni della Dichiarazione Universale dei
diritti dell’uomo:
1. Patto sui diritti civili e politici
contenuti in norme self-executing
distinzione tra:
a) Popoli presi in considerazione dall’art. 1,
b) minoranze (etniche, religiose o linguistiche): trovano tutela nell’art. 27.
Non vengono attribuiti diritti collettivi, ma i diritti vengono attribuiti agli individui della
minoranza, in modo che possano esercitarli singolarmente o in comune con gli altri
membri del gruppo.
2. Patto sui diritti economici, sociali e culturali.
contenuti in norme programmatiche
L’art. 1 di entrambi i Patti garantisce il diritto all’autodeterminazione (appartiene ai popoli, non
agli individui), condizione necessaria per il godimento dei diritti individuali.
Quanto ai meccanismi di garanzia, è previsto l’invio di rapporti periodici da parte degli Stati al
Segretario generale dell’ONU circa l’attuazione dei Patti negli ordinamenti interni, i quali sono
esaminati da:
• Comitato dei diritti dell’uomo per il Patto sui diritti civili e politici, composto da 18 membri
indipendenti, eletti dalla riunione degli Stati parti del Patto. Tale Patto stabilisce inoltre un
meccanismo di controllo più avanzato, per cui il Comitato può esaminare reclami di uno Stato
che lamenti la violazione dei diritti dell’uomo da parte di un altro Stato parte del Patto; il
Comitato si mette a disposizione delle parti per pervenire a soluzione in conformità ai diritti
dell’uomo; se ciò non si risolve, il Comitato può istituire, con il consenso degli Stati interessati,
una commissione di conciliazione;
• Comitato per i diritti economici, sociali e culturali per il Patto sui diritti economici, sociali e
culturali, composto da 18 membri indipendenti eletti dal Consiglio economico e sociale
dell’ONU.
Inoltre, sono previsti dei Protocolli aggiuntivi ad entrambi i Patti:
o Un Protocollo opzionale al Patto sui diritti civili e politici prevede che gli individui possano
indirizzare un reclamo al Comitato dei diritti dell’uomo e tale procedura si conclude con una
constatazione (non vincolante), indirizzata dal Comitato allo Stato parte chiamato in causa e
all’individuo;
o Un Protocollo opzionale (2008) al Patto sui diritti economici, sociali e culturali che disciplina i
reclami individuali (procedura simile al Comitato dei diritti dell’uomo), interstatali (clausola
opzionale, la cui accettazione condiziona l’esperibilità del mezzo di garanzia) e una procedura
d’inchiesta.
La Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984)
contiene un sistema di garanzia (Comitato contro la tortura), aggiornato nel 2002 con un
Protocollo opzionale che istituisce un nuovo sistema di garanzia.
La Commissione dei diritti dell’uomo (da non confondere col Comitato) istituita da una
risoluzione del Consiglio economico e sociale, era composta da 53 Stati eletti dal Consiglio
economico e sociale e aveva oltre ad importanti funzioni normative, il compito di controllare il
rispetto dei diritti dell’uomo all’interno degli Stati membri ed esaminare le questioni sollevate al
riguardo dagli Stati, dando raccomandazioni.
Essa è stata sostituita nel 2006 dal Consiglio dei diritti umani, istituito da una risoluzione
dell’Assemblea Generale nella speranza di eliminare l’inefficienza della Commissione.
Esso è composto da 47 membri eletti dall’Assemblea Generale a scrutinio segreto, con voto di
maggioranza, ma i seggi vengono distribuiti secondo il criterio di un’equa ripartizione geografica.
Il mandato è di 3 anni ed un membro non è immediatamente rieleggibile.
Per essere eletti, occorre avere uno standard elevato in materia di diritti umani, che dovrà
continuare ad essere osservato, pena la sospensione dal Consiglio (con voto di 2/3 dei presenti e
votanti all’Assemblea), e successiva reintegra (es. Libia con la caduta del regime di Gheddafi,
2011).
Il Consiglio può indirizzare raccomandazioni all’Assemblea Generale, ma non al Consiglio di
sicurezza (che può tenerne conto).
Può essere convocata una sessione speciale ad iniziativa di uno Stato membro e con il voto di
1/3 dei membri (es. nel 2007 per la situazione in Myanmar e nel 2011 per la Libia). Può essere
nominata anche una commissione d’inchiesta (es. per la Siria nel 2012).
Nel 1993 è stato istituito l’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani, avente compiti
operativi e che dovrebbe coordinare l’azione dell’ONU nel campo dei diritti umani.
L’Unione europea
All’origine i Trattati relativi alle Comunità europee non contenevano alcun riferimento diritti
umani. La protezione dei diritti umani fondamentali rientrerebbe tra i principi generali del diritto
comunitario. La Corte ha affermato che tali principi possono essere ricavati:
a. dalle tradizioni costituzionali comunali degli Stati membri;
b. Dai trattati internazionali sui diritti dell’uomo (CEDU)
Veniva così individuata una doppia fonte:
• interna (Costituzioni degli Stati membri)
• internazionale (trattati in materia dei diritti dell’uomo)
Con il Trattato di Lisbona la situazione è la seguente:
1. l’art. 2 del TUE consacra come valori fondanti dell’UE il rispetto della dignità umana, la
libertà, la democrazia, l’eguaglianza, Lo stato di diritto, rispetto dei diritti umani (comprese
minoranze);
2. l’art. 6, par. 3 del TUE stabilisce che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti
dalle tradizioni comuni degli Stati membri fanno parte del diritto dell’UE in quanto principi
generali. Parlamento, Consiglio e Commissione UE avevano proclamato la Carta dei diritti
fondamentali dell’UE il 7 dicembre 2000, contenente un catalogo esteso di diritti civili e
politici ed economici, sociali e culturali. Tale strumento di soft law è diventato
giuridicamente vincolante con il Trattato di Lisbona che attribuisce alla Carta lo stesso valore
giuridico dei Trattati (TUE e TFUE). Il rispetto dei principi stabiliti nell’art. 2 e la loro
promozione costituiscono requisiti per l’adesione di nuovo Stato europeo all’UE (art. 49
TUE); inoltre, la violazione grave e persistente di tali principi può essere causa di sospensione
di alcuni diritti connessi alla qualità di membro dell’UE (art. 7 TUE e art. 354 TFUE). la Corte
europea dei diritti dell’uomo si è dichiarata competente a giudicare dei provvedimenti interni,
attuativi di atti comunitari, contrari alla CEDU;
3. L’art. 6, par. 2 del TUE dispone che l’UE aderisca alla CEDU (l’adesione non è ancora
avvenuta). Per alcuni accrescerebbe solo il conflitto tra la Corte di Giustizia UE e la Corte
europea dei diritti dell’uomo.
I crimini internazionali
I crimini internazionali vengono definiti come attività individuali lesive di beni particolarmente
protetti dal diritto internazionale.
I crimini internazionali possono essere commessi da semplici individui o da individui-organi (es.
crimini di guerra commessi da un organo belligerante)
Gli atti lesivi, qualora siano commessi da individui-organi e quindi imputabili anche ad uno
Stato, restano propri degli individui che li hanno commessi, e il diritto internazionale autorizza la
loro repressione senza tener conto della qualità di organi statali degli individui che hanno
compiuto l’atto: viene meno, quindi l’“immunità funzionale”
I crimini internazionali vengono distinti in tre categorie, conformemente all’Accordo di Londra
dell’8 agosto 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga. L’art. 6 dell’Accordo distingue i crimini
internazionali in:
1. Crimini contro la pace
L’Accordo di Londra definisce i crimini contro la pace come “la progettazione, preparazione,
scatenamento e continuazione di una guerra di aggressione o di una guerra in violazione di
trattati, accordi o garanzie istituzionali, ovvero partecipazione ad un piano concertato o ad
un complotto per commettere uno qualsiasi di tali atti”. Appartiene a questa categoria anche
l’aggressione che, sebbene l’Accordo non ne dia una definizione, secondo la ris. 3314
dell’Assemblea Generale “costituisce aggressione l’uso della forza armata da parte di uno
Stato contro la sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica di un altro Stato o in
qualunque altra maniera incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”.
È difficile stabilire se la risoluzione sia dichiarativa del diritto internazionale generale, ma in
ogni caso la determinazione della commissione di un atto di aggressione spetta al Consiglio
di sicurezza (art. 39 della Carta dell’ONU) e quindi la definizione contenuta nella risoluzione
dell’Assemblea Generale serve solo da “guida” al Consiglio.
L’aggressione è un crimine rientrante nella giurisdizione della Corte penale internazionale
(art. 5, par. 1).
• L’aggressione, come crimine, non può essere data da una minore violazione della norma che
vieta l’uso della forza;
• L’aggressione è un crimine di leadership, i cui autori possono essere solo quelli che abbiano
l’effettivo controllo e direzione politica o militare dello Stato.
2. Crimini di guerra
Consistono in violazioni gravi delle leggi e consuetudini di guerra.
Non tutte le violazioni delle norme di diritto internazionale bellico sono da considerare
crimine internazionale; deve, infatti, trattarsi di una lesione particolarmente qualificata di
beni protetti dal diritto bellico, che può avere come oggetto sia norme che disciplinano la
condotta delle ostilità (es. l’uso delle armi vietate) sia norme a carattere più umanitario (es. la
presa di ostaggi).
Un elenco dei crimini di guerra è contenuto nell’art. 6 b) dell’Accordo di Londra, che qualifica
come crimini di guerra:
a. l’uccisione, maltrattamenti o la deportazione per costringere a compiere lavori forzati, o
a qualunque altro fine, delle popolazioni civili nei territori occupati;
b. l’uccisione o il maltrattamento di prigionieri di guerra o di persone che si trovano in
mare;
c. l’esecuzione di ostaggi;
d. il saccheggio di beni pubblici o privati;
e. la distruzione senza motivo di città e villaggi;
f. le devastazioni non giustificate da necessità militari.
Definizioni più precise sono state date dalle quattro Convenzioni di Ginevra (1949), che
considerano infrazioni gravi gli atti commessi contro le persone protette che sono sotto il
potere del nemico: malati, prigionieri, naufraghi, civili dei territori occupati; e dal I Protocollo
addizionale (1977), che qualifica come infrazioni gravi sia le violazioni commesse ai danni di
persone cadute nelle mani del nemico sia le gravi violazioni commesse nel campo di battaglia
(es. attacco a località indifese, uccisione del nemico fuori combattimento). Tali definizioni,
insieme all’elenco contenuto nell’art. 6 b), non sono ritenuti tassativi; mentre un elenco di
crimini di guerra stabilito dall’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale è tassativo
ai fini della giurisdizione della Corte.
I crimini di guerra, oggi, possono essere compiuti anche in occasione di un conflitto interno
(non più solo in occasione di conflitti armati internazionali).
3. Crimini contro l’umanità
Secondo l’art. 6 c) dell’Accordo di Londra, vengono considerati crimini contro l’umanità lo
sterminio o la riduzione di popolazioni in schiavitù, e hanno assunto un’autonoma
configurazione nell’ordinamento internazionale (art. 7 dello Statuto della Corte penale
internazionale).
Il genocidio appartiene a questa categoria Gli Statuti dei Tribunali per la ex-Iugoslavia e per il
Ruanda e della Corte penale internazionale (art. 7) indicano come crimine contro l’umanità,
qualora siano diretti contro la popolazione civile in un attacco a vasto raggio: l’omicidio, lo
sterminio, la riduzione in schiavitù, l’espulsione, l’imprigionamento, la tortura, lo stupro, le
persecuzioni per ragioni politiche, razziali e religiose.
Viene ritenuto crimine contro l’umanità anche la pirateria iuris gentium, definito come
perpetrazione di atti di violenza, detenzione e depredazione commessi, per fini privati, da
equipaggi o passeggeri di una nave od aeromobile privato contro un’altra nave od
aeromobile (art. 15 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare, 1958; art. 101 della
Convenzione dell’ONU sul diritto del mare, 1982); il crimine, per essere qualificato pirateria,
deve essere commesso in alto mare o nello spazio aereo sovrastante.
Diversi dai crimini internazionali sono i crimini di diritto interno internazionalmente imposti:
reati previsti dagli ordinamenti nazionali che non sono però configurati autonomamente
dall’ordinamento internazionale; anche se arrecano pregiudizio a più Stati o comunque essi
hanno un comune interesse alla loro repressione.
Per questo motivo gli Stati attuano strumenti per la cooperazione giudiziaria, attuata mediante
l’estradizione, e si obbligano a punire i colpevoli o a consegnarli allo Stato che ha titolo di
giurisdizione.
Controverso è se il terrorismo sia un crimine internazionale: le 14 convenzioni finora stipulate
hanno per oggetto singoli atti di terrorismo che vengono repressi obbligando gli Stati a qualificarli
come crimini nella loro legislazione interna. Tuttavia, manca una definizione generale di
terrorismo
La repressione dei crimini internazionali può avvenire ad opera dei tribunali internazionali o dei
tribunali interni; il concorso tra i due è disciplinato dalle regole contenute nello Statuto della Corte
penale internazionale o nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza istitutive dei tribunali penali ad
hoc. La regola che dovrebbe informare i tribunali interni è quella dell’universalità della
giurisdizione (quattro Convenzioni di Ginevra, 2949): qualora il reo si trovi nel territorio dello
Stato, questo è obbligato a sottoporlo a procedimento penale o a estradarlo allo Stato che ne
faccia richiesta (aut dedere aut iudicare).
Secondo le Convenzioni, ogni parte contraente ha il dovere di ricercare e processare i colpevoli;
lo Stato in cui il reo si trova, invece, ha l’obbligo di processarlo. Se preferisce, lo Stato territoriale
può consegnarlo allo Stato che lo richieda, che vanterà un particolare titolo di giurisdizione.
Premessa
La problematica relativa al trattamento delle persone fisiche giuridiche straniere è oggi
strettamente connessa con quella della protezione della persona umana.
Tuttavia, è opportuno trattare in maniera separata questa materia poiché nonostante le inevitabili
interferenze, vi sono indubbie specificità:
• Le norme in materia di diritti umani sono formulate a garanzia di tutti gli individui (cittadini e
stranieri) sottoposti al potere di imperio dello Stato; al contrario, quelle relative agli stranieri
hanno per oggetto una categoria di persone ben più delimitata;
• Talune norme in materia di diritti umani (es. diritti politici) attribuiscono diritti ai cittadini,
ma non necessariamente agli stranieri;
• Mentre le norme a protezione dei diritti umani hanno per oggetto la tutela dell’individuo,
quelle relative agli stranieri sono poste a protezione degli Stati e solo in forma mediata
dell’individuo;
• Vi sono taluni istituti, come la protezione diplomatica, che sono peculiari del trattamento
degli stranieri;
• Esistono norme che specificamente hanno per oggetto gli stranieri (es. relative all’ingresso nel
territorio, ai richiedenti asilo e ai lavoratori migranti).
Da qui la tendenza a costruire le norme a protezione dei diritti degli stranieri come norme a
protezione dell’individuo
L’ammissione e l’allontanamento di stranieri
Lo Stato è libero di ammettere gli stranieri nel proprio territorio, può accordare o negare
l’ingresso, ma non esiste alcuna norma di diritto internazionale al riguardo; per cui lo Stato non
ha alcun obbligo di ammettere i richiedenti asilo nel proprio territorio, come è libero di
allontanare gli stranieri presenti.
Ma buona parte della dottrina ritiene esistente una norma consuetudinaria, che proibisce
l’espulsione in massa di stranieri: l’art. 4 del Protocollo n. 4 aggiuntivo alla CEDU stabilisce che
“le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”.
Per quanto riguarda l’espulsione, la Commissione del diritto internazionale ha adottato nel 2014
un progetto di articoli che conferisce allo Stato il diritto di espellere lo straniero (art. 3),
precisando che questo deve avvenire in base ad una decisione conformemente a diritto (art. 4).
Occorre inoltre tener conto del diritto convenzionale:
uno Stato parte della CEDU non potrà procedere all’allontanamento dello straniero verso uno
Stato dove questi corre il rischio di un trattamento inumano o degradante; parimenti, l’art. 3
della CEDU contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (1984)
stabilisce l’inammissibilità dell’espulsione dello straniero verso uno Stato in cui vi siano gravi
motivi di credere che esso rischierebbe la tortura;
Particolare categoria sono i lavoratori transfrontalieri. Di regola, gli Stati si accordano per la
reciproca ammissione dei rispettivi cittadini mediante trattati ad hoc, denominati trattati di
amicizia, commercio e navigazione.
Lo Stato può assoggettarne l’ingresso di un documento di identità (passaporto) e a determinate
condizioni (visto).
Per gli apolidi (cittadini privi di cittadinanza) viene rilasciato un documento di viaggio
dall’organizzazione competente e dallo Stato in cui sono stanziati
Per i rifugiati o richiedenti asilo, l’art. 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del
1948 attribuisce il diritto di cercare di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
L’unico obbligo dello Stato consiste nel non respingimento (non refoulement, considerato
appartenente al diritto consuetudinario) del rifugiato “verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita
o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità,
appartenenza ad una determinata categoria sociale o opinioni politiche” (art. 33 della
Convenzione del 1951).
Altresì l’art. 22 della Convenzione dei diritti sul fanciullo del 1989 obbliga gli Stati parti a
prendere misure adeguate alla protezione dei minori richiedenti asilo.
Nell’ordinamento italiano, art. 10, 3° comma che dispone che “lo straniero al quale sia impedito
nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana
ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge."
La posizione di coloro che entrano in Italia e hanno diritto internazionale si articolano in:
a. status di rifugiato: comporta la titolarità di un permesso di soggiorno e il godimento dei diritti
sanciti dalla Convenzione del 1951;
b. protezione sussidiaria: accordata a chi non possiede i requisiti di rifugiato, ma nei cui
confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d’origine,
rischierebbe di subire un grave danno (pena di morte; tortura; minaccia alla vita o alla
persona);
c. protezione temporanea: in caso di afflusso massiccio di sfollati, ha carattere limitato al
soggiorno di un anno e consente di esercitare attività di lavoro subordinato o autonomo.
Il trattamento di stranieri
Lo straniero non è titolare di alcun privilegio nello Stato ospite ed è sottoposto alla giurisdizione
dello Stato territoriale, ma non è soggetto ai doveri peculiari dello status civitatis, (es. prestare
servizio militare al contrario questo può essere imposto all’apolide MA lo Stato è libero di
arruolare stranieri nel proprio esercito)
Lo straniero non gode dei diritti politici connessi alla cittadinanza, come la partecipazione al
processo elettorale.
Taluni diritti possono essere concessi unilateralmente dallo Stato territoriale o in virtù di un
accordo internazionale (es. Schengen in UE).
In caso di arresto lo straniero ha diritto all’assistenza in giudizio da parte di un difensore.
Le due regole che hanno per oggetto il trattamento degli stranieri sono quelle relative al:
• Minimum standard internazionale: si intende il trattamento che deve essere riservato allo
straniero, secondo lo standard delle “nazioni civili”.
• Il diniego di giustizia: ha per oggetto l’accesso dello straniero ai tribunali dello Stato
territoriale. Lo straniero ha diritto che la sua causa sia udita da un tribunale locale e qualora
gli sia impedito, lo Stato territoriale commette un illecito internazionale nei confronti dello
Stato di cui lo straniero è cittadino.
Il tribunale locale può respingere la domanda poiché l’oggetto del ricorso non è
“giustiziabile” o perché il convenuto gode di immunità dalla giurisdizione. In questi casi lo
Stato territoriale non è responsabile di un diniego di giustizia.
Oggi le due nozioni sono superate dalle norme in materia di diritti dell’uomo:
per il minimum standard, occorre far riferimento alle norme sui diritti dell’uomo che
assicurano a tutti gli individui, cittadini e stranieri, un determinato trattamento (es. divieto di
discriminazione e di trattamenti inumani e degradanti); per l’accesso alla giustizia, questo è
ricompreso nel diritto ad un equo processo.
Le persone giuridiche
Per le persone giuridiche valgono i principi già elaborati per le persone fisiche: lo Stato è libero di
ammettere nel proprio territorio le persone giuridiche, salvo gli obblighi derivanti da trattato
internazionale (ciò vale per tutte le categorie di enti).
Il diritto di stabilimento può essere accordato solo con atto unilaterale dello Stato territoriale o
mediante trattato, che di solito prevede la reciprocità (circoscritto a determinate categorie di
attività economica).
Le nazionalizzazioni
Le misure restrittive della proprietà degli stranieri hanno molteplici contenuti.
Si distingue tra:
1. nazionalizzazioni: hanno per oggetto un’intera categoria di beni e servizi (es. energia
elettrica) e sono attuate mediante provvedimenti legislativi;
2. espropriazioni: hanno per oggetto singoli beni e sono eseguite mediante un provvedimento
amministrativo;
3. confisca: denota l’acquisizione forzosa di un bene senza la corresponsione di alcun
indennizzo
Lo Stato territoriale ha il diritto di nazionalizzare beni degli stranieri, purché sia corrisposto un
indennizzo, altrimenti commette un illecito.
Sono vietate le nazionalizzazioni discriminatorie operate come misura persecutoria per motivi
razziali o per colpire una particolare categoria di stranieri.
Il problema riguarda le modalità di corrispondenza dell’indennizzo:
• secondo USA l’indennizzo deve essere “pronto, adeguato ed effettivo”, cioè immediato
all’espropriazione del bene, corrispondente al suo valore ed in moneta convertibile (sebbene
contestata, deve essere considerata come corrispondente al diritto consuetudinario, inserita in
molteplici trattati bilaterali sulla protezione degli investimenti);
• secondo Stati del terzo mondo che ospitano gli investimenti, la corrispondenza dovrebbe
basarsi sull’ordinamento interno dello Stato ospite, tenendo conto delle sue capacità
finanziarie (rientrante nella Carta dei diritti e doveri economici degli Stati).
Premessa
Con responsabilità internazionale si indicano le relazioni giuridiche che nascono come
conseguenza della Commissione del fatto illecito:
l’art. 1 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale dello Stato adottato dalla CDI
(commissione di diritto internazionale) “ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato
comporta la sua responsabilità internazionale”.
Tali relazioni consistono in un rapporto giuridico tra lo Stato autore dell’illecito e lo Stato leso: il
primo ha l’obbligo di effettuale la riparazione; il secondo il diritto di pretenderla e, inoltre, ha il
diritto di comminare una contromisura (rappresaglia) nei confronti del primo (tale diritto sorge per
il soggetto leso nel momento in cui è commesso l’illecito).
La disciplina dell’uso della forza armata prima dell’entrata in vigore della carta
onu
Prima dell’entrata in vigore della Carta dell’ONU, gli Stati godevano di un’ampia libertà di
ricorrere alla forza armata, godendo di un illimitato ius ad bellum (illimitato diritto di ricorrere
alla guerra).
La guerra era un mezzo ammesso dall’ordinamento internazionale, che lo disciplinava con il
diritto bellico: poteva venire dichiarata a tutela di semplici interessi ed era considerata un mezzo
per la soluzione delle controversie internazionali, soprattutto politiche.
Al contrario, vi era un limitato ricorso a misure di coercizione diverse dalla guerra
• Il primo limite a ricorso della forza armata si rinviene nell’art. 1 delle Convenzioni dell’Aja del
1899 e 1907 relative alla soluzione pacifica delle controversie, ai sensi del quale gli Stati
contraenti “convengono” di impiegare tutti gli sforzi necessari per il regolamento pacifico
delle controversie “allo scopo di prevenire nella misura possibile il ricorso alla forza armata
nel rapporto tra gli Stati”.
• In seguito, il Patto della Società delle Nazioni (1919) sanciva il dovere di risolvere
pacificamente le controversie internazionali, obbligando gli Stati a sottoporle al regolamento
arbitrale o giudiziale (Corte permanente di giustizia internazionale) o al Consiglio della Società
delle Nazioni.
• Il Patto Kellogg-Briand (1928) sancisce la rinuncia alla guerra come strumento di politica
nazionale e ne condanna il ricorso come strumento per la soluzione delle controversie
internazionali, le quali devono essere risolte esclusivamente con mezzi pacifici (art. 2); il
patto non impediva le rappresaglie armate, né veniva disciplinata la legittima difesa.
• Il Patto, comunque, gettò le basi giuridiche dei processi di Norimberga e di Tokyo, poiché
condannava la guerra come strumento di politica nazionale. L’Accordo di Londra (1945),
istitutivo del Tribunale di Norimberga, definì, nell’art. 6 a), la guerra di aggressione un crimine
internazionale, in particolare un crimine contro la pace.
Il contenuto della proibizione stabilita dall’art 2 par 4 della carta delle naz unite
La Carta dell’ONU (24 ottobre 1945) prevede un divieto generale di ricorso alla forza armata,
contenuto nell’art. 2, par. 4, e un’eccezione costituita dalla legittima difesa individuale e
collettiva (art. 51).
L’uso della forza avrebbe dovuto essere monopolio del Consiglio di Sicurezza, che deve
intervenire quando si verifichi una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di
aggressione.
Tuttavia, il divieto dell’uso della forza è rimasto un principio fondamentale da qualificare come
norma imperativa del diritto internazionale, almeno riguardo al divieto di aggressione (perché gli
stati spesso giustificano la violenza con la legittima difesa).
La CIG, nel caso Nicaragua-USA, ha affermato che il principio del divieto dell’uso della forza
appartiene al diritto consuetudinario.
1. L’art. 2, par. 4 proibisce solo la minaccia e l’uso della forza armata, non si preoccupa della
coercizione economica (durante la Conferenza di San Francisco che portò all’adozione della
Carta, fu respinta la proposta del Brasile).
2. L’art. 2, par. 4 vieta l’uso della forza armata, e la semplice minaccia, anche se non è facile
determinare cosa possa costituire minaccia della forza
a) La CIG ha escluso che la messa a punto di un notevole livello di armamento, da parte di
uno Stato, possa essere considerata una minaccia nei confronti degli Stati vicini: nella
controversia Nicaragua-USA, essa ha affermato che secondo il diritto internazionale
consuetudinario non esistono vincoli a livello di armamento di ciascuno Stato; tali vincoli
potrebbero derivare solo dal diritto pattizio e dai trattati di limitazione degli armamenti
b) Un problema particolare si è posto per le armi nucleari.
Nel parere del 1996, la CIG distingue tra il mero possesso delle armi nucleari e la
dissuasione nucleare: mentre il semplice possesso non costituisce una minaccia della
forza, la dissuasione nucleare è fondata sulla minaccia dell’uso dell’arma nucleare
c) Non costituisce minaccia della forza l’esercizio di un diritto, come l’attraversamento da
parte di uno Stato di uno stretto internazionale mediante navi da guerra
3. La proibizione contenuta nell’art. 2, par. 4 della Carta dell’ONU, non ha per oggetto qualsiasi
minaccia o uso della forza, ma solo quelli esercitati dagli Stati nelle loro relazioni
internazionali.
È proibita la forza esercitata al di là del territorio statale, sia nell’ambito territoriale di un
altro Stato, sia in uno spazio non soggetto alla sovranità di alcuno, come l’alto mare o lo
spazio aereo sovrastante (es. contro navi e aeromobili militari).
Oggetto di controversia è il caso in cui la forza venga usata contro agenti diplomatici o contro
la sede di una rappresentanza diplomatica:
• per alcuni si tratterebbe di una violazione dell’art. 2, par. 4;
• per altri, lo Stato territoriale, nell’impiegare la forza all’interno del proprio territorio,
incorrerà nella violazione di altre norme di diritto internazionale
le misure prese dal governo legittimo per reprimere un’insurrezione non costituiscono
oggetto dell’art. 2, par. 4, mentre un problema a parte è rappresentato dalla forza impiegata
per reprimere il diritto all’autodeterminazione di un popolo soggetto a dominazione
coloniale o razzista: in tal caso la forza è oggetto di un divieto stabilito da una norma ad hoc
4. L’art. 2, par. 4 precisa come il divieto abbia per oggetto la forza usata sia contro l’integrità
territoriale o l’indipendenza politica o contro i fini dell’ONU
5. I progressi compiuti dall’informatica hanno indotto a chiedersi se l’impiego di mezzi
informatici contro uno Stato possa essere considerato violazione dell’art. 2, par. 4
(cyberwarfare): in linea di principio, l’uso dei mezzi informatici riguarda i metodi di
combattimento piuttosto che al ricorso della forza armata
Il divieto dell’uso della forza è norma di diritto internazionale pattizio ma è anche norma
consuetudinaria, come affermato dalla CIG. Solo un ristretto nucleo della norma appartiene allo
ius cogens
Le eccezioni al divieto
La legittima difesa
La legittima difesa è prevista dall’art. 51 della Carta dell’ONU come eccezione alla proibizione
dell’uso della forza nelle relazioni internazionali.
Si tratta di un’eccezione prevista dal diritto internazionale consuetudinario
La sentenza della CIG nell’affare Nicaragua-USA ha chiarito il contenuto della legittima difesa:
1. Innanzitutto, occorre determinare il momento a partire dal quale tale diritto può essere
esercitato, cioè se solo dopo che abbia avuto luogo un attacco armato o anche prima
dell’attacco (legittima difesa preventive). Ci sono due opposte interpretazioni:
• chi afferma la liceità della legittima difesa preventiva fanno leva sull’aggettivo “naturale”
• chi invece sottolinea come la Carta faccia un riferimento testuale all’esistenza di un
attacco armato, considerato dall’art. 51 condizione essenziale per l’esercizio del diritto di
legittima difesa
Questa seconda opinione non è condivisibile nella sua assolutezza
2. Affinché il diritto di legittima difesa possa essere esercitato occorre che si sia verificata una
violazione dell’art. 2, par. 4 particolarmente qualificata, occorre cioè che si sia verificato un
attacco armato
Che è collegato all’identificazione dei beni che debbono essere oggetto di violenza affinché si
possa reagire in legittima difesa:
rientrano il territorio e gli altri beni che sono manifestazione della sovranità, quali i corpi di
truppa lecitamente stanziati all’estero e navi o aeromobili militari. flotta mercantile o aerea di
uno Stato
Nella risoluzione non vengono invece menzionati né i cittadini all’estero né gli agenti
diplomatici
3. Ai fini della legittima difesa, è altresì importante determinare le caratteristiche e le modalità
dell’attacco armato, nonché la sua entità: un attacco armato può essere compiuto non solo
mediante le forze armate dello Stato, ma anche mediante gruppi armati dallo stato assoldati
(aggressione indiretta).
La legittima difesa NON necessita di alcuna autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza.
L’art. 51 non specifica se l’attacco armato, che dà diritto a reagire in legittima difesa, debba
provenire dallo Stato oppure posso provenire anche dall’entità non statale
Anche se la CIG ha affermato che l’attacco armato deve essere imputato ad uno stato, ma tale
dictum è stato considerato troppo restrittivo. Gli USA, come la Francia dopo gli attacchi
terroristici del 2014 e del 2015 da parte dell’ISIL hanno avocato il diritto di legittima difesa
contro Iraq e Siria). L’Institut de droit international nella sessione di Santiago (2007) ha
adottato una risoluzione secondo cui una risposta armata contro un’entità non statale è
consentita qualora l’entità non statale abbia agito su istruzione, direzione o controllo di
quello Stato, oppure nel caso in cui questa non sia sotto la giurisdizione di alcuno Stato.
4. La reazione in legittima difesa deve essere esercitata nei limiti posti dai criteri della necessità,
proporzionalità e immediatezza:
a) Per il concetto di necessità, frequentemente, nella prassi e nella dottrina si fa riferimento
al caso Caroline, 1837, e si afferma che la forza può essere esercitata quando sussista “una
necessità di legittima difesa urgente, irresistibile, tale da non lasciare la scelta dei mezzi e
il tempo di deliberare”;
b) Per il criterio della proporzionalità non è richiesta una perfetta simmetria tra azione e
reazione
c) Il criterio dell’immediatezza è elastico.
Il problema si pone quando una parte di territorio di uno Stato viene occupata da un
altro: è ammessa la legittima difesa nell’immediatezza dopo aver tentato la risoluzione
con metodi pacifici NON di può invocare la legittima difesa quando l’occupazione si è
consolidata nel tempo
5. La legittima difesa ha un termine finale nel senso che essa deve cessare non appena il
Consiglio di sicurezza abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale.
lo Stato che agisce in legittima difesa ha il dovere di far conoscere al Consiglio di sicurezza le
misure intraprese, affinché esso possa accertare che l’azione intrapresa non costituisca in
realtà un’aggressione (la violazione di tale obbligo procedurale non comporta illecito).
L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle nazioni unite
Nella prassi vi è una norma secondo cui gli Stati possono usare la forza su autorizzazione del
Consiglio di sicurezza.
Le misure contro ex stati nemici
Gli artt. 107 e 53 della Carta dell’ONU prevedono le misure contro Stati ex nemici:
Gli Stati contro cui può essere intrapresa un’azione coercitiva sono quelli che sono Stati nemici,
durante la Seconda guerra mondiale, dei firmatari della Carta dell’ONU (Italia e Germania).
Le due disposizioni sono volte a salvaguardare gli Stati firmatari contro un ritorno alla politica
aggressiva delle Potenze dell’Asse.
È opinione comune che il ricorso a tali misure non sia possibile contro gli Stati ex nemici divenuti
membri dell’ONU: si tratta di un’applicazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 2, par. 1
della Carta, per cui le misure sono ormai desuete
Nonostante ciò, per la loro abrogazione è necessaria una formale revisione della Carta. 6.
ntervento d’umanità
L’”intervento d’umanità” è l’uso della forza per proteggere i cittadini dello Stato territoriale da
maltrattamenti inumani e degradanti.
Oggi l’intervento d’umanità attuato con l’uso della forza è un illecito e la sua illegittimità è stata
ribadita dalla sentenza della CIG nell’affare Nicaragua-USA.
L’intervento d’umanità, a differenza di quello a protezione dei cittadini all’estero, comporta una
prolungata presenza in territorio altrui ed un mutamento di regime nello Stato territoriale.
L’”ingerenza umanitaria” per essere considerata ammissibile, deve essere fondata sulle
tradizionali cause di esclusione del fatto illecito, oppure essere decisa o autorizzata dal Consiglio
di sicurezza
La CDI ha escluso che lo stato di necessità possa essere invocato a giustificazione dell’intervento
umanitario, quantunque “l’interesse essenziale” invocato per giustificare la violazione della norma
primaria sia non solo quello dello Stato che compie la violazione, ma possa essere attribuito anche
alla comunità degli Stati.
Intervento d’umanità non costituisce aggressione, purché sia effettivamente volto a
salvaguardare la popolazione dello Stato territoriale da trattamenti inumani da parte del
Governo al potere, perciò l’illiceità dell’intervento può essere sanata da una successiva
risoluzione del Consiglio di sicurezza (es. intervento NATO in Kosovo).
In caso di conflitto armato internazionale sono ammissibili azioni di soccorso in favore della
popolazione civile, anche mediante l’invio di medicamenti e materiale sanitario, ma l’azione
necessita del consenso dello Stato territoriale o dello Stato che controlla il territorio dove è
stanziata la popolazione beneficiaria del soccorso
Anche in caso di disastro naturale, che mette in pericolo la popolazione di uno Stato, la fornitura
dei soccorsi presuppone sempre la richiesta e il consenso dello Stato territoriale.
È ormai acquisito che l’emergenza umanitaria costituisce una “minaccia alla pace”
I documenti elaborati in vista della riforma dell’ONU specificano che gli Stati hanno una
responsabilità per la protezione dei diritti umani e per impedire catastrofi umanitarie, ma
l’intervento deve essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza.
Tuttavia, tale delibera del Consiglio di sicurezza può essere bloccata dal veto di uno dei membri
permanenti
In conclusione, l’intervento umanitario resta un istituto altamente controverso e divisivo.
Le organizzazioni regionali
L’art. 52 della Carta dell’ONU salvaguarda le funzioni degli accordi o organizzazioni regionali nel
campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Di regola sono accordi con un certo grado di istituzionalizzazione o di vere e proprie
organizzazioni internazionali.
l’organizzazione regionale deve avere i seguenti requisiti:
a. Essere un’organizzazione regionale, cioè essere aperta solo agli Stati di una determinata
regione;
b. Avere competenza nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale
c. Essere conforme ai fini dell’ONU.
Corrispondono a tali requisiti l’Organizzazione degli Stati Americani, la Lega Araba e l’Unione
Africana.
Anche l’UE è inquadrabile tra le organizzazioni di cui al capitolo VIII della Carta, tuttavia la
Dichiarazione Comune sulla cooperazione tra ONU e UE nel campo della gestione delle crisi (2003)
non fa alcun riferimento all’UE come organizzazione regionale.
La qualificazione di organizzazione regionale, infatti, è tutt’altro che scontata nell’ottica
dell’organizzazione interessata
Le organizzazioni regionali possono funzionare come patto per l’organizzazione della legittima
difesa collettiva: in tal caso i membri fanno collettivamente ciò che avrebbero potuto fare
individualmente e l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza non è necessario.
Le organizzazioni regionali possono effettuare delle operazioni di peace-keeping: in tal caso
un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza non sarebbe strettamente necessaria, ma può essere
richiesta dall’atto istitutivo dell’organizzazione
Infine, le organizzazioni regionali possono effettuare operazioni coercitive su delega o su
autorizzazione del Consiglio di sicurezza: nel primo caso, l’operazione è effettuata sotto la
direzione del Consiglio (1° inciso dell’art. 53 e art. 48, par. 2 della Carta); nel secondo caso, l’azione
coercitiva deve essere autorizzata, ma non diretta dal Consiglio (art. 53) che può porre delle
condizioni, tra cui una stretta supervisione dell’operazione.