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Dal punto di vista della bioetica, si può notare che il rapido progresso biomedico dell’epoca
contemporanea ha introdotto, accanto alla medicina dei bisogni, la medicina dei desideri. Il dominio
del dolore fisico e le promesse della genetica hanno modificato il significato di s. e di malattia,
concetti centrali nella definizione della qualità della vita. Le moderne teorie si possono ricondurre a
due diverse definizioni: a) qualità della vita intesa come misura/">misura di normale funzionamento
e di indipendenza dell’individuo; b) qualità della vita come soggettiva soddisfazione per la propria
esistenza e come capacità di valutazione di essa. In termini più comuni, nell’attuale società
medicalizzata con l’espressione qualità della vita ci si riferisce alla capacità della medicina di
preservare e ripristinare il completo stato di s. del soggetto, agli effetti degli interventi terapeutici
sui pazienti malati o disabili, alla durata della vita. In particolare nei paesi anglosassoni ha avuto
origine il concetto economico di equality of opportunity (pari opportunità), che nella definizione
della qualità della vita conferisce un ruolo-chiave alle possibilità di preservare la s. dell’individuo e
di prevenire le malattie e l’handicap, considerate un ostacolo alla realizzazione di pari opportunità
economico-sociali. In particolare, da quando nel 1946 l’OMS ha definito la s. come «uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale», e non soltanto come «un’assenza di malattie e di
infermità», la qualità della vita ha assunto anch’essa il significato di uno stato di benessere fisico e
psichico. Questa nuova concezione, soggettivistica, della s. è divenuta il fondamento di un concetto
relativistico di beneficialità e di ‘bene’ del paziente, non più identificato necessariamente con un
bene oggettivo, ma con un ‘bene’ che viene fatto corrispondere a ciò che aumenta lo stato di
benessere soggettivo, secondo una ‘percezione’ individuale di ciò che può essere considerato
sinonimo di ‘desiderabile’, in base ai criteri di piacere/dolore, benessere/malessere,
soddisfazione/insoddisfazione.
Il problema derivante da questo concetto di s. è quello di non poter fondare il contenuto del
principio di beneficialità (ossia del perseguimento del bene del paziente attraverso ogni decisione e
ogni atto medico), che scisso dalla ricerca del bene oggettivo del paziente, si viene a radicare in un
principio assoluto di autonomia, mirante a esaltare solo le sensazioni soggettive del paziente rispetto
alla propria salute. Bene e benessere non necessariamente coincidono e nulla esclude che il soggetto
possa ritenere lecito ogni evento in grado di aumentare il proprio benessere, anche a scapito dei
valori morali e, se la circostanza lo richiedesse, della vita altrui. La qualità della vita, infatti, non è
riducibile a un benessere fisico o materiale in funzione di una condizione statica di s. psicofisica,
bensì deve inglobare tutte le dimensioni della persona e l’armonia di queste. In tal senso, il
desiderio non può essere la sola ‘misura’ della qualità della vita, ma deve essere ancorato a un
sistema di valori. Questa visione ‘globale’ dovrebbe essere la prospettiva cui ricondurre ogni
dimensione umana, inclusa la s., la quale non può essere ricercata come una condizione stabile, o
una misura perfetta, ma deve essere concepita come un equilibrio dinamico: all’interno del soma,
fra il soma e la psiche, fra l’individuo e l’ambiente. E va certamente integrata nella dimensione etica
della vita dell’uomo, nella sua libertà e responsabilità individuale e sociale.
La salute come diritto fondamentale dell’individuo
Definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come «una condizione di pieno benessere fisico,
psichico e sociale, e non solo come assenza di malattia o di infermità», la salute si presenta oggi in
una posizione centrale nel sistema dei diritti fondamentali, contribuendo in maniera decisiva alla
‘costituzionalizzazione’ della persona, ossia all’individuazione di un’area riservata alle libere scelte
di ciascuno.
Un diritto costituzionale. Il quadro più chiaro, da questo punto di vista, è quello tracciato dall’art. 32
della Costituzione italiana del 1948, particolarmente lungimirante (a quell’epoca nessuna delle
costituzioni di altri Paesi e delle dichiarazioni internazionali menzionava la salute): «La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce
cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se
non per disposizione di legge. Sono così nitidamente delineate le linee portanti della considerazione
costituzionale della salute. Il primato del diritto dell’individuo, definito «fondamentale», una
presenza pubblica qualificata soltanto come «interesse», dunque in posizione subordinata rispetto
alla pienezza di quel diritto, un ruolo strumentale delle istituzioni, che debbono garantire a tutti il
diritto alla salute e possono intervenire imponendo per legge trattamenti obbligatori solo in
situazioni eccezionali (vaccinazioni in caso di epidemia). Le ultime parole di quell’articolo, infatti,
sono molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana». Questa dichiarazione pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora
di quello previsto dall’art. 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge
e con provvedimento motivato del giudice. Nell’art. 32 si va oltre: quando si giunge al nucleo duro
dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte
all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o
da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Si è in presenza di una
sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a una autolimitazione del potere. Il corpo intoccabile
diviene presidio di una persona umana alla quale «in nessun caso» si può mancare di rispetto. Il
sovrano democratico, un’assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti
i cittadini.
La legislazione sulla salute. La linea costituzionale di forte tutela della salute è confermata da molte
leggi, prima tra tutte quella sul Servizio sanitario nazionale, e dal Codice di deontologia medica.
Inoltre, trova un esplicito riconoscimento nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, che si apre con una affermazione molto netta: «Ogni individuo ha diritto alla propria
integrità fisica e psichica». E, nel seguito di questo stesso articolo, compare il principio essenziale
nella materia della salute, quello del consenso informato, da tempo riconosciuto come elemento
costitutivo del potere della persona e che ha capovolto la relazione medico-paziente, dando rilievo
decisivo alla volontà dell’interessato, prima soggetto al potere esclusivo del terapeuta. L’aver messo
così fortemente l’accento sul consenso porta con sé la piena legittimità del rifiuto di cure, di cui
ormai si avvale un numero crescente di persone. Nella Carta dei diritti, inoltre, si riprende e si
sottolinea un altro principio chiave in materia di salute: il divieto di fare del corpo un oggetto di
profitto, che costituisce un limite insuperabile contro ogni forma di commercializzazione, dalla
vendita degli organi alla maternità di sostituzione retribuita.
Diritto alla salute e interessi economici. Ma gli intrecci tra salute ed economia sono anche altri,
continui e molto più drammatici e complessi. L’accesso alle cure e dunque a una effettiva tutela
della salute, infatti, è reso assai difficile o addirittura precluso per milioni di persone dalla
brevettazione di farmaci. La questione è stata sollevata, e continua a essere oggetto di negoziazioni
internazionali, in partic. per quanto riguarda malattie come l’AIDS e la malaria. Diversi governi, dal
Brasile all’India, dal Sudafrica alla Thailandia, hanno preso iniziative fortemente riduttive dei diritti
di brevetto per tagliare radicalmente il prezzo di alcuni farmaci, allargando la platea dei soggetti che
possono utilizzarli, difendendo così salute e vita. Ma la questione dell’accesso alle cure non
riguarda soltanto Paesi in via di sviluppo o di sviluppo recente. La situazione più nota è quella degli
Stati Uniti, dove circa quaranta milioni di persone non godono di alcuna tutela della salute, o la
ricevono in forme assai precarie. Questo induce a riflettere sulla privatizzazione dei servizi in
materia, che fanno dipendere l’effettività della tutela dalle disponibilità finanziarie di ciascuno. Il
diritto fondamentale alla salute viene così degradato, non è più parte dei diritti di cittadinanza e,
anzi, diventa la manifestazione più preoccupante di un ritorno della cittadinanza censitaria,
dipendente dal reddito. Nella stessa direzione vanno le misure che limitano in vario modo l’accesso
alle cure a determinate categorie di persone, gli immigrati irregolari o gli anziani o le donne che si
vedono precluso l’accesso ad alcune tecniche riproduttive, pur qualificate come terapie della
sterilità. Si coglie così quale sia la dimensione nella quale deve essere collocato il riferimento
all’«interesse della collettività», di cui parla l’art. 32 della Costituzione, e che è appunto quello di
una garanzia pubblica di un accesso libero e generalizzato a tutto quanto è necessario per rendere
effettivo il diritto alla salute.
Sanità
I determinanti della salute
Quando si valutano i sistemi sanitari delle popolazioni di riferimento si osserva che, per i Paesi
industrializzati avanzati che da anni garantiscono un accesso equo ai servizi, non esiste correlazione
tra l'ammontare delle risorse dedicate al settore e la quantità (e probabilmente anche la qualità) di
benessere espresso in termini di speranza di vita. Tale dato non deve sorprendere perché altri fattori,
estranei al settore sanitario, sono più atti a spiegare le differenze. Ne consegue che il benessere
sanitario di una popolazione dipende anche da determinanti di solito ritenuti estranei, o poco
influenti, alla produzione di quantità e di qualità di vita di una popolazione. Essi sono: a) gli aspetti
culturali in senso lato; la cultura mediterranea, per es., legata essenzialmente a fattori alimentari e
climatici, concede una rendita di partenza in termini di speranza di vita supplementare ai popoli del
sud dell'Europa di circa 3 anni rispetto a quelli del nord, indipendentemente dall'efficienza e
dall'efficacia dei servizi sanitari; b) la condizione socioeconomica, in genere determinata dal ruolo e
dallo statuto nella professione, è il fattore probabilmente più determinante, che a sua volta influenza
i comportamenti, le abitudini e gli stili di vita; c) l'ambiente inteso come ecosistema. A questi
determinanti dello stato di salute vanno aggiunti il patrimonio genetico individuale e, infine, la
disponibilità e l'accesso a un sistema sanitario con funzione essenzialmente di tipo riparativo.
Il contributo dato da ciascuno di questi fattori alla longevità è stato stimato in diversi studi. Per es.,
l'importanza del contributo dato dal settore prettamente sanitario al conseguimento di questo
obiettivo è stato valutato pari al 10-15%, quello del patrimonio genetico tra il 20 e il 30%, il
contributo dell'ecosistema al 20%, mentre l'influenza dei fattori socioeconomici è stata stimata tra il
40 e il 50%. Il gradiente socioeconomico risulta infatti essere il più importante fattore esplicativo
della quantità e probabilmente della qualità di vita. Gli studi pubblicati mostrano che
l'ineguaglianza socioeconomica porta all'ineguaglianza sanitaria. Il fatto che la popolazione sia in
grado di riconoscere l'influenza sulla salute dei fattori socioeconomici è un aspetto fondamentale al
fine dell'adesione della società civile a un modello di sviluppo sostenibile, come pure a obiettivi di
salute pubblica largamente condivisi. La maggior parte della popolazione non percepisce o
addirittura rifiuta di ammettere l'esistenza di una relazione tra le condizioni socioeconomiche e lo
stato di salute. L'influsso dell'ecosistema sulla salute è invece ampiamente riconosciuto dalla grande
maggioranza degli individui.
Asimmetria informativa
Gli economisti non hanno tuttavia mai dato molta importanza all'espressione delle preferenze di
consumo da parte dell'utente dei servizi sanitari in funzione della quantità e della qualità
dell'informazione ricevuta. Probabilmente la teoria del perfetto rapporto di agenzia, che permetteva
di superare con eleganza l'ostacolo dell'asimmetria informativa, ha inibito ulteriori approfondimenti
empirici e teorici. Non sorprende quindi che, tra gli economisti, vi sia anche chi si chiede se sul
mercato sanitario esista una domanda. Lo sviluppo delle tecniche di comunicazione, la grande
facilità d'accesso all'informazione, l'influenza dei media nel promuovere attese irrealistiche verso
l'efficacia della medicina pongono la necessità di approfondire l'analisi dell'espressione delle
preferenze di consumo in s. in relazione all'informazione acquisita o ricevuta dal cittadino-paziente-
consumatore. Secondo uno studio, il 90% dei cittadini ritiene che la salute sia un completo stato di
benessere psichico, fisico e sociale, mentre per il 10% la salute è uno stato di assenza di malattia. Se
si aggiunge che circa il 70-80% della popolazione ritiene che la medicina sia una scienza esatta, si
pongono i presupposti per una domanda di benessere sanitario potenzialmente illimitata, che potrà
essere soddisfatta solo da un sempre maggior consumo di prestazioni e da una più vasta
disponibilità di servizi medico-sanitari. In realtà numerose valutazioni indicano che le prestazioni
medico-sanitarie che beneficiano di una validazione scientificamente fondata corrispondono a circa
il 20% del totale.
Una spinta sociale significativa postula la partecipazione alle decisioni connesse a varie dimensioni
della s., in particolare: a livello individuale, nell'ambito della decisione tra medico e paziente; a
livello intermedio, nella valutazione della qualità dell'assistenza sanitaria; a livello generale, nella
sfera politica, che postula la partecipazione dei cittadini a scelte strategiche circa l'orientamento e le
priorità dei servizi sanitari; a livello della ricerca clinica.
È utile rilevare che si tratta per lo più di attese di partecipazione declamatorie che si scontrano
costantemente con la cronica asimmetria d'informazione tra cittadini e professionisti e anche con
una cultura dominante che diffonde attese di efficacia dell'impresa medico-sanitaria superiori a ogni
più ottimistica valutazione epidemiologica e scientifica. La manipolazione è una componente che è
presente a tutti i livelli e l'accesso all'informazione di qualità risulta complesso e difficile; ne
consegue che l'espressione di preferenze razionalmente fondate resta di difficile attuazione.
I sistemi sanitari
Obiettivo primario perseguito dai sistemi sanitari detti universali, che garantiscono a tutta la
popolazione un'equità di accesso alle prestazioni e ai servizi medico-sanitari a un costo socializzato
è, da un lato, evitare il degrado della salute e il decesso prematuro dei cittadini e, dall'altro, far sì
che la possibilità di accedere a prestazioni medico-sanitarie adeguate non porti alla rovina
economica degli individui e delle famiglie. Due grandi modelli di organizzazione dei sistemi
sanitari sono stati creati per rispondere a tale obiettivo: il modello Beveridge, che è essenzialmente
fondato sul finanziamento dell'attività medico-sanitaria mediante la fiscalità generale e sulla
pianificazione dei servizi (adottato, per es., in Gran Bretagna, Italia, Paesi del Nord Europa), e il
modello Bismarck, storicamente centrato sulle assicurazioni sociali a vocazione universale
(Germania, Francia, Belgio, Svizzera e così via). La maggioranza dei Paesi occidentali (a eccezione
degli Stati Uniti) si riconosce in questi due modelli organizzativi anche se con sfumature non
indifferenti sia per quanto riguarda il grado di centralizzazione/decentralizzazione e di integrazione
e pianificazione delle cure, sia per quanto riguarda l'importanza della partecipazione pubblica
oppure privata da parte dei cittadini (out of pocket) al finanziamento della spesa globale. Tutti i
sistemi sanitari dei Paesi industrializzati sono alla ricerca di nuovi equilibri al fine di controllare la
crescita della spesa in un contesto di budget pubblici e privati sempre più ristretti, e al fine ultimo di
continuare a poter garantire il cosiddetto diritto alla salute.
Se la mortalità nei Paesi occidentali è di molto inferiore a quella dell'Ottocento non lo si deve
soltanto alla medicina, ma anche all'evoluzione in senso positivo di un insieme di fattori esterni al
settore sanitario inteso in senso stretto: la potabilizzazione dell'acqua, l'accesso a una alimentazione
equilibrata, la disponibilità di abitazioni salubri oltre a influenze più indirette come la
scolarizzazione, la crescita del benessere economico nonché una più equa distribuzione della
ricchezza nazionale.
Nel secolo appena trascorso l'introduzione sistematica dei vaccini, degli antibiotici e di altri presidi
terapeutici ha portato a un ulteriore incremento della speranza di vita. Mentre nel 19° sec. e nella
prima metà del 20° la quasi totalità della riduzione della mortalità fu dovuta ai miglioramenti
igienico-ambientali e in misura molto limitata alle cure, secondo uno studio condotto in 21 Paesi
europei tra il 1955 e il 1994, la riduzione nella mortalità è stata, per questo periodo,
preponderantemente imputabile alle migliorate terapie. Dunque nei Paesi occidentali lo stato di
salute complessivamente buono delle popolazioni è dovuto all'influenza sinergica di vari elementi al
di fuori del sistema sanitario (economici, culturali, ambientali) ed endogeni (come, per es., la
prevenzione, lo sviluppo e l'accesso a tecnologie diagnostiche e a terapie efficaci). Progressi
significativi in ambito diagnostico sono dovuti alla risonanza magnetica nucleare e alle altre
tecniche di diagnostica per immagini che rendono possibili interventi terapeutici quali, per es.,
l'angioplastica. Non mancano tuttavia i risvolti negativi, in particolare il divario crescente tra le
capacità diagnostiche e, per molte malattie, le prospettive di cura molto più modeste (come per gran
parte delle malattie neurologiche e dei tumori), o l'uso inappropriato della tecnologia diagnostica.
Un chiaro esempio di quest'ultimo fenomeno è rappresentato dall'esplosione del monitoraggio fetale
negli anni Ottanta. Solo a distanza di molti anni ci si accorse che sottoporre tutte le donne gravide a
monitoraggio fetale si accompagnava a un numero molto elevato di risultati falsamente positivi o
falsamente negativi, con il duplice risultato di allarmare inutilmente i genitori nel primo caso e di
incrementare le denunce penali come conseguenza del secondo. Quasi tutti i farmaci in uso e dotati
di una efficacia apprezzabile sono stati introdotti nel primo dopoguerra nel corso di una fase
eccezionalmente positiva di nuove scoperte: il cortisone, l'insulina, i sulfamidici, alcuni farmaci
citostatici per la cura dei tumori e gli antibiotici. Nei decenni successivi la scoperta di farmaci
efficaci è però notevolmente rallentata, nonostante gli ingenti investimenti: nel 1978 il tempo medio
per sviluppare un nuovo farmaco era cresciuto da 2-5 anni a circa 10 anni e con moltiplicazione dei
costi per 30 dagli anni Sessanta agli anni Novanta. La medicina all'inizio del 21° sec. è dipendente
dal settore industriale. Il mercato dei farmaci è uno degli esempi più clamorosi di come gli interessi
privati possano interferire con la disponibilità pubblica di tecnologie sanitarie e con la spesa
pubblica. Dieci industrie multinazionali del farmaco nel 2000 avevano conseguito profitti superiori
a 9,8 miliardi di dollari corrispondenti al 19% del fatturato, mentre la media per le altre aziende era
soltanto del 5%. Uno dei problemi di fondo della ricerca è rappresentato dai conflitti di interesse
con l'industria che provvede al 70% dei finanziamenti per le sperimentazioni farmacologiche.
Il 20° sec. ha visto il differenziarsi dei sistemi sanitari in due grandi gruppi, quelli a finanziamento
misto e quelli a finanziamento privato. Negli anni Sessanta, l'incidenza della spesa pubblica sulla
spesa sanitaria totale oscillava da valori pari a circa il 25% (Stati Uniti) a valori prossimi all'85%
(Regno Unito e Italia). Nonostante l'assenza di qualunque forma di coordinamento, i Paesi
sviluppati convergono verso sistemi caratterizzati da un maggior grado di omogeneità dal lato del
finanziamento. In particolare, i Paesi con una netta prevalenza della spesa pubblica (come la Svezia,
con una quota di pubblico superiore all'85% per tutti gli anni Novanta) tendono a lasciare spazi
sempre più ampi alla spesa privata: nei Paesi europei, in termini di punti percentuali sul PIL, la
spesa pubblica è cresciuta del 10% tra il 1980 e il 2000, mentre la spesa privata è cresciuta del 50%.
La quota di risorse, come proporzione del PIL, destinata alla s. tende a crescere con lo sviluppo
economico. Inoltre la spesa sanitaria ha un'elasticità costante nei diversi Paesi. Il concetto di
elasticità, ampiamente utilizzato dagli economisti, è una misura di quanto cambia la spesa al variare
del reddito pro capite. Stime per l'Europa indicano come essa sia pari a circa 1,3: ciò significa che
un aumento dell'1% del reddito pro capite conduce a un aumento dell'1,3% della spesa sanitaria.
Dunque, in linea di principio, l'aumento della spesa sanitaria è diretta conseguenza dello sviluppo
economico. Ciò non esime ovviamente i responsabili delle politiche sanitarie dal perseguire più
elevati livelli di efficienza ed efficacia degli interventi: la relazione fra spesa e PIL si limita a
indicare che lo sviluppo economico è un importante fattore esplicativo dell'aumento della spesa
sanitaria. Il fattore considerato di gran lunga più rilevante, tra quelli che hanno portato a un
incremento della spesa sanitaria nel secondo dopoguerra, è l'innovazione tecnologica e ciò non tanto
per il costo dell'investimento bensì per quello generato dalla sua diffusione e dall'aumento del
volume di prestazioni da essa generata. Quello sanitario è l'unico settore produttivo in cui
aumentano sia la tecnologia sia la forza lavoro, poiché l'innovazione tecnologica non si accompagna
a una riduzione dei costi. I motivi di tale fenomeno sono molteplici: l'innovazione tecnologica è
volta a rendere più accurate le diagnosi e più efficaci le terapie, e non più efficiente la produzione;
pertanto essa viene comunque adottata, anche quando comporta un aumento dei costi. In secondo
luogo, il capitale umano è immodificabile, perché rientra nelle cure alla persona che non possono
essere né automatizzate né robotizzate. Infine, il progresso scientifico consente di gestire un numero
crescente di patologie, comprese quelle un tempo considerate non trattabili, da cui l'aumento della
spesa sanitaria. Pertanto, lo sviluppo tecnologico, contrariamente a quanto avviene comunemente in
altri settori economici, comporta un aumento (e non una riduzione) delle risorse, anche umane,
destinate alla sanità. Per i motivi ai quali si è accennato la spesa sanitaria in molti Paesi è cresciuta,
e a tale crescita sono state opposte diverse soluzioni tecnico-politiche: a) la partecipazione
economica dei cittadini al finanziamento (il ticket); b) la limitazione dell'accesso alle prestazioni; c)
la riduzione delle prestazioni offerte. È utile introdurre la principale differenza tra due sistemi di
finanziamento, quello su base pubblica (finanziato con introiti fiscali o mediante le assicurazioni
sociali) e quello fondato sulle assicurazioni private. Il sistema fondato sulle assicurazioni sociali
universali (Francia, Germania, Belgio) può essere considerato come un sistema pubblico in quanto,
oltre alla funzione redistributiva, garantisce un'equità di accesso e di finanziamento indipendente
dal rischio individuale e dalla capacità di pagare del cittadino. Il sistema assicurativo privato è
invece fondato su base contributiva, ossia l'individuo riceve in misura di quanto ha dato e non dei
suoi bisogni in diversi momenti dell'esistenza. Inoltre il sistema assicurativo privato è interamente
basato sul rischio individuale, per cui il premio assicurativo (quanto si paga per contrarre
l'assicurazione) è direttamente proporzionato al rischio individuale di ammalarsi. Il sistema
pubblico, come quello fondato sulle assicurazioni sociali, ha invece natura distributiva, serve a
istituire una solidarietà verticale (nell'arco della vita e tra generazioni) e orizzontale (tra gruppi
sociali): il contributo economico in forma di imposte viene infatti redistribuito per assicurare livelli
decorosi di assistenza a tutti, e i contributi dei giovani vengono utilizzati per pagare le spese
sanitarie degli anziani. La copertura universale delle prestazioni significa che non vengono
effettuate selezioni, mentre le assicurazioni private escludono sulla base del rischio. Inoltre le
prestazioni garantite dal servizio sanitario pubblico coprono aree di natura non medica, come, per
es., le prestazioni infermieristiche a domicilio, che rivestono grande utilità pratica per il benessere
di popolazioni anziane e indigenti. Nei Paesi europei di vecchia industrializzazione tutti i sistemi
sanitari sono di tipo pubblico o fondato sulle assicurazioni sociali. Questi ultimi hanno anche altre
caratteristiche che, pur non rientrando nelle modalità tradizionali di computo economico, hanno
ricadute benefiche sia sul piano della qualità dell'assistenza sia su quello dei costi e della
produttività. Una di queste caratteristiche è costituita dal concetto di integrazione, legato alla
'continuità assistenziale'. In Italia, seppur con molte incertezze e cambiamenti di rotta, le unità
elementari di erogazione dell'assistenza, le aziende sanitarie e i distretti costituiscono unità
organizzative integrate, nel senso che alldella stessa struttura organizzativo-amministrativa
rientrano tutti i servizi che possono concorrere alla guarigione e al mantenimento di un ragionevole
benessere della persona. Almeno potenzialmente, questa struttura organizzativa può garantire quella
continuità assistenziale che i pazienti richiedono e la cui mancanza è uno dei principali motivi di
lamentela sui servizi sanitari.
La spesa farmaceutica
La prima legge italiana a essere definita di riforma sanitaria fu quella introdotta da L. Pagliani nel
1888. Essa decentrava fortemente l'assistenza sanitaria, mediante l'istituzione dei medici provinciali
e comunali. L'intento era quello di avvicinare quanto più possibile gli interventi sanitari e preventivi
alla popolazione, in un periodo di generale enfasi sulla s. pubblica. Alla fine dell'Ottocento si
affermò progressivamente l'idea che la salute fosse un bene collettivo da preservare a opera dello
Stato. Nel 1890, con la legge sulle Opere Pie, si introdusse una netta distinzione tra i compiti delle
associazioni caritatevoli, in genere religiose, e gli ospedali, da sostenere con opportuni
finanziamenti pubblici. Inoltre il Testo unico delle leggi sanitarie del 1907 razionalizzava
l'erogazione dell'assistenza a opera delle casse mutue volontarie allora esistenti - che coprivano una
parte minima della popolazione - e le coordinava con il sistema degli ospedali e dei medici
provinciali e comunali. Tuttavia la vera grande legge di riforma sanitaria del nostro Paese, che lo
allineava all'Inghilterra e ai Paesi scandinavi - almeno nelle intenzioni - attraverso la creazione di un
servizio sanitario pubblico e universalistico, è la l. 833 del 1978. Il dedalo di mutue ancora esistenti,
l'assenza di coordinamento tra i diversi settori del sistema sanitario, le grandi disuguaglianze
nell'erogazione dell'assistenza trovarono una soluzione - anche se mai pienamente realizzata - con
l'istituzione di un unico soggetto erogatore a finanziamento pubblico. La legge del 1978 rifletteva
tendenze comuni a gran parte del mondo sviluppato di quel periodo, i cui principi erano sanciti, per
es., dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): si trattava di passare dalla vecchia
concezione assicurativa (l'assicurazione contro le malattie) alla nuova concezione della promozione
della salute, in cui i cittadini non solo godono di uguali diritti, ma assumono una responsabilità
diretta nella difesa della salute. La speranza di vita in Italia nel decennio 1980-1990 è aumentata di
3,9 anni, contro 2,3 nella media europea, e il tasso di mortalità per tutte le cause (736,7 per 100.000
abitanti) è molto inferiore alla media europea (781,6). Anche se questo fenomeno è largamente
dovuto a fenomeni extrasanitari (il miglioramento complessivo delle condizioni di vita e degli
ambienti di lavoro), non si sarebbe verificato se il servizio pubblico non fosse stato capace di
accompagnare tali mutamenti con un'assistenza efficace. Il fatto che il sistema sanitario italiano sia
ispirato alla solidarietà e all'equità non significa tuttavia che non esistano problemi di iniquità. La
quota di risorse destinata alla s. (pubblica e privata) in Italia è di poco inferiore a quella media dei
Paesi con analogo reddito pro capite; in particolare l'Italia spendeva nel 2000 l'8,1% del PIL, più del
Regno Unito (Paese storicamente contraddistinto da una spesa inferiore alla media, anche se in
crescita: 7,3% del PIL), ma meno della Germania (10,6%) e della Francia (9,5%). Per quanto
riguarda la distribuzione della spesa sanitaria nelle singole regioni italiane, non si dispone di dati
attendibili a livello regionale sulle dimensioni della spesa sanitaria complessiva (la spesa privata
essendo ancora stimata in maniera insufficiente). Ciò impedisce un'analisi rigorosa del peso relativo
del settore sanitario rispetto al PIL delle diverse realtà territoriali. È tuttavia possibile affermare che
regioni come la Lombardia, per es., dispongono di un reddito pro capite simile a quello delle regioni
più ricche del centro Europa, ma hanno una spesa sanitaria prossima a quella del sud dell'Europa.
Dietro le grandi scoperte biomediche, come il sequenziamento del genoma umano, si cela una forte
aspettativa economica e commerciale. Un esempio circa gli investimenti nel settore delle
biotecnologie è rappresentato da Biopolis, una cittadella della ricerca fondata a Singapore e
finanziata dal governo e da diverse imprese americane di biotecnologie. Biopolis è nata con lo
scopo di superare la crisi delle tecnologie informatiche e lanciare la città-Stato asiatica verso il
business delle biotecnologie. Biopolis intende attirare numerosi scienziati dall'estero, offrendo loro
grandi opportunità sia tecnologiche sia economiche, in parte con una compartecipazione agli utili
della commercializzazione delle scoperte. È possibile chiedersi se le aspettative riversate sulle
biotecnologie siano giustificate. Probabilmente alcune di esse saranno prima o poi coronate dal
successo (per es., la ricerca sulle cellule staminali), ma su altre si può avere qualche dubbio. Se si
considera, per es., la proteomica, uno dei settori da cui ci si attendono a priori maggiori sviluppi, si
osserva che, in corrispondenza dell'uscita di un articolo pionieristico (diagnosi precoce dei tumori
ovarici con la proteomica), apparvero articoli sul New York Times e altri quotidiani che salutavano
la nuova tecnologia come uno degli strumenti più promettenti nella lotta contro i tumori. Se però si
considerano anche le valutazioni critiche effettuate successivamente si nota che la nuova tecnologia
è lontana dall'essere accurata e dal garantire applicazioni cliniche immediate: il profilo proteico
individuato nei malati di cancro è una 'scatola nera', nel senso che non è conoscito a quali proteine
sia ascrivibile; i risultati non sono riproducibili: secondo gli studi finora pubblicati i profili proteici
sono diversi addirittura in prelievi successivi dallo stesso paziente. Pertanto questa tecnologia
sembra rappresentare quasi simbolicamente i limiti della medicina predittiva. Altri grandi
mutamenti si stanno verificando nell'industria della salute. Meritano considerazione le nuove
direzioni che sta prendendo la ricerca farmacologica riguardo alle tecnologie del corpo o
enhancement technologies. L'industria del farmaco si sta infatti dirigendo verso molteplici direzioni
di ricerca per superare una certa crisi di efficacia e di credibilità delle terapie più comuni (da quelle
contro il cancro a quelle cardiologiche), crisi che sta parzialmente alla base del successo delle
terapie alternative in gran parte del mondo. Riguardo alle nuove tecnologie ci si riferirà qui di
seguito, a titolo di esempio, solamente a un filone, quello delle enhancement technologies,
maggiormente rappresentativo dei problemi in discussione. Le enhancement technologies sono le
tecnologie biomediche volte non a curare una malattia, ma a incrementare una funzione fisiologica.
L'orizzonte successivo è quello delle nanotecnologie, per migliorare per es., le prestazioni sportive.
Ciò che accomuna questi interventi è il fatto di non mirare a curare un vero deficit patologico, ma
piuttosto ad avvicinare il soggetto a quella che viene ritenuta una prestazione 'normale',
incrementata (enhanced) o addirittura ottimale. Le argomentazioni a favore sono abbastanza
evidenti: l'enhacement consente all'individuo una migliore prestazione nella società e promuove
amplificandola la sua libertà decisionale. Sicuramente molte più persone sono oggi più felici grazie
agli ansiolitici, che consentono loro di superare situazioni di forte tensione professionale o di altra
natura, al Viagra, alla chirurgia estetica (pur in assenza di precedenti patologie). Tuttavia lo
sviluppo di tali tecnologie del corpo solleva interrogativi di natura etica e politica. In primo luogo,
c'è uno scenario del tutto nuovo da tenere presente, ossia il fatto che si è definitivamente rotto un
meccanismo a monte della prestazione medica, quello che vedeva in qualche misura un rapporto -
seppure indiretto e incerto - tra produzione di conoscenze mediche al letto del malato,
identificazione dei bisogni di salute e sviluppo di terapie. Oggi le terapie vengono introdotte dalle
grandi industrie multinazionali, le sole che possono permettersi investimenti di lungo o lunghissimo
periodo nella ricerca di nuove molecole. Vi sono molte prove del fatto che i nuovi farmaci vengono
sviluppati sulla base di considerazioni di mercato, e questo vale certamente per le enhancement
technologies. In secondo luogo, l'idea affermatasi nel 20° sec. in base a cui la norma biologica ha
una distribuzione gaussiana viene ora aggressivamente negata: non è necessario che ci siano tante
persone di media statura, poche di bassa statura e poche di alta statura; possiamo benissimo aiutare i
troppo piccoli a crescere, i timidi ad affermarsi (ma, attenzione, con un farmaco, non con una
psicoterapia), i disattenti a focalizzarsi. In terzo luogo, questa estrema propaggine di una filosofia
del progresso, che mira ad appiattire la curva di Gauss, comporta la rinuncia a interrogarsi sulle
cause sociali delle malattie e di condizioni come, per es., la 'fobia sociale' o il deficit di attenzione, e
conduce a un pericoloso corto circuito che finisce agli occhi dei pazienti per rendere reale (malattia)
ciò che prima era accettato come una coda della distribuzione normale. In quarto luogo,
acquisiscono credibilità e prestigio forme di spiegazione scientifica di tipo riduzionistico a scapito
di modelli ispirati alle scienze sociali in senso lato. La costruzione sociale delle malattie sta per
trasformarsi nella loro costruzione industriale.
La spesa sanitaria pro capite nei Paesi dell'OCSE è cresciuta in termini reali più velocemente del
reddito reale, e dal 2002 ha subito un'ulteriore accelerazione in molti Paesi. Due dinamiche opposte
si stanno confrontando: da un lato la globalizzazione della medicalizzazione nella società civile,
fattore principale di espansione della domanda che genera costi supplementari a carico dei sistemi
sanitari, cui si contrappone la globalizzazione economica fondata sulla liberalizzazione dei mercati
internazionali che pone un serio problema di reperibilità di risorse pubbliche e private per il
finanziamento della domanda supplementare di prestazioni medico-sanitarie. La medicalizzazione
della società è sostenuta e promossa (oltre che dall'invecchiamento della popolazione): a) dalla
sistematica revisione al ribasso delle soglie che definiscono il patologico per tutta una serie di
fattori di rischio diffusi; b) dalla diffusione della diagnosi precoce (screening, check-up,
biotecnologie e così via) percepita dalla popolazione come automatico sinonimo di guarigione; c)
dalla diffusione dell'innovazione tecnologica (in particolare farmaceutica); d) dalla costruzione
industriale delle malattie, statuto quest'ultimo vieppiù attribuito a condizioni che fanno parte del
normale processo biologico della vita (per es., menopausa, osteoporosi, fobia sociale); e) dallo
stress generato dall'insicurezza e dalla precarietà lavorativa (quale sottoprodotto del processo di
globalizzazione economica) che genera morbilità supplementare (in particolare psichica,
cardiovascolare, muscolo-scheletrica); f) dalla promozione presso la società di aspettative verso
l'efficacia dell'impresa medico-sanitaria che vanno spesso al di là di ogni ragionevole evidenza
scientifica. Attese indotte dai media, dalla pubblicità e dal marketing dell'industria e dei servizi. A
questa dinamica di promozione della domanda e dei costi si contrappone un problema acuto di
finanziamento e di reperibilità delle risorse. Nei mercati aperti e globalizzati i prezzi dei fattori di
produzione (materie prime, tecnologia, mano d'opera) tendono a eguagliarsi. Di conseguenza le
aziende, per rimanere sul mercato ed evitare il fallimento, devono comprimere il costo del lavoro
oppure delocalizzare la produzione verso Paesi a bassi salari e/o a debole pressione fiscale. Questo
significa per i Paesi di vecchia industrializzazione maggiore flessibilità del lavoro, e stagnazione dei
salari reali e dei profitti conseguiti all'interno del Paese. Per l'ente pubblico ciò significa
essenzialmente una diminuzione del gettito fiscale, quindi meno risorse da destinare al
finanziamento del welfare in generale e dei servizi sanitari in particolare.
Tutti i sistemi sanitari che assicurano un'equità di accesso ai servizi sono chiamati a dare una
risposta operativa a queste due domande: a) come controllare una domanda potenzialmente
illimitata cui si contrappone una scarsità di risorse? b) qual è l'intensità e la natura della relazione
tra le risorse impiegate e i risultati sanitari ottenuti? I sistemi sanitari sono sistemi complessi
dominati dall'offerta. È infatti quest'ultima che omologa la domanda che potrà così beneficiare di un
accesso a prestazioni e a servizi il cui costo sarà poi socializzato. Ogni sistema sanitario è anche
caratterizzato da interessi molto spesso contrapposti tra gli attori implicati (pazienti-cittadini;
fornitori di prestazioni; produttori di tecnologia; amministratori, politici). Inoltre, l'attività sanitaria
è dominata dall'incertezza, dall'asimmetria dell'informazione, dalla qualità poco o non misurabile,
dai conflitti di interesse. Tutti questi fattori generano, a livello dell'offerta, opportunismo e rendite
di posizione sconosciute ad altri settori economici di universale utilizzo da parte dei cittadini. Sul
modo in cui gestire un tale sistema complesso garantendo l'equità d'accesso alle prestazioni
adeguate ed evitando l'inflazione economica si affrontano due modelli contrapposti; il primo
fondato su incentivi (economici e/o professionali) che dovrebbero influenzare gli attori ad assumere
comportamenti virtuosi verso gli obiettivi espliciti del sistema (efficacia sanitaria ed efficienza
economica); il secondo, al contrario, fondato sull'obbligo legale, sulla regolamentazione e la
pianificazione, quindi su misure di tipo autoritario. Tutti i sistemi sanitari sono, con intensità
diversa, alla ricerca di un delicato equilibrio tra questi due modelli al fine di controllare la crescita
della spesa e assicurare la durabilità dei sistemi ad accesso universale.
Per fronteggiare il divario crescente tra l'aumento dei costi dei sistemi sanitari e quello della
ricchezza prodotta (PIL) in molti Paesi industrializzati sono in fase di studio o di sperimentazione
politiche di razionalizzazione (applicazione di tecniche e metodi volti a un utilizzo ottimale delle
risorse) e di razionamento (processo di scelta tra prestazioni e servizi utili o di limitazione
dell'accesso) a volte difficilmente distinguibili tra di loro, che influenzeranno a medio e lungo
termine la concentrazione e l'organizzazione delle cure, dei percorsi e dell'accesso, modificando nel
contempo le pratiche e i contenuti nonché i livelli di rischio sanitario che giustificano una presa in
carico socializzata dei costi, come pure i rapporti di finanziamento tra il settore pubblico e quello
privato. Visto il processo di accelerazione della medicalizzazione della società e di espansione della
domanda da un lato e, dall'altro, il processo legato agli effetti della globalizzazione economica sulla
disponibilità di risorse interne, le tendenze future a medio termine dei sistemi sanitari ad accesso
universale dei Paesi industrializzati possono così configurarsi: a) finanziamento della spesa
sanitaria: relativa stagnazione del finanziamento pubblico in rapporto alla crescita della domanda;
crescita della quota parte di finanziamento out of pocket e privato (ticket/assicurazioni private); b)
organizzazione: diminuzione delle capacità di cura per malattie acute; concentrazione dell'alta
tecnologia e stretto controllo della sua diffusione; creazione di reti integrate di cura tipo l'HMO
(Health Maintenance Organization) americana, a partecipazione mista pubblica-privata; c) accesso
ai servizi: tendenza alla crescita delle liste di attesa; ridimensionamento del pacchetto di prestazioni
offerte; definizioni di nuove priorità d'accesso (soprattutto in funzione del livello di rischio
omologabile); diminuzione generale delle libertà di scelta per i cittadini; promozione della
delocalizzazione di pazienti (interna e all'estero); d) processi diagnostici e terapeutici: riduzione
della libertà terapeutica e aumento della standardizzazione delle cure (linee-guida cliniche;
evidence-based medicine; disease management; promozione di medicamenti generici e così via); e)
promozione di politiche sanitarie di tipo culturale intese a ridurre il consumismo e a ricondurre le
attese dei cittadini alla realtà delle prove scientifiche e della disponibilità di risorse.
BIBLIOGRAFIA
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tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e sanitario, in Temi di finanza pubblica e
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Sostenibilità, equità e ricerca dell'efficienza. Rapporto CEIS - Sanità 2004, Roma 2004.
Introduzione
I problemi riguardanti l'allocazione delle risorse sono tra i più controversi nel campo della bioetica.
Innanzi tutto esiste un dibattito sul fatto che le varie forme di razionamento o di allocazione
prioritaria siano effettivamente inevitabili: alcuni sostengono che le risorse potrebbero risultare
sufficienti se venissero eliminate le prestazioni inutili, mentre altri ritengono che tale strategia sia
risolutiva solo in parte. Inoltre, come fa notare D.W. Light, le modalità di questa ripartizione
influenzano di per sé la percezione di adeguatezza del finanziamento stesso (Light, 1997).
Comunque, quale che sia la loro scarsità, le risorse vanno in ogni caso suddivise e quindi sorge la
questione di chi debba prendere le decisioni in proposito e secondo quali criteri. Esistono inoltre
problemi fondamentali riguardanti la scelta del tipo di sistema all'interno del quale viene fornita
l'assistenza sanitaria e l'individuazione degli scopi di un tale sistema.
Il primo problema riguarda il confronto tra assistenza sanitaria pubblica e assicurazioni private. Un
argomento a favore dell'assistenza sanitaria pubblica è che essa è, per sua natura, più corretta ed
equa rispetto alle assicurazioni private, le quali è più probabile che siano accessibili solo ai soggetti
benestanti della società.
Le politiche statali di assistenza sanitaria hanno come scopo prioritario quello di garantire che, in
tutte le forme di assistenza sanitaria e di assistenza ai disabili erogate dallo Stato, il principio di
servizio pubblico sostituisca gli obiettivi di profitto commerciale (Lopez, 1997). In un sistema in cui
l'assistenza sanitaria è appannaggio delle assicurazioni private, non solo le fasce più povere della
società, ma anche i gruppi con particolari necessità, come le persone con una patologia mentale o
con un handicap psichico sono probabilmente discriminati. J. Lopez arriva a sostenere che l'opzione
del privato può essere vista come un'infrazione del principio di solidarietà, inteso come
"propensione dei cittadini a contribuire all'assistenza sociale di altri con lo scopo di migliorare il
livello generale di benessere" (Light, 1997). Per Lopez un sistema pubblico, al contrario, "ha la
capacità di porre una maggior enfasi sulla prevenzione e sulla promozione della salute nel senso più
ampio, sviluppando il controllo da parte della comunità, oltre che la sua partecipazione efficace"
(Light, 1997).
In Gran Bretagna, il Servizio sanitario nazionale si fonda su tre principi: l'assistenza sanitaria deve
essere disponibile per tutti secondo le necessità, deve essere completa e gratuita all'atto
dell'erogazione. A. Weale ha attirato l'attenzione sul fatto che questo tipo di assistenza è stata
criticata perché non è di qualità elevata (facendo notare che questa critica dipende dalla particolare
interpretazione di cosa si intenda per qualità elevata). Egli prende in considerazione la 'triade
contraddittoria' costituita da completezza, qualità elevata e disponibilità per tutti. Mentre il Servizio
sanitario nazionale inglese viene criticato perché sacrifica la qualità a favore della completezza e
della disponibilità per tutti, gli Stati Uniti hanno scelto la qualità a scapito della disponibilità per
tutti (Weale, 1998).
Una soluzione al problema della 'triade contraddittoria', come fa notare Weale, è quella di
sacrificare la completezza. Si sostiene che la fruibilità generalizzata dei sistemi di assistenza
sanitaria si è rivelata irrealizzabile (Lopez, 1997). L'aumentata richiesta di prestazioni, alimentata
dalle nuove tecnologie, l'allungamento della vita media e le crescenti aspettative sono coincise con
l'avvento di nuovi problemi sanitari e con la crescita di altre pressioni sui bilanci assistenziali degli
Stati. Si è quindi capito che è necessario trovare dei metodi per assegnare le risorse all'interno dei
sistemi di assistenza sanitaria, dando priorità o ad alcuni pazienti, o ad alcune terapie. Perciò, pur
accettando che il Sistema sanitario nazionale debba restare tale, visto il problema dell'espansione
della domanda, sono sorte numerose strategie per farvi fronte. Una possibilità è quella di realizzare
un sistema a due livelli costituito da un pacchetto di base finanziato dallo Stato al quale aggiungere
la possibilità di sottoscrivere un'assicurazione privata. Altre strategie comprendono la selezione di
programmi di popolazioni ma, come fa notare Lopez, "nei paesi occidentali industrializzati, dove la
questione dell'accesso è stata affrontata mediante programmi nazionali tra loro diversi, che
garantiscono un diritto pressoché generalizzato, [ ... ] i recenti sforzi di contenimento dei costi si
sono focalizzati su strategie di regolazione. Tuttavia, queste strategie non si concentrano sulla
restrizione dell'accesso attraverso la creazione di criteri restrittivi di idoneità [ ... ] In questi
programmi quello dell'accesso equo rimane il problema principale" (Lopez, 1997).
Lopez suggerisce che lo scopo di un sistema generalizzato non è solo fornire l'equità nell'accesso,
ma favorire l'equità nello stato di salute. Questo, tuttavia, è esattamente uno dei punti principali di
contesa nell'interpretazione del concetto di equità in questo contesto. Prima di procedere nella
discussione riguardante i diversi concetti di equità, è tuttavia necessario considerare dove debbano
essere prese le decisioni importanti sulla distribuzione delle risorse.
Per quanto riguarda il pacchetto minimo, Weale suggerisce che il problema di una simile strategia è
che i trattamenti che si propone di escludere tendono a trovarsi comunque agli estremi. Per quanto
riguarda l'indicazione di escludere alcuni pazienti, si potrebbe sostenere che l'accesso all'assistenza
sanitaria è un diritto fondamentale. Si potrebbe inoltre affermare che la distinzione non è
completamente chiara, perché escludere alcuni trattamenti equivale, ipso facto, a escludere alcuni
pazienti.
Problemi di varia natura insorgono qualora si cerchi di sostenere il diritto universale all'assistenza
sanitaria o, all'interno di una data società, il diritto all'assistenza sanitaria per tutti i membri di quella
società. Innanzitutto, il concetto di diritto è molto complesso, ed è ancora oggetto di dibattito se il
diritto all'assistenza sociale, al contrario del diritto alla libertà, sia o meno tale. Si discute sulle
conseguenze del fatto che chi possiede una capacità, come quella di erogare l'assistenza sanitaria,
abbia il diritto di venderla a suo piacimento. In secondo luogo, quand'anche fosse accettato che
esiste un diritto sociale all'assistenza sanitaria, ciò non risolve il problema di definire in maniera
esatta in che cosa consista tale diritto e quanto debba essere estesa l'erogazione dei servizi.
I livelli decisionali
Solitamente viene operata una distinzione tra macro-, meso- e microlivelli decisionali. Al
macrolivello vi è il governo, che assegna i fondi complessivi per l'erogazione dell'assistenza
sanitaria; al mesolivello gli amministratori locali, che determinano quali servizi debbano essere
offerti e quanti fondi debbano essere destinati a ciascun servizio; al microlivello i singoli medici,
che stabiliscono quali prestazioni offrire, a quali pazienti, e quali malati debbano far ricorso a
specialisti. A ciascun livello esistono problemi etici da risolvere.
Al macrolivello, frequentemente, il dibattito verte su quanto ampia debba essere la spesa pubblica
rispetto alle convenzioni private. Da un lato si sostiene che, tra i beni sociali, l'assistenza sanitaria è
talmente importante, che le dovrebbero essere destinati fondi maggiori, se necessario anche a
scapito di altri beni sociali (fig. 1). D alI ' altra parte c'è chi pensa che stanziamenti aggiuntivi non
risolvano il problema: ciò che è necessario è la riduzione degli sprechi e degli interventi inefficaci.
Al microlivello i medici decidono l'attribuzione delle risorse tra i singoli pazienti. A questo livello
uno degli aspetti più interessanti del dibattito verte sul preteso conflitto tra ciò che si sostiene essere
il tradizionale ethos della medicina e la necessità di allo care le risorse. C'è chi sostiene che i medici
non dovrebbero avere l'onere di scegliere tra i pazienti, in quanto essi hanno l'obbligo di fare ciò che
è meglio per ciascun paziente. D'altro canto c'è chi reputa che, di fatto, i medici hanno sempre preso
decisioni di questo tipo, per esempio nel decidere se chiedere o meno un consulto; semplicemente
ora il processo è reso esplicito, mentre prima era implicito.
Permangono comunque controversie sul livello al quale si dovrebbero prendere queste decisioni e
sulla opportunità di stabilire delle linee guida a livello nazionale per i criteri da adottare, in modo
tale che, per esempio, i medici non debbano farsi carico da soli dell'onere di assegnare delle priorità.
Light ha proposto diversi argomenti convincenti a favore dell'idea che le vere questioni che l'etica
deve affrontare in questo contesto, consistono in disposizioni di natura politica e sociale che
dirigano le decisioni di ripartizione 'a valle', fino al livello in cui i medici curano i pazienti (Light,
1997). Sembra comunque inevitabile che i medici dovranno continuare a stabilire queste
allocazioni, anche se i criteri guida possono essere uno strumento per ottenere un consenso più
ampio; in questo senso sono state proposte varie strategie per consultare l'opinione pubblica.
Una buona ragione per consultare l'opinione pubblica potrebbe risiedere, come si è detto prima,
nella particolare importanza che si riconosce alla salute. Tuttavia non è solo l'assistenza sanitaria a
rivestire un ruolo rilevante per la salute pubblica. Le decisioni sulla regolamentazione del traffico e
sulla pianificazione ambientale possono essere altrettanto importanti per lo stato di salute della
gente. Dunque, l'importanza primaria della salute non può essere considerata una risposta. Un altro
punto di vista potrebbe essere quello di considerare la consultazione dell'opinione pubblica come un
mezzo per educarla. Nelle nazioni in cui l'assistenza sanitaria è pubblica, è andata crescendo
l'aspettativa che la protezione della salute continui a essere totale. Consultare l'opinione pubblica
sulle priorità nell'allocazione dei fondi è un modo per far capire che, vista la crescita esponenziale
dei costi sanitari, continuare su questa strada risulta semplicemente impossibile. Persino nei paesi
dove la protezione totale della salute non costituisce una norma, si è riconosciuta la necessità di
contenere i costi; l'esempio più eclatante è offerto dagli Stati Uniti.
Un altro motivo, di natura teorica, per consultare l'opinione pubblica potrebbe basarsi su una
visione comunitaria dell'etica. Come ha fatto notare H. Zwart, ciò è attinente alla questione
dell'assegnazione di limiti alla medicina. Zwart mette in contrapposizione la prospettiva liberale,
che tende a enfatizzare non solo l'autonomia personale, ma anche il diritto di scegliere le prestazioni
sanitarie, con la prospettiva comunitaria che, a suo avviso, dovrebbe porsi lo scopo di sviluppare un
consenso sugli obiettivi della medicina. Da questo punto di vista "chi agisce secondo morale non
dovrebbe essere visto in modo atomistico, ma piuttosto come collocato in una comunità morale
dalla quale egli deriva la sua identità morale, le sue sostanziali convinzioni morali e l'indirizzo da
seguire" (Zwart, 1993).
Dalla comunità si ottiene, quindi, un consenso su quando, nel caso dell'assistenza sanitaria, si debba
intervenire e quando sia preferibile invece accettare la situazione. Un consenso da parte della
comunità, tuttavia, non equivale a un voto di maggioranza, che potrebbe essere pregiudizievole per
gli interessi dei gruppi di minoranza. H. ten Have suggerisce che un approccio comunitario dipende
da una struttura normativa e deontologica che definisca il significato degli interessi comunitari (ten
Have, 1993). Egli chiarisce i presupposti della posizione olandese, per esempio, in termini di
fondamentale eguaglianza delle persone, fondamentale diritto alla protezione della vita umana e
solidarietà.
Si potrebbe obiettare, tuttavia, che in una società pluralista postmoderna un consenso comunitario di
questo tipo non è possibile e il concetto di comunità si è indebolito (Poole, 1991). T. van
Willigenburg ha inoltre sostenuto che l'efficacia del criterio orientato dalla comunità si basa sulla
sua capacità di escludere, di tacitare alcune voci (van Willigenburg, 1993). In questo caso ci si
chiede quindi se sia possibile realizzare un qualche tipo di consenso (Moon, 1993) attraverso il
continuo dialogo tra gruppi differenti. Si può affermare che quello della bio etica è un campo in cui,
in parte a causa della precipua importanza della salute e dell'assistenza sanitaria, il consenso è
particolarmente auspicabile.
Ovviamente esiste il problema delle dimensioni della comunità, cioè se ciò che viene previsto debba
adattarsi a una comunità locale, regionale o nazionale. L. Doyal ha sostenuto: "Qualunque forma di
soddisfazione di un bisogno su scala ridotta, basato su un interesse comunitario locale, può portare a
concezioni limitate dei bisogni umani e inibire la crescita di concetti generalizzabili, basati su una
più ampia identità collettiva [ ... ]. Il sogno di una politica comunitaria che possa unire gruppi
differenti [ ... ] non può essere realizzato se si prescinde proprio da una sorgente di identità,
trasversale a gruppi e culture, quale è il bisogno umano" (Doyal e Gough, 1991).
Per gli scopi di un dato sistema di assistenza sanitaria ciò può essere troppo ambizioso, ma ci sono
anche posizioni diverse circa la distribuzione globale delle risorse da destinare all'assistenza
sanitaria (Attfield, 1990).
Dei quattro principi dell'etica biomedica -l'autonomia, il far del bene, la non nocività e la giustizia -
i primi tre, ancora una volta, riguardano gli interessi dei singoli pazienti. È la giustizia che ci porta a
prendere in considerazione il problema del contrasto di interessi. Teorie contrapposte, tuttavia,
forniscono nozioni diverse di giustizia sociale, e quindi forniscono differenti criteri per la
distribuzione delle risorse. Come ha asserito N. Daniels, le complicazioni sorgono proprio dal fatto
che individui differenti possono fare appello a principi diversi, seppure perfettamente rispettabili
singolarmente, per sostenere le proprie richieste di assistenza sanitaria (Daniels, 1993).
Criteri da rispettare
Mentre l'importanza dei criteri quali l'efficienza e l'efficacia è ampiamente riconosciuta, molte
discussioni sono sorte sull'interpretazione dei concetti di giustizia e di equità. Occorre infatti
chiedersi se la destinazione delle risorse debba effettuarsi in base a ciò che la gente merita, in base a
ciò di cui ha bisogno o in base a ciò che può condurre al miglior risultato.
Il merito
Talvolta è stato detto che l'idea secondo la quale la gente dovrebbe ottenere esattamente ciò che si
merita è una delle intuizioni più profonde e durevoli a proposito di giustizia. Nell'allocazione delle
risorse, valutare quello che le persone si meritano è un modo per operare delle distinzioni tra loro.
L'idea è ben nota, anche se spesso contrastata, nelle riflessioni teoriche di giustizia penale, ma resta
il problema di stabilire se sia appropriata nella regolamentazione dell'assistenza sanitaria. Un
aspetto da considerare è se lo stile di vita di una persona (o di un gruppo) sia rilevante per decidere
se essa meriti o no delle priorità per quanto riguarda l'assistenza sanitaria. Per esempio, se si tratta
di forti bevitori o di fumatori allora probabilmente bisognerebbe considerare queste persone come
responsabili del proprio stato di salute e non meritevoli di priorità.
Forse però non è appropriato utilizzare questo punto di vista quando occorre assegnare delle
priorità. Prima di tutto una visione basata sull'elogio e sul biasimo conduce inevitabilmente a dover
attribuire ricompense e punizioni. In secondo luogo, resta il problema di dove tracciare una linea di
demarcazione, in quanto tutti noi ci assumiamo alcuni rischi relativamente alla nostra salute, per
esempio nelle nostre abitudini rispetto all'esercizio fisico.
L'aspetto punitivo del modello nasce dal considerare l'individuo libero di fare le proprie scelte e
quindi responsabile per esse. Ciò è correlato con il particolare concetto di eguaglianza intrinseco nel
modello meritocratico. Se si presume che le persone abbiano uguali opportunità di fare scelte
riguardanti la propria vita, valutare queste scelte significa rispettare le persone in quanto libere di
scegliere.
Queste idee sono anche collegate al concetto di responsabilità individuale nei riguardi della salute.
Il problema sta nel fatto che si dà un peso insufficiente alle cause sociali delle malattie e al contesto
nel quale le scelte vengono compiute. In realtà il dibattito verte non solo sul fatto che le decisioni
sull'allocazione delle risorse debbano o meno esser prese sulla base del merito, ma anche sul fatto
che decisioni specifiche vengano prese su questa base. In alcuni casi, un medico potrebbe decidere
di negare un certo intervento perché le probabilità di successo sono esigue, mentre la sua decisione
potrebbe essere interpretata dagli astanti come un rifiuto motivato dallo stile di vita del paziente (se
per esempio il paziente ha una storia di abuso di droghe).
Il bisogno
Una concezione alternativa di allocazione equa sostiene che sia giusto destinare le risorse secondo i
bisogni. Come il modello meritocratico, anche questo ha un qualche supporto intuitivo: sicuramente
una società giusta dovrebbe dare agli individui ciò di cui hanno bisogno.
Tale approccio è generalmente considerato più egualitario rispetto a quello meritocratico. Esso in
realtà si basa su una concezione differente di eguaglianza. Occorre fare una distinzione tra
trattamento uguale e trattamento di uguali. Ovviamente uguaglianza non significa dare a tutti uno
stesso trattamento, nel senso della stessa prescrizione, perché non tutti hanno bisogno di una data
prescrizione. Significa invece che le persone dovrebbero essere trattate come eguali, nel senso che
persone con gli stessi bisogni dovrebbero ricevere un'uguale considerazione, indipendentemente dai
meriti specifici della singola persona.
Ma come va definito il bisogno? I bisogni relativi all'assistenza sanitaria sono stati definiti dagli
economisti in termini di beneficio. Ciò sposta il problema dalla definizione di bisogno a quella di
beneficio. I singoli cittadini, gli operatori sanitari e i rappresentanti della comunità possono avere in
proposito idee differenti. I singoli cittadini possono considerare un beneficio ricevere ciò che
vogliono; gli operatori sanitari possono definire il beneficio in termini di ristabilimento, o quasi,
delle condizioni di salute; la comunità può considerare la questione dal punto di vista del recupero
di cittadini attivi in seno alla società.
Edgar e collaboratori fanno poi notare che un'efficace misura della qualità della vita deve essere
attendibile, valida nella sua capacità di misurare quel che si vuole e sensibile. Deve, per esempio,
poter evidenziare cambiamenti che possono essere piccoli, ma importanti dal punto di vista clinico.
Gli autori affermano che se i QALY possono essere criticati per la loro potenzialità discriminatoria,
o per il fatto di ignorare i bisogni dei singoli individui, questi problemi possono trovare una
soluzione. Per esempio, i modelli che considerano i QALY e quelli che considerano i bisogni,
possono essere interpretati come complementari invece che competitivi: "L'enfasi che la filosofia
dei bisogni pone sul normale funzionamento dell'organismo, e quindi sulla salute come
precondizione per una vita normale, può fornire materia per determinare quali sono i parametri di
salute più importanti per definire la qualità della vita. D'altro canto, come suggerisce Williams, i
QALY possono servire quali strumenti efficaci per misurare il grado di gravità e l'insostituibilità dei
bisogni, come anche per risolvere le dispute tra due o più richiedenti in presenza di risorse limitate"
(Edgar, 1995).
Nonostante tali tentativi di riconciliare, almeno parzialmente, concezioni contrastanti di giustizia,
H.M. Sass ha sostenuto che "le forme tradizionali di giustizia distributiva avranno sempre un
successo limitato, in parte a causa dell'imperfezione umana, ma anche perché una giustizia
pienamente sviluppata richiede una completa uniformità di servizi e di bisogni riconosciuti" (Sass,
1995).
L'importanza dell'età
l QALY sono spesso stati criticati in quanto discriminano gli anziani, perché ovviamente la
distribuzione delle risorse a persone più giovani ha una probabilità superiore di incrementare la
salute in termini di numero di anni di vita validi dal punto di vista della qualità. L'idea che l'età
possa essere significativa nell'allocazione delle risorse è stata materia di notevoli controversie. Si
potrebbe comunque concordare nel considerare l'età importante in riferimento a specifiche
condizioni o a determinati trattamenti, in quanto alcune forme di intervento semplicemente sono
prive di valore se condotte in determinate fasce di età. Un esempio potrebbe essere lo screening per
i tumori della mammella, che è ritenuto inefficace se non addirittura potenzialmente dannoso per le
donne più giovani. Più controverso è il dibattito sulla disponibilità di terapie per favorire la fertilità
in donne postmenopausa. Comunque, ciò che qui ci interessa maggiormente è l'ipotesi secondo la
quale gli anni di un individuo possano essere discriminanti quando si debba decidere, in generale, se
persone oltre una certa età non debbano godere di priorità nell'allocazione di fondi per l'assistenza
sanitaria. Verranno ora descritte le giustificazioni addotte per questo criterio, che possono
conformarsi in misura maggiore o minore ai principi generali descritti in precedenza.
L'ipotesi del tempo equo è stata schematizzata da Harris come segue: "L'ipotesi del tempo equo
considera l'idea che esista un certo lasso di tempo che noi consideriamo una ragionevole durata di
vita, un tempo equo. Diciamo che un'equa durata di vita siano i classici 70 anni. Chiunque non
raggiunga i 70 anni patisce, da questo punto di vista, l'ingiustizia di essere eliminato anzitempo. Chi
non ha goduto di una ragionevole durata di vita è stato, in effetti, danneggiato. Chi, invece,
raggiunge i 70 anni non patisce tale ingiustizia, non ha perso nessuna opportunità, ma piuttosto deve
considerare ogni anno in più come una specie di bonus in aggiunta a ciò che poteva
ragionevolmente sperare di ottenere. L'ipotesi del tempo equo prevede che a ciascuno sia data
un'uguale possibilità di godere di tale tempo e di raggiungere la soglia prevista; ma, una volta che
questa viene raggiunta, ciascuno avrà ottenuto ciò che gli spettava. Il resto della sua vita è una
specie di bonus che può essere cancellato qualora sia necessario aiutare altri a raggiungere tale
soglia" (Harris, 1985).
L'ipotesi del tempo equo prevede il principio di equità delle opportunità; ciascuno dovrebbe avere
pari opportunità di ottenere il tempo equo, ma oltre questo eventuali richieste non hanno un peso
uguale a quelle dei più giovani.
Un argomento alternativo per considerare importante l'età è stato proposto da D. Callahan (1987);
esso si basa sul concetto di durata naturale della vita.
"Prima voglio proporre una definizione di morte accettabile. Se fossimo d'accordo su di essa,
avremmo, di conseguenza, le basi per l'idea relativa alla durata naturale della vita e quindi, forse, un
criterio per stabilire gli scopi della medicina nei confronti dell'invecchiamento. La mia definizione
di morte accettabile è questa: è accettabile la morte che avviene nel corso di un'esistenza in quello
stadio in cui le possibilità offerte dalla vita si sono nel complesso realizzate; gli obblighi morali
dell'individuo verso coloro nei confronti dei quali ha delle responsabilità sono stati assolti; la morte
del soggetto non sembrerà agli altri un'offesa alla ragione o alla comune sensibilità, né indurrà altri
a disperarsi per la limitatezza dell'esistenza umana. L'argomento della durata naturale della vita è
un'interpretazione del criterio distributivo basato sui bisogni. È un'interpretazione dei bisogni
considerati come ciò che è naturale, dove naturale è inteso non in senso biologico, ma biografico.
Lo scopo di un sistema pubblico di assistenza sanitaria non dovrebbe essere quello di prolungare la
vita oltre questo stadio. Ciò richiede un ripensamento collettivo del concetto di vita e di accettabilità
della morte" (Callahan, 1987).
La teoria di Callahan può essere associata con il concetto di assegnazione delle priorità sulla base
del bisogno. Poiché implica un'interpretazione di bisogno, questo deve essere definito a livello di
comunità piuttosto che in termini di individuo. Egli afferma:
"Quella di bisogno non sarà un'idea praticabile [ ... ] se non riconosciamo apertamente che è solo in
parte un concetto empirico [ ... ] sarà anche un riflesso dei nostri valori, di ciò che riteniamo
necessario per una vita accettabile. Nel caso degli anziani, ho proposto che il nostro ideale di
vecchiaia dovrebbe essere il raggiungimento di un'età che permetta a ciascuno di noi di assolvere
all'ordinaria gamma di possibilità che la vita offre, prevedendo che possa essere necessario
considerare una fascia di età, piuttosto che indicare un'età precisa. Riferendoci a questo ideale, gli
anziani avrebbero bisogno solo di quelle risorse che consentano loro un'effettiva probabilità di
vivere fino a quel punto e, una volta superato quello stadio, di concludere i loro giorni senza dolori
e sofferenze evitabili. Perciò definirei necessario per l'anziano innanzitutto poter raggiungere una
durata di vita naturale e in seguito vedere alleviate le proprie sofferenze" (Callahan, 1987).
In aggiunta agli argomenti del tempo equo e della durata naturale della vita, è già stato fatto
presente che i principi di allocazione basati sulla misurazione dei risultati, quali i QALY, sono stati
accusati di essere discriminatori a sfavore degli anziani. Il problema è vedere se argomenti di questo
genere debbano essere appoggiati o se ci siano considerazioni contro questa discriminazione degli
anziani, che portino a ritenere irrilevante l'età nelle decisioni di allocazione delle risorse. Coloro che
si schierano contro questa discriminazione sostengono che il criterio di allocazione basato sull'età,
indipendentemente da qualunque altra considerazione, è ingiusto come quello basato sul sesso o
sulla razza, e che a un eguale interesse della gente a continuare la propria vita, dovrebbe essere dato
uno stesso peso. Harris fa notare, comunque, che per quanto quest'ultima considerazione sia
importante, si farebbe un'ingiustizia peggiore non offrendo a una persona la possibilità di vivere per
un tempo equo. Nel caso in cui si applichino i QALY, il rifiuto a dare priorità non è basato solo
sull'età, ma sulla probabilità di successo e sull'aspettativa di vita.
Come si è già detto, c'è chi pensa che esaminare il problema dell'allocazione delle risorse dal punto
di vista dei concetti di giustizia sia impraticabile. Anche il progetto di ricercare un consenso sociale
ha i suoi critici. Sass ha sostenuto che nell'ambito del vecchio modo di considerare i sistemi di
assistenza sanitaria, il principio della solidarietà sociale era appropriato (Sass, 1995). Attualmente,
cambiando le circostanze, è emersa, almeno in Europa, una triade di principi: la responsabilità
personale, la solidarietà e la sussidiarietà. A livello di prestazioni di base, la solidarietà verso coloro
che si trovano in stato di necessità e la giustizia distributiva rimangono corrette. Oltre questo livello,
la sussidiarietà suggerisce che "qualunque cosa possa fare l'individuo, non dovrebbe essere fatta
dallo Stato o da istituzioni sociali o servizi equivalenti". Questo semplifica il concetto di
responsabilità personale.
La responsabilità, però, non dovrebbe qui essere intesa nei termini del modello meritocratico di
giustizia, ma nei termini dell'etica delle virtù. Secondo Sass, con il vecchio sistema le virtù morali
di un paziente erano in gran parte interpretate in termini di accondiscendenza e fiducia. Con il
nuovo sistema, il paziente deve essere incoraggiato verso un atteggiamento di approvazione e di
responsabilità. Questo 'incoraggiamento', probabilmente, richiederebbe un'educazione e dei
programmi di sensibilizzazione pubblica, poiché necessita di risposte a domande concernenti che
cosa si intende per vivere una vita umana, come quelle prese in considerazione da Callahan.
Guardare ai bisogni del paziente virtuoso non implica idee particolari sul livello a cui prendere le
decisioni, sia esso costituito da un consenso a livello locale, da linee guida a livello nazionale o dai
singoli medici. Soprattutto nell'ultimo caso, tuttavia, sarebbe forse preferibile che come etica
medica venisse adottata l'etica delle virtù. Stabilire quali debbano essere le virtù in questione
richiede uno studio, ma probabilmente bisognerà includervi l'integrità e la compassione.
Conclusioni
Weale (1998) ha fatto notare che i conflitti di valori sono inevitabili nel campo dell'allocazione
delle risorse da destinare alla salute; essi sorgono non solo tra i differenti concetti di giustizia, ma
tra lo stesso concetto di razionamento e le prospettive tradizionali dell'etica medica, tra le
definizioni degli economisti e le altre definizioni di necessità e beneficio, tra i concetti liberalisti e
comunitari di filosofia politica. L'introduzione dell'etica delle virtù nel dibattito aggiunge un
ulteriore fattore di complicazione. La nostra attenzione deve essere rivolta anche alle questioni di
politica, di potere e di influenza che sotto stanno a queste discussioni, e alle questioni fondamentali
da risolvere riguardanti la natura e la funzione del sistema sanitario, che a loro volta conducono a
ulteriori problemi filosofici su come dovremmo definire la salute stessa e la sua relazione con una
vita che abbia senso.
Ringraziamenti
Alcune parti di questa pubblicazione sono attinte da un mio precedente lavoro, Justice in priority
setting, pubblicato in Rationing in Action (1993) Londra, BMJ Publishing Group, e dal lavoro
intrapreso per NHS Working Party on Priority Setting (1996).
Bibliografia citata
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Bibliografia generale
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Prevenzione
In campo medico, per prevenzione si intende il tentativo di evitare la comparsa di una malattia, o di
una sua specifica manifestazione o di un suo aggravamento o recidiva fino a un possibile evento
fatale, nonché il complesso delle procedure messe in atto a tale fine. L'attenzione per la prevenzione
è antica, ma solo nel 20° secolo il problema è stato affrontato in modo sistematico, prima per le
malattie infettivo-contagiose, poi per quelle non infettive.
sommario: 1. Cenni storici. 2. Tipi di prevenzione. 3. Atteggiamenti nei riguardi della prevenzione.
4. La situazione in Italia. □ Bibliografia.
1. Cenni storici
2. Tipi di prevenzione
La complessità e variabilità operative che si sono osservate, l'acquisizione assai recente di alcune
conoscenze come quelle riguardanti le condizioni cronico-degenerative, il carattere non strettamente
medico in senso tradizionale di molte procedure, hanno fatto sì che per lungo tempo una teoria della
prevenzione e una sua pratica organizzazione siano risultate carenti, non sistematiche.
Una visione più omogenea è derivata recentemente dalla teorizzazione e classificazione di vari tipi
di prevenzione, primaria, secondaria e terziaria, distinzione peraltro valida soprattutto per le
malattie cronico-degenerative. Per prevenzione primaria si intende il complesso di attività
finalizzate a scongiurare l'insorgenza della malattia quando essa è ancora clinicamente assente;
consistono nell'agire sulle cause della malattia stessa, a livello individuale, collettivo e ambientale.
Secondo alcuni, l'approccio volto a evitare la comparsa di fattori di rischio può essere definito
prevenzione preprimaria (o primordiale). Altri, invece, considerano quest'ultima come la sola vera
prevenzione primaria, assumendo che una quota di malattia, pur minima, debba esistere per la
semplice presenza di livelli anche irrilevanti di fattori di rischio che, come tali, non possono essere
eliminati. È chiaro tuttavia che la prevenzione primaria, comunque la si intenda, è l'essenza della
prevenzione poiché, se essa è operante ed efficace, vengono pienamente realizzate le finalità che si
propone. Pertanto, quando si parla di prevenzione, senza ulteriore specificazione, ci si riferisce
generalmente alla prevenzione primaria. Come è ovvio, la prevenzione delle malattie infettive è
sempre da considerarsi primaria.
Il significato che viene dato al concetto di prevenzione secondaria è variabile. Secondo alcuni, essa
consiste nell'identificare soggetti con condizioni subcliniche di malattia e nell'intervenire su di essi,
per evitare che la patologia diventi sintomatica o comunque progredisca. Per altri, invece,
prevenzione secondaria significa agire su soggetti con malattia già instaurata e clinicamente
riconoscibile, per scongiurare le recidive e le complicazioni e modificarne favorevolmente
l'evoluzione. Secondo un'altra prospettiva, la prevenzione secondaria si identifica con il trattamento
di soggetti ancora clinicamente sani ma portatori di livelli particolarmente elevati dei fattori di
rischio e quindi definibili ad alto rischio. Si tratta, come si vede, di concetti molto diversi che
peraltro si adattano più o meno bene, di volta in volta, a varie situazioni.
Il concetto di prevenzione terziaria si allontana in misura crescente da quello più elementare di
prevenzione. In ogni caso si parte dalla presenza della malattia già instaurata, con tutti i suoi sintomi
e segni; a parere di alcuni, essa consiste nell'agire sul soggetto allo scopo di prevenire la comparsa
di recidive e aggravamenti (anche con la riabilitazione); secondo altri, invece, si tratta di intervenire
specialmente sulle complicazioni per evitare addirittura il decesso. Ma questa è una degenerazione
del concetto di prevenzione, perché in tal modo qualsiasi attività medica, anche la più eroica e
disperata, dovrebbe essere considerata di carattere preventivo. Bisogna quindi restringere il concetto
di prevenzione a quelle attività che si identificano con la prevenzione primaria e, in piccola parte,
con quella secondaria. Tali attività tendono a evitare la comparsa di eventi e condizioni nuove,
prima inesistenti, che rappresentano l'esordio della malattia clinica, evidente pure al paziente. È
chiaro che ogni forma di prevenzione può avere significato, specie nell'ambito delle malattie
cronico-degenerative, anche se essa è volta semplicemente a dilazionare nel tempo la comparsa
della prima manifestazione morbosa, allungando così il periodo di vita esente da malattia.
Un concetto più allargato di prevenzione è quello che sta emergendo da qualche anno sotto forma di
un'azione generalizzata, che in futuro potrebbe rappresentare un ambito di attività molto importante.
Tale concetto è anzitutto orientato verso la comunità; inoltre, la prevenzione non è intesa in senso
etimologico e tradizionale, ma tende ad acquisire il significato più ampio di 'controllo delle
malattie'. È un tentativo di affrontare, a livello di comunità, il problema di certe malattie in modo
globale. Esso comporta: una ricerca attiva dei malati, specialmente dei predisposti a diventarlo; lo
svolgimento di un'opera costante di educazione sanitaria; la creazione di collegamenti tra le varie
unità impegnate nel campo preventivo e terapeutico per far fronte in modo nuovo a problemi che sul
piano individuale sono difficilmente risolvibili con la medicina tradizionale, pur essendo da tempo a
disposizione mezzi tecnici adeguati. Nel momento in cui, in questo contesto, anziché orientarsi
verso una singola malattia ci si orienta verso più malattie contemporaneamente, specialmente se
connesse in qualche modo tra loro e, anziché orientarsi verso la specifica prevenzione di una o più
malattie, si identificano gli strumenti utili per il mantenimento del benessere fisico e l'allungamento
della speranza di vita, tale azione diventa sinonimo di promozione della salute. In questo senso la
prevenzione di una serie di condizioni raggruppabili per talune affinità viene facilitata con
interventi mirati su singoli fattori o singoli comportamenti.
Per es. è noto, non solo in termini predittivi ma anche preventivi, il ruolo multipotenziale del fumo
di sigaretta, la cui soppressione può giovare per ridurre l'incidenza dei tumori del polmone e di altre
sedi anatomiche, della bronchite cronica, di alcune malattie cardiovascolari, del sottopeso alla
nascita. Adeguati comportamenti sessuali possono essere utili per la prevenzione non solo delle
tradizionali malattie veneree ma anche di quelle recentemente classificate come tali, quali l'herpes,
l'epatite B e l'AIDS. Alcune semplici regole di igiene personale, come per es. lavarsi le mani con
frequenza, sono la base per la prevenzione di malattie a trasmissione orofecale. L'adozione di
abitudini alimentari differenti da quelle che caratterizzano la 'dieta ricca' dei paesi industrializzati
sembra valida per la prevenzione della cardiopatia coronarica, degli accidenti cerebrovascolari, di
alcuni tumori e del diabete. Sempre in termini di tipologie della prevenzione, si possono classificare
le azioni da intraprendere secondo il maggiore o minore coinvolgimento individuale.
Gli interventi possono essere: di tipo legislativo e normativo (imposti); basati sull'educazione
sanitaria generalizzata (o su strati di popolazione) diretta a piccoli gruppi omogenei e selezionati;
basati sull'intervento individuale mediante consigli, prescrizioni igieniche, vaccinali e
farmacologiche (tab. 2).
Le considerazioni esposte hanno grande rilevanza perché, in rapporto a patologie sia a eziologia
(causalità) ben identificabile come quelle infettive, sia a eziologia multipla o mal definita, il
comportamento umano riveste una notevole importanza nel modulare il rischio. Ciò ha indotto
alcuni ambienti accademici negli Stati Uniti ad avviare attività di ricerca, didattiche e applicative
nel settore della cosiddetta medicina comportamentale. Questi nuovi indirizzi hanno determinato un
allontanamento culturale della prevenzione dalla medicina diagnostica e curativa classica, e portato
anche ad atteggiamenti differenti nei suoi confronti, specie quando essa non riguarda interventi
tradizionali, come l'esecuzione delle vaccinazioni o il suggerimento di norme igieniche individuali
specifiche. In rapporto alle opportunità di combattere sistematicamente i fattori di rischio di alcune
condizioni cronico-degenerative e i comportamenti che ne sostengono elevati livelli, emergevano
negli ultimi decenni del 20° secolo tre atteggiamenti diversi, definibili come accademico,
pragmatico e nichilista. L'atteggiamento accademico riteneva che tali malattie fossero in gran parte
geneticamente determinate, anche se talora influenzate dai comportamenti.
I tentativi di cambiare le abitudini di vita di intere popolazioni erano giudicati inutili o addirittura
dannosi; un approccio preventivo veniva giustificato solo se diretto a soggetti ad alto rischio e una
seria considerazione della prevenzione veniva rimandata alla soluzione dei problemi scientifici
riguardanti i meccanismi biochimico-cellulari della patologia, usualmente indagati dalla ricerca di
base. L'atteggiamento pragmatico attribuiva ai comportamenti un ruolo prevalente rispetto a quello
della genetica e, in base a indicazioni osservazionali - e ancora prima di disporre di prove finali
quali quelle fornite dai trials preventivi controllati -, suggeriva l'opportunità di intervenire
sistematicamente e in modo generalizzato a livello di popolazione, allo scopo di indurre
modificazioni dei fattori di rischio con la speranza di spostare le loro curve di distribuzione nella
direzione che si associa a un minor pericolo di insorgenza morbosa. Tale impostazione dava grande
rilievo all'educazione sanitaria, pur riconoscendo la necessità di trattare individualmente i soggetti a
rischio molto elevato. Inoltre questo atteggiamento teneva conto dell'esistenza di 'malattie di massa'
dovute a 'comportamenti di massa'. L'atteggiamento nichilista, infine, considerava inutile privare la
popolazione dei 'piaceri della vita' semplicemente per ritardare di qualche anno eventi ritenuti
inevitabili, fra i quali la morte.
Tale visione non teneva conto del fatto che qualsiasi atto medico, anche il più eroico, disperato o
sofisticato, non fa che tentativi di allungare la speranza di vita anche quando ciò è impossibile o
forse vano. In questo contesto si inquadrava l'atteggiamento di chi riteneva preferibile evitare la
preoccupazione per la propria salute fino a quando non fosse accaduto qualcosa di grave, e anche di
chi esprimeva il timore che l'efficacia della prevenzione potesse determinare un incremento
inaccettabile della popolazione definita anziana con tutte le conseguenze economiche e sociali che
ne possono derivare. Questi vari atteggiamenti hanno pesantemente condizionato l'avvio della
prevenzione come pratica sistematica da parte sia dei singoli medici sia della sanità pubblica. È
opportuno qui sottolineare che la prevenzione è operante solo se vi è una convergenza nel modo di
concepire il problema da parte dei singoli medici, della sanità pubblica e della popolazione.
Sostanzialmente tre fattori, per alcuni versi occulti, hanno frenato tale evoluzione.
La sanità pubblica si è mossa con lentezza perché influenzata nei suoi interventi dal parere di quei
clinici che, almeno fino a un recente passato, non approvavano o non comprendevano la filosofia e i
meccanismi di ricerca e operativi alla base della prevenzione, spesso condizionata da decisioni
politiche che hanno privilegiato, demagogicamente, obiettivi più appariscenti rispetto a quello
medico-sanitario. Da parte del medico vi è stata, sia pure inconsciamente, una resistenza dovuta al
fatto che, per quanto attenta possa essere la sua opera in questo campo, i risultati su scala
individuale, fondati su piccoli numeri e a breve termine, non sono visibili né analizzabili; solo su
larga scala, sulla base di validi sistemi di controllo e tempi lunghi, si può documentare e
quantificare l'effetto di una procedura di prevenzione. Mentre nel settore clinico tradizionale molte
malattie, anche trattate impropriamente, possono guarire o avere remissioni rapide con
soddisfazione del curante e del curato, nessuno, individualmente, saprà mai se valeva la pena, per
es., di essersi fatto vaccinare contro il tetano o aver smesso di fumare. Inoltre agire sui
comportamenti è azione molto più lunga e faticosa di quella consistente nel prescrivere un farmaco.
La prevenzione non paga neppure in termini di pubblicità. L'eradicazione del vaiolo, completata
dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS ) nella seconda metà del 20° secolo, è stata una
delle più grandi imprese della sanità pubblica, ma la stampa le ha dedicato solamente titoli minori e
pagine interne, dando, per contro, grande risalto al suggerimento di abolire la vaccinazione allo
scopo di evitarne i rari effetti collaterali. Titoli particolarmente vistosi riceve qualsiasi nuova
procedura diagnostica o terapeutica purché di avanzata tecnologia, anche se costosa, non
adeguatamente validata oppure potenzialmente utile unicamente per condizioni molto rare o casi
disperati. Questa educazione alla medicalizzazione e al sensazionale ha finito per influenzare anche
il grande pubblico, richiamato da diagnosi e terapie prodigiose, frastornato dalle rubriche e dalle
enciclopedie mediche, ma poco sollecitato ad applicare semplici comportamenti a basso costo, in
grado di ridurre l'incidenza e la mortalità per molte condizioni.
Un ulteriore aspetto distingue la medicina preventiva da quella curativa: la prima impone di adottare
misure largamente sperimentate e sicure, mentre la seconda è stata sempre disinvolta nell'accettare
qualunque rimedio, anche semplicemente miracolistico.
4. La situazione in Italia
L'Italia ha una discreta tradizione in campo preventivo, per quanto attiene alla diffusione delle
vaccinazioni, almeno quelle obbligatorie. La completezza della loro esecuzione è risultata tuttavia
molto differente a seconda delle regioni e degli strati sociali. In tempi relativamente recenti, un
formale interesse per la prevenzione è stato indicato dallo spirito e dai contenuti della l. 23
dicembre 1978, nr. 833, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale. Il legislatore ha voluto
equiparare l'importanza e l'interesse della prevenzione a quello della diagnostica, della terapia e
della riabilitazione. Ma a tali formulazioni di principio non è seguita un'azione altrettanto valida in
termini applicativi: ciò è probabilmente dipeso da carenze finanziarie, da inevitabili scelte di
priorità e anche da una sostanziale impreparazione degli operatori e dei medici. Sotto questo profilo
non va dimenticato che la formazione dei medici, degli infermieri, dei paramedici e del personale
sanitario in genere che si sono trovati di fronte alla riforma, era basata su un'impostazione
diagnostico-terapeutico-individualistica, più rivolta ai problemi della malattia che a quelli della
salute; era quindi impensabile che, improvvisamente, una cultura ben radicata riuscisse ad
affrontare problemi nuovi che esigono orientamenti, competenze e tipo di organizzazione differenti.
Se oggi si intravede qualche miglioramento, nel settore sia pubblico sia privato, in termini di
prevenzione e cultura della salute, ciò dipende da alcuni eventi verificatisi negli ultimi quindici-
venti anni, primo fra tutti l'inizio del ricambio generazionale dei medici, che stanno mostrando una
sensibilità sempre maggiore a queste tematiche. Ai tempi della definizione del Servizio sanitario
nazionale fu dibattuta a lungo la questione su chi dovesse essere il depositario delle attività di
medicina preventiva: prevalse l'opinione che poneva il medico - specie il medico di famiglia - al
centro di ogni attività preventiva, diagnostica, terapeutica e riabilitativa, contro la proposta di
adottare per la prevenzione strutture e personale specializzati. Tuttavia si è dovuto constatare che il
ruolo centrale del medico di famiglia ha senso solo se questi ha tempo, disponibilità, competenza
per dedicarsi alla prevenzione e quindi all'educazione sanitaria; in mancanza di ciò, organizzazioni
situate a monte del medico sono necessarie per programmare la prevenzione e attivare sistemi di
sorveglianza integrandosi con l'opera del medico e di altre professioni sanitarie, soprattutto
considerando che la prevenzione è una medicina attiva e non passiva come quella tradizionale.
Sono poi emerse, da un lato, l'insufficienza del curriculum universitario e postuniversitario del
medico e dunque la necessità di una sua formazione specifica e, dall'altro, la consapevolezza che
altre componenti della società devono essere coinvolte nell'opera di promozione della salute, tra cui
le organizzazioni di volontariato. Sta inoltre diventando evidente che è impossibile ottenere
modificazioni dei comportamenti se non vengono coinvolti quei settori produttivi e commerciali
che, avendo la possibilità di modificare alcuni prodotti (per es. quelli alimentari), e facendo leva sul
potere della pubblicità tramite i mass media, sono in grado di influenzare motivazioni e scelte di
stile di vita. In altri termini, il problema della prevenzione si identifica con quello della salute e con
tutto ciò che deve essere fatto per mantenerla e promuoverla. Ogni soggetto deve essere parte attiva
e passiva di tale processo. A livello pubblico, è necessario che la ricerca nel settore sia sostenuta in
modo adeguato e non considerata secondaria a quella dei settori diagnostico e terapeutico, anche sul
piano finanziario. Molto ci si attende ancora dalla ricerca, ma non vi è dubbio che l'applicazione
pratica delle conoscenze acquisite non sia sufficientemente diffusa.
Il manuale teorico delle strategie disegnate dall'OMS, del 1997, intitolato Health for all in the year
2000 contiene proposizioni di facile esecuzione, destinate alla prevenzione, al prolungamento della
speranza di vita e al miglioramento della sua qualità. I loro costi non sono proibitivi, ma perché il
programma abbia successo serve un atteggiamento diverso che attribuisca la dovuta importanza
all'adozione di semplici principi di prevenzione, anziché renderli più complicati, e privilegi le
procedure per migliorare i comportamenti quotidiani rispetto alla promozione di rimedi, forse del
tutto inutili, destinati a situazioni ritenute disperate.
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Henry Sigerist fu il primo a parlare di 'storia sociale della medicina' nel 1940. Lo sviluppo di questa
disciplina nella seconda metà del XX sec. ha avuto come oggetto di interesse primario la medicina
vista nei diversi contesti nazionali, regionali e locali. Gli studi effettuati nell'ambito dei sistemi di
assistenza sociale contraddicevano le interpretazioni più tradizionali, secondo le quali gli
avanzamenti della disciplina sarebbero originati dalla scienza e si realizzerebbero in un contesto
internazionale; tuttavia, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, la tesi che la medicina sia un
valore sociale internazionale ha ottenuto una certa considerazione negli studi della sanità pubblica e
della ricerca di laboratorio, nonché in quelli riguardanti il fenomeno dell'imperialismo. Il ruolo degli
organismi internazionali, in particolare della Rockefeller Foundation, ha acquisito importanza per la
diffusione della conoscenza, la formazione delle élite scientifiche e lo sviluppo di organizzazioni
mediche di prevenzione. Le analisi comparate delle cure sanitarie in diversi paesi hanno fornito un
ulteriore stimolo a un approccio di tipo internazionale. Gli storici si sono avvicinati al problema
dell'internazionalizzazione in termini di network di diffusione, agenzie istituzionali, relazioni
centro-periferia e studi comparati sulle norme che regolano la medicina e la modernizzazione
sociale.
Le organizzazioni sanitarie internazionali, visto il rapido espandersi del colera e della peste,
svolsero un ruolo fondamentale per quanto riguarda la realizzazione delle misure di controllo delle
malattie. La quarantena fu progressivamente sostituita da sforzi più concreti per migliorare i livelli
sanitari generali e debellare le epidemie all'origine. Ad Alessandria d'Egitto dai primi anni Trenta
dell'Ottocento fino al 1938 era attivo un Health Medicine and Quarantine Board mentre a
Gerusalemme all'inizio del secolo scorso venne aperto un ufficio sanitario internazionale. Molte
energie e sforzi furono impegnati per incrementare lo scambio d'informazioni relative alla
legislazione e alle procedure statistiche, scopo principale dell'Office International d'Hygiène
Publique, fondato a Parigi nel 1907 e attivo fino al 1945, che divenne un punto di scambio di
informazioni concernenti le norme di prevenzione delle malattie e delle epidemie. La Germania
sfiduciò l'istituzione, percepita come francofila, e vi aderì soltanto alla fine della Prima guerra
mondiale, rimanendone però uno dei membri anche dopo che Hitler decise il ritiro da tutte le
organizzazioni della Società delle Nazioni.
Poche organizzazioni internazionali interpretarono però il loro ruolo in termini di ricerca; il Bureau
International des Poids et Mesures creato a Sèvres nel 1875 fu, in questo senso, un'eccezione. Dal
1899 fino alla Grande guerra fu attiva l'International Association of Academies, sebbene anche al
suo interno gli interessi nazionali avessero la priorità su qualsiasi nuovo programma internazionale.
Alcuni comitati permanenti, come la Commission Internationale de Radioactivité (1910), furono
creati per favorire la standardizzazione. I governi preferirono comunque mantenere la sovranità
nazionale in altri ambiti, come gli standard per le medicine e i vaccini.
L'azione umanitaria nei confronti delle emergenze mediche di guerra fu sostenuta dalla fondazione
da parte di Henri Dunant nel 1863 del Comité International de la Croix-Rouge, organizzazione non
governativa che si limitò a garantire le cure mediche per i feriti di guerra e la tutela dei prigionieri
stipulando convenzioni internazionali. Le associazioni nazionali che la costituivano erano dominate
dalle élite militari e aristocratiche e divennero sempre più importanti sia nell'organizzare l'assistenza
medica e quella infermieristica da parte del personale volontario femminile sia nel migliorare le
condizioni generali durante il conflitto. Gli sforzi proseguirono anche in tempo di pace e dopo la
Prima guerra mondiale fu fondata l'International Federation of Red Cross and Red Crescent
Societies: la presenza della croce rossa e della mezza luna rossa scelte come simbolo voleva mettere
ben in evidenza il carattere internazionale di tale impresa. Un problema centrale in questo ambito fu
l'antagonismo che si venne a creare tra le iniziative volontarie e quelle invece appoggiate dai
governi.
La rivalità tra le grandi potenze imperiali stimolò la competizione negli stati satellite e nelle colonie.
Per questo motivo gli americani studiavano soprattutto in Francia e, più avanti nel secolo, anche in
Germania; la Svezia e i Paesi Bassi guardavano alla Germania, la Danimarca alla Gran Bretagna,
mentre i Balcani facevano riferimento alle istituzioni viennesi per la supremazia nella formazione
medica e scientifica. Negli anni Novanta dell'Ottocento i giapponesi spostarono il loro interesse
dalla medicina olandese a quella tedesca e iniziarono a studiare e a pubblicare in tedesco.
Nell'America Meridionale la competizione contrapponeva essenzialmente la medicina tedesca e
quella francese. A partire dal XX sec. la medicina statunitense esercitò un'influenza crescente sulla
formazione medica e sulla ricerca, in parte grazie alla nascita di grandi centri medici come il Johns
Hopkins di Baltimora e in parte grazie alla Pan-American Health Organization, fondata nel 1902 e
destinata a divenire l'organizzazione sanitaria di maggior durata.
Verso la fine dell'Ottocento in diversi paesi sorsero associazioni che si occupavano del controllo e
dell'eliminazione di specifiche malattie, quali l'alcolismo, la tubercolosi e le patologie a
trasmissione sessuale. I tentativi di coordinare l'attività delle organizzazioni nazionali diedero vita
alle associazioni internazionali. Nel 1902, a Berlino fu fondato l'Internationales Central-Bureau zur
Bekämpfung der Tuberkulose (Ufficio centrale internazionale per la lotta contro la tubercolosi),
mentre l'International Union for the Study of Tuberculosis spronò i riformatori statunitensi a
valutare i progetti realizzati in Europa che vennero conosciuti soprattutto attraverso l'International
tuberculosis conference tenutasi a Washington nel 1908. Ciò significava la rapida diffusione
internazionale delle innovazioni; nell'ambito della sanità neonatale e pediatrica, per esempio, i
progetti innovatori includevano le cliniche per il latte materno, che fornivano alle madri il latte
pastorizzato, l'ispezione medica degli istituti scolastici e infine la diffusione di scuole all'aperto.
Tutto ciò fu discusso e imitato a livello internazionale.
Gli sforzi delle varie nazioni per affrontare le malattie a trasmissione sessuale furono accresciuti
grazie alle lotte dei movimenti femminili e dalle campagne per la contraccezione. Una società per il
controllo delle malattie veneree fu fondata in Belgio nel 1899, mentre la Francia e la Germania
crearono programmi appositi, divenuti poi esemplari, che consideravano gli aspetti medici piuttosto
che morali delle cause delle patologie a trasmissione sessuale, contribuendo a migliorare di molto
l'educazione sessuale nonché la conoscenza delle pratiche contraccettive. Nel periodo tra le due
guerre si registrarono grandi iniziative da parte dell'International Union for the Prevention of
Sexually Transmitted Diseases, dirette soprattutto a organizzare la profilassi per i lavoratori che si
spostavano da un paese all'altro, in particolare per i marinai.
Le esposizioni internazionali rappresentavano un'opportunità per raggiungere un gran numero di
persone sin dal XIX secolo. Da principio si trattava di fiere commerciali, ma nel Novecento
l'educazione pubblica sui rischi delle malattie e la promozione sanitaria divennero prioritarie.
L'International hygiene exhibition, tenutasi a Dresda (in Sassonia) nel 1911, fu il nucleo
dell'International Hygiene Museum, che continuò a promuovere esposizioni e mostre itineranti e, a
partire dagli anni Venti, anche film e altri sistemi di propaganda sanitaria.
Le preoccupazioni demografiche e razziali furono gli stimoli principali per l'internazionalizzazione
dell'eugenica. La prima società eugenica, la Gesellschaft für Rassenhygiene fondata nel 1904 in
Germania, era concepita come un'organizzazione internazionale e i fondatori reclutarono membri
nell'Impero austro-ungarico, in Francia e Svezia; il suo programma era essenzialmente di
orientamento nordico e l'iscrizione era riservata alle 'razze bianche'. In occasione della prima
conferenza eugenica internazionale del 1912 a Londra, sorse una rivalità con l'inglese Eugenics
Education Society, fondata nel 1907. Il conflitto causò notevoli preoccupazioni per la diminuzione
della natalità e della salute dei civili, dovuta alla malnutrizione e alle epidemie di tifo e influenza.
Dopo la guerra, la fondazione della International Federation of Eugenic Organisations determinò
ulteriori tensioni riguardo all'iscrizione della Germania. L'eugenica continuò a essere criticata dai
sessuologi radicali della World League for Sexual Reform. A partire dagli anni Trenta, la scienza
razzista del regime nazista fu all'origine di importanti controversie internazionali, portando a
iniziative di condanna come il manifesto dei genetisti, redatto in occasione dell'International
congress of genetics del 1939.
Il movimento internazionale per promuovere il controllo demografico suscitò l'opposizione della
Chiesa, in particolare di quella cattolica; fu l'enciclica di Pio XI Casti conubii del 31 dicembre 1930
a dettare la linea ufficiale della Chiesa sul controllo delle nascite, l'aborto e l'eugenetica. I
sostenitori del controllo delle nascite si dividevano tra le esponenti dei movimenti femminili, che
invocavano il diritto della donna a limitare la fertilità, e i medici motivati dall'eugenetica, favorevoli
a determinare la 'dimensione' delle famiglie in base a criteri, appunto, medici. Parte delle
argomentazioni faceva riferimento al possibile miglioramento delle condizioni economiche
attraverso la limitazione del numero di componenti del nucleo familiare, l'incentivazione
dell'istruzione femminile e la riduzione della mortalità infantile. Alcuni governi nazionali si
orientarono invece verso la crescita demografica, prendendo le distanze dalla contraccezione.
Soltanto dopo il 1945 i nuovi legami tra i sostenitori del controllo demografico e l'Organizzazione
delle Nazioni Unite (ONU) hanno cominciato a produrre effetti visibili nella lotta contro
l'esplosione demografica su base globale.
Durante la Prima guerra mondiale la comunicazione internazionale in ambito medico fu sostenuta
dalle riviste scientifiche; paesi neutrali come la Svizzera e l'Olanda facilitarono l'interscambio di
pubblicazioni e cercarono di fornire assistenza, mentre la Rockefeller Foundation era attiva in
Belgio e Francia. Le epidemie e la crescente malnutrizione negli imperi centrali determinarono la
creazione, in Inghilterra, dell'organizzazione Save the Children da parte di Eglantyne Jebb (1876-
1928). Tale organizzazione assunse carattere internazionale nel 1921 e contribuì ad alleviare la
carestia in Russia, insieme alle società della Croce Rossa, alla United Nations High Commissioner
for Refugees (UNHCR), diretta da Fridtjof Nansen (1861-1930), e all'American Relief
Administration di Herbert Hoover (1874-1964).
Tra le due guerre sorsero numerose associazioni internazionali con obiettivi e forme organizzative
diversi. Molti sforzi furono compiuti nel dopoguerra per estendere ai civili la mobilitazione per la
copertura sanitaria che si era avuta nel periodo bellico. Dal 1919 le società nazionali della Croce
Rossa furono alla guida di un movimento che, su base volontaria, insisteva sulla necessità di
accrescere la stabilità internazionale migliorando le cure sanitarie. La defezione degli Stati Uniti nel
1924, dovuta alla dottrina isolazionista, fu la causa prima dell'indebolimento di questa
organizzazione.
La fondazione della League of Nations (Società delle Nazioni) era stata accompagnata da una buona
dose di idealismo, sebbene i nazionalisti della destra tedesca la odiassero in quanto strumento
dell'imperialismo anglo-francese. La creazione della Epidemic Commission of the League of
Nations fu diretta da un polacco, Ludwik Rajchman (1881-1965), il quale divenne il primo
segretario della League of Nations Health Organization. Egli la concepì come un insieme di esperti,
dediti all'analisi della diffusione delle malattie e degli agenti patogeni, delle loro cause e ai
determinanti delle patologie. La Società attrasse riformatori che sostenevano posizioni critiche
rispetto alle condizioni dei loro paesi d'origine; tra questi va ricordato lo iugoslavo Andrija Ètampar
(1888-1958), sostenitore dei policlinici. Rajchman seguì a sua volta una linea indipendente,
invocando un'analisi socioeconomica della malattia. La Rockefeller Foundation finanziò in modo
significativo l'organizzazione, che intraprese inoltre un'analisi comparativa delle condizioni
sanitarie e offrì servizi quali la standardizzazione delle sostanze biologiche.
L'International Labour Organization aveva una forma diversa, dal momento che includeva
rappresentanze governative tanto dei datori di lavoro quanto dei sindacati; essa si interessò di sanità
industriale secondo un approccio prevalentemente tecnico, pubblicando un'importante enciclopedia.
I temi dell'alimentazione, dell'agricoltura e del controllo delle droghe implicarono anch'essi la
ratifica di accordi e il coordinamento di organizzazioni intergovernative.
La Rockefeller Foundation promosse sia borse di studio nelle scienze mediche e nella sanità
pubblica internazionale, sia la creazione di centri di eccellenza in questi ambiti di ricerca, con la
speranza che essi avrebbero assicurato la diffusione delle innovazioni consolidatesi in ambito
medico. Il sostegno fornito dal governo americano alle scuole di sanità pubblica determinò
iniziative pionieristiche presso le università Johns Hopkins, Yale e Harvard. Un esempio del
sostegno internazionale della Rockefeller Foundation fu il finanziamento per l'espansione e la
ricostruzione della London School of Hygiene and Tropical Medicine, considerata centrale nel
miglioramento della sanità nell'Impero britannico; la stessa fondazione sostenne pure una catena di
istituti dal Mar Nero al Baltico, sebbene con alterne fortune. L'International Health Board della
fondazione si concentrò sulla diffusione della sanità pubblica e sul controllo delle malattie,
combinando l'approccio di laboratorio, basato essenzialmente sullo sviluppo dei vaccini, e gli sforzi
sul campo per sopprimere i vettori delle malattie mediante programmi locali.
La Convenzione di Ginevra del 1929 non riguardava i civili dei paesi occupati e quindi furono presi
provvedimenti solamente per i prigionieri di guerra: ciò ebbe un effetto disastroso durante la
Seconda guerra mondiale. I programmi internazionali su vasta scala vanno confrontati con
l'idealismo diffuso a livello popolare. Un programma pionieristico sostenuto dalla Rockefeller e
dalla Milbank Foundation prevedeva l'alfabetizzazione di massa, l'educazione sanitaria e
l'esperimento di controllo demografico della comunità rurale di Ting Hsien in Cina. L'ospedale di
Albert Schweitzer (1875-1965) nell'Africa occidentale francese esemplificava un senso di
devozione spirituale nel fornire le cure mediche alle popolazioni indigenti, quasi una missione,
tanto più pura quanto più lontana dai centri metropolitani. Questo spirito motivò il riconoscimento
del ruolo delle organizzazioni non governative (ONG) e il loro posto nella sanità pubblica dopo la
Seconda guerra mondiale. Le ONG, organismi politicamente neutrali o umanitari, si sono sviluppate
dopo il 1945 parallelamente alla nascita delle organizzazioni internazionali dirette da scienziati
invece che da diplomatici. L'UNESCO ebbe come primo direttore generale il biologo ed eugenista
Julian Huxley e come direttore esecutivo l'embriologo e storico della scienza cinese Joseph
Needham. La FAO di Roma fu affidata alla direzione del nutrizionista John Boyd Orr (1880-1971);
l'UNICEF fu fondata su iniziativa di Rajchman; la World Health Organization fu diretta dallo
psichiatra canadese George Brock Chisholm (1896-1971). Queste organizzazioni, che erano
finanziate dagli Stati nazionali, auspicavano un'epoca di sforzi globali finalizzati all'eradicazione
delle malattie e allo sviluppo di migliori cure sanitarie. La United Nations Rehabilitation and Relief
Association (UNRRA, che ebbe vita breve) iniziò la produzione di penicillina su scala
internazionale sotto la direzione di Ernst Boris Chain (1906-1979) a Roma, ma quest'iniziativa
pionieristica nella produzione di farmaci non ebbe alcun seguito. La World Medical Association,
fondata nel 1947, era invece finanziata dai medici; profondamente ostile nei confronti della
medicina di Stato, riconosceva tuttavia la necessità di una tutela del paziente sotto forma di codice
etico.
La guerra fredda minò rapidamente i sogni di collaborazione sanitaria internazionale; una delle
conseguenze fu la trasformazione di queste organizzazioni in vere e proprie arene di tensione tra est
e ovest, pregiudicandone l'efficacia. Alcuni programmi per debellare malattie suscitarono notevoli
sospetti. Si incentivò l'uso della penicillina per eradicare la sifilide e quello del DDT per debellare
la malaria ma, quando nel 1957 i sovietici promossero la campagna per l'eradicazione del vaiolo,
all'inizio gli americani li guardarono con sospetto. Le superpotenze preferivano infatti esercitare il
controllo tramite accordi medici e scientifici bilaterali, mentre l'eradicazione del vaiolo doveva
essere realizzata per gradi e con iniziative regionali. Gli sforzi internazionali per debellare il
morbillo hanno prodotto qualche successo, ma l'eradicazione della malaria e della sifilide negli anni
Cinquanta e Sessanta sono stati fallimenti disastrosi, dovuti alla sottovalutazione dei problemi di
resistenza dei patogeni agli antibiotici e dei vettori al DDT. I programmi d'intervento per debellare
specifiche malattie promossero comunque sforzi internazionali per superare le divisioni della guerra
fredda, in particolare attraverso le conferenze Pugwash. La Croce Rossa, la cattolica Caritas e le
organizzazioni protestanti hanno acquisito un ruolo sempre più importante negli interventi
umanitari. Nuove organizzazioni fondate nel dopoguerra sono Oxfam (Oxford committee for
famine relief) e Médecins sans Frontières, mentre si sono avute importanti iniziative volte a
garantire le cure primarie grazie al movimento a favore degli ospizi, e per le vittime della tortura.
L'International Association for Prevention of Nuclear War mostra che la medicina può continuare a
essere un'alternativa alle tensioni della politica globale.
La fine della guerra fredda e la pandemia di AIDS hanno stimolato iniziative e l'attività delle
organizzazioni internazionali. L'OMS ha provato a far ratificare accordi internazionali per l'accesso
ai farmaci e a implementare misure contro le infezioni epidemiche. La medicina è sempre più basata
sui farmaci, ma gli sforzi internazionali per rendere le medicine disponibili non hanno tenuto il
passo delle innovazioni mediche. La conferenza dell'OMS di Alma Ata (1978) ha rappresentato un
importante tentativo di orientare l'azione globale verso le cure primarie con lo scopo di assicurare
'salute per tutti entro il 2000'. Tuttavia si sostiene che, invece di promuovere programmi di aiuti
alimentari d'emergenza per sopperire a epidemie e carestie, si dovrebbero innalzare gli standard
nutritivi e sanitari, garantire l'assistenza mediante infrastrutture sanitarie, un sicuro accesso all'acqua
potabile e la promozione dell'autosufficienza, che rappresentano un efficace approccio preventivo.
Il problema rimane organizzativo, poiché le agenzie internazionali dipendono dai governi degli Stati
membri e ciò nuoce alla loro efficacia. L'internazionalizzazione della medicina rimane quindi
un'arena caratterizzata da una molteplicità di organizzazioni e modelli. C'è una notevole attività
nell'ambito dell'assistenza medica internazionale, ma l'AIDS e le tensioni politiche globali hanno
fatto sì che gli ottimistici obiettivi globali come 'salute per tutti entro il 2000', siano stati, benché
nobili, fallimentari.
Bioetica
sommario: 1. Un ambito recente di studio e di discorso: a) definizione e ambito; b) organizzazioni e
istituzioni. 2. Criteri e metodi: a) i quattro principî canonici; b) i quattro principî considerati come
regole etiche; c) l'utilità come valore primario; d) i fattori di razza e di genere. 3. La bioetica e
l'inizio della vita umana: a) la nuova genetica; b) test, screening, riflessione, decisione; pre-
impianto; d) terapia genica; e) eugenetica; f) brevetti; g) riproduzione assistita; h) embrioni e feti. 4.
La bioetica e la fine della vita umana: a) la definizione di morte; b) le direttive anticipate sul
trattamento medico; c) la continuazione o la sospensione del trattamento; d) suicidio assistito ed
eutanasia. □ Bibliografia.
a) Definizione e ambito
L'etimologia greca del termine ‛bioetica' è la combinazione di due parole ricche di significato: βίος
e ἠϑικά. L'uso che Aristotele faceva del termine βίος non era limitato agli organismi viventi, perché
egli distingueva tre altre dimensioni di βίος: la vita rivolta al piacevole, quella politica e quella
contemplativa. Questi gradi distintivi del βίος, nell'attuale linguaggio corrente, si possono accostare
ai diversi livelli possibili di ‛qualità della vita'. Senza dubbio i dati scientifici della ricerca biologica
e medica sono inclusi nel contenuto della bioetica. Ma, oltre a questi, molte sono le considerazioni
di ordine filosofico e religioso sul significato, sul valore e sul fine della vita umana nel contesto
della storia degli uomini e dell'ambiente naturale.
Alla base della bioetica vi sono questioni persistenti e difficili che riguardano la determinazione di
ciò che è giusto o ingiusto, legale o illegale, permesso o intollerabile, nella pratica della ricerca
biologica, medica e biotecnologica. A un altro livello della bioetica vi sono molti problemi che
riguardano l'elaborazione di un giudizio morale, individuale e sociale, per il quale la semplice
distinzione tra giusto e sbagliato non può essere immediatamente compresa o unanimemente
riconosciuta da tutte le persone, seppur dotate di buona volontà e ragionevolezza.
Alcuni considerano la bioetica semplicemente una sfera particolare di etica applicata. Mary
Warnock osserva: ‟C'è un senso per il quale la bioetica non è considerata un argomento nuovo. La
bioetica è un tentativo di applicare un vecchio argomento, vale a dire la filosofia morale e politica, a
contenuti nuovi". Se questa è una definizione valida, il dominio delle questioni bioetiche è definito
da ‛nuovi problemi' considerati interni a uno o più campi disciplinari. Ma quali sono questi
problemi? Una risposta è data dai curatori di un'importante pubblicazione annuale, la ‟Bibliography
of bioethics", edita dal Kennedy Institute of Ethics presso la Georgetown University di Washington,
secondo i quali, essendo la bioetica ‟lo studio sistematico delle questioni di valore che emergono
nel campo biomedico o in quello comportamentale", essa si occupa conseguentemente di tre ordini
di problemi: ‟a) l'etica delle relazioni tra medico e paziente; b) i diritti dei pazienti e i temi della
ricerca medica; c) l'elaborazione di giuste direttive dell'intervento statale sia per un'equa cura della
salute che per una corretta distribuzione delle risorse a tal fine destinate" (v. Walters e Kahn, 1994,
p. 1). Qui l'enfasi è posta precisamente ed esclusivamente sulle questioni mediche e
comportamentali. Certamente, tali questioni predominano nel campo riconosciuto come proprio
della bioetica; ma lo esauriscono del tutto? Non c'è distinzione tra bioetica ed etica biomedica?
Alcuni, non riconoscendo alcuna differenza, preferiscono la dizione ‛etica biomedica'; altri la
ritengono invece troppo ristretta. È possibile formulare una definizione più completa?
Warren T. Reich, anch'egli del Kennedy Institute of Ethics, propone una definizione più generale,
nella nuova edizione riveduta, del 1995, della Encyclopedia of bioethics. Egli definisce, infatti, la
bioetica come ‟lo studio sistematico delle dimensioni morali - che includono concezione, condotta,
scelte e politiche - delle scienze della vita e della cura della salute, mediante l'utilizzo di approcci
etici diversi e all'interno di un contesto interdisciplinare" (v. Reich, 1995, vol. I, Introduzione).
Queste parole sono state ovviamente scelte con attenzione. Sono abbastanza specifiche per
restringere la bioetica all'ambito dello studio della vita e della salute umana; ma sono al tempo
stesso sufficientemente capaci di contenere le implicazioni generali di intuizioni, giudizi e
aspirazioni moralmente accettate: una definizione applicabile a diverse culture nazionali, etniche e
religiose del mondo.
Alcuni dei principali argomenti attuali della bioetica erano già familiari alla pratica medica; ad
esempio, l'infanticidio, l'aborto, la disciplina e l'autorità dei medici. Fino al 1970 l'espressione usata
per indicare l'insieme di questi argomenti era ‛buona medicina' o ‛etica medica'. È
convenzionalmente accettato che la parola ‛bioetica' sia stata introdotta da un oncologo
dell'Università del Wisconsin, Van Rensselaer Potter, nel 1971. Probabilmente, per una fortuita
coincidenza, la stessa parola è stata usata nello stesso anno da un ostetrico della Georgetown
University, l'olandese André Hellegers, che, sempre nel 1971, progettò e fondò il Kennedy Institute
of Ethics. Sia Potter che Hellegers vanno riconosciuti come i fondatori della bioetica: il primo ne ha
inventato il nome, il secondo le ha dato larga diffusione e consistenza istituzionale.
Il significato di ‛bioetica' e le sue implicazioni non sono state elaborate allo stesso modo dai due
autori, anche se i loro concetti si sovrapponevano. L'interesse principale di Potter era quello di
trovare le modalità di utilizzo delle nuove conoscenze biologiche allo scopo di migliorare la qualità
dell'esistenza umana e assicurare la sopravvivenza dell'umanità evitando il deterioramento
ambientale e l'inquinamento letale per la vita causato dalle emissioni radioattive delle centrali e
delle armi nucleari. Hellegers condivideva queste preoccupazioni, ma si interessava molto anche dei
problemi etici personali e professionali emergenti nel trattamento clinico di particolari malattie e
nell'utilizzo di alcune terapie. Reich (che era collega di Hellegers) ha spiegato che Potter sperava
nell'evoluzione di nuove intuizioni e norme etiche per il bene generale dell'umanità, mentre
Hellegers voleva utilizzare metodi e teorie etiche già esistenti per risolvere problemi derivanti da
particolari casi clinici. Un'altra differenza tra i due studiosi consiste nel fatto che le idee di Potter
conservarono il carattere di proposta teorica, mentre Hellegers riuscì a dare alle sue concretezza
organizzativa e istituzionale; in breve tempo, infatti, promosse contatti con persone di varia
competenza e titolo accademico. Ed è proprio questo modello interdisciplinare di ricerca bioetica
che si è imposto ovunque si affrontano questioni di bioetica.
b) Organizzazioni e istituzioni
Fino al 1970 esistevano soltanto pochi studi sui problemi etici della medicina e delle scienze della
vita. Alcuni periodici prendevano in esame il nuovo campo di studio, ma nessuno di essi se ne
occupava in modo specifico. Dal 1970 cominciarono ad apparire negli Stati Uniti alcuni saggi sul
comportamento etico dei medici e sui problemi della contraccezione, dell'aborto e della
sperimentazione medica sull'uomo. Si trattava di opere di moralisti cattolici come Gerald Kelly,
Charles J. McFadden, Daniel Callahan, German Grisez, John T. Noonan e Charles Curran. Due
studiosi protestanti, Joseph Fletcher e Paul Ramsey, avviarono un dibattito molto lungo sull'etica
del problema ‛vita e morte': il primo sostenendo una relativistica ‛etica della situazione' (o ‛etica del
contesto'), il secondo attenendosi a un rigoroso conservatorismo. Un'analoga controversia vi fu in
Inghilterra tra Glanville Williams e St. John Stevas. Un medico della scuola di medicina di Harvard,
Henry K. Beecher, aprì la discussione attuale sulla definizione di morte nel contesto della
sperimentazione sull'uomo. E le atrocità dei ‛medici nazisti', denunciate nel corso del processo di
Norimberga, spinsero Jay Katz e altri studiosi ad analizzare i problemi etici della sperimentazione
sull'uomo, sia in Germania sia in altri paesi. Nel 1964 l'Associazione Medica Mondiale aveva già
promosso la cosiddetta ‛Dichiarazione di Helsinki', che conteneva norme rigorose sul ‛consenso
informato' del soggetto coinvolto in tale sperimentazione.
Questi sono stati i principali pionieri e precursori dell'attuale sviluppo della bioetica. Nel 1970 non
era certo prevedibile che nei due decenni successivi sarebbe stato pubblicato un autentico diluvio di
libri, riviste, articoli e saggi su periodici specializzati e sulla stampa quotidiana. Tale interesse
mondiale per la bioetica ha trovato la sua espressione istituzionale, nel 1993, in oltre 350 università,
istituti specializzati e centri medici. Alcuni di questi enti promuovono la ricerca fondamentale,
organizzano conferenze, conferiscono titoli accademici e pubblicano riviste. Altri consigliano i
governi o ne influenzano ufficiosamente la formazione dei programmi e delle leggi. Altri ancora
sono direttamente collegati a chiese o a varie organizzazioni religiose. Anche se ognuna di queste
istituzioni meriterebbe di essere citata, ci limitiamo a ricordare le più note: l'Istituto Siciliano di
Bioetica, Palermo; il Centro di Bioetica, Roma; il Centro di Etica Biomedica, Milano; il Comitato
Nazionale per la Bioetica, Roma; l'Istituto Borja di Bioetica, Barcellona; il Centro di Etica Medica,
Oslo; il Consiglio Danese di Etica, Copenhagen; l'Istituto di Etica Eubios, Tsukuba (Giappone);
molti Centri di Bioetica Umana, Australia; il Centro di Ricerca Bioetica, Dunedin; l'Istituto di Etica
Medica, Londra; il Centro Hastings, New York; il Centro di Etica, Medicina e Questioni Pubbliche,
Houston; il Centro Park Ridge, Chicago; il Centro di Etica Biomedica, Minneapolis. E molti altri.
La bioetica si sviluppa inoltre attraverso relazioni e contatti internazionali, che fanno capo a diverse
organizzazioni: il Consiglio per le Organizzazioni Internazionali di Scienze Mediche (CIOMS),
Ginevra; la Commissione Internazionale di Bioetica dell'UNESCO, Parigi; l'Associazione
Internazionale di Diritto, Etica e Scienze, Parigi; l'Associazione Europea di Centri di Etica Medica,
Lovanio; la Commissione del Consiglio d'Europa, Strasburgo. Una Associazione Internazionale di
Bioetica, con membri di molti paesi, ha la sua sede presso l'Università Monash in Australia. Il
numero di queste istituzioni, centri, commissioni e associazioni continua ad aumentare quanto più la
gente di tutti i paesi presta una crescente attenzione all'importanza della bioetica.
2. Criteri e metodi
a) La nuova genetica
Molto prima della scoperta della struttura dell'acido desossiribonucleico (DNA) nel 1953,
l'osservazione comune e la ricerca scientifica riconoscevano che molti tratti fisici, le anomalie
invalidanti, alcune malattie e persino taluni modelli di comportamento fossero congeniti. Fino al
1953 la genetica era una scienza descrittiva, statistica, basata su genealogie familiari. Dopo la
scoperta del DNA, la genetica divenne una scienza basata sulla biochimica molecolare. Prima,
studiando le storie familiari e registrando il verificarsi di invalidità e di malattie, era possibile
azzardare ipotesi per identificare certi portatori di anomalie genetiche. Ora è possibile determinare
quali portatori siano maschi e quali femmine. Inoltre, le tecniche raffinate per esaminare il sangue
materno, le cellule embrionali e i tessuti fetali, hanno consentito ai ricercatori e agli ostetrici di
predire la condizione del bambino prima della sua nascita. Più recentemente, i genetisti hanno
mostrato la capacità, oltre che di diagnosticare e predire, anche di evitare certe malattie e di
alleviare parzialmente la sofferenza da queste causata. È incoraggiante sapere che circa 200 malattie
causate dai rispettivi geni possono oggi essere identificate e previste prima della nascita. È un
numero piccolo se comparato alle oltre 4.000 varietà di malattie congenite sinora identificate. Ma
un lavoro di ricerca pianificata caratterizza ora il Progetto Genoma Umano, lanciato nel 1989 negli
Stati Uniti. Il progresso verso l'identificazione (mappatura) dei 100.000 geni calcolati nella
molecola di DNA di ogni cellula del corpo è così rapido che tale obiettivo potrà essere raggiunto
molto prima del 2005, anno previsto per il suo completamento. Nel frattempo, la ricerca genetica e
le relative tecniche hanno suscitato notevoli problemi riguardanti le scelte etiche, che obbligano a
un confronto sempre più ampio un crescente numero di donne e uomini, pazienti e medici, avvocati
e teologi, ricercatori e responsabili della politica nazionale.
c) Pre-impianto
La selezione di embrioni da impiantare è impiegata non solo per predire il verificarsi di una malattia
genetica, ma anche e soprattutto per consentire la nascita di bambini senza tali patologie. A Londra,
nel 1992, l'équipe di A. H. Handyside è riuscita a far nascere da genitori portatori dei geni della
fibrosi cistica una bambina priva di tale anomalia. Ciò è stato possibile impiegando in primo luogo
il metodo usuale della fecondazione in vitro di ovuli della moglie con lo sperma del marito. Tre
giorni dopo gli zigoti erano composti di sole quattro o otto cellule. Nelle sei ore disponibili prima
della successiva divisione delle cellule, i ricercatori usarono una siringa microscopica vuota per
estrarre ed esaminare i nuclei delle cellule. Essi poterono rapidamente amplificare singole molecole
di DNA per miliardi di volte mediante la reazione polimerasica a catena (PCR) e poi velocemente
scoprire ed eliminare ogni sequenza che contenesse il gene della fibrosi cistica. La cellula sana
venne rapidamente posta nell'utero della donna, dove si impiantò naturalmente, divenendo un
embrione, poi un feto che nacque senza la fibrosi cistica. Questo esperimento è stato ripetuto da
allora con successo, anche se un notevole numero di embrioni è andato perduto. La procedura è
stata criticata per ragioni morali e religiose, poiché implica ciò che secondo alcuni è un aborto.
Questo punto è discusso da alcuni embriologi, che distinguono tra pre-embrione ed embrione. Essi
sostengono che fino al quattordicesimo giorno della gestazione le cellule sono totipotenti, ognuna di
esse, cioè, può dar origine a un intero organismo. Esiste ancora la possibilità della gemellazione
monozigotica con lo sviluppo di un identico genoma. Dopo tale stadio, con l'impianto nella parete
uterina, il pre-embrione diviene embrione e solo da questo momento, secondo alcuni, si può parlare
di aborto. Ma questa tesi è fortemente criticata. Altri considerano le nascite con buon esito come la
premessa dello sviluppo di un modo più efficiente, meno costoso, facilmente disponibile, per evitare
altre malattie genetiche. Questo non è, comunque, un esempio di reale terapia genica.
d) Terapia genica
La terapia genica differisce dalla modifica degli embrioni effettuata precedentemente al loro
impianto in quanto riguarda i pazienti che manifestano già una patologia. Ciò richiede la
modificazione del materiale genetico di certe cellule del corpo, sia eliminando i geni che causano la
malattia e sostituendoli con altri sani, sia introducendo i geni necessari nei siti specifici
dell'organismo. La prima applicazione sull'uomo (dopo la ricerca sull'animale) fu condotta nel 1991
da W. French Anderson dei National Institutes of Health statunitensi. Fu preceduta da parecchi anni
di revisione regolamentare estremamente cauta, ed ebbe successo. La malattia in questione,
veramente rara e altrimenti incurabile, è dovuta a deficit dell'enzima adenosin-deaminasi (ADA). La
procedura implicò un trapianto di midollo osseo secondo le metodiche sviluppate per il trattamento
di alcune forme di cancro, in seguito al quale le cellule del sangue contenenti il gene letale vennero
sostituite da cellule in grado di produrre l'enzima. Nello stesso anno un'équipe di ricercatori di
Milano ricevette l'approvazione dal Comitato Nazionale per la Bioetica per il trattamento
terapeutico di una ragazza affetta dalla stessa malattia. Da allora si è entrati nella fase da tempo
attesa della terapia genica, che ha avviato la ricerca di protocolli per un certo numero di malattie, tra
le quali alcuni tipi di cancro.
Va sottolineata l'importante distinzione tra cellule somatiche e cellule germinali (sessuali).
Attualmente la terapia genica è limitata alle cellule somatiche di un individuo, per il beneficio della
sola persona su cui si interviene, ed esclude, invece, le cellule degli organi riproduttivi del corpo,
maschili o femminili. Ogni alterazione genetica delle cellule sessuali potrebbe modificare
irreversibilmente un numero indeterminato di generazioni successive. Tuttavia, è stato detto che con
il perfezionamento delle tecniche si potrebbero eliminare le malattie congenite e ciò
rappresenterebbe un progresso di eccezionale rilevanza. Ma gli oppositori di questa tesi hanno
variamente argomentato negli ultimi vent'anni che i rischi e i pericoli possibili sono troppo grandi.
Non si può infatti sapere in anticipo quali mutazioni ed effetti collaterali dannosi potrebbero
derivare dalla manipolazione dei geni. Essi indicano come esempio le conseguenze devastanti
dell'ignoranza e dei rischi presenti nei campi della chimica industriale, farmaceutica e dell'energia
nucleare. Inoltre il tempo generazionale della riproduzione umana è troppo lungo per consentire il
tipo di sperimentazione attuabile su topi o altri piccoli animali. A ciò va aggiunto che le
manipolazioni sulla linea germinale per la correzione di malattie potrebbero aprire la strada a
tentativi di modificare i caratteri umani a scopi eugenetici. Per queste ragioni la ricerca sulla linea
germinale è fortemente contrastata dalle Chiese e da molte commissioni nazionali di bioetica.
Fortunatamente per la causa che sostengono questi ultimi, i genetisti dicono che la tecnica di
laboratorio per modificare le cellule della linea germinale non è ancora conosciuta. Tuttavia è
ipotizzabile per il futuro lo sviluppo di una tecnica priva dei danni temuti: ma questa è solo una
possibilità teorica. Allo stato attuale un documento del 1994 elaborato dalla Convenzione per la
Bioetica del Consiglio d'Europa vieta ogni manipolazione sulle cellule germinali.
Il miglioramento eugenetico dei caratteri e del comportamento umano è materia connessa con la
terapia genica. L'ingegneria genetica è vista come un nuovo strumento per realizzare un vecchio
sogno - il perfezionamento delle caratteristiche e delle capacità fisiche. In effetti, quando agli inizi
del XX secolo la scienza genetica era ancora giovane, la motivazione eugenetica era molto forte.
e) Eugenetica
Le pratiche sociali di alcuni programmi politici hanno spesso enfatizzato la ‛buona' procreazione e
l'eliminazione di etnie ritenute pregiudizialmente pericolose mediante restrizioni migratorie o
sterilizzazione dei deboli e ritardati mentali arrivando fino allo sterminio di intere popolazioni di
uomini considerate ‛inferiori'. La storia delle atrocità della Germania nazista commesse nel nome
dell'eugenetica è la più aberrante nella storia moderna ed essa riemerge nel ricordo di molte persone
che oggi, con l'ingegneria genetica, vedono ritornare con nuove potenzialità l'ideologia
dell'eugenetica.
Queste potenzialità si sono già manifestate nel campo della genetica animale non umana.
Combinando geni di specie animali diverse, come pecore e capre, sono stati prodotti ibridi
transgenici. Trattando i gameti di topo con gli ormoni umani della crescita sono stati prodotti topi
giganti. L' ‛onco-topo', prodotto dall'ingegneria genetica per lo studio del cancro, è stato il primo
animale a essere effettivamente ‛brevettato' nel 1988. Attualmente sono disponibili nei laboratori
specializzati più di 100 topi transgenici dotati di differenti caratteristiche genetiche. Le tecniche di
ingegneria genetica hanno permesso di ottenere esemplari capaci di generare una prole con un
minore quantitativo di grassi. Grazie ad allevamenti selezionati per la produzione di latte e carni
sono diventati normalmente commerciabili prodotti geneticamente manipolati. Utilizzando tecniche
come l'inseminazione artificiale, la clonazione di embrioni e il loro impianto nell'utero di mucche-
madri sostitutive, gli allevatori di bestiame hanno migliorato la qualità e hanno aumentato la
quantità dei capi. Poiché i Mammiferi hanno molti geni e gran parte della morfologia in comune, ci
si chiede: ‟Perché non usare questi stessi metodi a beneficio di esseri umani più forti, più sani, più
intelligenti?"
Alcune cliniche per la fertilità e banche di seme maschile per l'inseminazione artificiale già
promettono di facilitare la nascita di bambini straordinari, dotati di geni che assicurano il
miglioramento eugenetico. La teoria che sostiene tali offerte è discutibile, anche se alcuni vi
credono.
L'aumento di statura di bambini in crescita è oggi stimolato dall'ormone umano della crescita (il
fattore VIII), prodotto dall'ingegneria genetica e disponibile in commercio. Questo fatto riguarda
l'eugenetica o la cosmetica? O entrambe? Le persone alte sono generalmente considerate più belle e
sessualmente più attraenti di quelle di bassa statura. Esse hanno inoltre un provato vantaggio
economico come lavoratori, atleti professionisti e uomini d'affari. Da ciò si può ricavare che la
statura alta è considerata un fattore di importanza ben maggiore della bellezza pura e semplice.
L'ideologia popolare della supremazia genetica pone la questione antropologica dell'identità e del
valore dell'uomo. Essa influisce sul reciproco rispetto delle persone nelle società umane, nelle
nazioni e nel mondo. I nemici politici e militari vengono molto disprezzati quando le persone che si
autodefiniscono ‛superiori' li chiamano ‛inferiori', con etichette discriminatorie. I disabili con
handicaps congeniti sono spesso considerati inferiori e una minaccia per la popolazione sana. Fin
troppo frequentemente il pregiudizio della superiorità razziale è espresso da comportamenti
individuali e sociali spregevoli. È molto improbabile che possano avere successo programmi sociali
finalizzati al miglioramento di ogni aspetto della condizione umana. Ma singoli ricercatori, guidati
dalla naturale curiosità e non frenati da codici morali o religiosi, tenteranno ancora di migliorare la
natura umana. Tuttavia, questo loro intento può essere limitato da leggi dello Stato, come quella
francese del 1994 che recita: ‟Toute pratique eugénique tendant à l'organisation de la sélection des
personnes est interdite" (è vietata ogni pratica eugenetica mirante a organizzare la selezione delle
persone).
f) Brevetti
Il brevetto dei geni crea problemi nuovi per la filosofia, il diritto, l'etica e la teologia. La protezione
della ‛proprietà intellettuale' di un soggetto è la ragione che giustifica i diritti d'autore e i brevetti.
Ma vi sono differenze tra le nazioni riguardo a quali proprietà siano legittimamente soggette a una
protezione esclusiva per l'inventore. Vi sono inoltre differenze nella distinzione tra le ‛scoperte' di
fenomeni naturali e le ‛invenzioni'. Nel campo della botanica, una specie di pianta recentemente
osservata e classificata non può essere brevettata. Mentre una pianta ibrida che non esiste in natura,
ma che esiste per l'ingegnosità umana nella ricerca, può essere brevettata. Quest'ultima prassi è stata
ammessa da molti anni in agricoltura per la produzione di semi. Ma la manipolazione genetica del
‛seme' degli animali, e in particolare dell'uomo, può essere, per analogia, accettata negli stessi
termini? La questione è estremamente complessa e molto dibattuta. Vi è una grande differenza, pari
alle estensioni degli oceani che li separano, tra le relative scelte specifiche degli Stati Uniti,
dell'Europa e dell'Asia. Le Nazioni Unite hanno istituito una Organizzazione Mondiale per la
Proprietà Intellettuale al fine di cercare accordi che dovrebbero escludere conflitti e controversie
sull'uso del materiale genetico. Il dissenso degli Europei nei confronti dei brevetti è stato espresso
da Daniel Cohen, il principale genetista del Centro di Studi sul Polimorfismo Umano di Parigi. Egli
ritiene che il genoma umano appartenga a tutta l'umanità, così come tutte le stelle. Questa
concezione prevalente in Europa è stata formulata in una conferenza generale sul genoma umano
svoltasi nel 1993 a Bilbao, in Spagna. In essa venne dichiarato: ‟La conoscenza genetica è retaggio
dell'umanità e dovrebbe circolare liberamente". Il dibattito internazionale continua, poiché
l'importanza della genetica cresce costantemente.
g) Riproduzione assistita
L'inseminazione artificiale iniziò nel 1776, quando Lazzaro Spallanzani introdusse il seme di un
cane nell'utero di una cagna. Due secoli dopo, la procedura è divenuta di ordinaria amministrazione,
ma le sue varianti si sono moltiplicate. Non c'è solo una possibilità per una donna infeconda che
voglia essere resa gravida dall'iniezione di sperma del marito o dalla fecondazione in vitro e
successivo impianto dell'embrione. Il gamete può provenire da un secondo uomo anonimo, più
spesso un venditore che un ‛donatore', essendo il marito funzionalmente sterile; oppure la donna
può non avere un marito, sia per scelta sia per necessità, come nel caso di una omosessuale che
abbia un consolidato rapporto di coppia. Lo sperma usato per l'inseminazione è più spesso
congelato che fresco, e viene acquistato da una banca, di frequente non regolamentata, che lo
commercializza. Per alcune donne che credono nell'eugenetica, la descrizione del donatore
anonimo, fornita insieme allo sperma, consente una ‛scelta germinale' che soddisfa i loro desideri.
Se lo sperma del marito è stato intenzionalmente congelato per un lungo periodo, potrebbe essere
usato in un periodo successivo, a seconda dei progetti della coppia; oppure potrebbe essere usato in
qualsiasi momento dalla moglie, dopo la morte prematura del marito.
Di converso, l'ovulo, o gli ovuli, potrebbero essere ‛donati' da una seconda donna per essere
fecondati in vitro dallo sperma del marito ed essere posti nell'utero di sua moglie. Ma se questa è
fisicamente incapace di portare a termine la gravidanza, la coppia può trasferire l'ovulo fecondato in
vitro nell'utero di una seconda ‛madre' sostitutiva. Queste non sono le uniche varianti possibili della
procreazione assistita, e le procedure non sono così semplici e meccaniche come potrebbero
sembrare. Gli uomini e specialmente le donne devono mettere in conto le condizioni di stress che
determinano in loro la necessaria preparazione clinica, il prelievo di uno o più ovuli, l'assunzione di
ormoni, nonché l'alto costo sia emotivo che economico della procedura e la semplice ma frequente
eventualità di non raggiungere lo scopo della gravidanza e della nascita. E anche dopo l'esito
positivo della nascita di bambini, permangono incertezze psicologiche e legali connesse con
l'anonimato di un padre gametico, o con la legalità della madre sostitutiva, così come i problemi
circa i diritti di eredità.
Poiché la pratica della procreazione assistita continua a diffondersi, specialmente nell'Europa
occidentale, nel Nordamerica, in Australia e in Nuova Zelanda, le relative discussioni e controversie
si sono incentrate su tre interrogativi: 1) è moralmente accettabile? 2) è legale? 3) come può essere
regolata? Ma non possono essere date risposte esaustive da persone che muovono da diversi punti di
vista a causa delle necessarie distinzioni tra le varie tecniche di riproduzione assistita.
Evidentemente la valutazione più coerente e insieme più negativa della procreazione assistita è
quella espressa dalle autorità vaticane nella Donum vitae, o Istruzione su Il rispetto della vita umana
nascente e la dignità della procreazione, del 1987. Giudizi ponderati e diversificati relativamente
alle varie tecniche vengono esclusi, poiché tutte violano la regola essenziale del rapporto sessuale,
ossia l'unione di coppie di sposi che salvaguardano la possibilità della fecondazione.
L'inseminazione artificiale è vietata perché implicherebbe necessariamente la masturbazione. La
maternità sostitutiva aggrava lo scandalo. Queste proibizioni si basano tanto sul concetto che la
Chiesa cattolica romana ha della vita, considerata santa perché donata da Dio, quanto sui concetti
del diritto naturale. Tali concetti appartengono all' ‛etica primaria' (o seamless robe, vestimento
primario) del rispetto e difesa della vita umana. Infatti, l'attribuzione di un valore inestimabile alla
vita umana, fin dal suo primo inizio con la fecondazione, non è motivata soltanto dalla
considerazione della vita biologica dell'uovo fecondato, ma anche dal suo essere persona
potenzialmente portatrice di proprie finalità. Esiste inoltre una tecnica ritenuta permissibile dalla
Chiesa e denominata Gamete Intra-Fallopian Transfer (GIFT o trasferimento del gamete nelle tube
di Falloppio) la quale facilita la fecondazione. A tal proposito alcuni teologi morali cattolici hanno
infatti sostenuto che l'inseminazione artificiale con l'uso dello sperma del marito dovrebbe essere
permessa poiché essa esalta il vero significato del matrimonio sacramentale mediante l'ottenimento
della benedizione divina costituita dalla procreazione. L'Istruzione vaticana, inoltre, esorta i membri
della Chiesa a usare la loro influenza ‛politica' al fine di scoraggiare la procreazione assistita e
questo invito è risultato efficace particolarmente in Germania, Austria e Italia. Tuttavia, molti fedeli
cattolici, senza figli e sterili, ritengono che la norma religiosa sia troppo restrittiva per essere
rispettata.
Anche la Chiesa ortodossa orientale disapprova la fecondazione in vitro e le ‛madri' sostitutive, ma
ammette l'inseminazione artificiale con lo sperma del marito in una coppia sposata. I luterani
generalmente sono d'accordo con gli ortodossi. Altre chiese protestanti prendono diverse posizioni,
ma nessuna di queste posizioni è appoggiata da un'autorevole struttura di insegnamento
paragonabile al magisterium cattolico. Le loro concezioni morali sulla procreazione sono
fortemente influenzate dal rispetto dei diritti della donna a decidere. Le leggi morali ebraiche sono
generalmente permissive per quanto riguarda l'inseminazione assistita con lo sperma del marito,
così come per la fecondazione in vitro. Gli Ebrei riformati e gli Ebrei conservatori sono in
disaccordo tra loro circa la legittimità dell'uso di gameti di donatori. E la maternità sostitutiva è
accettata a determinate condizioni. Le leggi attuali nel mondo dell'Islam sono molto simili alla
posizione ebraica.
Lasciando da parte tutte le obiezioni morali alla procreazione assistita basate sulla religione, i
ricercatori che sono guidati solo da decisioni prudenziali o utilitaristiche hanno introdotto
recentemente nuove tecniche controverse. Una è il prelievo degli ovociti dai corpi di donne morenti
o morte da poco: essendo ancora vitali, sono utilizzabili per la fecondazione in vitro e l'impianto
nell'utero di un'altra donna che può essere anche molto più anziana rispetto all'età normale per il
concepimento. Nel caso di Sarah, la moglie di Abramo, il concepimento fu considerato un miracolo.
Ma nel 1993 una donna inglese di 58 anni conobbe la maternità grazie alla donazione di ovulo e
dopo trattamento in una clinica della fertilità a Roma. Vi fu allora una reazione di protesta
nell'opinione pubblica, preoccupata per il benessere futuro del bambino perché privato delle cure
adeguate possibili soltanto a genitori giovani. Le femministe invece difesero l'iniziativa della donna
in base al principio dell'autonomia decisionale, secondo il quale le donne di età avanzata hanno lo
stesso diritto degli uomini anziani di diventare genitori. Questo principio trova sempre più sostegno
e applicazione, poiché molte donne impegnate nelle professioni differiscono la loro maternità a
dopo i 40 anni di età. Altri casi singolari, come quello della nonna che è stata madre sostitutiva del
bambino della figlia, mostrano che modi ingegnosi di riproduzione sfideranno e disorienteranno
sempre più la morale tradizionale.
h) Embrioni e feti
Connessi coi problemi bioetici della procreazione, sono i problemi originati dall'uso di embrioni e
feti per scopi non procreativi, ma terapeutici e di ricerca. È il caso dell'uso di cellule prelevate da
feti abortiti, da utilizzare per trapianti intracerebrali in soggetti affetti dal morbo di Parkinson o
dalla malattia di Alzheimer. L'altra questione concerne la produzione intenzionale in vitro di
embrioni umani, non finalizzata alla successiva gestazione in utero, ma soltanto alla ricerca
sperimentale. Poiché il prelievo di cellule da feti implica necessariamente l'aborto intenzionale, gli
Stati Uniti hanno proibito finanziamenti pubblici a ricerche e terapie che utilizzano tessuto fetale
proveniente da aborto. Alcuni conservatori hanno addirittura contestato questa decisione
governativa, obiettando che il tessuto fetale in effetti proviene da un cadavere. Ma se il tessuto è
prelevato da un feto abortito ancora in vita (o considerato tale), allora il problema diventa molto più
serio. Nonostante la controversia ancora in atto, nel 1993 il precedente divieto è stato revocato.
Questa decisione ha incoraggiato quelli che sono favorevoli sia all'uso terapeutico degli embrioni
umani, sia alla loro produzione artificiale a scopo di ricerca pura. Costoro sostengono che i benefici
medici per la società saranno tali da far superare facilmente l'innato sentimento di repulsione per
simili manipolazioni oppure l'opposizione ad esse degli studiosi di morale. Tuttavia, in Francia una
legge del 1994 considera la produzione di embrioni un crimine, punibile con carcere e pene
pecuniarie, e anche altri paesi hanno leggi simili.
Il problema fondamentale e insolubile, connesso a tutti gli interrogativi etici concernenti la
procreazione, è quello dell'aborto volontario. Il fatto che si calcoli avvengano quaranta milioni di
aborti all'anno è un segno evidente dell'impotenza dell'insegnamento religioso e della legge civile
nel dissuadere le donne dalla scelta di interrompere la gravidanza. Negli Stati Uniti la questione
dell'aborto è una fonte primaria di contrasto politico. In Cina l'aborto è divenuto lo strumento
politico per il controllo demografico. E la Conferenza delle Nazioni Unite su Popolazione e
Sviluppo tenutasi al Cairo nel settembre del 1994 ha mostrato quanto l'aborto sia un problema
globale.
a) La definizione di morte
Del βίος della bioetica non si può trattare in modo esauriente senza una pari considerazione di
ϑάνατος, parola greca che significa morte. Da poco tempo si è, infatti, sviluppato uno studio
sistematico della morte, detto ‛tanatologia', che comprende non solo gli aspetti scientifici e medici
del morire e della morte ma anche quelli sociali, culturali, legali, filosofici e religiosi. Tutte queste
implicazioni dell'essere l'uomo mortale hanno impegnato il suo pensiero sin dall'inizio della civiltà.
Ma solo nella seconda metà di questo secolo la nuova dimensione tecnica e scientifica della
medicina, esemplificabile con la tecnologia del mantenimento in vita mediante trapianti d'organo o
tessuti, oppure con la conservazione dell'attività cardiaca e metabolica mediante macchine o
farmaci, ha prodotto nuove, possibili e alternative definizioni del concetto di morte.
Nella maggior parte dei paesi si registra un crescente consenso sul concetto secondo il quale lo stato
di morte di un corpo, se non il ‛momento della morte' di una persona, non possa essere accertato
solo sulla base della cessazione della respirazione spontanea e della circolazione sanguigna, in
quanto gli strumenti clinici devono inoltre indicare in modo inequivocabile che sono cessate in
modo irreversibile tutte le funzioni cerebrali, sia a livello della corteccia sia del tronco dell'encefalo.
Le leggi emanate dagli Stati che hanno adottato questo più ampio criterio per definire lo stato di
morte arrivano in taluni casi a specificare l'intervallo temporale minimo di durata della suddetta
condizione. La relativa legge italiana del 1993 stabilisce un tempo di sei ore. Dopo questo tempo, il
corpo non presenta alcun segno di attività neurologica riflessa né di risposta a stimoli esterni di
qualsiasi entità.
Negli anni scorsi si parlava spesso della paura di alcune persone di essere sepolte ancora vive e
considerate, invece, decedute perché le loro funzioni fisiche percepibili risultavano ridotte al
minimo: ad esempio, in seguito a overdose di droghe, a semiannegamento o a ipotermia corporea.
Ai nostri giorni la paura più diffusa è quella che le persone colpite da un trauma cranico possano
entrare in coma profondo o nel cosiddetto ‛stato vegetativo persistente' dal quale è molto
improbabile riprendersi. Quando le funzioni corticali superiori cessano del tutto, il tronco
dell'encefalo può talvolta continuare a presiedere alle attività cardiaca, polmonare e metabolica;
oppure queste attività cessano e allora il corpo è nella condizione di ‛morte cerebrale'. La
ventilazione meccanica può conservare sufficientemente attivi il cuore e i polmoni, prevenendo in
tal modo il deterioramento di organi che possono anche essere utilizzati per trapianti in altri
organismi viventi.
La regolamentazione imposta dalle leggi sulla morte cerebrale sta contribuendo a rendere il
trapianto di organi una procedura abituale nei paesi avanzati in campo medico. Da quando fu
eseguito il primo trapianto di rene, i progressi sono stati sorprendentemente rapidi. Oggi si
trapiantano cuore, polmone, fegato, cornea, ossa, pelle e altri organi e tessuti. Due tipi di
limitazione fanno però emergere gravi problemi etici e legali: il primo riguarda il tempo che
intercorre tra l'espianto e il trapianto, che deve essere necessariamente breve perché i tessuti si
conservino vitali. Questa limitazione temporale può indurre nella tentazione di intervenire sui corpi
dei possibili donatori prima che tutte le condizioni critiche della morte siano state osservate. L'altra
limitazione è costituita dalla scarsità di organi donati, poiché molti paesi ne proibiscono il
commercio.
Un altro aspetto della controversia riguarda la perenne questione teologica della relazione tra mente
e cervello e tra corpo e anima. Secondo la tradizione biblica, la persona umana è la totalità di queste
dimensioni. Esse costituiscono l'unità della persona. Al contrario, nella concezione dualistica della
vita, la dimensione essenziale è l'anima o lo spirito. Questo sopravvive alla morte del corpo e può
anche trasmigrare in un altro corpo, come per il pensiero indù. La distinzione e la differenza tra
queste due concezioni sono molto importanti. Spesso si contrappongono la concezione
materialistica della vita e la concezione spiritualistica. A ben vedere, entrambe si oppongono alla
concezione biblica fondamentale dell'unità corpo-spirito. Quando, parlando dell'identità personale
di un corpo cerebralmente morto, ci si riferisce a queste tre concezioni, esse richiamano alla mente
le rispettive interpretazioni di che cosa sia una persona. I materialisti considerano il corpo umano in
tale condizione privo di ‛personalità giuridica' o ‛statuto personale' (personhood) poiché la corteccia
cerebrale non funziona più, e di conseguenza alcuni di essi dichiarerebbero morto un corpo in coma.
Gli spiritualisti invece affermano: ‟È morto", nel senso che ‟ha lasciato il suo corpo" ma ha
conservato l'identità del suo spirito. Chi crede inoltre nell'unità integrale di spirito e corpo o
nell'unità psicosomatica della persona, riconosce la morte dell'intera persona, del proprio sé (Self) e
ripone speranza e fede nella resurrezione della persona trasformata dalla volontà e dalla potenza di
Dio. Queste concezioni filosofiche e religiose non hanno effetto alcuno sui criteri clinici della morte
somatica, ma danno forma alla nostra interpretazione personale del suo significato.
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Ospedale
Il termine ospedale (derivato del latino hospitale, neutro sostantivato dell'aggettivo hospitalis,
"ospitale", con il senso di "alloggio per forestieri") indicava in origine l'ospizio per forestieri e il
ricovero per poveri, anziani e trovatelli; attualmente con questo termine si identifica l'edificio,
oppure il complesso di edifici, destinato all'assistenza sanitaria dei cittadini e, quindi,
adeguatamente attrezzato per il ricovero, il mantenimento e le cure, tanto cliniche quanto
chirurgiche, di ammalati e feriti.
sommario: Dall'hospitalitas alla sanità pubblica. 1. L'assistenza agli infermi. 2. Verso una
specializzazione dei luoghi di cura. 3. Orientamenti recenti. Aspetti e problemi dell'assistenza
ospedaliera. L'ospedale psichiatrico. □ Bibliografia.
3. Orientamenti recenti
Sino agli ultimi anni del 19° secolo le potenzialità assistenziali dell'ospedale con riguardo sia alla
diagnostica sia alla terapia non differivano sostanzialmente da quelle del domicilio. Infusi, pozioni,
estratti, salassi, come pure le prime specialità della nascente industria farmaceutica, potevano essere
somministrati nell'uno o nell'altro ambiente con risultati analoghi. L'esercizio della professione
medica si svolgeva soprattutto entro le mura domestiche e il ricovero era riservato a quanti erano
sprovvisti di mezzi economici per garantirsi l'assistenza a domicilio. Tali condizioni si modificano
molto rapidamente nel 20° secolo, nel periodo compreso tra le due guerre, in virtù dell'introduzione
di più avanzati mezzi diagnostici e terapeutici. Il modello della clinica universitaria, dotata di
laboratori e ambulatori a indirizzo specialistico, diviene il riferimento organizzativo e funzionale
degli istituti di ricovero: ciò determina un mutamento sostanziale nel rapporto medico/paziente in
favore di un'articolazione delle competenze che vede diversi soggetti intorno al letto del malato.
Nel secondo dopoguerra si va precisando l'esigenza di un'organizzazione del sistema sanitario
nazionale secondo presidi territoriali, in grado di assicurare alla popolazione omogenee condizioni
di accesso all'assistenza. Con la legge di riforma del 23 dicembre 1978, nr. 833, concepita nel segno
del trasferimento delle competenze alle Regioni e del decentramento amministrativo, tale processo
di riorganizzazione e ristrutturazione delle attrezzature esistenti vede finalmente la luce: la gestione
unitaria dei problemi di tutela della salute viene demandata alle neoistituite Unità sanitarie locali
(USL, o Consorzi sociosanitari), definite dalla legge 'strutture operative dei Comuni'.
L'articolazione interna delle USL, su base territoriale, fa riferimento a un'organizzazione dell'offerta
sanitaria secondo bacini di utenza via via crescenti con il livello di complessità dei servizi erogati:
alla 'area elementare' (5000-10.000 abitanti) afferiscono i servizi sociosanitari di base che operano a
diretto contatto con l'utenza; al livello di 'distretto' (10.000-20.000 abitanti, con oscillazioni tra 5000
e 50.000 in relazione al tipo di realtà, rurale o urbana) sono attivi i servizi integrativi di quelli di
base, di rango più elevato, che prevedono poliambulatori con compiti di filtro alla specializzazione,
di recupero dei de-ospedalizzati e di organizzazione di quell'insieme di servizi di base a cui
dovrebbero appoggiarsi la medicina preventiva e le attività igienico-profilattiche; a scala di
'consorzio' per bacini di utenza compresi tra 50.000 e 200.000 abitanti (coincidenti con gli ambiti
territoriali delle USL) operano invece quegli organismi - tipicamente le strutture ospedaliere - cui
spetta fornire un sostegno e un'integrazione dei servizi diffusi sul territorio. Vi sono infine
attrezzature di rango superiore destinate all'assolvimento di funzioni complesse e correlate con
bacini più estesi delle USL in ragione della loro rarità, che in alcune leggi regionali figurano con la
denominazione di 'dipartimenti'. I processi di riorganizzazione e di integrazione funzionale innescati
dalla riforma sanitaria avrebbero dovuto comportare risultati concreti sul piano della
razionalizzazione della spesa pubblica, ponendo al contempo le basi per la predisposizione di un
quadro conoscitivo preciso e aggiornabile in termini di programmazione triennale da parte dello
Stato, e per l'avvio di procedure finalizzate a individuare nuove domande di intervento in favore del
settore.
Anche in relazione a tali presupposti, le distinzioni tipologiche che avevano presieduto alla
progettazione 'scientifica' dei complessi ospedalieri tendono oggi a stemperarsi sotto l'incalzare
delle nuove esigenze di flessibilità e adattabilità degli spazi: la sperimentazione architettonica si è
avviata verso l'elaborazione di schemi modulari definiti per dimensioni, caratteristiche tecniche e
tecnologiche tali da consentire costi e tempi esecutivi contenuti, in virtù di una più efficace
connessione tra fase ideativa e fase realizzativa. Il ricorso a moduli funzionali di tipo semilavorato
(per es., strutture portanti, impianti e attrezzature), che si sono affermati penalizzando in qualche
misura la libertà progettuale, consente di fatto una maggiore latitudine e flessibilità di impiego sia
nei riguardi di eventuali completamenti all'interno delle cellule elementari, sia in relazione a vere e
proprie esigenze di ampliamento delle sedi ospedaliere per aggregazioni successive.
Un ulteriore campo di riflessione riguarda i portati disumanizzanti della 'macchina ospedaliera'. La
questione si pone soprattutto nel caso di reparti di lungodegenza e di riabilitazione, dove non va
sottovalutata la componente psicologica nei riguardi del decorso della malattia; le sperimentazioni,
intese a evitare che ai disagi della sofferenza fisica si sovrappongano stati di demoralizzazione e di
rifiuto da parte del paziente, agiscono nel segno della costruzione di uno spazio sociale che
favorisca condizioni di convivenza nel microcosmo interno e di scambio con il mondo esterno dei
visitatori. Nel caso dell'Academic hospital di Amsterdam, realizzato negli anni Ottanta del 20°
secolo con una capienza di ben 800 posti letto, la soluzione tipologica adottata consiste in un
insieme articolato di blocchi di degenza aperti mediante ballatoi su corti interne, che svolgono la
funzione di centri di ritrovo con giardini d'inverno, esercizi commerciali e altre attrezzature
collettive. Ma il traguardo più impegnativo è altrove: il cittadino chiede al sistema sanitario di
assicurare l'efficienza dei servizi. Con d. legisl. 30 dicembre 1992, nr. 502, viene affidato alle
Regioni il compito di ridefinirne le linee organizzative a livello territoriale e di svolgere attività di
indirizzo e controllo nei confronti delle neoistituite Aziende sanitarie locali (ASL), definite 'enti
strumentali delle Regioni' (in sostituzione delle USL), e delle Aziende ospedaliere (a loro volta esito
di una ristrutturazione degli ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione, dei policlinici
universitari e dei presidi ospedalieri, sedi del triennio clinico di formazione delle Facoltà di
medicina); tali strutture sono dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia economico-
finanziaria, organizzativa e tecnica.
Contestualmente è stato introdotto anche in Italia il concetto di 'qualità della prestazione', intesa non
come un attributo generico dei servizi erogati, ma come una caratteristica specifica dei macro- e dei
microprocessi che costituiscono le attività sanitarie stesse; tale nozione è stata mutuata dalle
tecniche di verifica e revisione di qualità (VRQ) messe a punto nei paesi anglosassoni inizialmente
per la valutazione dei procedimenti di produzione industriale e, poi, estese al settore della sanità a
partire dal secondo dopoguerra.
Anche in questa particolare accezione, la qualità viene valutata attraverso tre distinti criteri: sulla
base del primo, da cui dipende l'accreditamento della struttura, ossia il riconoscimento formale da
parte di un organismo abilitato dallo Stato a svolgere quelle determinate attività, ne vengono
verificati i requisiti in termini di risorse e attrezzature a disposizione rispetto a un modello assunto
come standard; il secondo criterio, che chiama in causa meccanismi di valutazione più difficilmente
oggettivabili, fa riferimento ai 'processi', ossia all'insieme delle operazioni e dei procedimenti
operativi, tecnici, professionali e amministrativi della struttura; il terzo infine attiene ai risultati
(outcomes) delle cure mediche, in modo da poter inferire le caratteristiche della struttura che ha
erogato le cure. Le attività di VRQ in Italia sono regolate da una serie di norme contrattuali per il
personale dipendente e convenzionato che hanno disposto la costituzione di appositi organismi
collegiali operanti a livello nazionale, regionale e di ASL. In particolare, a livello regionale, cui
compete la predisposizione di linee-guida che precisino i requisiti strutturali, tecnologici e
organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie, la commissione incaricata è tenuta a
verificare: l'adeguatezza delle strutture, delle attrezzature e del personale; la correttezza delle
procedure e delle prestazioni; i risultati raggiunti rispetto ai bisogni dei cittadini.
Sempre a livello regionale, apposite commissioni professionali, previste dagli accordi collettivi
nazionali per la regolamentazione dei rapporti con i medici di base e gli specialisti ambulatoriali,
hanno il compito di definire gli standard medi assistenziali, di fissare i parametri di spesa regionale,
intesi come dati indicativi per il comportamento prescrittivo dei medici, e di stabilire le procedure di
verifica di qualità dell'assistenza. In Italia, la spesa devoluta alla sanità, a fronte del principio
costituzionale secondo il quale "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e interesse della collettività" (art. 32), ha oggi un'incidenza limitata sul prodotto
interno lordo in confronto con altre realtà europee. Le strutture ospedaliere pubbliche manifestano
tuttora forti diseconomie e gravi inefficienze, riferibili al costo elevato delle prestazioni a carico
dello Stato, al limitato volume di lavoro rispetto alle potenzialità delle attrezzature e del personale,
nonché alle carenze di controlli ambulatoriali dei pazienti dopo la dimissione. L'obiettivo di ridurre
la durata della degenza viene oggi perseguito dalle Regioni attraverso l'introduzione di un nuovo
meccanismo di rimborso alle strutture ospedaliere, non più in relazione ai giorni di degenza ma in
base a un prezzo stabilito convenzionalmente, che risulta onnicomprensivo per episodio di malattia.
Riemergono alcune tematiche che la riforma del 1978 non ha saputo pienamente affrontare, come
l'esigenza di un maggiore contatto con i servizi di base, i cui interventi dovrebbero caratterizzarsi
prevalentemente in senso preventivo, e la conseguente riconversione di quote di posti-letto in
servizi poliambulatoriali e di tipo diurno.
Vi sono anche altri motivi per incoraggiare opzioni di questo tipo: l'attenzione a un modello di
medicina incentrato sul paziente (patient centered), che si traduce nella pratica in una medicina più
umana e attenta agli aspetti di comunicazione, può contribuire a correggere il riduzionismo del
modello tradizionale incentrato sulla malattia (disease centered), integrandolo con il riferimento al
vissuto del malato quale dato imprescindibile di ogni intervento clinico.
La funzione dell'ospedale come s'intende oggi non si esaurisce nel ricovero, nella diagnosi e nella
cura dei malati: l'istituzione mira al recupero e alla rieducazione funzionale dell'infermo
(riabilitazione), ma anche alla prevenzione mediante la diagnosi precoce, alla preparazione
professionale del personale sanitario e tecnico, alla promozione dell'educazione igienico-sanitaria
del malato e del suo nucleo familiare, in modo che la salute possa essere conservata anche a
dimissioni avvenute. Il perfezionamento delle tecniche diagnostiche e terapeutiche ha inoltre
contribuito a un'evoluzione dei servizi ospedalieri, imponendo l'esigenza di tipologie sempre più
rispondenti alle diverse necessità (centri di terapia intensiva, servizi ambulatoriali specialistici, day
hospitals medici e chirurgici, reparti operatori per trapianti, per interventi di cardiochirurgia ecc.).
La recente organizzazione degli ospedali in aziende ospedaliere (aziendalizzazione) che, secondo la
nuova normativa europea (recepita dal d.l. 19 settembre 1994, nr. 626 e successivi aggiornamenti)
considera l'ospedale come luogo di lavoro alla stregua delle altre industrie produttive, ha lo scopo di
fornire un'adeguata qualità dell'assistenza al malato e una garanzia di sicurezza per il personale
sanitario operante. Le funzioni che si riconoscono a un moderno ospedale generale possono essere
così classificate: 1) cura, diagnosi dei pazienti ricoverati o meno, trattamento (medico, chirurgico,
specialistico) precoce degli stati morbosi acuti, riabilitazione fisica, mentale e sociale degli stati
morbosi cronici; 2) prevenzione, controllo della normalità della gravidanza e della nascita, della
normalità della crescita e dello sviluppo del bambino e dell'adolescente, controllo delle malattie
infettive, prevenzione delle malattie professionali, prevenzione dell'invalidità conseguente a eventi
morbosi acuti e cronici, educazione sanitaria, rivolta oltre che agli infermi e ai loro familiari anche
al personale ospedaliero; 3) istruzione, formazione permanente del personale laureato, formazione
di base del personale sanitario ausiliario; 4) ricerca, attività di ricerca applicata alle scienze
biomediche. Tra i servizi speciali di recente acquisizione figurano in particolare il day hospital e
l'ospedalizzazione a domicilio. Con l'espressione di origine anglosassone day hospital si intende una
modalità di assistenza sanitaria ospedaliera in cui si svolgono attività diagnostiche e/o terapeutiche,
anche coordinate tra loro, da effettuare nell'arco della giornata. Si tratta pertanto di una struttura
rivolta all'assistenza e alla cura di pazienti affetti da patologie per le quali è necessaria un'assistenza
per tempi brevi, senza dover ricorrere a un ricovero ospedaliero vero e proprio.
Attualmente il day hospital comprende i seguenti indirizzi: chirurgico, geriatrico, riabilitativo,
oncologico, pediatrico, psichiatrico. Per tutti gli indirizzi vale la possibilità di essere collegati
funzionalmente al reparto di riferimento, consentendo in tal modo di effettuare piccoli interventi
chirurgici, radioterapia e chemioterapia, pratiche di riabilitazione, con la garanzia di équipe
sanitarie specializzate. L'ospedalizzazione a domicilio costituisce invece un'ulteriore forma di
organizzazione che è volta a garantire la prosecuzione dell'assistenza a domicilio da parte dello
stesso personale ospedaliero nei casi in cui non è indispensabile il ricovero, ma, al contempo, la
forma di assistenza richiesta non è sufficientemente coperta dal medico di famiglia. Il sistema
prevede prestazioni mediche, infermieristiche, di riabilitazione e recupero psicofisico spesso in
forma integrata con i servizi sociali di competenza dei Comuni.
Problemi non indifferenti di organizzazione sanitaria sono posti inoltre dal progressivo
invecchiamento della popolazione, poiché si prevede che nel 2025, in Italia, essa sarà costituita per
il 20% da anziani. Il fenomeno richiede un esame approfondito degli aspetti medico-biologici,
demografici e sociosanitari al fine di individuare e programmare assistenza e servizi adeguati. I dati
più significativi riguardano la disabilità (in Italia il 3-5% dei soggetti oltre i 65 anni non è
autosufficiente e il 10% è parzialmente non autosufficiente) e la notevole incidenza di malattie
croniche invalidanti legate all'invecchiamento (demenza, malattie cardiovascolari, ictus cerebrale,
osteoporosi, neuropatie periferiche). Inoltre l'insorgenza di una patologia associata e plurima è
piuttosto frequente e soprattutto più grave in rapporto all'aumento dell'età.
La strategia dell'assistenza all'anziano si presenta complessa e multiforme: essa prevede
un'assistenza sanitaria di base (domiciliare, ambulatoriale, ospedaliera), ma anche l'introduzione di
programmi di assistenza geriatrica (AG), la creazione presso gli ospedali di unità di valutazione
geriatrica (UVG), il potenziamento di divisioni ospedaliere geriatriche con personale sanitario
specificamente addestrato. Inoltre è necessario predisporre politiche, mezzi e strumenti per
permettere alle persone anziane di vivere più a lungo possibile nel proprio ambiente, costituendo in
particolare (come già la legge prevede) un'efficiente rete di assistenza domiciliare integrata (ADI) e
realizzando le residenze sanitarie assistite (RSA).
L'espressione ospedale psichiatrico, in uso in Italia a partire circa dagli anni Venti del Novecento,
indica un'istituzione che è destinata alla cura e alla custodia dei folli. L'orizzonte culturale che lo
sostiene include la pazzia, sotto specie di malattie mentali diverse nel dominio della medicina e, in
particolare, della psichiatria, specialità nata all'inizio dell'Ottocento. La stessa espressione viene
considerata sinonimo di manicomio, frenocomio, asilo dei pazzi ecc.: istituzioni, queste, diverse per
storia e ispirazione, ma accomunate da una certa omogeneità nell'organizzazione degli spazi, e dal
criterio segregativo nei confronti degli alienati. L'articolarsi della relazione tra società e 'sragione'
nel corso dei secoli ne disegna una sorta di genealogia. Il rapporto degli antichi con il mondo, la
loro concezione dell'uomo, la loro medicina, furono permeati dall'apertura simbolica alla divinità.
Sarebbe arbitrario e azzardato attribuire, con criteri odierni, un carattere psichiatrico alle pratiche
mediche che si esercitavano nei templi di Asclepio, mediante l''incubazione', su coloro che vi si
recavano e soggiornavano. Sta di fatto che il dio, attraverso i sogni, agiva in senso terapeutico, sia
direttamente sia mediante l'interpretazione da parte di un medico sacerdote.
Nei primi secoli della cristianità, le manifestazioni che oggi consideriamo di interesse psichiatrico
erano valutate alla luce della distinzione polare tra santità e peccato, e per lo più attribuite agli
influssi del Maligno. Non abbiamo infatti tracce di asili per folli. È invece a Fez, in Marocco, nel 7°
secolo, con il fiorire della cultura islamica, che venne inaugurato il primo grande ospizio per malati
di mente di cui si abbia notizia. Questa antica esperienza fu raccolta, otto secoli dopo, dai frati
mercedari, che portarono in Spagna l'idea di accogliere caritatevolmente, in appositi asili,
vagabondi, pellegrini, poveri di censo o malati di mente e ogni sorta di mendicanti, tutti egualmente
bisognosi di carità.
Nel 1549, a Roma tre frati spagnoli fondarono l'ospedale S. Maria della Pietà dei poveri e dei
pazzarelli, tra i primi in Europa. Non si trattava di un'istituzione medica per la cura della follia, ma
di un'opera di carità volta alla salute dell'anima dei mendicanti e dei pellegrini, raccolti dalle strade
e custoditi nell'istituto. Il recupero e il mantenimento dell'ordine morale necessario alla salvezza
spirituale comportava il controllo della vita degli internati e mezzi coercitivi piuttosto brutali: era
raccomandato l'uso del nerbo per batterli, legacci e catene erano correntemente utilizzati e i più
inquieti venivano incatenati nudi a terra nella 'stanza delle paglie', senza altro conforto che la paglia
su cui appunto giacevano. Un medico esterno visitava l'ospedale di tanto in tanto, per i malanni
occasionali e le epidemie. Non si usava una terapia specifica per la follia, che non era un problema
per la medicina ma per la morale e la carità.
Durante il Seicento, poveri, malati, mendicanti e vagabondi d'ogni sorta vennero tolti dalle strade di
tutta l'Europa e internati in grandi ospedali; è del 1656 il decreto reale che istituisce l'Hôpital
Général a Parigi, dove i ricoverati venivano assistiti ed educati al lavoro, o almeno controllati. Tra il
Cinquecento e il Settecento si affermò il modello sperimentale della scienza. La distinzione
cartesiana tra anima e corpo liberò quest'ultimo dalla condizione di semplice strumento di quella,
attribuendogli un'autonomia che lo rese oggetto di un rinnovato interesse. Gli studi anatomici si
perfezionarono. Si scoprì la circolazione del sangue, il sistema nervoso assunse il ruolo che oggi gli
riconosciamo. La teoria umorale si avviò al tramonto e il corpo fu reinterpretato alla luce delle
nuove idee, gettando le basi di quella fisiologia che trionferà nell'Ottocento come unica chiave di
lettura dell'uomo e che pretenderà di oggettivare e includere tutte le sue manifestazioni. Al
contempo, in tutta l'Europa, al refluire del fenomeno del grande internamento che aveva avuto
caratteristiche vistose soprattutto fuori d'Italia, si pose la questione di un nucleo di internati non
utilizzabili nelle nascenti fabbriche, perché incapaci e più propriamente folli, sempre più affidati
alle cure del medico.
Si andò altresì definendo il confine tra i fenomeni estatici, di competenza della religione, e quelli
deliranti. Nel Settecento, in un contesto caratterizzato dalla filosofia illuminista, nacquero una
concezione medica della follia e una terapia specifica fondata sul dialogo con l'alienato. La pazzia
fu considerata una malattia morale, ovvero psicologica, e la psicologia, affrancatasi da istanze di
carattere metafisico - la concezione dell'anima immortale -, risolveva lo psichico nella concretezza
corporea. A fine secolo, sulla base di questi presupposti, il medico parigino Ph. Pinel, raccogliendo
anche le esperienze umanitarie degli istituti inglesi ispirati al pietismo protestante e alla filosofia
morale scozzese, rivoluzionò l'idea degli asili per pazzi, teorizzando un'istituzione, il manicomio,
che isolasse gli alienati dalla vita convulsa del tempo, permettendo loro di recuperare
quell'equilibrio delle passioni la cui perdita era ritenuta alla base della loro dolente condizione.
Al contempo si istituiva una terapia specifica, la cosiddetta terapia morale, che faceva perno sulla
ragionevolezza residua in ogni alienato e che presto si diffuse in tutta Europa e cominciò a essere
chiamata psichiatria. A questa grande svolta teorica non corrispose peraltro un miglioramento delle
condizioni materiali in cui vivevano i pazzi. Legacci, catene e paglie rimasero in vigore ancora per
molto tempo. Il criterio per l'internamento, che rimase coatto, continuò a essere quello della
segregazione dei soggetti pericolosi o di pubblico scandalo. La terapia morale faticò a superare la
fase dell'adesione teorica e i manicomi, che sorsero spesso negli stessi edifici dei precedenti asili, ne
mantennero la vocazione alla custodia più che alla terapia. Le condizioni degli internati si fecero
soltanto leggermente più accettabili e il medico entrò a far parte stabilmente del personale degli
istituti (a Roma dal 1826).
Dalla metà dell'Ottocento, andò affermandosi la concezione neurologica delle malattie mentali.
L'alienazione fu considerata una malattia del cervello. La paralisi progressiva, di origine infettiva
luetica, e l'idea che la malattia mentale fosse una forma di degenerazione ereditaria fornirono i
modelli per ricondurre la patologia psichica a una corporeità totalmente oggettivata. La mente fu
interpretata come l'epifenomeno dell'attività nervosa e i manicomi si avviarono a diventare ospedali
dove i comportamenti abnormi potessero essere osservati, descritti, studiati e classificati. La
trasformazione in senso ospedaliero avvenne con notevole lentezza, specialmente in Italia, dove al
costituirsi dello Stato unitario si dovette uniformare la legislazione prodotta negli Stati preesistenti.
Il dibattito sul ruolo del manicomio e degli psichiatri durò fino alla promulgazione della legge
manicomiale del 14 febbraio 1904, nr. 36, con almeno mezzo secolo di ritardo rispetto alle altre
nazioni europee. L'attenzione alla dimensione sociale della medicina spinse i manicomi, ancora
ispirati al criterio della separazione dalla società produttiva, a trasformarsi in grandi comunità simili
a villaggi, in cui fossero possibili forme di agricoltura, artigianato e piccola industria. Questo
carattere di autonomia ed esclusione si accentuò durante il ventennio fascista, quando il manicomio
si identificò con una sorta di città della devianza, mentre sul piano teorico si accentuava la spinta
all'oggettivazione descrittiva. Gli insegnamenti di psichiatria e neurologia furono unificati e le
terapie si incentrarono sulle metodiche di shock, che trovarono la più ampia diffusione nel secondo
dopoguerra con l'elettroshock. La psichiatria dinamica, bandita nel periodo fascista, non trovò
nell'ospedale psichiatrico altro che pochi, occasionali estimatori, né mai riuscì a organizzarsi o a
costituirsi in scuola.
Negli anni Cinquanta del 20° secolo, l'introduzione degli psicofarmaci rese possibile un diverso
approccio alla malattia mentale, ricoveri più brevi e dimissioni più facili. Al modello psichiatrico
clinico-descrittivo, basato su una concezione oggettiva della malattia mentale e sull'ospedale
psichiatrico come luogo segregato della diagnosi e della terapia delle malattie del cervello, si
contrappose un modello aperto, che evitasse quella istituzionalizzazione del malato di mente
considerata essa stessa causa di grave patologia psichica. L'urgenza della modernizzazione diede
luogo alla l. 18 marzo 1968, nr. 431, ma il dibattito ormai investiva gli ospedali psichiatrici in
quanto tali. Si fece strada in alcuni l'idea che la malattia mentale fosse una risposta deviante alle
contraddizioni e alle ingiustizie della società, che avrebbe dovuto farsene carico attraverso
l'integrazione e il reinserimento dei pazienti, limitando il contenimento alle fasi critiche. Questa
visione culminò negli anni Sessanta e Settanta, fornendo il contesto ideologico e politico alla
riforma varata con la l. 13 maggio 1978, nr. 180, che avviò il superamento dell'ospedale
psichiatrico, sottolineò la volontarietà del ricovero e promosse la creazione di reparti psichiatrici
negli ospedali generali e di strutture di assistenza sul territorio.
Questo rapido excursus sulla genealogia dell'ospedale psichiatrico permette di intravedere un
analogo percorso antropologico dei momenti assai diversi della concezione che l'uomo ha avuto di
sé, del proprio corpo, della propria infermità, della follia. Dopo essere stato manifestazione
simbolica del dio e luogo di possessione diabolica, il corpo fu sede di umori peccanti, in grado di
confondere l'anima, fino al punto di rendere necessaria la costrizione per ristabilire l'ordine morale
perduto. Fattosi autonomo oggetto di studio e liberato, con Cartesio, dalla servitù nei confronti
dell'anima, il corpo ne accolse le facoltà, radicandole nella propria materialità. Con l'illuminismo e
il romanticismo le passioni divennero causa di malattia e strumento di una terapia che poneva la
parola al proprio centro. Il manicomio fu l'utopico progetto di un mondo dove le passioni potessero
ritrovare il proprio equilibrio, e gli alienati la ragione. La psichiatria descrittiva e d'impronta
neurologica ha oggettivato il corpo, e in esso il male, in una continua, e finora illusoria, ricerca di
una localizzazione, dapprima anatomopatologica, poi biochimica, poi neuroumorale. Su questi
modelli di pensiero si sono articolati spazi e tempi dell'ospedale psichiatrico, mantenendone il
carattere segregativo. Dal 1978 sono in corso tentativi di superamento dell'istituzione manicomiale,
ritenuta inscindibile dal carattere coercitivo che l'ha sempre accompagnata. Assistiamo oggi per
contro a un rinnovato sforzo di oggettivazione, che trova nella genetica molecolare la sua, per
adesso, più avanzata frontiera.
bibliografia