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Pierpaolo Antonello

REALISMO E SECOLARIZZAZIONE
Erich Auerbach e René Girard

In questo saggio è mia intenzione riconsiderare, con riferimento alla teoria mimetica di René Girard, la
prospettiva storica e teorica proposta da uno dei più grandi romanisti tedeschi del ventesimo secolo, Erich
Auerbach, rispetto a un possibile rapporto tra realismo rappresentativo e quel processo storico che viene
definito in senso lato come “secolarizzazione”. Il lavoro di Auerbach costituisce uno straordinario
esperimento esegetico, certamente ancora insuperato, di illustrare i processi storici di comprensione e
rappresentazione della realtà umana e sociale, attraversata dal quel complesso di fenomeni socio-culturali e
ideologici che genericamente definiamo come “secolarizzazione”, e che coincidono, in maniera forse
sorprendente per qualcuno, con l’influsso del cristianesimo nel mondo occidentale.
Partendo dai presupposti teorici girardiani, la secolarizzazione non consisterebbe infatti in una semplice
“scomparsa del religioso”, ma nel propagarsi dell’azione demistificante e anti-sacrificale del Cristianesimo
lungo i suoi duemila anni di storia. La secolarizzazione come evento eminentemente storico è un processo
evolutivo che manifesta un andamento sussultorio, con avanzamenti e regressioni, in modi e in forme ancora
tutte da determinare e da descrivere ma tendenzialmente “progressivo”, per quanto “inattuale” il termine
possa suonare alle nostre orecchie di scettici post-moderni.1
Inserire Auerbach all’interno di una comprensione della realtà storica mutuata dalle prospettive di Girard,
ci consente di rileggere Mimesis2 attraverso una sorta di ermeneutica alternativa e, in un certo senso,
corroborante, che accanto alle considerazioni di carattere storiografico e esegetico-testuale esplicitate da
Auerbach, ricomponga anche i processi antropologico-culturali che ne sono alla base. Si tratta infatti di
scommettere sulla realtà umana e storica sottesa alle disamine di Mimesis, cercando di non isolarlo in una
astratta e irenica argomentazione di carattere stilistico, ma di portare alle estreme conseguenze quanto
argomentato in questo libro, esplicitando le «implicite opzioni normative» di Auerbach,3 l’intima «forza di
irradiazione (Strahlkraft)»4 che ha animato la stesura del libro e i suoi presupposti.5

In questa prospettiva, il realismo, come descritto da Auerbach in Mimesis, diventerebbe da una parte un
sintomo di questo movimento, rintracciabile nella storia della letteratura europea, ma estendibile anche a
altre manifestazioni culturali e sociali; dall’altra si proporrebbe come uno strumento di auto-rappresentazione
collettiva che forza il processo stesso,6 aumentando la capacità riflessiva dell’uomo rispetto alla propria
realtà antropologica e psicologica, rendendo più consapevoli e edotti strati sempre più ampi della società, e

1
Del resto anche relativisti radicali come Gianni Vattimo vedono la secolarizzazione, in quanto evento del tutto auspicabile, come un
destino verso cui indirizzare la propria azione culturale e politica. Cfr. René Girard e Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo
su cristianesimo e relativismo, a cura di P. Antonello, Massa, Transeuropa, 2006; in particolare il primo capitolo: Cristianesimo e
modernità.
2
Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1956), trad it. Torino, Einaudi, 2000, 2 voll. (in seguito M I e M
II).
3
F. Ankersmith, Why Realism? Auerbach on the Representation of Reality, «Poetics Today», 20.1, 1999, p. 55.
4
Erich Auerbach, Philologie der Weltliteratur (1952), trad. it. Filologia della letteratura mondiale, Castel Maggiore, Book Editore,
2006, p. 67 (in seguito FLM).
5
La critica contemporanea ha ovviamente tentato di storicizzare ogni possibile lettura teleologica o unitaria del racconto di Mimesis
rispetto allo sviluppo storico della cultura europea (su tutti Hayden White), inserendo Auerbach nella lunga tradizione dello
storicismo classico di matrice tedesca come illustrato da Hans Georg Gadamer in Wahrheit und Methode (Ranke, Humboldt,
Dilthey). Cfr. Hans Georg Gadamer, Wahrheit und Methode: Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, Mohr, 1960,
pp. 162-229. Per una collocazione del lavoro di Auerbach all’interno di una prospettiva diltheyiana si veda R. Castellana, Sul metodo
di Auerbach, «Allegoria», 56, 2007, pp. 52-79.
6
I testi scelti da Auerbach nella sua analisi sono tutti caratterizzati, secondo il filologo tedesco, da «concretezza e pregnanza» e
«dalla forza potenziale della sua irradiazione», forza capace di «fornire un impulso alla storia del mondo» (FLM, pp.65-67).
facendoli partecipi di una presa di coscienza dell’essenzialità e della ricchezza dei loro drammi quotidiani,
contribuendo alla definizione paradigmatica di una loro vita interiore, dando dignità, parola, immagini e
linguaggio alle loro tragedie personali, attraverso un vocabolario che altrimenti non avrebbero avuto la
possibilità o la facoltà di costruire autonomamente, e contribuendo a una comprensione “figurale” delle loro
vite quotidiane, sia in senso antropologico, rispetto al costituirsi dei sistemi persecutori, sia in senso
religioso, rispetto a un percorso di carattere “provvidenziale”, qualora il quadro di riferimento complessivo
lo consenta (la modernità in questo senso sconterebbe, per molti, questa possibilità).

Il metodo di Auerbach

Auerbach era un filologo ma la sua intenzione esplicita era quella «di scrivere storia»,7 pur senza fornire
alcuna teoria storiografia generale, né esplicitando schemi di sviluppo o leggi storiche specifici. La sua è
un’analisi di carattere stilistico-filologico animata da uno storicismo di derivazione romantico-tedesca e
imbevuto di spirito vichiano,8 da cui la convinzione che «la storia non sia un accumulo di eventi irrelati ma
formi un intero; e che lo storico abbia il dovere di proporre un’interpretazione complessiva dell’accadere».9
Auerbach, come Vico, vuole fornire una «filologia storico-sintetica, che voglia rappresentare il destino
storico di una formazione qual è l’Europa», in particolare registrando le modificazioni della «mente umana»,
nella spontanea capacità «di intendere l’esperienza altrui sulla base della propria esperienza», istituendo un
metodo comparativo che sovrappone una dimensione “empatica” a una “figurale”.10
Pur essendone stato collega, non ha mai frequentato, ad esempio, lo stilismo puro di Leo Spitzer che
confinava il suo interesse all’esame delle forme individuali.11 In qualche modo è addirittura in dubbio se
Auerbach sia mai stato un vero e proprio filologo.12 Si potrebbe asserire che “traveste” da esercizio filologico
e esegetico una esigenza di comprensione storica che sarebbe stata metodologicamente troppo ambiziosa (e
quindi inaccettabile dal punto di vista scientifico) se condotta con gli strumenti tradizionali della storiografia.
Per Auerbach la filologia è una sorta di “attrattore”, che permette la congiunzione della storia delle arti con
la storia religiosa, giuridica e politica:

«La storia interna degli ultimi millenni, oggetto della filologia in quanto disciplina storicistica, è la storia dell’umanità giunta a
una espressione propria. Essa contiene i documenti della spinta potente e avventurosa grazie alla quale gli uomini prendono
13
coscienza della loro condizione e realizzando le loro possibilità intrinseche».

Isolando pochi frammenti testuali, Auerbach riesce ad abbozzare la traiettoria di duemila anni di cultura
europea in un modo che rimane ancora insuperato.14 E lo fa ponendo una domanda ricorrente a tutti i testi

7
Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo (1960), trad it., Milano, Feltrinelli, 2007, p.
26 (in seguito LLP).
8
Auerbach reputava la Scienza nuova una svolta «copernicana nella scienza dello spirito» e come il «primo tentativo metodico di una
teoria della conoscenza storica» (LLP, p. 17).
9
Guido Mazzoni, Auerbach: una filosofia della storia, «Allegoria», 56, 2007, p. 85; si veda Erich Auerbach, Vico e Herder in San
Francesco Dante Vico e altri saggi di filologia romanza, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 180.
10
LLP, pp. 23, 15. Come sottolinea anche Mazzoni, per Auerbach «i soggetti dell’accadere storico non sono idée, organismi, spiriti,
mentalità, logiche, grammatiche: sono semplici individui, gli scrittori, presi in un sistema mutevole di modalità — di regole, temi e
stili. Auerbach conserva ambizioni hegeliane abbandonando la metafisica hegeliana» (G. Mazzoni, op. cit., p. 89).
11
Per un confronto fra Auerbach e Spitzer si veda T.R. Hart, Literature as Language: Auerbach, Spitzer, Jakobson, in S. Lerer et alii,
Lityerary History and the challenge of philology: The Legacy of Erich Auerbach, Stanford, Stanford University Press, 1996, pp. 227-
242.
12
È questo il dubbio che avanza Hans Ulrich Gumbrech in apertura di The Powers of Philology. Dynamics of Textual Scholarship,
Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 2003, p. 1.
13
FLM, p. 39.
14
Che un tale capolavoro sia rimasto in mano soprattutto agli storici della letteratura è stato forse il limite di questa opera che ha
un’importanza superiore a qualsiasi tentativo di confinamento a un ambito e a una logica strettamente disciplinari e di carattere
critico-letterario. Esemplare in questo senso è ad esempio il recente commento di Francesco Orlando che esclude una possibile lettura
unitaria di Mimesis, dato che il concetto stesso di “realismo”, secondo Orlando, è alquanto vago e l’evoluzione della nozione è
tutt’altro che lineare ma procede a «zig-zag»; Francesco Orlando, I realismi di Auerbach (intervista a cura di Giuseppe Tinè),
«Allegoria» 56, 2007, pp. 36-51. D’altro canto ci si può chiedere se si sarebbe gridato al capolavoro se i capitoli di Mimesis si
fossero letti singolarmente, come saggi autonomi, o se invece, piuttosto, la grande forza e peculiarità interpretativa e critica
dell’opera non sia costituita dalla sua potente visione di insieme, più coerente e unitaria di quanto Orlando sembra suggerire.
analizzati in Mimesis: «che cosa i loro autori considerassero elevato e importante, e quali mezzi
impiegassero per rappresentarlo». Attraverso questa via viene a rilevarsi, seppure imperfettamente, dice
Auerbach, «qualche cosa dell’influenza del cristianesimo sulla formazione dell’espressione letteraria, e anzi
un aspetto dell’evoluzione spirituale europea a partire dall’antichità».15 Come detto, non è sua intenzione
fornire «leggi o categorie classificatorie», tutte in qualche misura arbitrarie, ma descrivere l’oggetto di
indagine, l’Europa, attraverso un «qualche cosa come un dramma», contenente non una teoria, ma «una
concezione paradigmatica del destino umano».16 E il termine «destino» è quanto mai indicativo delle sue
convinzioni, un destino che potrebbe definirsi come l’influsso dei presupposti epistemici, culturali e sociali
del cristianesimo nella cultura europea, e che, da una prospettiva girardiana, si potrebbe chiamare
secolarizzazione (termine che però lui usa raramente),17 ovviamente più visibili nelle sue desinenze moderne,
ma i cui presupposti partono dalla rivelazione cristiana.
In senso generale, potremmo dire che con Mimesis, gli Studi su Dante e le altre sue opere, Auerbach: 1)
ci fornisce alcuni elementi per definire il grado storico di penetrazione dell’etica cristiana in vari contesti
storico-culturali, e alcuni elementi di riconoscimento testuale di questi processi; 2) ci consente di ampliare
l’indagine dei processi di secolarizzazione della cultura europea attraverso un vocabolario diverso da quello
strettamente filosofico o teologico o sociologico con cui si è discussa finora la questione; 3) ci aiuta a
individuarne gli effetti sui sistemi rappresentativi; 4) ci dà un sistema probatorio (seppur parziale e
inevitabilmente incompleto) di riferimenti testuali e culturali cronologicamente disposto; 5) ci consente di
abbozzare un percorso in senso lato evolutivo, di una evoluzione tutta da definire e articolare; 6) ci consente
altresì di definire un rapporto fra demitizzazione e propensione al realismo della cultura moderna, con
implicazioni sia epistemologiche che estetiche; 7) ci fornisce una teoria dei generi e degli stili che ha una
cogenza critica importante rispetto a progetti esegetici e di scrittura che volessero porsi da un punto di vista
emancipativo; 8) ci dà alcune categorie che sono passibili di estensione rispetto al differenziarsi nella
postmodernità dei processi di rappresentazione collettiva e mediatica.

Auerbach e Girard

In riferimento al tema della demitizzazione, e rispetto al contesto ideologico da cui muove, Auerbach può
aver risentito, come sottolineato da varie fonti critiche, del clima intellettuale e dei dibattiti che si stavano
formando a inizio secolo in area tedesca con teorici come Max Weber, o con teologi cristiani come Karl
Barth, Rudolf Bultmann, Friedrich Gogarten.18 Soprattutto con Bultmann, con cui Auerbach è stato legato
per decenni e che cita esplicitamente relativamente al problema messianico nel saggio Figura, e di cui
recupera anche il concetto di «creaturalità» (Geschopf) che il teologo tedesco discute in Theologie des
Neuen Testaments e che Auerbach riprende in Mimesis, declinandolo però attraverso la radice latina
(kreaturlich).19 In ambito teologico Bultmann è noto in modo particolare per la sua discussione sulla
cosiddetta «demitizzazione» dei testi evangelici, che secondo il teologo tedesco necessitano di essere
riportatati alla realtà antropologico-esistenziale che ne costituisce il nucleo, al di là delle oggettivazioni
storiche determinate. Secondo Bultmann il linguaggio mitologico non è più comprensibile oggi all'uomo
moderno, e la fede non può essere ridotta a un mero prendere per vera una serie di fatti miracolosi, da cui
una necessità di riformulazione sostanziale, spogliando il messaggio evangelico dal linguaggio mitologico
per renderlo comprensibile all'uomo moderno. A tale scopo egli utilizza il metodo storico–critico e recepisce
dall'esistenzialismo di Martin Heidegger il principio dell'interpretazione esistenziale, in base al quale il mito

15
LLP, p. 26.
16
Ivi, pp. 26-27.
17
Si veda per esempio quanto afferma Auerbach in Mimesis: «è errato parlare (come avviene di solito) di una secolarizzazione
progressiva del dramma cristiano della Passione. Poiché il “secolo” è incluso in questo dramma, non importa in quale misura. Una
secolarizzazione vera subentra soltanto quando la cornice viene distrutta, quando l’azione secolare diventa indipendente, quando cioè
le azioni umane vengono rappresentate in modo serio fuori dalla storia universale cristiana determinata dal peccato originale, dalla
passione e dal giudizio universale: quando accanto a questa che pretende di essere l’unica vera e valida, comincia a intravvedersi
un’altra possibilità di concezione e rappresentazione di fatti umani.» (M I, p. 176)
18
Cfr. M. Mancini, Introduzione in Erich Auerbach, La corte e la città. Saggi sulla storia della cultura francese, Roma, Carocci, 2007;
K.F. Morrison, The Mimetic Tradition of Reform in the West, Princeton, Princeton University Press, 1982, pp. 409-10.
19
Per questa puntualizzazione lessicale ringrazio Nicola Barilli e Irene Fantappié. Mazzoni vede piuttosto un’eco hegeliana nel
realismo creaturale discusso da Auerbach (G. Mazzoni, op. cit., 97-98).
deve essere interpretato sulla base alla comprensione di sé dell'uomo che il mito medesimo intende
comunicare, posizione questa vicina a quella espressa da Auerbach in introduzione a Lingua letteraria e
pubblico (ma che ritorna anche in Mimesis).
Il rapporto teorico che però ci interessa definire preliminarmente è ovviamente quello di una possibile
relazione teorica tra Auerbach e Girard. Dal punto di vista biografico, si potrebbe fare riferimento alla breve
sovrapposizione temporale dei due studiosi nel contesto nord-americano di inizio anni Cinquanta, anche
attraverso la possibile mediazione di Leo Spitzer, che Girard ha avuto come collega alla Johns Hopkins
durante la stesura di Menzogna romantica e verità romanzesca, ancorché si tratti evidentemente di dati
biografici marginali e non strettamente rilevanti. In senso generale, potremmo dire che li unisce certamente
una forte attenzione per il realismo letterario e epistemologico, in maniera più o meno tematizzata per
Girard, più criticamente consapevole e esplicita per Auerbach.20
Mentre Auerbach in Mimesis compie una serie di “carotaggi”, ovvero propone una sequenza progressiva,
orizzontale, di sondaggi verticali delle stratificazioni “palinsestiche” della storia sociale e linguistica, in
Menzogna romantica Girard isola un pezzo di storia moderna, percorsa latamente in senso cronologico,
attraverso il filtro del romanzo borghese, che potrebbe essere visto come il “precipitato” di un preciso
processo storico che Girard articolerà meglio nelle opere successive. Menzogna romantica tenta di comporre
una genealogia romanzesca della modernità, dal Seicento del Chisciotte all’inizio del Novecento proustiano.
La ricostruzione peritata a quest’opera solo parzialmente assolve a una funzione storico-ermeneutica come
quella proposta in Mimesis, fondandosi piuttosto sulla necessità di sistematizzazione strutturale e sincronica,
attraverso una metodologia comparativa e offrendo un modello esegetico che è in senso lato sociologico e
antropologico. Il suo non è un close reading come quello di Auerbach, ma piuttosto un distant reading.21
Interrogato su Auerbach, Girard ci ha detto della sua ammirazione per il metodo e per l’intelligenza di un
saggio come Figura, sottolineando però alcune incertezze o disparità fra la lettura auerbachiana dell’episodio
evangelico del rinnegamento di Pietro, contenuto nel secondo capitolo di Mimesis, e la prospettiva mimetica,
sviluppata, rispetto allo stesso episodio nel capitolo XII de Il capro espiatorio.22 Nell’analisi di quel brano
evangelico, secondo Girard, Auerbach non si renderebbe conto

«che non solo la tecnica di descrizione è mimetica, ma soprattutto è mimetico il contenuto di questa descrizione. Non capisce che
si tratta di una rappresentazione mimetica di relazioni mimetiche. E sebbene la sua teoria complessiva sia molto semplice, ritengo ci
sia una grande intuizione da parte di Auerbach nell’interpretazione di quel testo, che è il più stupefacente dei Vangeli riguardo al
ruolo dell’unanimità mimetica contro la vittima».

In realtà, come accade spesso nei suoi spunti polemici, Girard è ingeneroso con Auerbach e parziale nella
sua analisi. La mimesi per Auerbach non è mai solo una questione di stile o, in senso aristotelico, di
imitazione della natura, ma un modo del sentire fenomenico dell’uomo, un modo attraverso cui l’uomo
allarga il suo mondo interiore e la comprensione d’esso. In questo senso Girard fa sua la tipica inserzione
dell’opera di Auerbach nel contesto degli studi letterari sulla mimesi, i quali affrontano appunto il problema
del realismo essenzialmente come un problema di rappresentazione della realtà fenomenica, e non si
pongono mai il problema della dimensione imitativa del comportamento umano, ovvero di quei meccanismi
di relazione interdividuale che sono alla base della comprensione proposta da Aristotele e che sono il nucleo
teorico della lettura girardiana delle strutture comportamentali, individuali e sociali.
Per Girard «non si possono descrivere relazioni mimetiche in quanto tali senza scrivere quello che i critici
chiamerebbero un “testo realistico”. Perché è semplicemente il modo in cui sono costituite le relazioni
umane». Allo stesso modo, e parafrasando, si potrebbe dire che non si possono analizzare dei testi realistici
senza rilevare le relazioni «interdividuali» che questi descrivono e che sono spesso di natura mimetica
(ovvero imitativa e rivalitaria). E infatti in Mimesis c’è una comprensione dell’intrinseco mimetismo
dell’uomo più ampia di quanto Girard non sospetti e che va in direzione del tutto concorde con la sua ipotesi.
Gli indici testuali che Auerbach isola per compitare le sue analisi di carattere storico-stilistico testimoniano

20
Girard ha sempre sottolineato la sua naturale propensione epistemologica per concezioni filosofiche e epistemologiche di carattere
realistico: «Fondamentalmente io sono un realista. Credo nell’esistenza del mondo esterno e nella possibilità di conoscerlo. Non c’è
disciplina accademica che abbia raggiunto risultati durevoli senza essere stata fondata su un sensato realismo»; «Si dovrebbero
sempre sottolineare gli aspetti realistici della mia teoria. L’intera prospettiva sulla mitologia contenuta nella mia teoria rappresenta
una vera rivoluzione nell’atteggiamento verso il realismo tipico delle discipline umanistiche del XX secolo» (René Girard, Origine
della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha, Milano, Cortina, 2003).
21
Ovviamente non nel senso inteso da Franco Moretti in La letteratura vista da lontano (Torino, Einaudi, 2005).
22
Cfr. René Girard, Il capro espiatorio, trad. it., Milano, Adelphi, 1987, pp. 235-256.
sia della sua implicita consapevolezza dei processi imitativi, sia della centralità e importanza dei meccanismi
vittimari. Uno dei motori interni ai conflitti che si ritrovano nelle vicende bibliche, ad esempio, viene
individuato sin dall’inizio nella «gelosia continuamente bruciante» che fa sì «che i conflitti si inseriscano
nella vita quotidiana spesso avvelenandola»23. Nel capitolo 4 di Mimesis, analizzando la Storia dei Franchi di
Gregorio di Tours, Auerbach si sofferma su un brano che riporta la storia della rivalità sanguinaria e
vendicativa fra Sicario e Cramesindo dove a un certo punto l’autore sottolinea che quantunque il secondo
avesse ucciso tutti i parenti del primo, «essi si amavano tanto di cuore che spesso cenavano insieme e
dorminavo nello stesso letto»24; frase tanto bizzarra che solo l’ipotesi girardiana dei «doppi mimetici» riesce
a comprendere.
Il fatto che fra tutti i passi del Vangelo che avrebbe potuto scegliere per la sua analisi, Auerbach isoli
proprio l’episodio del rinnegamento di Pietro, dimostra in maniera eloquente la sua consapevolezza in fatto
di tendenze imitative dell’uomo, e delle logiche della folla. Lo stesso dicasi per l’episodio dalle Confessioni
di Sant’Agostino che Auerbach discute nel terzo capitolo di Mimesis, e che recupera comparativamente e
figuralmente l’episodio del rinnegamento di Pietro. Si tratta di un episodio della vita di Alipio, discepolo e
amico di gioventù di Agostino, in cui il giovane, da principio animato da una esplicita e orgogliosa pretesa di
controllo e autonomia di carattere razionalistico e moralistico, cade in un batter d’occhio in preda al
mimetismo della folla:

«l’individuo nobile fiducioso, fiducioso di sé, libero nella scelta individuale, aborrente l’eccesso, è diventato uno della folla […]
le stesse energie che gli consentivano di tenere lontana la suggestione della folla più a lungo e con decisione più degli altri, quelle
stesse energie che finora lo abilitavano alla sua vita superba, egli le pone a disposizione della folla e della sua anima impulsiva. […]
Com’è troppo naturale in un giovane di grande forza passionale, egli non cede poco alla volta, ma invece si precipita all’estremo
opposto; il rivolgimento è completo, e un tale passaggio da un estremo all’altro è nello stesso molto cristiano; così come Pietro nella
scena della rinnegazione…»25

Si pensi poi all’episodio tratto dal Gargantua con cui si chiude il capitolo dedicato a Rabelais (il primo del
secondo volume di Mimesis nell’edizione Einaudi), dove viene descritto l’episodio di una mandria di
montoni che mimeticamente si butta giù in mare da un dirupo, imitando l’atto compiuto dal migliore di loro.
Rispetto all’economia del saggio, questa appendice appare in qualche modo superflua, ma l’episodio ha
ovviamente un preciso riferimento evangelico all’episodio dei «demoni di Gerasa» che nella lettura
girardiana (contestuale a quella del rinnegamento di Pietro) rappresenta una parabola sull’unanimità
persecutoria e sull’interiorizzazione da parte dell’indemoniato (o dello psicopatico), della voce della folla: «il
mio nome è legione» (Mc 5, 1-17). Ovviamente nella prospettiva di Auerbach, questo riferimento ha anche
un preciso significato socio-politico, considerando come, quando, e da chi, è stato scritto Mimesis: un ebreo
esiliato a Istanbul durante la persecuzione nazista. L’analisi di questo episodio diventa emblematica di come
Auerbach potesse vedere e considerare la Germania di quegli anni, ma anche la modernità in senso generale,
progressivamente spogliata dalle strutture di composizione e comprensione fornite del religioso, con le
nuove masse, le nuove folle degli stati moderni, in balìa di derive mimetiche e persecutorie autodistruttive. A
questo proposito Auerbach non ha mai nascosto ma anzi difeso esplicitamente la contestualità della sua
opera rispetto al contesto storico in cui è stata partorita, come si legge negli Epilegomena a «Mimesis»,26 che
acquista valore scientifico e probatorio proprio perché è essa stessa sintomo e spiegazione di un determinato
periodo e di una particolare condizione esistenziale. Questo non comporta però per Auerbach un problema di
relativismo ma piuttosto di “prospettivismo”, di focalizzazione di aspetti che comunque restituiscono una
versione reale delle articolazioni sociali e culturali di una data epoca inserita in un più ampio quadro storico
di carattere evolutivo.27

23
M I, p. 27.
24
M I, p. 90.
25
M I, p. 78.
26
Cfr. Erich Auerbach, Epilegomena a «Mimesis» (1953), in Idem, Da Montaigne a Proust, Milano, Garzanti, 1973, pp. 183-98.
27
Mazzoni giustamente sottolinea il fatto che «il lettore avverte che il libro non è avalutativo. Scorrendo quello che è stato scritto su
Mimesis, dalle prime recensioni agli ultimi convegni, si vede che molti condividono la stessa impressione: Auerbach considera il
modello biblico e il realismo cristiano come una conquista rispetto al modello omerico e alla Stilrennung greca e romana […] tratta il
realismo moderno come una sorta di approdo della storia letteraria occidentale» (G. Mazzoni, op. cit., p. 99).
Figura

Bisogna sottolineare che, pur essendo ebreo, Auerbach si presenta nelle sue opere sotto una luce
profondamente cristiana, e questa sua cristianità di fondo non gli viene solo dalla frequentazione di pensatori
come Bultmann, ma si articola in maniera chiara, perentoria e storicamente dettagliata a partire dagli studi su
Dante, autore tra i più decisivi per la formazione culturale e critica di Auerbach. Basti ricordare a proposito
la perentoria affermazione fatta all’inizio del suo volume di studi danteschi, significativamente intitolato
nell’originale tedesco Dante poeta del mondo terreno: «Il nucleo storico del cristianesimo, cioè la
crocifissione di Cristo e gli eventi ad essa connessi, superano per l’incredibilità e l’ampiezza dei contrasti
tutta la tradizione antica, sia mitica che drammatica» e questo «è causa del più grande mutamento interiore
ed esterno della nostra civiltà».28 Esattamente come per Girard, la modernità non nasce con il romanzo, né
con il Rinascimento, né con l’illuminismo, ma con l’incarnazione. Attraverso il più cristiano e insieme il più
realista dei poeti della tradizione medievale, Dante, Auerbach intuisce uno degli elementi essenziali del
cristianesimo, cioè l’essere essenzialmente una religione dell’uomo (intuizione che sarebbe stata anche di
Simone Weil),29 ovvero, con le parole di Marcel Gauchet una «religione dell’uscita dalla religione (ossia,
giradianamente, dal sacro).30 Per Auerbach con Dante si perviene infatti a:

«un’esperienza immediata della vita, che sopraffà tutto il resto, a una rappresentazione dell’uomo tanto varia e profonda, a
un’illuminazione dei suoi impulsi e delle sue passioni che porta a una partecipazione calorosa e senza riserve […]. E in questa
immediata e ammirata partecipazione dell’uomo, l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale, stabilita dentro l’ordine divino, si
dirige contro quello stesso ordine divino, lo fa servo e lo eclissa».31

Proprio il riferimento agli Studi su Dante, necessario preambolo per comprendere il contenuto di
Mimesis, ci riporta a uno dei concetti cardine che animano l’opera esegetica di Auerbach: il concetto di
“figura”, sia perché determinante per capire l’articolazione simbolica del processo storico intrinseco alla
cultura cristiana, sia rispetto al rapporto teorico con Girard. Sollecitato infatti sulla fecondità del concetto di
“figura”, come teorizzato da Auerbach, Girard lo vede giustamente come il punto teorico più importante di
una possibile convergenza fra lui e l’autore di Mimesis. È uno strumento utile per comprendere il rapporto
storico fra cristianesimo e «de-mitizzazione», ovvero il rapporto dialettico fra progressione storica e
permanenza, fra evoluzione delle forze e forme sociali e riconoscimento delle strutture di continuità
antropologica:

«L’interpretazione figurale — scrive Auerbach — stabilisce tra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa
soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel
tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali».32

Da questa definizione si comprende ad esempio come la stessa lettura dei miti e della Bibbia proposta da
Girard ricada all’interno di una logica ermeneutica figurale, nel senso che Girard ha utilizzato il modello
cristologico-sacrificale per rileggere tutti i testi pre- e post-cristiani — dal mito arcaico alla tragedia greca,
sino ai testi di persecuzione in epoca storica. Sono tutte forme trasfigurate di un modello ricorrente di
vittimizzazione, in cui Girard cerca gli elementi di uno schema tipico: crisi di indifferenziazione, presenza
dei doppi, polarizzazione mimetica contro una vittima scelta per l’emergere di alcuni segni vittimari arbitrari,
espulsione di questa, sua sacralizzazione e ricostituzione della pace sociale; attraverso la ripetizione rituale di
questo schema procedurale nascono tutte le istituzioni e le forme culturali organizzate. Questa ritualità
sostanzialmente violenta, e la ideologia che la giustifica, vengono decostruite all’interno della tradizione
testuale giudaico-cristiana e in particolar modo dalla rivelazione evangelica, che porta in piena luce
l’arbitrarietà e ingiustizia dei meccanismi sacrificali e espiatori che sono stati alla base della fondazione
sociale, religiosa e istituzionale sin dalla fondazione del mondo.
Potremmo dire che attraverso la teoria mimetica Girard è riuscito a fornire una spiegazione antropologica
alla lettura figurale: ovvero il riconoscimento dei meccanismi di persecuzione del tutto simili a quelli patiti
da Cristo e da altre figure bibliche. La centralità figurale della vittima viene riconosciuta ovviamente perché

28
Erich Auerbach, Studi su Dante, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1963, p. 12.
29
Cfr. Simone Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, vol. IV, 1993, p. 185.
30
Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, trad. it., Torino, Einaudi 1992, p. VIII.
31
M I, p. 220.
32
SD, p. 209.
la Bibbia parla continuamente di espulsioni e persecuzioni — per la prima volta definite come tali e
riconosciute nella loro ingiustizia in quanto percepite, pensate e articolate dal punto di vista della vittima.
Nello schema mitico c’è una pletora di colpevoli che vengono continuamente espulsi e non fanno “sistema”,
ma partecipano alla trasformazione ciclica del mondo; mentre con il riconoscimento dell’innocenza della
vittima entriamo in un contesto figurale. Figura è il sistema di riconoscimento dei meccanismi vittimari e di
persecuzione, visti, percepiti e narrati dal punto di vista degli ultimi, del popolo, di coloro che subiscono più
facilmente di altri i meccanismi sociali di esclusione persecutoria. E la Passione e morte di Cristo è il centro
di senso verso cui questa storia tende. L’analisi antropologica comparativa di Girard, in La violenza e il
sacro, come in Delle cose nascoste potrebbe essere vista come un allineare di figure, ovvero anticipazioni di
quell’evento, la cui piena rivelazione della sua verità è basata sulla ripetitività dello schema di base (sebbene
il significato venga capovolto nella rivelazione cristiana).
Rispetto alla natura del realismo rappresentativo e al rapporto con la narrazione figurale bisogna
sottolineare come Girard insista sulla realtà della persecuzione di cui il mito parla: non si tratta di una
semplice permutazione di forme immaginifiche arbitrarie, ma di trasfigurazioni di eventi reali. Allo stesso
modo Auerbach sottolinea come la nozione di figura non sia interpretabile in senso simbolico o allegorico
ma si riferisca a eventi reali. Per Auerbach, l’allegoria scorpora uno dei due poli emblematici, facendone una
riminiscenza ideale, di carattere platonico, mentre figura insiste sulla realtà degli eventi messi in
associazione — posizione questa che risuona con l’intrinseco anti-platonismo e anti-idealismo di Auerbach,
e che è stato collegato da critici alla sua volontà o necessità di fornire una forte distinzione fra oriente
grecizzato e occidente romanizzato. Figura si libera di tutti i residui platonici presenti nel concetto di
«allegoria» e diventa uno strumento di descrizione realistico che si preoccupa di salvaguardare la realtà di
ogni evento descritto. Mentre la lettura simbolica di un testo rimanda a un contesto di interpretazione, spesso
esoterico, il realismo figurale e sacrificale affonda le sue radici nella dinamicità antropologica dell’uomo
che, attraverso il riconoscimento della realtà di questa descrizione, può ricavare conoscenza e
consapevolezza di sé. È l’inizio della Bildung, che è mimetica, che è imitativa in quanto riconoscimento
empatico di un dramma familiare. Il realismo figurale fornisce all’uomo una forma di rappresentazione che
lo include, e non che lo esclude, rispetto a riferimenti culturali a lui non immediatamente disponibili.
Figura, come termine medio fra littera-historia e veritas, è inoltre quanto connette l’antropologia di base
del Cristianesimo con la proiezione trascendentale, attraverso il continuo richiamo a Cristo e alla sua
Passione. La dimensione figurale fornisce una verticalità al processo di evoluzione orizzontale della storia.
Nel concetto di Figura, dice Auerbach, non c’è una connessione causalistica e storica fra eventi,33 ma un
collegamento verticale attraverso la provvidenza divina; viene sciolto il legame orizzontale e causale dei fatti
e si instaura la coscienza che il fatto «è cosa sempre stata e che si compie nell’avvenire». In maniera molto
girardiana, l’esempio che Auerbach adduce è la connessione figurale tra il sacrificio di Isacco e quello di
Cristo.34
La Passione di Cristo è Erfüllung (compimento) come momento capitale di una storia progressiva di
comprensione della realtà umana e punto culminante della dimensione profetica propria dell’ebraismo. La
dimensione figurale è solo in senso lato tipologica. Omero è tipologico, perché c’è una dimensione di fissità
storica nella strutturazione del carattere umano; mentre la romanità di Virgilio aggiunge già una dimensione
di destino, di processo storico, una dimensione figurale allo schema evolutivo delineato da Auerbach, che
difende con forza l’importanza di Virgilio e della pax romana come sistema di cornice per l’avvento del
cristianesimo, come momento figuralmente preparatorio per la comprensione del meccanismo di novità
introdotta dal Cristianesimo. È quella anima naturaliter Christiana delle figure pre-evangeliche che Dante
incorpora nella sua visione cosmologica e storica, allo stesso modo in cui Girard ha messo in luce come il
cristianesimo, per la sua continuità antropologica con la cultura arcaica, la redime spiegandola nella sua
interezza e saldandola alla storia stessa della cristianità e del mondo moderno.
Il riconoscimento figurale diventa inoltre la forma di diffusione culturale del cristianesimo, cioè la forma
di comprensione dell’alterità, delle culture pre- e post-cristiane, attraverso lo schema vittimario.
L’universalità della persecuzione e il momento creaturale, di sofferenza, come base consustanziale
dell’uomo, permette all’etica cristiana di allargarsi orizzontalmente in senso spazio-temporale e di trovare un
linguaggio comprensibile universalmente.

33
Quando si sottolinea che non c’è un rapporto di carattere causalistico nell’interpretazione figurale, è solo in parte vero perché di
fatto i cambiamenti percettivi e di lettura modificano la narrazione storica e la sua interpretazione, ovvero modificano gli elementi
rilevanti nella costruzione del racconto complessivo del mondo.
34
M I, pp. 83-84.
Questo schema interpretativo possiede anche un elemento riflessivo, nel senso che nonostante Auerbach
ne parli sostanzialmente in riferimento alla cultura medievale e all’esegesi dantesca, in realtà allarga il raggio
storico della concezione figurale fino a usarla surrettiziamente anche su se stesso. Discutendo del rapporto
fra realtà storica e leggenda nel primo capitolo di Mimesis, Auerbach accenna brevemente a due esempi
storici: la persecuzione dei cristiani in epoca romana e l’avvento del nazionalsocialismo (la persecuzione
degli ebrei) stabilendo, senza mai esplicitarlo ma in maniera evidente, un nesso figurale fra i due eventi.35 A
dire il vero tutto Mimesis sembra essere costruito attraverso dei rimandi figurali interni che di fatto servono
da meccanismo probatorio rispetto alle assunzioni teoriche e storiografiche di base e che sostengono la
logica comparativa interna dell’opera. Nella sua persecuzione personale e nella persecuzione del popolo
ebraico, Auerbach non può che vedere una ennesima figura dei processi di vittimizzazione descritti nella
Bibbia e nel Vangelo; non può che convenire sulla verità della dimensione profetica e anticipatoria di quei
testi; non può che inferire che tutte quelle persecuzioni sono reali, resoconti magari trasfigurati, ma di eventi
reali. La sua esperienza stessa, il suo esilio (germano a quello dell’amato Dante) ha pertanto un valore
figurale, ovvero di testimonianza di eventi occorsi (testimone è il martire) e profetico di eventi futuri. In
questi termini può essere ripensata la natura del “prospettivismo” alla base del metodo di Auerbach: il
relativismo storico non deve condurre a «una eclettica incapacità di giudizio», proprio perché il suo essere
personalmente testimone di eventi storici costringe lo storico e ogni lettore «a penetrare così saldamente
nella comune umanità, in possibilità di essa che forse egli non avrebbe mai notato, non avrebbe mai
attualizzato in se stesso, che non si può parlare di una scelta a piacere e secondo capriccio, senza
responsabilità».36 Analizzare Mimesis significa pertanto combinare l’orizzontalità dell’evoluzione storica da
questo proposta con la verticalità ermeneutica di Figura, in una oscillazione fra evoluzione e permanenza,
cambiamento e continuità.

Storicità e soggettività

Mimesis è una storia di testi che si connette a una storia della comprensione della realtà umana,
caratterizzato da un doppio motivo di interesse: quello dei cambiamenti percettivi e rappresentativi degli
strati coscienziali, dell’interiorità umana, così come testimoniati dalle fonti testuali, letterarie e non; e quello
per i movimenti sociali e per l’irruzione delle masse, degli umili, degli ultimi all’interno della storia e della
suo auto-rappresentazione. Nel realismo di Auerbach e nel suo schema evolutivo è ravvisabile un doppio
movimento: verso l’esterno e verso l’interno, verso un’allargamento sociale dei processi di inclusione, e
verso una sempre maggiore profondità e dettaglio nella descrizione della vita interiore degli uomini, quasi a
sottolineare che la conoscenza del mondo e dei rapporti sociali, va di pari passo con la consapevolezza di sé.
Il primo capitolo di Mimesis, «La cicatrice di Ulisse», è il più emblematico e introduttivo di tutta la
tensione conoscitiva proposta nel volume e pone a chiare lettere la decisività della tradizione giudaico-
cristiana come fonte di ispirazione primaria per quella che sarà definita la cultura europea. Una tradizione
che si pone, come spiegato da Girard in Delle cose nascoste, in continuità storica ma in contrasto
ermeneutico con la tradizione classica, pagana, e con la mentalità mitica in generale.
«La cicatrice di Ulisse» mette a confronto una scena del canto XIX dell’Odissea e l’episodio biblico del
sacrificio di Isacco, elemento che testimonia ancora una volta dell’intuizione “proto-mimetica” di Auerbach:
Mimesis viene infatti inaugurato con l’analisi dell’episodio del sacrificio interrotto di Abramo, il sacrificio
del suo unico figlio. Il nuovo rapporto dell’uomo con il Dio unico nasce e si forma da questo Ur-evento,
dall’interruzione della catena sacrificale, elemento centrale di verità dell’uomo, che nella Bibbia parte
dall’episodio di Abramo e Isacco e si connette alla storia evangelica di Cristo.
Facendo un passo indietro e ritornando alla rispondenza figurale interna di Mimesis, va rilevato come il
capitolo X del primo libro di Mimesis (nell’edizione italiana Einaudi) si chiuda con l’analisi di un testo
dell’autore provenzale Antonio de la Sale: L’Hystoire et plaisante Cronique du Petit Jehan de Saintré. In
particolare Auerbach isola un frammento: il racconto del tormento di una madre, Madame de Chastel, al
cospetto della decisione di sacrificare il proprio figlio per motivi politici, con esiti opposti a quelli biblici.
Dubitiamo che questa scelta sia casuale, e crediamo che sottostia, come detto, a un disegno interpretativo di
carattere figurale. Il brano di De la Sale è contraddistinto in generale da uno stile solenne, rigido, con una

35
M I, p.23.
36
LLP, p. 19.
lingua «di casta» e un orizzonte «ristretto», cerimoniale e in generale antiumanistico; all’interno di questo
quadro irrompe però una pagina che descrive una situazione del tutto «umana», dove «un realismo
creaturale, senza veli» si concilia «con un contenuto tragico».37 Questo «realismo creaturale» è determinato
dall’inserimento, come un cuneo che penetra nella rigidità complessiva della scrittura, di un dramma
radicale, quello del sacrificio di un figlio, che ovviamente risuona figuralmente sia con la vicenda biblica che
con quella evangelica: «il realismo serio, avente per oggetto la creatura sofferente» nasce dalla «concezione
figurale cristiana e prende a prestito dal cristianesimo quasi tutti i suoi motivi concettuali e artistici»; «fin da
principio è proprio dell’antropologia cristiana il mettere in forte risalto ciò che nell’uomo è soggetto al
dolore e alla caducità, e il dato esemplare fu la passione di Cristo».38 Ritradotto in termini girardiani, la vera
rivoluzione etica, concettuale, epistemologica, sociale portata in dote dalla tradizione giudaico-cristiana alla
cultura mondiale è proprio questa: la narrazione della logica sacrificale vista dal punto di vista delle vittime.
Non più il mito che ideologicamente copre la violenza spontanea collettiva o rituale e farmacologica; ma il
resoconto veritiero e umanamente reale della persecuzione vista dal punto di vista della vittima. Attorno a
questo nucleo nasce l’antropologia cristiana di Girard e il «realismo esistenziale» di Auerbach.
Altro argomento fondamentale del primo capitolo di Mimesis è che nella Bibbia ci sia una coscienza della
dimensione temporale della nostra esperienza storica che manca nel poema greco, i cui eroi vivono ancora
all’interno di una struttura mitica dove il destino rimane fisso, immutabile. Il fato antico rappresenta una
sorta di “coazione a ripetere”; il carattere è una camicia di forza che lega l’individuo a un destino
immutabile, che si tratti di una condizione economica, di classe o casta. Nel fato antico non ci sono
trasformazioni individuali, solo il compiersi tragico di un copione già predefinito. L’azione individuale è
limitata a dettagli estetici e formali, e non si caratterizza per rivolte sostanziali rispetto allo schema mitico. I
personaggi di Omero hanno limitata complessità psicologica, alternano emozioni ad appetiti, godono di «una
vita in atto»; «Omero non conosce sfondo» e i personaggi vivono in una sorta di eterno presente; «si può
analizzare Omero […] ma non lo si può interpretare», dice Auerbach.39
L’autore del testo biblico, al contrario, dà rilievo ai vari strati della coscienza dei personaggi e mostra
come entrino in conflitto tra di loro. I personaggi biblici sono molto più sviluppati da un punto di vista
realistico, cioè il lettore si identifica più facilmente con loro e può avvicinare meglio il significato del testo
alla sua esperienza personale. Lo stesso Girard sembra prendere a prestito (senza citarlo) la distinzione di
Auerbach in relazione dell’episodio biblico di Giuseppe che commenta in Vedo Satana cadere come la
folgore:

«Mentre gli eroi mitici hanno sempre qualcosa di rigido e di ieratico, venendo prima demonizzati e poi divinizzati, Giuseppe
viene umanizzato. Egli è immerso in una luce affettuosa impensabile nella mitologia. Non è una questione di «talento letterario». La
genialità del testo sta nella rinuncia all’idolatria. […] Per la prima volta nella storia dell’uomo il divino e la violenza collettiva si
allontanano l’uno dall’altra».40

Da una parte troviamo l’unanimità rigida del pensiero e del racconto mitico, che è espressione
dell’unanimità persecutoria, dall’altra vi è l’emergere della coscienza individuale come centro di una
esperienza condivisibile e trasmissibile che è costituita dal farsi soggetto di persecuzione. Si potrebbe infatti
dire che quanto noi modernamente chiamiamo «soggettività» venga creata dialetticamente dall’unanimità
mitica, dal linciaggio e dalla persecuzione: l’individuo, modernamente inteso, nasce in quanto sub-jectum,
come perseguitato, singled-out, nel momento in cui pone a chiare lettere una domanda che risuona nei testi
biblici: «perché mi perseguiti?» (At 9, 4).
Auerbach introduce inoltre il rapporto comparativo fra «leggenda» e «storia», che aggiunge un ulteriore
livello interpretativo al chiasmo che Girard individuerà fra mito e testo biblico:

«La storia, quale noi viviamo o quale apprendiamo da testimoni che l’hanno vissuta, corre meno unita, molto più contradittoria e
confusa. […] La leggenda ordina la materia in un modo più unilaterale e più deciso, la taglia fuori da ogni altra correlazione col
mondo, sicché non può portarvi confusione, e non conosce che uomini fissati in un unico aspetto, mossi da pochi e semplici
motivi».41

37
M I, p. 269.
38
M I, pp. 269-271.
39
M I, p.15.
40
René Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, trad. it., Milano, Adelphi, 2001, p. 161.
41
M I, p. 23.
I personaggi biblici entrano in una storia lineare e progressiva, aperta, e non più chiusa e ciclica, come era
stata quella mitica; vivono sotto la dura mano di Dio, dice Auerbach, che li ha creati, eletti, ma anche «li
foggia, li piega, li plasma e, senza distruggerne l’essenza, trae da essi forme che nella loro giovinezza erano
difficilmente prevedibili»42, liberandoli pertanto dal ciclo inesorabile del mito e del fato antichi. I personaggi
biblici sono inseriti in una storia della salvezza, in un progetto di evoluzione universale, che diventa anche
un cammino di formazione personale. Questi personaggi, maturano, invecchiano, si caricano di esperienze,
sono logorati dalle prove della vita, sono soggetti a disgrazie e umiliazioni del tutto inconcepibili nel
racconto mitico classico. Il testo biblico diventa una forza che scardina la “destinazione” individuale di
carattere mitico e libera l’uomo rispetto a una propria emancipazione personale e simbolica, che avviene
attraverso esitazioni e tormenti, attraverso il disordine personale e degli eventi, senza mai seguire una
teleologia o un destino rigidi, che punta soprattutto in direzione degli aspetti di trasformazione interiore
rispetto alle ragioni e alle dinamiche del processo trasformativo. È come se il racconto biblico inventasse ad
un tempo sia la storia universale che quella individuale, strettamente legate assieme. Usando una
terminologia mutuata dalle scienze biologiche, si potrebbe dire che l’«ontogenesi» ricapitola la «filogenesi»:
gli uomini sono storici e sono iscritti in una storia.
Ma per ricostruire la storia individuale importante è il rapporto con la realtà umana, con la sua
antropologia di base. Nel testo biblico «i fatti etici, religiosi, intimi, […] si concretizzano negli elementi
sensibili della vita»; da qui l’interesse forte per la realtà materiale e umana che emerge nel testo biblico.
Auerbach afferma che «il fine religioso determina una pretesa assoluta di verità storica»; «al narratore
biblico, all’eloista, occorre credere alla verità oggettiva del sacrificio d’Abramo; l’esistenza delle norme
religiose della vita riposa sulla verità di questa e di simili altre storie»43, ovverosia sulla verità del sacrificio e
sul conseguente dramma interiore che queste vicende scatenano e sulla loro rappresentazione realistica come
strumento di identificazione. In questo senso si capisce come Auerbach non sia interessato alla mimesi come
rappresentazione verosimile della realtà, ma come strumento di immedesimazione, di compassione: vi è una
sorta di «teoria della mente» nelle descrizioni realistiche, che portano il lettore a mettersi nei panni dell’altro,
a empatizzare per somiglianza, per riflesso imitativo e anche per rispondenza alla propria condizione e
esperienza personale. Non a caso, negli Epilegomena a «Mimesis» Auerbach confesserà che da principio
aveva pensato di chiamare «realismo esistenziale» l’insieme delle forme e dei temi che in seguito avrebbe
designato con il concetto di «serietà del quotidiano».44

Il Dio di Israele

A ulteriore commento rispetto alla prospettiva comparativa presente in Mimesis, una considerazione fatta
da Auerbach a metà del primo capitolo riveste un’importanza alquanto significativa, sia per la comprensione
della sua opera, sia per un ulteriore chiarimento di come il suo lavoro sia importante per una discussione sui
processi di secolarizzazione o di «demitizzazione» della cultura occidentale. Quello che secondo Auerbach il
testo biblico cerca di fare è convincerci a inserire la nostra vita nel mondo da esso descritto e a «sentirci
membri di quella costituzione universale»:

«La cosa diventa sempre più difficile quanto più il nostro mondo s’allontana dagli scritti biblici, e, quando questi tuttavia
mantengono la loro pretesa di dominazione, è inevitabile che debbano subire un adattamento e una trasformazione interpretative».

Da qui la necessità di sviluppare un modello esegetico che possa estendersi ad altre tradizioni oltre a
quella giudaica, per fare ricadere interpretativamente tutto quanto succede altrove all’interno del piano
divino del Dio di Israele. L’esegesi stessa, spiega Auerbach, non è una forma di lettura testuale ma
innanzitutto «un metodo generale di concepire la realtà»45; l’esegesi nasce come necessità di inserire tutto ciò
che è conosciuto all’interno della storia ebraica, attraverso un’attività interpretativa che cerca di sottomettere
alle regole generali di sviluppo e di inclusione previste da questa tradizione quanto avviene altrove.
Seguendo l’idea del carattere “provvidenziale” dell’Impero Romano, o semi-profetico di figure come

42
Ivi, p.21.
43
M I, p.16.
44
Erich Auerbach, Epilegomena a «Mimesis», cit., p. 237. Su questo si veda anche G. Mazzoni, op.cit., p. 95.
45
M I, p. 19.
Virgilio nella comprensione di Dante, Auerbach vede il cristianesimo (e successivamente la modernità
europea) sotto questa luce. La necessità di inclusione e la pretesa di dominio dell’ebraismo lo costringe a una
necessaria modificazione e adattamento storici della stessa forma di questa inclusione: i Padri della Chiesa
trasformarono «tutta la tradizione ebraica in una serie di figurazioni preannuncianti la venuta di Cristo, e
assegnarono all’Impero romano il suo posto entro il piano divino di salvazione».46 Il cristianesimo, a cui
dobbiamo la nostra cultura e la nostra letteratura europea, diventerebbe di fatto lo strumento di allargamento
e di complessificazione necessaria perché la volontà di dominio sul mondo del Dio di Israele mantenga la
sua efficacia storico-sociale e culturale. Per Auerbach non c’è nessuna rottura fra ebraismo e cristianesimo,
anzi: la cultura cristiano-latina è lo strumento attraverso cui il Dio unico di Israele riesce a parlare al mondo
e ad allargare la sua influenza pedagogica e la sua pretesa di potenza. La struttura non dogmatica del
cristianesimo aumenta la sua intrinseca flessibilità storica, la sua capacità di accoglienza, la sua apertura e
elasticità, dando il la all’apertura del moderno47, anche se questo moderno sembra essere uscito dal quadro
rappresentativo fornito dalla «storia universale cristiana», determinata dal peccato originale, dalla passione e
dal giudizio universale.48 D’altro canto, in Linguaggio letterario, Auerbach scriveva che «i movimenti
moderni, che non erano più legati e richiamati da preoccupazioni di carattere cristiano, hanno preservato nei
loro obiettivi e nella loro propaganda un elemento di irrequietezza escatologica di tipo cristiano»; ovvero,
come commenta Edward Amend, la «relazione verticale con Dio che da principio aveva intensificato il
realismo cristiano viene trasferita nel mondo moderno nell’orizzonte in espansione della storia».49
Ancora una volta, è ovviamente emblematico il fatto che una prospettiva del genere sia stata proposta da
un ebreo in esilio a Istanbul a causa della persecuzione nazista. Come ha sottolineato Geoffrey Green, il
tentativo di Auerbach è chiaramente quello di ricostruire una comprensione storica delle modificazioni
simboliche, rappresentative e di linguaggio che reintegrino l’eredità del giudaismo all’interno
dell’evoluzione dell’Europa cristiana, come motore profondo di quella trasformazione della società europea
e dei suoi sistemi di rappresentazioni che l’ideologia nazionalista tedesca voleva offuscare (e addirittura
cancellare) in favore di una sempre più insistita ellenizzazione, dove si tentava di “bypassare” sia il
giudaismo che il cristianesimo in funzione di una ricostituzione di una comprensione mitica (gerarchica,
elitaria, di sangue e razza) della realtà storica e dei rapporti di potere tra gli uomini.50 Auerbach fa invece
l’operazione opposta, asserendo la profonda e sostanziale unità di ebraismo e cristianesimo: gli ebrei Pietro e
Paolo attraverso la libertà fornitagli dalla cristianizzazione si vanno a installare al centro stesso simbolico
politico ed economico del mondo occidentale per destabilizzarlo e cambiarlo totalmente dall’interno.
Partendo da una prospettiva così formulata, i processi di secolarizzazione possono pertanto essere visti e
letti come le varie fasi di una ulteriore e necessaria modificazione che la tradizione giudaico-cristiana ha
dovuto subire per adattarsi al sempre maggiore grado di inclusività che la sua missione universalizzante
richiedeva. La secolarizzazione, proprio perché prodotto della cristianizzazione del mondo, può essere vista
essenzialmente come l’immagine e la forma del necessario allargamento dell’influenza e del dominio del Dio
di Israele sul mondo. Necessità che è stata imposta sia all’allargarsi della “comprensione” geo-politica della
sua influenza — attraverso l’espansione imperialistica e coloniale che ha inglobato dosi sempre maggiori di
“alterità” — sia alla complessificazione interna indotta dall’allargamento della sua base sociale, diventata
demograficamente sempre più vasta e articolata, e sempre più mobile e democratizzata.

Forze storiche, forze sociali

Questo ultimo elemento ci guida all’interno della problematica sottesa al secondo capitolo di Mimesis,

46
Ibidem.
47
Ivi, p. 132.
48
Ivi, p. 176.
49
«The vertical relationship with God that formely had intensified Christian realism is in the modern world transferred into an
expanding horizon of history»; Edward W. Amend, Mimesis as History: Eric Auerbach’s Theory of Literary representation, «Annals
of Scholarship» 3.1, 1984, pp. 15-27 (18).
50
Cfr. G. Green, Literary Criticism and the Structure of History, Lincoln, Nebraska University Press, 1982. «Auerbach is striving to
rehabilitate Western culture, and particularly Judeo-Christian culture, from the nationalistic Aryanism of the Nazis. Thus the
apparently neutral juxtaposition of Genesis and the Odyssey serves as a powerful, and polemical, counter to anti-Semitic dismissal od
Jewish culture, with Jewish psychological complexity and historical counsciousness complementing — or even trumping —
Winckelmannian Greek clarity and harmony» (D. Damrosch, Auerbach in Exile, «Comparative Literature» 47.2, 1995, pp. 101-102).
intitolato «Fortunata», dove Auerbach considera un ulteriore opposizione dialettica di carattere storico:
quello fra cultura romana e l’emergente cultura cristiana. In questo caso Auerbach affronta questioni non più
di carattere teologico ma politico-sociale, o meglio di come la storia entri prepotentemente nel sistema di
comprensione e di rappresentazione di determinate classi sociali, che è il secondo volano esplicativo e
ermeneutico che anima la tensione conoscitiva e di scrittura di Mimesis. In «Fortunata», Auerbach propone
in particolare l’analisi di una pagina di Tacito e di una di Tucidide confrontate con l’episodio del
rinnegamento di Pietro, testo, come già detto, così centrale nelle considerazioni sulla perspicacia mimetica
offerta dai Vangeli.
Quello che Auerbach spiega è che gli storici antichi sono essenzialmente disinteressati ai mutamenti
storico-evolutivi e alle circostanze sociali ed economiche che descrivono nei loro testi. Vivono in un distacco
aristocratico e hanno un ribrezzo moralistico contro le rivolte che vengono dal basso. Non c’è nessun
interesse positivo né alcuna comprensione per le richieste del popolo o solo dei soldati.51 Le categorie antiche
sono di carattere moralistico, o cronologiche, e sono di fatto immutabili, mentre la storiografia moderna si fa
sempre domande che implicano una idea di sviluppo e di trasformazione. Domina inoltre la retorica, il
discorso eloquente, che assieme al moralismo formano quegli ideologemi “mitici” che di fatto rendono
inconcepibile la realtà intesa come sviluppo di forze.52
Nella rappresentazione antica, anche di epoca romana, «non vengono messe in luce le forze sociali» che
stanno alla base dei rapporti interindividuali rappresentati; l’individuo «rappresentato realisticamente ha […]
sempre torto di fronte alla società» che appare come istituzione immutabile e perenne53, esattamente come la
vittima ha sempre torto nella costruzione mitica: nello schema mitico-sacrificale, secondo Girard,
l’individuo, il singolo, non ha infatti nessuna autonomia ma, auto-designandosi come tale, finisce sempre per
occupare la posizione della vittima designata, ovvero del colpevole trouble-maker.
L’autodominio aristocratico, misurato e razionale, della cultura classica è uno strumento usato dall’elite
contro il salire delle masse, un autodominio che però, come visto nel capitolo III di Mimesis, è di fatto
illusorio, perché il contagio mimetico della folla è inevitabile.54 Posizione in cui oscilla appunto Pietro,
primo padre della Chiesa, testimone privilegiato di questa realtà antropologica. Abbandonare la folla e i suoi
meccanismi vuole dire diventare una persona non più preoccupata delle appartenenze e delle logiche settarie
di gruppo, di casta, ma della realtà del singolo individuo nella sua “gettatezza”, per usare un termine
heideggeriano. Ma vivere sul limite, sul confine fra appartenenza e individualità, come testimonia il dramma
di Pietro, ovviamente può essere terrificante per le latenti potenzialità di vittimizzazione che ogni posizione
liminale racchiude.55
Proprio per questo Auerbach affronta l’episodio di Pietro con una commozione e una partecipazione che
non è del filologo ma piuttosto di quello che nel contesto italiano si chiamerebbe “critico militante”.56 In
Pietro, Auerbach vede un eroe tragico che fa della sua debolezza, delle sue paure e incertezze, il centro
emotivo della sua tragedia esistenziale, in un modo che è assolutamente moderno e inconciliabile «con lo
stile illustre della letteratura antica»; il resoconto di una storia contemporanea, il cui protagonista è un umile
pescatore, che si svolge entro «una cornice quotidiana» e che costituisce «un avvenimento rivoluzionario
nella storia del mondo». Il Vangelo testimonia «l’origine di un movimento profondo, lo sviluppo di forze
storiche».57 L’attenzione per il dettaglio quotidiano, per gli aspetti idiosincratici e strettamente individuali
degli aspetti della vita e della percezione del singolo, che pensiamo così caratteristici della cultura e della
letteratura moderna, nascono da questa prospettiva introdotta nel mondo dal cristianesimo. Da qui si
comprende anche l’indicazione di Pam Morris per cui il realismo «partecipa all’impulso democratico della

51
Questo disinteresse avrebbe prodotto secondo Auerbach addirittura il limite degli antichi nei confronti di una piena comprensione
delle leggi naturali. (M I 44-45) E di converso, la propensione all’empiricismo, e l’interesse nel particolare e non nell’universale
immutabile, nella contingenza e nella trasformazione che è alla base della scienza moderna, ci verrebbe appunto dall’influenza della
tradizione giudaico cristiana.
52
M I, p. 46.
53
Ivi, p. 38.
54
Ivi, pp. 77-78.
55
Ivi, p. 238.
56
Ivi, p. 82. Auerbach non nasconde la concreta commozione che sopraggiunge leggendo un passo del genere. Anche nel saggio su
Dante la sua perentorietà di giudizio ha poco del distacco scientifico e filologico dell’accademico, ma descrive una forma di
ermeneutica fortemente patemizzata e coinvolta dal testo che sta analizzando. «If his work seems more personal than that fo Spitzer
or Jackobson, the reason is perhaps that he addresses his reader not as an academic specialist but as an individual human being. Like
Montaigne, Auerbach knows that “every kind of specializations falsifies the moral picture; it presents us in but one of our roles”»
(T.R. Hart, op. cit., p. 233).
57
M I, 51-52.
modernità. Come genere ha raggiunto una base sociale molto più ampia, sia in termini di pubblico che di tipi
rappresentati, che precedenti più elitarie forme di letteratura».58
Rispetto a questa prospettiva ci sono delle precise conseguenze sociali e rappresentative: attraverso il
registro del realismo, le masse, gli ultimi, entrano prepotentemente nella storia e nella sua rappresentazione.
Per la prima volta si fornisce una voce, esteticamente e retoricamente articolata, alle loro esigenze, dando
loro un linguaggio esortativo e passionale che riescono a comprendere e a prendere a prestito, così da potere
articolare cognitivamente e esistenzialmente la propria vita esteriore e interiore, soprattutto prendendo sul
serio i loro drammi, che acquistano nobiltà proprio perché vengono rappresentati nella loro tragica
mutevolezza, ovvero nella loro più appassionata realtà.

Stiltrennung e storia sociale

A queste progressioni di carattere sociale sono avvicinabili dei mutamenti di carattere formale che
Auerbach mette opportunamente in luce e che sono rivelativi delle trasformazioni etiche e epistemiche
avvenute nel contesto culturale europeo a partire dall’influenza delle scritture bibliche: «I redattori [della
Bibbia] non furono poeti, bensì scrittori di storia addestrati a rappresentare storicamente la vita umana»59, e
nella loro prosa «non c’è separazione dei generi letterari. Essi appartengono tutti allo stesso ordine
complessivo». La separazione degli stili che vigeva nella letteratura classica viene disattesa in maniera
compiuta nella cultura giudaico-cristiana. In particolare, «il vero fulcro della dottrina cristiana,
l’Incarnazione e la Passione» era «del tutto inconciliabile col principio della separazione degli stili»60 e con
le censure sociali e formali cui la letteratura greca e latina sottoponevano gli argomenti di stile alto»61:

«il re dei re, beffeggiato, sputacchiato, flagellato e inchiodato sulla croce come un volgare delinquente — oh, il racconto di
queste cose, non appena penetra nel cuore degli uomini, annienta completamente l’estetica della separazione degli stili, produce un
nuovo stile sublime, che non disdegna affatto il quotidiano, e accoglie in sé il realismo sensibile, la bruttezza, l’indecenza, la miseria
fisica».62

Al contrario dell’antichità, dove il realismo del quotidiano è sempre reso in chiave comico-parodica, il
realismo, nella modernità cristiana, non è incompatibile con la tragicità (o meglio con la serietà) e con il
sublime.63 Vi è l’emergere dell’elemento paratattico — che nelle lingue antiche troviamo solo nello stile
umile64 —, capace di rendere meglio le convulsioni emotive dei protagonisti del dramma, assecondando la
dimensione del parlato a scapito della lingua alta e della lingua letteraria.65
Se, come parafrasa Guido Mazzoni, «nella storia occidentale ogni società antiegualitaria, retta da un’etica
di tipo aristocratico e da un ideale eroico di vita adempiuta, ha generato forme di Stiltrennung [divisione
degli stili]», 66 l’abbattimento della separazione degli stili, e quindi il «realismo», si impongono attraverso il
deteriorarsi delle differenze sociali, di censo o di casta tipiche della strutturazione sociale della cultura greco-
romana o pagana in senso ampio. Questo può essere pensato in termini girardiani come la progressiva
consunzione storica dell’ordine sacrale, indotta dal cristianesimo, che ha introdotto nel contesto europeo una
sempre maggiore fluidità nelle distinzioni sociali come degli stili, in una progressiva “carnevalizzazione” del
mondo e delle sue forme rappresentative (per dirla con Bachtin).67 La storia delle forme e dei generi è

58
«Realism participates in the democratic impulse of modernity. As a genre, it has reached out to a much wider social range, in terms
both of readership and of characters represented, than earlier more élite forms of literature» (Pam Morris, Realism, London-New
York, Routledge, 2003, p. 3).
59
M I, p. 25.
60
Ivi, p. 80.
61
G. Mazzoni, op.cit., p. 93.
62
M I, p. 82. È quanto Girard ha affermato recentemente relativamente a un film controverso come La Passione di Cristo di Mel
Gibson; cfr. R. Girard, A propos du film de Mel Gibson, La Passion du Christ, «Le Figaro Magazine», Marzo 2004.
63
M I, p. 38.
64
Nella Chanson de Roland, esso invece per la prima volta appartiene allo stile sublime, «che si basa non sul periodare e sulle figure
retoriche, ma sulla forza di blocchi linguistici indipendenti posti uno accanto agli altri» (M I 121-122).
65
M I, p. 86.
66
G. Mazzoni, op.cit, p. 93.
67
Anche il plurilinguismo romanzesco teorizzato da Bachtin potrebbe essere pensato come debitore della mescolanza degli stili che
la tradizione biblica ha indotto.
connessa con la storia sociale, e i generi sono da intendersi come modalità di auto-rappresentazione di una
determinata classe o ceto (dove il rapporto fra il romanzo moderno e l’emergere della borghesia è quello più
ampiamente documentato e discusso), che però trovano sempre maggiore dinamicità e contaminazione inter-
generica.
Auerbach si fa carico comunque di spiegare come nella storia culturale siano ravvisabili delle oscillazioni
storiche tra l’emergere di generi rivelativi, intrinsicamente realistici, che invitano il lettore all’adesione a una
condizione umana condivisa, e meccanismi “mitici” di occultamento, che rispondono a intereressi parziali, di
gruppo, sia questo politico o economico o di classe (in senso più sociologico che marxista).
È il caso del romanzo cortese, che è servito alla definizione e rappresentazione della cultura cavalleresca,
ovvero di un «unico ceto; un ceto che si distanzia dagli altri ceti contemporanei i quali appaiono qualche
volta come comparse, per lo più comiche e grottesche, cosicché si conserva rigidamente la separazione
sociale». Il dovere articolare degli ideali di vita porta paradossalmente la cultura umanistica a sterilizzare il
potenziale e intrinseco realismo del romanzo cortese trascinandolo verso la fiaba e privandolo della sua base
«politico-reale».68 Questa tendenza si determina anche attraverso il congiungimento con un certo platonismo
di fondo della cultura rinascimentale che diventerà paradigmatico nel Cortegiano di Castiglione.69
Quando una determinata classe tenta di ipostatizzarsi, togliendosi in qualche modo dal corso
trasformativo della storia, ossia di staccarsi dalla forza propulsiva delle masse, tende a recuperare una
dimensione mitica, idealistica, di ritirata dalla realtà, unito a un atteggiamento elitario. Come ha sottolineato
Pam Morris, «se uno guarda ai dibattiti che si sono formati attorno al realismo come forma letteraria, risulta
evidente che la sua relazione con il mondo extra-testuale sono caratterizzati da un timore per la cultura di
massa. Il romanzo per esempio è stato una delle forme popolari ad essere accusate di semplificazione
popolarizzante [dumbing down]».70
Le forme di ipostatizzazione idealizzante possono resistere a lungo, spesso influenzano anche gli strati
sociali inferiori, ma proprio per questo sostanziale allontanarsi dal corso mobile della storia, alla fine si
svuotano, diventando di maniera, puramente di superficie, fino a traboccare nella parodia, come ci racconta
Cervantes nel Chisciotte. L’ideale cavalleresco, in quanto mitico, in quanto ideale ormai fuori dalla storia,
agisce come strumento di limitazione del realismo letterario71, e come tutte le ideologie filtra la realtà fino a
renderla fantasmagorica72, con una confusione, come quella dell’hidalgo servantino che «non è meramente
psicologica ma epistemologica».73 Il Chischiotte, celebrando l’infinita capacità immaginifica dell’uomo nel
riaccomodare i dati percettivi con la propria mitografia, la realtà fenomenica con l’«idealismo della sua idea
fissa», pone l’accento sulla perplessa comicità di questi atteggiamenti.74

Modernità

Molti commentatori dell’opera di Auerbach hanno ravvisato nelle sue considerazioni genealogiche una
rottura del paradigma figurale con l’avvento della modernità. Con l’emergere dell’illuminismo, della

68
M I, pp. 146-147.
69
M I, pp. 154-156. Proprio per questo motivo è evidente in Mimesis la complessiva svalutazione della letteratura d’epoca
rinascimentale, visto come un momento “restaurativo” nel cammino di progressione della comprensione realistica della realtà umana,
allo stesso modo per cui Auerbach non ha mai mostrato particolare entusiasmo né per Petrarca, né per il Dolce stil Novo, affetti
entrambi da un intrinseco idealismo platonizzante.
70
«In tracing the debates that have developed around realism as a literary form, it becomes apparent that issue about its relationship
to the non-fictional or non-textual world are frequently influence by fear about mass culture. Novels were perhaps the first popular
form to be accused of ‘dumbing down’» (Pam Morris, Realism, London-New York, Routledge, 2003, p. 4). Corsivi miei. Il realismo
in questo senso agisce sia come sistema di rivelazione sia come principio di decomposizione di queste strutture di separazione ideale
e platonizzante, agendo come un principio democratizzante.
71
M I, p. 152.
72
M II, p. 98.
73
F.R. Ankersmit, Why Realism? Auerbach on the Representation of Reality, «Poetics Today», 20.1, 1999, p. 56.
74
È interessante vedere come attorno al Chisciotte Auerbach accumuli una serie di riferimenti che vanno a quel canone di riferimenti
romanzeschi che saranno analizzati da Girard in Menzogna romantica: Flaubert, Stendhal, Dostoieviski (M II 97-103). In generale,
nelle sue analisi Auerbach cerca soprattutto degli autori che si presentino come cerniere o come momenti di rottura, di novità
rivoluzionaria rispetto agli schemi coevi, autori che parlino improvvisamente in maniera nuova, e questo avviene per Auerbach
sempre nel segno del realismo: Dante, Rabelais, Montaigne, Cervantes, parlano della realtà umana come nessun altro prima di loro,
sia dal punto contenutistico che formale.
rivoluzione scientifica e di quella francese, con l’ascesa della borghesia, accompagnati dallo stabilizzarsi del
romanzo moderno come forma rappresentativa cardine della cultura europea, il quadro totalizzante che
teneva insieme la cultura medievale e la sua lettura provvidenziale, progressiva e figurale della storia e delle
sue forme rappresentative, viene a perdersi.75 Emerge al contempo il pluralismo delle democrazie
occidentali, lo storicismo, il prospettivismo, l’individualismo, come termini attraverso cui da una parte la
soggettività si rifrange e si articola, e dall’altra il senso della storia comincia a perdere unità e direzione.
Un primo passaggio importante nella lettura di Auerbach sembra ravvisabile in Rabelais, dove si scorge
già una disposizione anticristiana in quel «trionfo vitalistico dell’essere corporeo e delle sue funzioni», dal
momento che se «non esiste peccato originale e nemmeno giudizio finale […] dunque non esiste una paura
metafisica della morte».76
In realtà, accanto alla corporeità esuberante e carnevalesca rappresentata da Rabelais, Auerbach
commenta anche la contestuale ambiguità intrinseca dell’individualismo che sta emergendo a partire dai
presupposti umanistici e rinascimentali, progressivamente spogliati della cornice morale e teologica della
religione tradizionale. L’uomo è certamente più libero, sottolinea Auerbach, ma non è più forte: dopo
l’obbedienza “fanciullesca” sotto la mano di Dio gli è stata consentita una maggiore libertà “adolescenziale”
che però non è necessariamente sinonimo di dominio individuale, ma anzi diventa un dipendere sempre
maggiore da dinamiche di carattere orizzontale e mimetico: l’uomo rabelesiano non ha infatti un’essenza
particolare ma «è più proteiforme, più propenso a guizzare dentro una pelle altrui, e in lui vengono
fortemente esaltati i tratti comuni, sovraindividuali». Rabelais non concede ai suoi personaggi «una
personalità compatta: essi incominciano a cangiare, un’altra persona occhieggia improvvisamente da essi con
occhi diversi, secondo la condizione e l’umore».77 Risuona qui l’ipotesi interpretativa formulata da Girard in
Menzogna romantica e ricalibrata poi nel libro su Shakespeare («Oh teach me how you look»), per cui la
modernità, proprio per il disgregarsi dell’ordine verticale garantito dalla trascendenza religiosa, ha
contribuito in maniera diffusiva al costituirsi di una più piena e pervasiva orizzontalità mimetica dei rapporti
«interdividuali». Dalla «mediazione esterna» garantita da un quadro etico-storico informato dalla cristianità
antica e medievale, si passa progressivamente a una sempre più insistita secolarizzazione, ovvero a un
espandersi dei fenomeni di «mediazione interna» dove gli uomini diventano dèi gli uni per gli altri, misura
espressiva e desiderante gli uni degli altri. D’altro canto questo contribuisce a dare maggior corpo a quella
profondità storica e a quello sguardo per il dettaglio sociale che si scorge nel romanzo moderno: se
l’eziologia della «mediazione interna» viene declinata da Girard attraverso le forme illusorie e menzognere
della falsa trascendenza e del «desiderio metafisico», d’altro canto è proprio questa maggiore
internalizzazione dei processi di mediazione interdividuale, questa maggiore orizzontalità di carattere
democratico, che permette una maggiore focalizzazione dello sguardo verso l’altro, un processo più cospicuo
di immedesimazione compassionevole con i drammi altrui, reali o rappresentati, sentiti come consentanei. In
riferimento a Stendhal, ad esempio, Pam Morris parla di «un secolarismo diffuso» nella sua prosa, che
proprio per questo rifiuta l’onniscenza autoriale, portando il lettore a considerare l’articolarsi dei punti di
vista dei personaggi: «la voce narrativa propone un’intimità di tono che chiama il lettore a partecipare a una
familiarità di tipo democratico e non gerarchico con il narratore e con il mondo rappresentato».78
L’ipotesi mimetica di Girard ci aiuta in questo senso a ricostruire i passaggi storico-interpretativi proposti
da Mimesis non in chiave di rottura ma in termini di continuità (che del resto appaiono visibili anche in
Auerbach). Questo è vero soprattutto rispetto al motore effettivo della secolarizzazione: l’azione anti-
vittimaria del Vangelo. La secolarizzazione non è un abbandono delle radici cristiane dell’Europa ma una
sua conseguenza estrema, un suo allargamento nei modi e attraverso la grammatica che questo allargamento
richiedeva. Se dovessimo adottare il vocabolario teorico usato da Auerbach nel primo capitolo di Mimesis,
potremmo dire che la modernità e la secolarizzazione sono la forma dell’adattamento richiesto al

75
Come sottolinea Guido Mazzoni: «Il passaggio al realismo moderno non comporta solo la crisi dello sfondo moralistico; comporta
anche la crisi della cornice religiosa che rendeva possibile il realismo cristiano, sostituita dagli universali mutevoli e terreni dello
storicismo moderno» (G. Mazzoni, op. cit., p. 96).
76
M II, p. 18. A proposito ancora Mazzoni commenta: «Se tutti i lettori di Auerbach vedono che la mimesi moderna rompe con la
Stiltrennung antica e classica, non tutti vedono che la serietà del quotidiano comporta una rottura analoga con la tradizione del
realismo creaturale, perché la vita quotidiana, il corpo, il tempo non vengono più visti nella prospettiva teologico cristiana della
caducità e del peccato, ma si caricano di un significato immanente del tutto nuovo, simile a quello che si manifesta, per esempio
nell’opera di Rabelais e di Montaigne» (G. Mazzoni, op. cit., p. 95).
77
M II, p. 19.
78
«The narrative voice sustains an intimacy of tone that interpellates the reader into a non-hierarchic, democratic familiarity with the
narrator and the narrator and the represented world» (P. Morris, op. cit., pp. 58-59).
cristianesimo per allargare la sua azione diffusiva, che dal Cinquecento in poi si misura, inter-culturalmente
e inter-religiosamente, con un mondo globale; con forme nuove di relazione fra cultura di massa e processi di
(pseudo)trascendenza; con un nuovo rapporto fra individuo e storia sociale e politica, il tutto espresso
attraverso quel «realismo serio» dell’emergente romanzo borghese «che non può rappresentare l’uomo se
non incluso entro la realtà politica e sociale ed economica continuamente evolventesi».79 Il principio di
uguaglianza e democratizzazione che aveva ispirato il realismo cristiano, il sermo humilis, il mescolarsi di
classi sociali, di tipi di azione, di livelli stilistici, sono elementi che si inspessiscono nella storia del romanzo
moderno, anche se apparentemente al di fuori di un quadro religioso istituzionale (ma surrettiziamente
ancora informati dai presupposti della cultura giudaico-cristiana).
Del resto nelle sue forme più alte e emblematiche, come spiega Girard, il romanzo è testimone di questo
passaggio, del riadattamento cognitivo e etico dell’eroe moderno in un mondo che ha abbandonato lo
sguardo protettivo di Dio, consegnandosi ai meccanismi di mediazione interna e ai volti multiformi e
immanenti della “falsa” trascendenza: vuoi le forme letterarie (Cervantes), vuoi il rango sociale (Stendhal),
vuoi la pletora di «doppi» mimetici (Dostoevskij), vuoi l’élite da salotto borghese (Proust). Il romanzo
trasfigura per Girard un processo coscienziale dell’individuo moderno, di caduta e possibile redenzione, che
formula un percorso rivelativo e demistificatorio, fornendo una versione secolarizzata della testualità biblica
e del suo «realismo esistenziale». Il romanzo, specchio della liberazione coscienziale e individuale, è
rivelativo dello scacco dell’individuo moderno, dell’inautenticità dei suoi desideri, della mediazione
continua a cui è costretto quando distolto dalla verticalità protettiva del divino e dei possibili inferni a cui
questa nuova libertà può condurlo. L’approdo romanzesco, nelle sue forme più alte, è per Girard la presa di
coscienza «romanzesca» del potenziale scacco dell’individualismo di carattere romantico che Girard
riformula in termini di «conversione».
Al piano esistenziale si affianca anche il piano ermeneutico-testuale. Come ha notato Laszlo Géfin, a
commento di Mimesis, la stessa figuralità viene traslata all’interno delle categorie testuali moderne: «instead
of the Hebrew scriptures serving as figurae in the fulfilment of a divine plan, various documentes have been
co-opted for use as secularized Bibles».80 La figuralità non si estingue ma muta forma e campo: «a version of
figurality surreptitiously invaded Auerbach’s scheme, the modern novel itself had clung to figurality, albeit
in a changed and […] inverted manner».81 La letteratura ottocentesca, come ha sottolineato anche Wolfgang
Iser, diventa una sorta di «secular religion that occupied a leading position in bourgeois society».82 Quello
che accade in Stendhal, per esempio (ma che era già presente in Cervantes), è una persistenza della figuralità
desacralizzata, attraverso modelli che non sono più divini ma esemplarmente moderni, del tutto immanenti,
modelli in particolar modo letterari. La costruzione identitaria di Julien Sorel è un vero e proprio montaggio
di «ideal models or prototypes»; i testi sono «sites of refigured fulfilments» che però sono «responsibles […]
for the disjunction of a false (“reale”) and an imagined ideal world»; l’eroe romantico è «subject to
idealization, not to say idolatry, because they come to be seen not only as traces but as embodiments of a
fuller reality and a unified self or subject preceding any dissociation of sensibility».83 Per Géfin Le Rouge et
le noir può essere visto come una cronaca della nascita «of the divided fictional subjects, male and female,
the first inauthentic (because nostalgically belated) “figurae” in the Europaean novel».84
Si entra pertanto in una visione “post-figurale” che può essere pensata e tradotta come un nostalgismo
romantico per una pienezza appartenuta al passato: «split subjects whose nostalgic desire had invested a
past’s textual traces with a power and glory that it could never possess»,85 ma che risuona anche con quel
sentimento più autenticamente apocalittico che era stato San Paolo a vivere dopo la rivelazione, dove tutto

79
M II, p. 231.
80
Laszlo K. Géfin, Auerbach’s Stendhal: Realism, Figurality, and Refiguration, «Poetics Today» 20.1, 1999, p. 36.
81
Ivi, p. 29. Géfin è uno dei pochi critici che abbia convocato Girard a glossa di Auerbach, ancorché abbia visto nella lettura di
Stendhal di Menzogna romantica una prospettiva opposta, secondo me erroneamente, a quella predicata da Auerbach (Ivi, p. 36, in
nota).
82
Wolfgang Iser, Prospecting: from reader response to literary anthropology, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1993, p.
132.
83
Laszlo K. Géfin, op. cit., p. 32.
84
Ivi, p. 39.
85
Ivi, p. 36; «The desperate longing of the novelistic subject for the assumed substantiality of antecedent textual figures is a sign that
the subject is basically empty, devoid of a transcendentally authorized selfhood. The structure of the modern novel, with its reliance
on intertextual scraps and fragments, may thus be taken as a secularized follow-up to an older, ontologically based notion of
justifying the present in terms of the past».
quello che di rilevante doveva accadere nella storia era di fatto già accaduto, e gli esempi di figuralità
successivi non sono che copia sbiadita di quella decisiva e assoluta dell’incarnazione e morte di Cristo.

Modernismo

Se le conclusioni romanzesche, secondo Girard, sono anche forme di conversione, ovvero la presa di
coscienza della vanità del desiderio metafisico e della sua ineffettualità, con gli autori del modernismo
europeo il quadro sembra farsi più fosco, dove l’individuo appare sotto una luce da «tramonto del mondo».
Romanzi come L’Ulisse di Joyce, Gita al faro di Woolf (ma potremmo aggiungere anche La coscienza di
Zeno di Svevo),86 «romanzi che seguono la tecnica del frangersi della coscienza, dànno al lettore la
sensazione che non vi sia alcuna via d’uscita».87 Facendo dell’io l’unico orizzonte di possibile comprensione
del mondo, il realismo rappresentativo del modernismo si consegna una deriva solipsistica, se non addirittura
nichilistica, sprofondando progressivamente nella coscienza individuale e nelle sue convulsioni come
conseguenza ultima in ambito artistico-letterario del “decadimento” di un processo figurale che diventa
sempre più opaco, invischiato in una testualità che cerca in se stessa la propria giustificazione e
illuminazione, ma che è nondimeno una delle trasfigurazioni di quel «realismo esistenziale» predicato da
Auerbach. Non si tratta ancora una volta di rottura ma di evoluzione conseguente dei processi di
secolarizzazione in cui il cristianesimo rimane visibile sottotraccia come forza ispiratrice. L’esperienza
romanzesca è, secondo Girard, ancora informata dal simbolismo cristiano, così come accade anche nel
Proust commentato da Auerbach, dove all’interno di una prospettiva temporale traspare figuralmente
«qualche cosa della simbolica onnitemporalità dell’accaduto, fissato nella coscienza rievocatrice»88; o come
in Joyce dove troviamo ad un tempo un «riflettersi della coscienza e della stratificazione dei tempi»89, come
a specificare che l’unica forma di ricomposizione della plurisoggettività coscienziale dell’eroe moderno
viene trovata in un riconoscimento palinsestico e figurale della stratificazione simbolica che si deposita nella
memoria individuale e collettiva. Una forma di salvezza viene trovata nell’aderenza passionale e coscienziale
a questa «onnitemporalità dell’accaduto» dove il rapporto del narratore proustiano con il padre viene
trasfigurato in termini biblici attraverso, ancora una volta, l’immagine di Abramo e Isacco. È questa
continuità che del resto garantisce l’organicità del processo storico che Auerbach intravede sottotraccia e che
porta alla possibile unificazione delle esperienze umane, per cui la “pedanteria” descrittiva dei romanzi
modernisti, il loro evidenziare sempre più «i tratti elementari della nostra vita, comuni a tutti», continua ad
scavalcare qualsiasi forma di prospettivismo o relativismo radicali. Il processo storico ha potenzialità
convergenti e unificanti, a dispetto dei settarismi e dei fascismi che hanno tentato di deviare e di ritardare
questi processi90: «sotto le lotte, e anche per mezzo di esse, si compie un livellamento economico e
culturale», che annuncia una ormai prossima méta, un processo di «unificazione e semplificazione» globale91
in cui una umanità comune potrà universalmente riconoscersi, come una traccia di quel «cattolicesimo» che è
appunto implicito nell’opera universalizzante del cristianesimo.

Coda: postmodernità

Un ulteriore esercizio storico-ermenutico sollecitato dalla lettura di Mimesis sarebbe quello di estendere i
presupposti e la metodologia dell’analisi di Auerbach al di là dei limiti temporali e cronologici contingenti
determinati dalla stesura della sua opera, prendendone a prestito il modello critico e applicandolo alla

86
Su questo si veda il mio Rivalità, risentimento, apocalisse: Svevo e i suoi doppi, in P. Antonello et alii, Identità e desiderio. La
teoria mimetica e la letteratura italiana, a cura di P. Antonello e G. Fornari, Massa, Transeuropa, 2009, pp. 143-63.
87
M II, p. 336.
88
Ivi, p. 328.
89
Ibidem.
90
Ivi, p. 335.
91
Ivi, p. 338.
produzione artistica e simbolica contemporanea (e che ovviamente può trovare per ora solo formulazione
molto preliminare e una serie di spunti tutti da approfondire, verificare e organizzare storicamente).
Una prima esigenza correttiva rispetto al quadro fornito da Mimesis sarebbe quello di allargarne le
considerazioni fino a inglobare la cultura visuale: l’emergere del prospettivismo, dello psicologismo,
dell’interesse per le interpretazioni soggettive dell’accadere, non andrebbe solamente spiegato attraverso una
evoluzione interna ai generi, ma anche attraverso l’immane rivoluzione tecnico-materiale che ha investito le
arti figurative e il romanzo tra fine Ottocento e inizio Novecento: l’invenzione della fotografia e del cinema,
come strumenti tecnici e forme artistiche che hanno avuto la volontà e la capacità di rappresentare e
descrivere la realtà in maniera più vivida, realistica e emotivamente perturbante di qualsiasi altra forma
artistica tradizionale. Se ne accorge del resto anche Auerbach quando scrive che: «il dramma
cinematografico possiede possibilità molto maggiori che non il romanzo per dare agli oggetti una struttura
temporale-spaziale».92 Questo ovviamente non può non avere avuto un impatto sia nelle forme di auto-
rappresentazione della cultura europea sia sullo sviluppo dei generi tradizionali che hanno reagito sia in
termini di fascinazione e di prestito, sia in termini dialettici, di differenziazione rivalitaria rispetto
all’irrompere delle nuove forme rappresentative.
A questo proposito va sottolineato come ad Auerbach non interessi affatto dare alle forme letterarie un
valore cardine e centrale rispetto alla sua disamina. Le sue analisi si danno inter-genericamente, ponendo
sullo stesso piano testi di carattere storico, poetico, liturgico-religioso, romanzi, cronache, come del resto
non ha problemi ad accostare Shakespeare a Chaplin.93 A dire il vero la storia del realismo proposta da
Auerbach potrebbe essere ricomposta in maniera simile prendendo a paradigma la pittura europea
occidentale, anch’essa informata da un interesse per il «realismo esistenziale» e mediata sin dalle origini
dalla figura Christi: dal distacco dal Cristo platonico e ieratico della tradizione greco-bizantina all’affermarsi
della rappresentazione realistica e empatica di Giotto, più o meno nello stesso periodo in cui Dante costruiva
il miracolo della Commedia; dall’emergere di un platonismo intrinseco nel rinascimento e nei suoi studi
prospettici — che non impediva comunque a un pittore come Mantegna di potenziare la nostra visione
«realistica» dell’ecce homo —, all’ulteriore spinta in termini sia di realismo che di “popolarizzazione” e
allargamento di rappresentazione sociale in un artista come Caravaggio.
Di fatto uno studio ampio sullo sviluppo del realismo rappresentativo nella modernità dovrebbe
necessariamente integrare la dimensione testuale con quella visuale per ricostruire compiutamente i
meccanismi di apprensione imitativa e i processi di identificazione figurale. Se c’è un lascito evidente della
cultura occidentale è proprio questa particolare ibridizzazione di parola e immagine; e qualsiasi tentativo di
isolare la letteratura in una sorta di purezza discorsiva, è in qualche modo perdere di vista l’eredità del
cristianesimo occidentale che ha permesso al testo biblico (e poi a tutti i testi) di rifrangersi in immagini
esemplari e viceversa. Icasticità, oralità, paratassi, esemplificazione, casistica individuale, esperienza
dell’altro — caratteristiche del «realismo esistenziale» come definito da Auerbach — si ritrovano
preponderanti nella cinematografia del Novecento, che andrebbe anch’essa ripensata in una prospettiva
compiutamente “mimetica”, in una possibile convergenza ermenutica fra Auerbach e Girard.
Non solo. Saremmo tentati di dire che se Auerbach non fosse scomparso nel 1957, avrebbe dedicato
qualche riflessione anche alla allora nascente televisione che ha contribuito in maniera massiccia e estensiva
all’introduzione di schemi di imitazione, modelli di comportamento e di linguaggio basati sull’oralità e
sull’immagine, e pertanto immediatamente disponibili a tutti gli strati della popolazione a prescindere dal
loro grado di istruzione o dallo loro disponibilità economica. A parte le varie forme di pseudo-realismo
vuoto, sorta di travestitismo di istanze di distinzione sociale spacciate per “realtà”, con documentari,
reportage, serie televisive, veri romanzi d’appendice della nostra post-modernità, la vivacità della realtà
quotidiana è resa in maniera più minutamente mossa, costruendo narrazioni di comprensione condivisa dei
drammi umani che propongono voci, comunità, uomini e storie che provengono dalle parti più remote del
globo. Crediamo che, se ancora in vita, Auerbach avrebbe dedicato qualche riga a I Soprano e The Wire.

92
Ivi, p. 330.
93
Ivi, p. 103.

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