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Francesco Lamendola

I FILOSOFI E GLI ANIMALI:

I RAGNI DI SPINOZA E LE MOSCHE DI LEIBNIZ

È strano, ma invano si cercherebbe qualche riga dedicata alla compassione per


gli animali nella maggior parte dei volumi dedicati ai problemi dell'etica dai
filosofi dell'Occidente moderno. Eppure si sono occupati del rapporto fra l'uomo
e l'animale, ma sbrigativamente e con una insensibilità che lascia senza parole:
come nel caso di Cartesio e anche in quello di Spinoza.
L'idea che gli animali, questi nostri fratelli minori, siano anch'essi soggetti di
diritti, sembra non aver neppure sfiorato la mente della maggior parte di essi;
e, quanto alle sofferenze che vengono inflitte agli animali dagli esseri umani, si
tratta di cosa ovvia e perfettamente naturale, che potrebbe destare
commozione solo in qualche animuccia un po' femminea. Ad ogni modo, tale
riflessione non dovrebbe turbare minimamente i sonni di coloro i quali fanno
professione di filosofia, ossia di esercizio razionale del pensiero. Con qualche
eccezione, magari (per esempio, quella di Montaigne); ma è certo che la
cosiddetta "rivoluzione scientifica" del XVII secolo nasce appunto da una totale
esclusione degli animali dalla sfera dell'etica.
Un esempio caratteristico di tale punto di vista, che non si dà neanche la pena
di giustificarsi teoricamente, si trova nella "favola dei suoni" di Galilei che, ne Il
Saggiatore, descrive la vivisezione di una cicala compiuta a scopo scientifico,
senza che la sofferenza e la morte inflitte all'animale vengano prese in
considerazione da un punto di vista etico.

"…quando, dico, ei credeva di aver veduto il tutto [circa l'origine dei suoni
naturali e artificiali] trovossi più che mai rinvolto nell'ignoranza e nello stupore
nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle
l'ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere
squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto, e
vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili e credendo che lo strepito
derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che
tutto fu in vano, sin che, spingendo l'ago più a dentro, non le tolse,
trafiggendola, colla voce la vita, s^ che né anco poté accertarsi se il canto
derivava da quelle."

Nell'antichità, a dire il vero, filosofi come Plutarco di Cheronea avevano


ammonito che l'uomo deve agli animali un atteggiamento non solo di pietà, ma
anche di giustizia (cfr, l'ampia antologia a cura di Ginto Ditadi I filosofi e gli
animali, Este-Padova, Casa Editrice Isonomia, 1994, 2 voll.), da cui derivava, fra
l'altro, la necessità di adottare una dieta vegetariana.
Dal canto suo, Teofrasto aveva affermato, in un'opera intitolata Della pietà e di
cui sono pervenuti solo alcuni frammenti, che anche gli animali sono dotati di
anima, che nelle loro vene scorre il sangue come nelle nostre e che il cielo e la
terra sono i loro genitori, così come lo sono per noi; e che essi meritano, quindi,
il massimo rispetto (frammento X, 25, 3-4; edizione a cura di G. Ditadi,
Isonomia, 2005, pp. 261-265)
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"Similmente riteniamo che tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali, sono
della stessa stirpe originaria, perché i principi dei loro corpi sono per natura gli
stessi (…) e ancor più perché l'anima che è in loro non è diversa per natura in
rapporto agli appetito, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto
alle sensazioni. Come per i copri, certi animali hanno l'anima più o meno
perfetta; ma per tutti i viventi i principi sono per natura gli stesi. La parentela
delle affezioni lo prova. Se ciò che si dice dell'origine dei costumi è vero, tutte
le specie sono intelligenti, ma esse differiscono per l'educazione e per la
composizione del miscuglio dei primi elementi. Sotto tutti i rapporti, dunque, la
razza degli altri animali ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i
mezzi di sussistenza sono gli stessi per tutti, come l'aria che respiriamo,
secondo Euripide, e un sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano
d'avere in comune, per padre il Cielo e per madre la Terra."

Ma le loro voci finirono per essere dimenticate.


Anzi, una delle caratteristiche della scienza moderna è proprio l'atteggiamento
di pura e semplice manipolazione nei confronti degli altri esseri viventi; nonché
di quegli esseri umani che siano percepiti come estranei al consorzio civile. Lo
psichiatra Cerletti, ad esempio, nella prima metà del Novecento sperimentò la
pratica dell'elettroshock dapprima sugli animali condotti al macello, indi sui
detenuti delle patrie carceri.
Non certo minore fu la disinvoltura con la quale i "selvaggi" delle culture extra-
europee vennero sterminati e poi relegati nei musei di antropologia, quali rarità
o curiosità per il pubblico occidentale.
A proposito dello sterminio dei Tasmaniani e della sorte toccata all'ultima
rappresentante della loro stirpe, imbalsamata ed esposta, appunto, dietro un a
teca di cristallo del museo di Hobart, il filosofo e viaggiatore Vittorio
Beonio_Brocchieri ha scritto una pagina altamente significativa nel suo libro Il
Marcopolo (Milano, Matello Editore, 1952, pp. 79-82), che qui riportiamo.

"Vorrei leggere una storia dettata dai cannibali: aver in mano una cronaca
delle espansioni coloniali scritta non dai conquistatori, ma dai conquistati.
Apparirebbe allora il rovescio della medaglia.
"A queste cose pensavo stasera, mentre i miei occhi indugiavano dinanzi alle
linee frammentarie di una non velata figura femminile, qui nel museo di
Hobart, capitale della Tasmania. È la spoglia imbalsamata di una donna
indigena; la sua data di nascita risale ai primi dell'Ottocento. (…)
"I bianchi, arraffando l'isola, trovarono accoglienza riluttante, perché i nativi
reagivano con atti di brigantaggio e pirateria. Quindi il dilemma: noi o loro.
"Premesso dunque che per occupare la Tasmania bisognava sopprimere i
legittimi abitanti della medesima, fu deciso un massacro totalitario con un
metodo originale, che si chiamò black line, linea nera. Si costituì cioè una
specie di cordone militare; questo doveva avanzare progressivamente per
linea frontale, come un enorme rastrello da un capo all'altro dell'isola,
superando forre, burroni e boscaglie; così da ridurre gli indigeni a una ritirata
progressiva, che sarebbe terminata con un bagno di mare, in bocca ai
pescicani. La caccia al negro cominciò. «I feriti venivano bruciati; i bambini
gettati nelle fiamme; e i bracieri, intorno ai quali i nativi usavano bivaccare,
divenivano i loro roghi funerari». Così (testualmente) lo storico West: (…)

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Tutti gli epigoni della stirpe autoctona, sradicati e trasportati nell'isola di
Flanders, si estinsero in capo a pochi decenni: fame, abbandono, malattie.
Questa donna sopravvisse, ultima della sua gente, fino al 1876. La sua spoglia
imbalsamata, come dicevo, si conserva qui in un museo di Hobart: essa è
ridotta a linee piuttosto frammentarie. Ma io devo molta riconoscenza a questa
mummia perché, inducendomi a ripescare nelle citate pagine dello storiografo
West le cronache del passato, mi ha offerto preziosa compagnia nelle lunghe
vigilie di questo viaggio antartico."

Non erano pochi, del resto, i bianchi avevano messo in dubbio, fin dall'epoca
dei viaggi di Cristoforo Colombo, il fatto che i "selvaggi" fossero realmente
creature umane dotate di anima. Un bel passo indietro dai tempi di Teofrasto,
quando alcuni saggi filosofi avevano osservato che un'anima, al contrario, è
presente - e sia pure in misura embrionale - non solo negli esseri umani, ma
anche negli animali.
Ma ora torniamo agli animali e alla loro esclusione dalla sfera dell'etica da
parte della maggior parte dei filosofi della modernità. A dire il vero, all'interno
del razionalismo - la corrente filosofica che ha dominato il XVII secolo e
accompagnato, passo per passo, la cosiddetta "rivoluzione scientifica"- è
possibile riconoscere due distinti atteggiamenti: uno, maggioritario e
rappresentato da Cartesio e Spinoza, fautore dell'esclusione degli animali
dall'etica; l'altro, minoritario, rappresentato da Leibniz, contrario ad essa.
Uno dei migliori testi esistenti sull'argomento è, a nostro avviso, quello della
saggista inglese Mary Midgley, Animals and why they matter, Londra, 1983;
traduzione italiana Perché gli animali di Anna Martina Brioni, Feltrinelli, Milano,
1985, pp.47-49), e da esso riportiamo un passaggio utile al nostro discorso.

"Per una presentazione rigorosa e completa egli Argomenti a sostegno


dell'esclusione degli animali dalla morale è naturale rivolgersi ai grandi
razionalisti del Seicento, in particolare a Cartesio a Spinoza. Non c'è alcun
dubbio sulla loro posizione, ma dobbiamo tener conto di un'intrinseca difficoltà
di questo argomento: i fautori più radicali e convinti dell'esclusione assoluta la
considerano una tesi ovvia, e non pensano perciò a sostenerla
argomentativamente. Nel campo avverso, Montaigne aveva discusso
esaurientemente, con precisione e vivacità, le proprie obiezioni al
maltrattamento degli animali. Cartesio, che pure doveva avere presenti le
obiezioni di Montaigne, liquida in tutta fretta la questione, quasi fosse, per una
persona ragionevole, già decisa e priva di interesse. Molto più attento ai
problemi etici, Spinoza ne tratta (…) più diffusamente. E sappiamo anche che
tenne fede ai propri principi, perché leggiamo in una delle prime biografie che
egli, interessato agli insetti, era solito «rinvenendo dei ragni, farli combattere
tra loro, oppure, rinvenendo delle mosche, le gettava nella ragnatela e
osservava la battaglia con immenso piacere, a volte ridendo». In una lettera
troviamo un'annotazione che potrebbe valere come commento tra i più
stimolanti ai documentari sulla fauna selvatica: «Tutti osservano con
meraviglia e piacere negli animali quegli stessi comportamenti che, negli
uomini, suscitano avversione e ripulsa. Ad esempio le battaglie tra le api, la
gelosia dei colombi, ecc., cose detestabili negli uomini, e per le quali
ciononostante consideriamo gli animali più completi». (…)
"In che cosa consistono quei 'diritti' contrapposti, uguali o disuguali, delle
diverse specie, e come possiamo stabilirne l'entità? In particolare, quali
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differenze di affetti ci autorizzano a escludere una creatura dalla nostra
considerazione? Possono essere presenti anche all'interno del genere umano?
Che cosa è la ragione? È una facoltà propria dell'uomo, e ignota agli animali?
Ed è, questa facoltà, tutto ciò che ha valore nell'uomo? E poi, se incontrassimo
delle creature razionali non-umane, come dovremmo trattarle? E che cosa in
generale si può obiettare alla compassione? Quest'ultima questione, tuttavia,
ha la sua risposta nell'etica razionalistica e individualistica di Spinoza. Egli
considera un male la compassione: in primo luogo in quanto è un sentimento, e
le azioni rette derivano esclusivamente dalla ragione; in secondo luogo perché
è dolorosa, ed è compito di ciascuno ricercare il proprio piacere, in quanto esso
indica ciò che per lui è bene. L'idea che la compassione possa essere un legane
giusto e naturale tra creature che si identificano nel dolore e nella gioia è del
tutto estranea alla sua etica atomizzante. Come le nozioni cartesiane di
consapevolezza e di identità personale, così la valutazione spinoziana della
simpatia, e più in generale del sentimento, è un presupposto indispensabile
dell'esclusione degli animali. Ma a chi non condivida la prospettiva generale di
Spinoza, tale valutazione sembrerà eccentrica, ed estranea ad ogni
ragionevole considerazione del rapporto tra gli uomini. Se il razionalismo
spinoziano non può andare oltre, noi potremmo non sottoscrivere la sua
rinuncia.
"Il razionalismo non ha ovviamente un'unica voce. La posizione di Leibniz è ben
diversa. Il suo impegno filosofico prioritario è la critica a quell'abisso
spalancato, nelle dottrine di Cartesio e Spinoza, tra mente e materia; una
critica condotta sul terreno stesso del razionalismo, perché quelle dottrine
apparivano incapaci di comprendere l'unità della vita. Egli sottolinea invece a
continuità tra l'intelletto e le altre forme di consapevolezza, e tra la vita
cosciente e quella inconscia, individuando negli animali una forma di vita
diversa solo in grado da quella dell'uomo. E anch'egli, a quanto sembra, tenne
fede ai propri principi: «Herr von Leibniz non uccideva le mosche, per quanto
moleste potessero essergli, perché gli sembrava un delitto distruggere un
meccanismo tanto ingegnoso». Come riferisce Kant, «Leibniz, servendosi di un
foglio, riportava sull'albero un piccolo verme, su cui aveva compiuto le sue
osservazioni, affinché per sua colpa non gliene venisse alcun danno.
Distruggere questa piccola creatura senza ragione non avrebbe potuto non
turbare un uomo». Questi accenni, troppo brevi per comunicare il pensiero di
Leibniz, sono utili però perché segnalano un'ambivalenza latente nel
razionalismo. Nel suo versante negativo e distruttivo può essere tanto spietato
da annientare con un tratto di penna quanto cade fuori dal dominio della
ragione. Ma nel suo versante costruttivo sa vedere in tutte le cose l'operare
della ragione. Prima di emettere un giudizio bisogna prendere in
considerazione l'intera gamma di posizioni. Un'ambivalenza analoga
caratterizza il pensiero scientifico. Senza dubbio l'entomologia ha adottato
entrambi gli approcci. Metterli in relazione non è certo semplice, ma è
importante esserne consapevoli."

Oggi, purtroppo, come e più che ai tempi di Spinoza, nell'approccio scientifico


al mondo degli animali prevale nettamente la visione riduzionistica, secondo la
quale gli animali, essendo privi di ragione, possono essere manipolati
illimitatamente e senza alcuno scrupolo.
Valgano per tutti le risposte che diedero alcuni ricercatore scientifici americani,
nel corso di un programma televisivo del 1974, al filosofo Robert Nozick, il
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quale aveva domandato loro se esistano dei casi nei quali essi siano disposti a
rinunciare a taluni esperimenti, qualora comportino il sacrificio di centinaia di
animali. Uno rispose candidamente: «No, che io sappia»; e alla nuova domanda
di Nozick, se gli animali non contino proprio nulla, il dottor A. Perachio del
centro di Yerkes rispose semplicemente: «Perché dovrebbero?» (episodio citato
sempre nel libro di M. Midgley, op. cit., p. 10).
Non c'è che dire, siamo rimasti ai ragni del "mite" Spinoza - che la vulgata
storico-filosofica ci ha sempre descritto come un tranquillo pulitore di lenti -, il
quale si divertiva "immensamente" a far combattere fra loro, nonché a
osservarli mentre divoravano le mosche che lui stesso catturava per deporle
nella ragnatela.
E intanto rideva, rideva.
Dopo i deliri di Hegel sugli Africani, il sadismo di Spinoza sugli animali. Ce ne
sono, di cose mostruose, nella storia del pensiero occidentale moderno.
Ma la più mostruosa di tutte è che noi abbiamo perso la capacità di indignarci
davanti alla vivisezione e alle mille altre forme di maltrattamento degli animali
che, ai nostri giorni - proprio in nome della ragione e del progresso - continuano
ad essere impunemente perpetrate.

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