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"…quando, dico, ei credeva di aver veduto il tutto [circa l'origine dei suoni
naturali e artificiali] trovossi più che mai rinvolto nell'ignoranza e nello stupore
nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle
l'ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere
squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto, e
vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili e credendo che lo strepito
derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che
tutto fu in vano, sin che, spingendo l'ago più a dentro, non le tolse,
trafiggendola, colla voce la vita, s^ che né anco poté accertarsi se il canto
derivava da quelle."
"Vorrei leggere una storia dettata dai cannibali: aver in mano una cronaca
delle espansioni coloniali scritta non dai conquistatori, ma dai conquistati.
Apparirebbe allora il rovescio della medaglia.
"A queste cose pensavo stasera, mentre i miei occhi indugiavano dinanzi alle
linee frammentarie di una non velata figura femminile, qui nel museo di
Hobart, capitale della Tasmania. È la spoglia imbalsamata di una donna
indigena; la sua data di nascita risale ai primi dell'Ottocento. (…)
"I bianchi, arraffando l'isola, trovarono accoglienza riluttante, perché i nativi
reagivano con atti di brigantaggio e pirateria. Quindi il dilemma: noi o loro.
"Premesso dunque che per occupare la Tasmania bisognava sopprimere i
legittimi abitanti della medesima, fu deciso un massacro totalitario con un
metodo originale, che si chiamò black line, linea nera. Si costituì cioè una
specie di cordone militare; questo doveva avanzare progressivamente per
linea frontale, come un enorme rastrello da un capo all'altro dell'isola,
superando forre, burroni e boscaglie; così da ridurre gli indigeni a una ritirata
progressiva, che sarebbe terminata con un bagno di mare, in bocca ai
pescicani. La caccia al negro cominciò. «I feriti venivano bruciati; i bambini
gettati nelle fiamme; e i bracieri, intorno ai quali i nativi usavano bivaccare,
divenivano i loro roghi funerari». Così (testualmente) lo storico West: (…)
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Tutti gli epigoni della stirpe autoctona, sradicati e trasportati nell'isola di
Flanders, si estinsero in capo a pochi decenni: fame, abbandono, malattie.
Questa donna sopravvisse, ultima della sua gente, fino al 1876. La sua spoglia
imbalsamata, come dicevo, si conserva qui in un museo di Hobart: essa è
ridotta a linee piuttosto frammentarie. Ma io devo molta riconoscenza a questa
mummia perché, inducendomi a ripescare nelle citate pagine dello storiografo
West le cronache del passato, mi ha offerto preziosa compagnia nelle lunghe
vigilie di questo viaggio antartico."
Non erano pochi, del resto, i bianchi avevano messo in dubbio, fin dall'epoca
dei viaggi di Cristoforo Colombo, il fatto che i "selvaggi" fossero realmente
creature umane dotate di anima. Un bel passo indietro dai tempi di Teofrasto,
quando alcuni saggi filosofi avevano osservato che un'anima, al contrario, è
presente - e sia pure in misura embrionale - non solo negli esseri umani, ma
anche negli animali.
Ma ora torniamo agli animali e alla loro esclusione dalla sfera dell'etica da
parte della maggior parte dei filosofi della modernità. A dire il vero, all'interno
del razionalismo - la corrente filosofica che ha dominato il XVII secolo e
accompagnato, passo per passo, la cosiddetta "rivoluzione scientifica"- è
possibile riconoscere due distinti atteggiamenti: uno, maggioritario e
rappresentato da Cartesio e Spinoza, fautore dell'esclusione degli animali
dall'etica; l'altro, minoritario, rappresentato da Leibniz, contrario ad essa.
Uno dei migliori testi esistenti sull'argomento è, a nostro avviso, quello della
saggista inglese Mary Midgley, Animals and why they matter, Londra, 1983;
traduzione italiana Perché gli animali di Anna Martina Brioni, Feltrinelli, Milano,
1985, pp.47-49), e da esso riportiamo un passaggio utile al nostro discorso.