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Paola Gagliardi
[ Access provided at 17 May 2021 15:21 GMT from The University of Iowa Libraries ]
ACTA CLASSICA LXI (2018) 36-52 ISSN 0065-1141
Paola Gagliardi
Università della Basilicata, Potenza
ABSTRACT
In his epicedion on the death of Tibullus, Amor. 3.9, Ovid engages in a dialogue not
only with the obvious model of Tibullan poetry, but also with Propertius. He
chooses Prop. 2.13b, which contains a foreshadowing of Propertius’ death and burial
in the broadest terms. In this way Ovid reflects on important themes like death,
burial, the underworld and literary glory, assuming a different point of view from
those of his elegiac predecessors. Of great importance in this poetic dialogue is the
figure of Venus, whom Ovid presents in a very different way from Tibullus and
Propertius. In this perspective Amor. 3.9 amounts to a reconsideration by Ovid of
pivotal topics in the tradition of Latin love elegy.
Introduzione
DOI 10.15731/AClass.061.03 36
scendovi innegabili spunti scherzosi,5 ha cercato di ricostruire il rapporto
istituito da Ovidio con la poesia tibulliana attraverso le vistose citazioni di
essa: la morte di Tibullo dà infatti al poeta l’occasione per riflettere su molte
convenzioni elegiache, già peraltro messe in discussione nell’intera raccolta
degli Amores. Altri modelli, accanto a quello tibulliano, sono stati ricono-
sciuti e valorizzati nel testo, e tra essi in particolare i due epitafi ellenistici
per Adone (Adonidis Epitaphium [AE]) e per Bione (Bionis Epitaphium [BE]):
di quest’ultimo in special modo Ovidio si serve sia per esaltare il grande
poeta defunto, sia per presentarsi, alla maniera dell’ anonimo seguace di
Bione, come suo allievo e successore.6 Ma nell’elegia si possono rintracciare
altre sollecitazioni e altri modelli, che concorrono a darle il suo carattere
composito e sfaccettato e la sua complessità di significati e di messaggi.
La morte di Tibullo e il confronto con la sua poesia offrono ad Ovidio
un’occasione unica per riflettere sull’elegia erotica nel momento in cui, dopo
averne stravolto l’essenza e il significato, egli sta per lasciarla. Il carattere
letterario del componimento è dunque innegabile, e il poeta lo dichiara, oltre
che con i costanti richiami ai τόποι del genere, anche con la rassegna dei
poeti d’amore che negli Elisi accolgono Tibullo, e che oltre all’unico vero
elegiaco (Gallo), include anche i neoterici Catullo e Calvo. Da questo
quadro, in cui Ovidio colloca in qualche modo anche se stesso,7 il grande
assente, per ragioni cronologiche, è Properzio, ancora vivo all’epoca della
morte di Tibullo.8 Ciò non significa però che Ovidio rinunci a confrontarsi
anche con lui, includendolo nella visione d’insieme dell’elegia latina. Lo fa
con grande finezza, in modo quasi elusivo, così che spesso i rimandi alla sua
poesia sfuggono, offuscati dalla presenza, ovviamente ben più consistente (e
più vistosa), di Tibullo. Soffermarsi su questo aspetto di Amor. 3.9 può
dunque offrire una prospettiva d’indagine poco considerata e suggerire una
comprensione più piena dell’ambiguo componimento ovidiano. Grazie al
5 Ad esempio nel battibecco tra Delia e Nemesi, su cui cfr. infra, nota 40.
6 Reed 1997.
7 Cfr. vv. 17-18: at sacri vates et divum cura vocamur; / sunt etiam qui nos numen
habere putent.
8 Della datazione dell’elegia ovidiana è ovvio terminus post la morte di Tibullo,
comunemente posta nel 19, ma talora spostata più in là nel tempo (cfr. Avery
1960). Che il componimento risalisse ad un’epoca vicina all’evento e che apparte-
nesse quindi alla prima edizione degli Amores è facilmente credibile per il tema
(strana sarebbe la commemorazione della morte di Tibullo a distanza di anni) e per
il tono (cfr. Taylor 1970:465); in ogni caso, è fuori discussione che l’elegia ovidiana
sia posteriore a Prop. 2.34, che proprio il richiamo a Gallo modo mortuus (vv. 91-
92) fa risalire a poco dopo la morte di Gallo, nel 27 o nel 26 (sulla discrepanza tra
le due date, riferite da S. Girolamo, che nel Chronicon la fissa al 27 a. C., e da Dio.
Cass. 53.23, che la ascrive al 26, cfr. Boucher 1966:5-6).
37
confronto con Properzio, infatti, Ovidio ha modo di trattare temi assenti in
Tibullo e di mettere in discussione punti fermi dell’ideologia elegiaca, che
egli rilegge in modo originale e talvolta provocatorio. Così l’epicedio per
Tibullo, solitamente inteso come celebrazione e sincero omaggio al poeta
scomparso, nonostante gli innegabili spunti ironici e parodici, può rivelare
un significato diverso e in parte contraddittorio rispetto a quello letterale, in
una commistione di toni e di sfumature in cui le contraddizioni non si
escludono, ma coesistono, secondo la visione cangiante ed elusiva che
caratterizza la Weltanschauung e la produzione di Ovidio.
9 Sui testi tibulliani richiamati nel testo cfr. Taylor 1970:475; Perkins 1993:459-60;
Reed 1997:260; Maltby 2013:281.
10 Cfr., solo per fare qualche esempio, 1.7, 2.1, 2.10, 3.1, 3.2, 3.3.
11 Et duo sint versus: ‘Qui nunc iacet horrida pulvis / unius hic quondam servus amoris
erat’. / nec minus haec nostri notescet fama sepulcri / quam fuerant Phtii busta
cruenta viri. Nel presente lavoro si seguirà il testo di Fedeli 2005, che divide l’elegia
in 13a e 13b, lasciando però la numerazione tradizionale dei versi.
12 Et modo formosa quam multa Lycoride Gallus / mortuus inferna vulnera lavit aqua.
38
comprendere anche altri autori, si inserisce in un catalogo di poeti d’amore
al culmine del quale Properzio pone idealmente se stesso, augurandosi una
gloria pari alla loro (vv. 85-94). Rispetto a questa posizione Ovidio assume
in Amor. 3.9 un atteggiamento polemico che merita di essere rilevato e
discusso nel confronto con le due elegie properziane.
Prop. 2.13 è un’elegia assai complessa, della quale è in discussione l’unità
stessa, per via del brusco salto logico e tematico dal v. 17 in poi13; a fare da
elemento unificante tra le due metà (per chi sostiene l’unità del testo) è la
tematica letteraria, la scelta di un callimachismo che nei primi versi riguarda
la funzione pratica di corteggiamento dell’elegia erotica, mentre nella
sezione successiva si riflette obliquamente nella visione della morte del
poeta e del dolore della puella.14 E’ ovviamente a questa seconda parte che
Ovidio fa riferimento, scegliendo con grande finezza punti specifici del testo,
che ne colgono e sintetizzano le caratteristiche fondamentali. Così ad
esempio il nesso parva urna (v. 40) ribadisce sì uno dei temi portanti di
Amor. 3.9, e cioè la capacità della morte di vanificare tutto ciò che nella vita
appare importante (di un grande poeta come Tibullo non rimangono che
pochi resti mortali), ma allude anche chiaramente a parvula testa di Prop.
2.13b.32, e più ampiamente all’intera descrizione del funerale di Properzio
(vv. 17-36), condotta all’insegna del piccolo e del modesto, contrapposto
alle esequie pompose con un chiaro sottinteso letterario,15 reso esplicito –
se mai ce ne fosse bisogno – dal problematicissimo accenno ai tres libelli.16
In Properzio tuttavia l’elemento della tenuitas è motivo non di deminutio,
ma di vanto, e proprio la tomba modesta, testimonianza della sua fedeltà in
amore (cfr. l’epitafio dei vv. 35-36) che eternerà la sua devozione all’amata,
tramanderà in eterno la sua fama, rendendola non inferiore a quella di
Achille. La scelta del più illustre eroe omerico come termine di paragone ha
loc.
15 Cfr. le parvae exsequiae a v. 24, i tres sine pompa libelli a v. 25, la parvula testa a
Heyworth 1992:55-56.
39
ovviamente valenza letteraria per indicare l’epica, a cui è orgogliosamente
accostata l’elegia,17 secondo un procedimento consueto in Properzio.
Nel recuperare il discorso properziano di 2.13b, Ovidio lo connota in
senso opposto: la parva urna di Tibullo sta infatti ad indicare l’insignificanza
che la morte conferisce a tutto ciò che ai vivi sembra importante, compresa
la gloria poetica. L’affermazione dell’immortalità del canto e di ciò che esso
celebra appare sbiadita e convenzionale nel testo, quasi un atto dovuto al
grande poeta che si sta compiangendo: il tema, enunciato in tono poco
convinto, compare infatti solo ai vv. 28-32,18 nei quali è indirettamente
evocato Prop. 2.13b.37-38 con la contrapposizione dell’elegia (vv. 31-32)
all’epica (vv. 29-30). Certo, Properzio attribuisce la propria celebrità alla sua
devozione di amante, non alla sua poesia, ma il taglio letterario del discorso
è chiaro da tutto il contesto, pervaso da un evidente callimachismo, e Ovidio
comprende bene il sottinteso e lo rende esplicito, nell’ottica letteraria del
suo componimento, che è essenzialmente una riflessione sull’elegia. Rispetto
al τόπος dell’eternità della poesia egli preferisce sviluppare però il concetto
opposto, ribadito lungo tutto il componimento, dell’invincibile potenza
distruttrice della morte, che non rispetta alcuna sacralità e non risparmia
neppure gli dei: al confronto, le promesse di eterno ricordo perdono ogni
credibilità e la poesia stessa si rivela incapace di alleviare o consolare il dolore
della morte. Così alla speranza di un’eternità assicurata dai carmi, che
costituisce il più grande conforto per Properzio, Ovidio sembra preferire un
altro aspetto della sopravvivenza dopo la morte, e cioè la sorte dell’anima
del defunto, che se è stato meritevole raggiungerà la pace eterna negli Elisi.
Nel caso di Tibullo questa prefigurazione, in linea con il suo status di poeta
e con l’impostazione letteraria del componimento, assume una fisionomia
particolare, e così l’aldilà in cui lo immagina Ovidio sono gli Elisi dei poeti
d’amore. In questa prospettiva nettamente opposta a quella properziana
acquista rilievo la dimensione privata e personale della sorte del singolo, che
non dipende dal suo essere poeta, ma dalla sua pietas, più importante dunque
della poesia. La circostanza che gli Elisi di Tibullo siano quelli dei poeti
d’amore, infatti, non è determinante per la sua felicità ultraterrena, ma è solo
laboris / tardaque nocturno tela retexta dolo. / sic Nemesis longum, sic Delia nomen
habebunt, / altera cura recens, altera primus amor.
40
un omaggio a lui e ai suoi predecessori, oltre che – soprattutto – un’altra
occasione di confronto (e di contrapposizione) con Properzio.
d’amore, come ha sostenuto D’Anna 1984:895 (in tal senso sembra pronunciarsi
anche Jacobson 1984:290) per dimostrare che Gallo avrebbe continuato a scrivere
elegie fino alla fine della vita, sostiene Gagliardi 2011:348 n. 21. Sulle reazioni dei
contemporanei alla morte di Gallo, ricostruibili dalle testimonianze antiche, cfr.
Gagliardi 2011:347-53.
22 Su questa scelta ‘diplomatica’ di Properzio in relazione alla morte di Gallo, cfr.
41
nell’Ade,24 non più tuttavia solo per Gallo, ma anche per gli altri autori
menzionati: la particolare enfasi su Gallo, del quale anch’egli sottolinea le
circostanze della morte, mi pare tuttavia un ulteriore punto di contatto (e
di contrasto) con Properzio.
Anche in questo caso Ovidio cambia vistosamente la prospettiva del
poeta umbro, sia nella presentazione di Gallo, sia nell’intera scena: anch’egli
si sofferma sulla morte recente e cruenta di Gallo (ne sottolinea quest’ultimo
aspetto con l’accenno crudo al sangue sparso), ma a differenza di Properzio
sceglie una prospettiva totalmente realistica e concreta, riportando il suicidio
del poeta alla sua vera causa, la perdita del favore di Augusto,25 dichiarata
con una franchezza fortemente polemica verso il princeps.26 Nella stessa
ottica di una rappresentazione realistica, attenta alle specificità dei perso-
naggi e delle loro vicende e diffidente verso eccessive trasfigurazioni lettera-
rie va letta anche la presentazione degli altri due poeti, Catullo e Calvo, dei
quali sono colti aspetti ‘privati’, la giovinezza e l’amicizia reciproca: anch’essi,
cioè, come Tibullo, non si caratterizzano in quanto poeti (unico accenno in
tal senso è l’epiteto doctus per Catullo a v. 62), ma semplicemente come
individui. E’ vero che l’aldilà immaginato per loro da Ovidio sembra un luogo
riservato esclusivamente ad essi, o in cui essi formano un gruppo a sé stante,
ma ciò non basta a dimostrare che egli voglia celebrare la loro gloria o la
felicità data dalla poesia. In senso opposto vale infatti il rilievo che, a
differenza di Prop. 2.34, i poeti sono presentati soli e manca qualsiasi
riferimento alle donne da loro amate, i cui nomi, secondo la convenzione
della poesia d’amore, potrebbero essere intesi come i titoli dei loro libri ad
24 Si tamen e nobis aliquid nisi nomen et umbra / restat, in Elysia valle Tibullus erit.
/ obvius huic venias hedera iuvenalia cinctus / tempora cum Calvo, docte Catulle,
tuo; / tu quoque, si falsum est temerati crimen amici, / sanguinis atque animae
prodige, Galle, tuae. / his comes umbra tua est; siqua est modo corporis
umbra, / auxisti numeros, culte Tibulle, pios.
25 Sulle affinità e le differenze tra il distico ovidiano e quello properziano, cfr. Fedeli
2005:1005.
26 Sul distico cfr. Rohr 1994; Gagliardi 2011:349-52. Nota giustamente Boucher
1966:49: ‘La forme hypothétique est une politesse et une prudence d’Ovide à l’égard
d’Auguste: Ovide cherche à ne pas l’heurter, mais en fait c’est une façon courtoise
de dire qu’il ne croit pas à l’accusation.’ Sulla persuasione da parte di Ovidio
dell’innocenza di Gallo, cfr. Rohr 1994:308, 315-16, e Rohr Vio 2000:90-91.
Ancora Boucher 1966:49-50 afferma che Gallo ‘qui a prodigué son sang, c’est à dire
l’à versé en vain, aurait pu et dû ne pas se tuer, bref … il n’est pas coupable.’ Cfr.
nello stesso senso Nosarti 1996:222 n. 47; Rohr Vio 2009:71. Giustamente Hollis
2007:229 deduce la convinzione ovidiana dell’innocenza di Gallo dalla collocazione
assegnatagli negli Elisi.
42
esse dedicati.27 Anche qui il contrasto con Properzio è evidente, giacché a
2.34 il poeta umbro aveva associato ad ogni autore il nome della sua amata,
secondo il suo intento di celebrare la poesia erotica e augurare a se stesso
l’immortalità grazie ad essa. Così la strategia del passo ovidiano risulta
lineare: per valorizzare le figure dei poeti nei loro aspetti più umani, egli li
distacca infatti dalla loro opera e dalle figure femminili ispiratrici. Ne esce
confermata l’impressione che la scena degli Elisi non è finalizzata, come in
Prop. 2.34, all’esaltazione del genere elegiaco e dell’importanza dell’autore
entro di esso, ma all’affermazione di un altro tipo di felicità, indipendente
dalla gloria letteraria.
La scena dell’Ade consente ad Ovidio di dialogare non solo con Properzio,
ma anche con Tibullo, che in 1.3, ampiamente imitata nella descrizione della
morte, descrive anche le delizie eterne degli amanti nell’aldilà (vv. 57-66).28
Egli immagina infatti che Venere (figura chiave – vedremo – nel confronto
di Ovidio con i predecessori nel componimento) lo accompagni dopo la
morte, in qualità di protettrice degli amanti e nelle vesti insolite di
psicopompo, in un Ade ideale in cui tutti i sogni degli innamorati trovano
realizzazione. Molte sono le reminiscenze letterarie che Tibullo ha saputo
sfruttare in questo passo, modificandole in senso erotico per adattarle al
genere e al contesto:29 in tal modo il suo discorso – a ben guardare – si rivela
un dialogo di natura poetica che trascende il semplice tema erotico
dell’elegia.30
Ben diversa invece – si è visto – la prospettiva di Ovidio: pur mantenendo
la specificità dei suoi Elisi, destinati esclusivamente ai poeti erotici, egli
omette la descrizione del luogo e si limita all’elenco dei nomi, come Prop.
2.34. Ancora una volta l’impressione è quella di voler ‘correggere’ i prede-
cessori, e in particolare Tibullo, riportando alla cruda realtà le loro prefigura-
zioni, tutte letterarie, della morte e dell’oltretomba. Così la Venere gioiosa
che in 1.3 Tibullo immagina lo condurrà nel paradiso degli amanti diviene
qui la Venere afflitta e impotente di fronte alla morte di un essere amato
(vv. 15-16 e 45-46),31 già presente – si vedrà – in Prop. 2.13b.53-56. Dopo
aver negato che in morte possa giovare il conforto della gloria letteraria o
inguen aper (vv. 15-16); avertit vultus, Erycis quae possidet arces; / sunt quoque, qui
lacrimas continuisse negant (vv. 45-46).
43
l’amore della puella, Ovidio smantella così anche i τόποι della futura, eterna
felicità degli amanti, protetti dalla benedizione divina, trasformando la
visione degli Elisi di entrambi i predecessori. Essenziale in questo percorso è
la figura di Venere, assunta come termine di confronto sia con Tibullo, sia
soprattutto con Properzio. Cogliendo infatti l’anomalia tibulliana di fare
della dea dell’amore la guida verso l’aldilà ad 1.3.57-58, Ovidio riprende
proprio l’immagine di lei per proporla nella luce opposta dell’afflizione per
la morte di un suo protetto: al defunto ella non ha da offrire gioie eterne, ma
solo le sue lacrime, delle quali viene opportunamente sottolineata l’inusua-
lità (v. 46).32
Venere
32 Laddove solitamente gli dei non piangono, le singolari lacrime di Venere sono
apparse a Reed 1997:263 un’allusione al pianto della dea per Adone ad AE 64-66.
Il dolore di Venere, come quello di Amore ai vv. 7-14, è apparso eccessivo e
grottesco a Cahoon 1984:31, che evidentemente non tiene conto del modello
dell’AE e attribuisce questa scelta di Ovidio ad un intento parodico.
33 Testis cui niveum quondam percussit Adonem / venantem Idalio vertice durus
aper; / illis formosus iacuisse paludibus, illuc / diceris effusa tu, Venus, isse coma.
34 Cairns 2006:144 avanza l’ipotesi che l’exemplum di Adone ai vv. 53-56 possa
trattato egli stesso il mito di Adone sembra dimostrato dai frr. 29 e 42 Light. A
giudizio di Cairns 2006:81 n. 56, nel suo trattamento di Adone Gallo potrebbe aver
rielaborato e contaminato Euforione e Partenio.
36 L’ipotesi che Gallo potesse aver trattato di Adone nella sua poesia, giustificata,
oltre che dal distico properziano, anche dall’exemplum di Adone in Virg. Ecl. 10.18,
è stata più volte avanzata dagli studiosi: cfr. Boucher 1966:91 n. 63; Stroh 1971:229
44
potrebbe a sua volta essersi inserito Ovidio, la cui menzione di Venere e
Adone potrebbe alludere anche a Gallo, oltre che – esplicitamente – a Prop.
2.13b.53-56, ma la nostra assoluta ignoranza in merito obbliga a leggere il
richiamo di Ovidio solo in relazione al testo properziano. Il dialogo con
questo è evidente da più di un indizio: in entrambi i brani la menzione di
Adone è accompagnata da riferimenti ed allusioni all’AE, nel caso di Ovidio
in relazione a Tibullo morto e alle manifestazioni di dolore delle sue donne
intorno a lui.37 Questi gesti ovviamente richiamano Prop. 2.13b, ma vanno
iscritti principalmente nell’imitazione dell’AE, che Ovidio condivide con
l’elegia properziana. Alla maniera di Properzio, vera protagonista della scena
è Venere, il cui dolore è riferito con un verbum dicendi (sunt qui negant, v.
46), che, come in Prop. 2.13b.56 (diceris),38, allude ad una tradizione lette-
raria precedente,39 riportando il discorso al suo autentico àmbito di dialogo
poetico con modelli diversi (in questo caso l’AE, oltre che l’elegia proper-
ziana). Adone non è neppure nominato, ma indicato con l’epiteto iuvenis a
v. 16, mentre ancora a Prop. 2.13b rimanda il particolare del cinghiale
caratterizzato come ferus a v. 16 per variare il properziano durus (v. 54).
Una delle deviazioni più notevoli sia rispetto a Properzio, sia all’AE è
senza dubbio la distribuzione dei gesti del lutto tra ben quattro figure
femminili, che accanto alle due donne amate da Tibullo includono anche la
madre e la sorella, mutuate da Tib. 1.3.5-8. Si è sempre notato il voluto
effetto comico del battibecco tra Delia e Nemesi, che rivendicano ciascuna
il merito di essere stata il vero amore del poeta:40 è un altro espediente con
cui Ovidio ironizza sulle convenzioni dell’elegia erotica e sulle promesse di
eterna devozione ad una sola donna. Non si è però solitamente rilevato come
in realtà, proprio grazie alla Venere afflitta per Adone dell’AE e di Prop.
2.13b, l’ironia ovidiana si indirizzi anche verso Properzio e le sue affer-
relazione il v. 26 con AE 54; i vv. 27-28 con AE 4-5; il v. 29 con AE 45; il v. 30 con
AE 77 il v. 56 con AE 19-20, e Fantuzzi e Hunter 2004:187-90, che trovano
imitazioni dell’AE soprattutto ai vv. 21-22 e 27-30. Sulle riprese del poemetto in
Amor. 3.9 cfr. Reed 1997:261-63. Per la presenza del poemetto bioneo in Ov. Amor.
3.9 cfr. Reed 1997, specialmente 261-63, a giudizio del quale (264), tuttavia, la
presenza del poemetto non è importante di per sé, ma come tramite per alludere al
BE, che consente ad Ovidio di valorizzare per Tibullo l’attività di poeta.
38 L’analogia è notata da da Reed 1997:263 n. 7.
39 Su questo procedimento, che indica l’allusione ad una tradizione letteraria
45
mazioni di eterna fedeltà. Non è un caso che il confronto sia proprio con
2.13b, in cui la figura di Venere trova una delle sua rappresentazioni più
nobili e viene deputata ad incarnare il tipo ideale dell’amante elegiaca.
Chiaramente la scelta è condizionata dalla tematica funeraria del canto per
Tibullo, per il quale il testo properziano, a sua volta influenzato dall’AE,
rappresenta un precedente e un termine di confronto quasi obbligato; ma
anche la possibilità di ribaltare il messaggio properziano ha un peso non
indifferente agli occhi di Ovidio. In Prop. 2.13b Venere è citata in chiusa,
come exemplum del dolore senza fine per la morte dell’amante, dopo che
Properzio ha prefigurato la propria morte e la tomba e si è augurato che
Cinzia non lo dimentichi e continui fino all’estrema vecchiaia ad onorare la
sua memoria. Non è fas, infatti, trascurare gli amanti precedenti, e a
conferma di quest’asserzione è citato appunto il caso di Adone ucciso dal
cinghiale e il dolore di Venere: al di là delle difficoltà testuali del passo e
della corretta interpretazione dell’exemplum,41 la sua funzione è abbastanza
chiara: Venere è il paradigma mitico più nobile di amante devota che
reagisce con disperazione alla morte dell’amato e non cessa di tenerne vivo
il ricordo.
A questa rappresentazione della dea, idealizzata e poco consona alla sua
figura e alla sua mitologia, Ovidio mostra di prestare poco credito: i gesti e
le reazioni che in Prop. 2.13b (e nell’AE) erano di Venere appaiono qui
distribuite tra quattro figure femminili, di cui due sono le donne amate, a
smentire la fedeltà ad una sola puella proclamata dagli elegiaci. La polemica
è ovviamente in primo luogo con Tibullo, che nella sua opera ha sostituito
Nemesi all’amore per Delia, ma per sostenere il ribaltamento del τόπος egli
ricorre alla Venere afflitta per Adone di Prop. 2.13b, riconoscibile per la sua
unicità nell’opera properziana. Mentre cioè mette in discussione il dogma
della fedeltà citando il caso dello stesso Tibullo, Ovidio mostra anche di non
credere al paradigma di eterno dolore che Properzio indicava a Cinzia
nell’immagine della dea dell’amore. Così l’immagine di Venere amante dis-
perata, consacrata dalla tradizione ellenistica e poi latina, trova un’ironica
smentita nella visione irriverente e scanzonata del genere elegiaco proposta
da Ovidio in tutta la raccolta e ribadita in modo particolare a 3.9, in cui il
tema gli dà modo di ripensare e discutere tutta la tradizione del genere.
46
In particolare Venere perde nella rappresentazione ovidiana la funzione
che aveva in Prop. 2.13b, di insegnare a Cinzia il modo di agire alla morte di
Properzio e per il resto della vita. A questa Venere properziana, relegata alla
sua funzione esemplare, Ovidio, riprendendola nella veste di amante di
Adone, dà una caratterizzazione ben diversa. Innanzitutto infatti la rende
attiva e partecipe alla morte di Tibullo, a cui sembra assistere in prima
persona, così che il poeta defunto assume quasi i tratti di Adone morto, in
un accostamento che ne valorizza la condizione di amante. Al tempo stesso
con questa rappresentazione di Venere entro la scena (così come anche
facendo agire e parlare Delia e Nemesi al capezzale di Tibullo) Ovidio –
com’è stato acutamente notato42 – riproduce una delle caratteristiche più
singolari del BE, quella appunto di mostrare i personaggi creati da Bione
come vivi e realmente partecipi alla vita e alla morte del loro autore:43 che
questa fosse una peculiarità della poesia bionea o un espediente dell’anonimo
autore del BE per rendere omaggio alla vivezza delle sue creazioni, resta
indubbio l’intento di Ovidio di alludere a quel componimento, che gli
consente di recuperare e valorizzare per Tibullo la condizione di poeta. Così,
richiamando i due epitafi ellenistici, strettamente connessi tra loro, Ovidio
pone in luce le due qualità principali di Tibullo, amante e poeta.44 In
quest’abile strategia Venere si rivela figura cruciale e sintesi raffinata del
discorso ovidiano, che recupera anche, ma entro una visione più ampia, la
trattazione properziana della morte di Adone.
Ma la rappresentazione di Venere nella scena della morte di Tibullo
rientra anche nel taglio complessivo dell’intero componimento, quello della
concretezza e della rinuncia all’idealizzazione di fronte alla realtà dolorosa
della morte. In quest’ottica, ma soprattutto nella volontà di distinguersi da
Properzio, rientra anche l’altra differenza creata da Ovidio per Venere:
laddove infatti in Prop. 2.13b ella figurava essenzialmente come amante, egli
la presenta soprattutto nella sua veste di madre. Conseguentemente, il suo
rapporto con Adone, appena accennato a vv. 15-16, non è caratterizzato nel
senso erotico che domina invece nell’AE, e che Properzio recupera a 2.13b
soprattutto in relazione a se stesso, nei gesti del lutto fortemente eroti-
cizzati.45 Per questa via nell’elegia properziana Venere è implicitamente
42 Da Reed 1997:266.
43 Sulle analogie con l’anonimo poemetto ellenistico cfr. Reed 1997:265-67.
44 E’ la lettura di Reed 1997, secondo cui (261) il ricorso ai due epitafi serve ad
vv. 21-22 e 27-30, e Papanghelis 1987:65, che pone in relazione il v. 26 con AE 54;
i vv. 27-28 con AE 4-5; il v. 29 con AE 45; il v. 30 con AE 77 il v. 56 con AE 19-
20.
47
assimilata a Cinzia, a cui sono demandati gli atti di estrema pietà verso
l’amante moribondo, e si anticipa così il rapporto, chiarito nel finale dell’
elegia, in cui apertamente la dea diviene per Cinzia il paradigma mitico del
giusto comportamento verso la memoria degli amanti defunti.
Tutto cambia in Amor. 3.9, giacché all’assimilazione di Tibullo con
Adone non corrisponde quella di Venere ad una singola figura femminile di
amante: anzi la presenza della madre e della sorella che si dividono con le
due donne amate la cura del poeta morente, per giunta in una sezione
limitata del testo, esclude inevitabilmente ogni implicazione erotica della
situazione, e allo stesso scopo contribuisce anche la scena poco edificante
della disputa tra Delia e Nemesi. La rinuncia all’aspetto erotico di Venere si
motiva con il rapporto privilegiato che Ovidio le attribuisce con Tibullo,
verso il quale l’atteggiamento della dea è materno e protettivo; ciò non
indebolisce, tuttavia, l’accostamento del poeta defunto ad Adone, in quanto
Ovidio sfrutta opportunamente i tratti materni e filiali che, accanto a quelli
erotici, caratterizzano tradizionalmente il rapporto di Venere con Adone.46
In realtà l’accenno alla morte di Adone è molto vago nel testo e del dolore
della dea per lui non si specifica la natura, ma Ovidio sottolinea in altro
modo gli aspetti materni di Venere nel corso dell’elegia, a cominciare dalla
prima menzione della dea come madre di Amore nella definizione di puer
Veneris a v. 7. Tutto il testo è d’altronde segnato dagli exempla di divinità
che piangono i loro figli morti (indicativi in tal senso quelli epici di Eos e
Teti in apertura del componimento, con la geminatio del termine mater,
quasi a suggerirne la chiave di lettura47), anche quando si tratta di poeti
(Orfeo e Lino compianti da Calliope ed Apollo). In questa serie di esempi
mitici, volti a dimostrare la verità dell’assunto che tangunt magnas tristia
fata deas (v. 2), Venere che piange per Adone come per Tibullo non può
che assumere un ruolo materno, suggerito anche da quello ‘fraterno’ di
Amore, addolorato per il poeta come un tempo per il fratello Enea (vv. 7-
14).48 Di tutte queste divinità rese quasi impotenti, presentate nei loro
aspetti più privati e umani, soggette al dolore della morte altrui e incapaci
non solo di proteggere i propri cari, ma persino di ricompensare i meriti dei
giusti e dei pii, Ovidio metterà in dubbio – con voluta esagerazione – persino
era già in Tib. 2.5.39, che Ovidio può aver ripreso qui come allusione ed omaggio.
48
l’esistenza (vv. 35-36), facendo grandeggiare l’immagine rapace della morte
divoratrice, ereditata da Tibullo e riferita crudamente alla sua fine.
Conclusione
Molte sono le riflessioni che una lettura di Amor. 3.9 ‘in controluce’, a
confronto con la poesia di Tibullo e di Properzio, può suggerire, pur nella
difficoltà di cogliere in pieno il senso di questo testo sfuggente, sempre in
bilico tra serietà e parodia, tra commozione e polemica. Si legge in esso senza
dubbio la volontà costante di sfatare i luoghi comuni dell’elegia erotica
elaborati da Tibullo e Properzio, nel momento in cui la morte di Tibullo
trasforma in realtà uno dei temi più ricorrenti nel loro repertorio: una volta
che l’evento reale ha reso concrete le fantasie talvolta compiaciute della
propria fine vagheggiate dai poeti, esse trovano infatti la loro effettiva
realizzazione in termini assai meno idealizzati dell’elaborazione letteraria. La
morte diventa ciò che è in realtà, un evento crudo e senza poesia, la fine di
tutto e la dimostrazione della vanità di ogni costruzione ideale, di tutte le
speranze e le promesse. Alla luce di questa terribile realtà, che fa impallidire
ogni altra cosa, persino la poesia perde di senso e l’idea stessa dell’immortalità
ottenuta attraverso la gloria letteraria si rivela una vana illusione; l’unica
prospettiva che forse ha ancora una validità è quella di una vita serena
nell’aldilà, senza alcun rapporto con la terra e con la memoria degli uomini.
Proprio in quest’ottica controcorrente trova senso il discorso letterario
che costituisce tanta parte del componimento. E’ infatti attraverso di esso,
nel confronto con le costruzioni ideali dei predecessori, che Ovidio può
smentire la loro visione delle cose e denunciare l’irrealtà della loro rappre-
sentazione della morte, della loro idealizzazione dell’amata e del rapporto
con lei. Così se il dialogo costante con Tibullo ridimensiona, smentisce,
rilegge in una luce diversa le situazioni e le affermazioni della sua poesia,
anche con Properzio il confronto, non sempre abbastanza valorizzato, è ben
presente e s’imposta su temi cari alla poetica properziana. Allora i τόποι
elegiaci della fedeltà ad un’unica donna e della promessa di eterna felicità
post mortem in premio di questa devozione trovano una smentita nella
rilettura di Prop. 2.13b, e soprattutto è posto in dubbio l’augurio della gloria
letteraria, possibile grazie alla poesia d’amore non meno che attraverso
generi più elevati: Ovidio mette in discussione più volte questa convinzione,
staccando la prospettiva dell’aldilà da qualsiasi rapporto con la poesia e
indicando la possibile felicità eterna nel recupero degli aspetti più individuali
e ‘privati’ (l’amicizia di Catullo e Calvo, la causa reale della morte di Gallo,
che ne nobilita il gesto suicida). Se questa sua posizione derivi dalla
svalutazione dell’elegia erotica di Tibullo e Properzio, ritenuta inadatta, per
lo stile e per le tematiche, a garantire una fama effettiva e duratura, e perciò
49
ampiamente rielaborata in senso ironico da Ovidio nei suoi Amores, non è
chiaro: di certo però un simile atteggiamento appare plausibile nell’ultima
parte degli Amores, quando Ovidio sta per abbandonare il genere.49 O forse,
semplicemente, in tal modo egli vuole riportare le vicende e le figure dell’
elegia erotica alla concretezza di amanti e amori reali, spogliati delle
sovrastrutture letterarie che spesso li condizionano rendendoli poco auten-
tici e che peraltro proprio Ovidio ha ampiamente sfruttato nella sua raccolta.
E forse anche la volontà di sorridere di τόποι e convenzioni elegiaci, evidente
in tanti momenti del testo, può aver giocato un ruolo nel motivare l’atteggia-
mento di Ovidio. C’è ad esempio ironia, da parte sua, per le pretese grandiose
di Properzio, forse poco intonate all’humilitas del genere elegiaco, pure
sottolineata da Properzio stesso a 2.13b lungo tutta la descrizione del
proprio funerale? Di certo non sarebbe l’unica occasione in cui Ovidio si
prende gioco della persuasione del poeta umbro di poter raggiungere la fama
eterna con la sua produzione erotica: lo dimostra la ripresa in tono critico di
un’altra sua grandiosa affermazione in tal senso, a 3.1, con l’immagine del
trionfo, ridimensionata ironicamente da Ovidio in Amor. 1.2.50
Qualunque sia la ragione, la volontà di ricondurre la figura di Tibullo e la
sua morte ad una dimensione credibile e realistica, in cui la qualità di poeta
gioca un ruolo solo di facciata, è evidente in tutto il componimento. Da ciò
l’inevitabile contrapposizione a Properzio, che tra gli elegiaci latini noti è
quello che più spesso esalta la grandezza del genere e la sua capacità di
assicurare una fama immortale. In ogni caso, alla luce delle due elegie proper-
ziane con cui si pone in relazione, l’epicedio ovidiano acquista un senso
diverso, una prospettiva di lettura alternativa, che non esclude le altre, ma
ne svela la provvisorietà e la parzialità, secondo la visione del mondo carat-
teristica del poeta. Soprattutto, però, il confronto con Properzio conferma
la straordinaria abilità di Ovidio nel giocare con i modelli in un dialogo
sfaccettato e complesso, capace di restituire aspetti inconsueti e ambigui
delle opere letterarie e della realtà da esse variamente rispecchiata e
interpretata.
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