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6/12/2015 OTTAVIANI, 

Alfredo in Dizionario Biografico – Treccani

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OTTAVIANI, Alfredo
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

di Enrico Galavotti

OTTAVIANI, Alfredo. ‒ Nacque a Roma, nel popolare quartiere di Trastevere, il 29 ottobre


1890, penultimo dei dodici figli di Enrico, fornaio, e di Palmira Catalini.

Cresciuto in una famiglia solidamente cattolica, la sua formazione spirituale si giovò


anche della frequenza delle classi primarie presso i Fratelli delle Scuole cristiane, attivi
nel suo quartiere, dove la pratica religiosa doveva far fronte a un marcato
anticlericalismo, espresso talvolta con la contestazione delle cerimonie religiose
pubbliche (Riccardi, 1982, p. 435). Nel contesto della sua parrocchia iniziò a dedicarsi
all’attività giornalistica, tenendosi però distante da questioni di natura politica.

Si distinse come un ottimo studente, dotato di una memoria prodigiosa; dal punto di vista
spirituale palesò da subito un profilo che avrebbe mantenuto per il resto della sua vita:
semplice, distante da particolarismi, impiantato sui più classici canoni postridentini, a cui
si associavano le pratiche devozionali più ordinarie e tipiche della sua città d’origine; allo
stesso tempo rivelò una solida intransigenza, che lo condusse, in anni in cui si
avvertivano ancora le conseguenze della campagna antimodernistica, a tenersi distante
da tutto ciò che sembrava contraddire i capisaldi della propria spiritualità. Simpatizzò
con alcune iniziative che, negli anni del massimo consenso goduto dal regime fascista,
esaltavano il concetto di romanità intrecciandolo alla storia e ai fasti della Roma
ecclesiastica.

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Compì gli studi superiori nel seminario romano dell’Apollinare, retto da Domenico
Spolverini, in cui operavano Luigi Oreste Borgia e Francesco Pitocchi, determinati a
plasmare un profilo ‘romano’ ‒ dunque anzitutto ossequiente nei confronti della Sede
apostolica ‒ nei loro chierici. Negli anni della frequenza seminaristica, nel corso della
quale conseguì le lauree in teologia, filosofia e utroque iure, sviluppò un interesse per le
discipline giuridiche; del resto svariati docenti dell’Apollinare erano coinvolti nella
redazione del Codex iuris canonici che, promossa da Pio X, giunse a compimento
appunto in quegli anni. Al seminario romano strinse anche amicizie di lungo corso, come
quella con Pietro Parente, di cui avrebbe favorito più tardi la chiamata in Curia, e fece la
conoscenza, tra gli altri, di Domenico Tardini, Francesco Borgongini Duca e Paolo
Marella. Il 18 marzo 1916 venne ordinato sacerdote; fu quindi nominato canonico della
basilica di S. Maria in Cosmedin e venne subito destinato all’insegnamento, tenendo il
corso di diritto pubblico ecclesiastico nell’ateneo giuridico dell’Apollinare e quello di
filosofia presso il Pontificio Collegio urbaniano di Propaganda Fide.

Dal suo impegno didattico scaturì nel 1925 la prima edizione del fortunato manuale
Institutiones iuris publici ecclesiastici, esemplare per la fermezza con cui argomentava il
concetto di Chiesa come societas perfecta, rimarcandone la superiorità rispetto a ogni
altro ordinamento: un vero e proprio manifesto della scuola teologica romana.

Grazie al rapporto stabilito con il Collegio urbaniano nel 1919 fece il suo ingresso in Curia
con la qualifica di minutante presso la congregazione di Propaganda Fide; nel 1921
passò alla segreteria di Stato come officiale presso la congregazione per gli Affari
ecclesiastici straordinari. A queste mansioni affiancò l’impegno pastorale rivolto ai
giovani del quartiere Aurelio che frequentavano il Pontificio oratorio di S. Pietro; più tardi
si fece promotore e sostenitore dell’Oasi di S. Rita a Frascati, un istituto dedicato ad
accogliere e dare istruzione a bambine indigenti.

Soprattutto in queste mansioni non ufficiali era possibile apprezzare i contorni della sua
personalità, necessariamente più sfuggente nelle sue funzioni d’ufficio: quelle cioè di chi,
pure introdotto nella curia papale, non dissimulò mai le personali origini popolari,
facendone anzi una orgogliosa esibizione; in ogni caso un suo tratto distintivo tanto in
pubblico quanto in privato fu costituito dalla solerte e piena disponibilità alle direttive
superiori.
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Non gli mancarono reiterati segnali di apprezzamento da parte sia del papa sia del
segretario di Stato, Eugenio Pacelli. Nel 1926 giunse la sua designazione a rettore del
Pontificio Collegio nepomuceno, carica che mantenne sino al 1928, quando Pio XI lo
nominò sottosegretario della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. Dal
1927 ebbe modo di seguire da vicino le trattative in corso tra la S. Sede e il regime
fascista in ordine alla risoluzione della Questione romana e all’indomani della stipula dei
Patti lateranensi papa Ratti lo promosse sostituto della segreteria di Stato. Nel 1931
ricevette la nomina a protonotario apostolico e sempre Pio XI lo designò nel dicembre
1935 assessore del S. Uffizio, introducendolo in quel dicastero con cui si identificò sino
alla fine della sua vita e nel quale, più che negli uffici precedenti, gli fu possibile definire
una linea di governo che non era solo la mera esecuzione del volere pontificio, ma anche
il prodotto di una visione ecclesiologica che poneva al vertice di tutto l’idea di
monoliticità del cattolicesimo, da difendere contro ogni ‘eversione’ interna o aggressione
esterna.

In qualità di assessore del S. Uffizio trasmise nel marzo 1939 alla segreteria di Stato le
riserve espresse dai membri della congregazione circa i contenuti della rivista italiana La
difesa della razza e contribuì alla stesura del Decretum del 1940 che condannava la
soppressione dei malati psichici in Germania (Cavaterra, 1990, pp. 11-12); durante la
seconda guerra mondiale, in modo analogo ad altri membri di curia, ebbe modo di dare
rifugio nel suo stesso appartamento a ebrei in fuga dalla persecuzione nazifascista.

Gli anni del conflitto, segnati anche dal passaggio di pontificato da Ratti a Pacelli, furono
anche quelli in cui il S. Uffizio contribuì in modo fondamentale alla definizione delle
posizioni della S. Sede rispetto tanto alle importanti evoluzioni del dibattito teologico in
atto (enciclica Mystici corporis, 1943), quanto al delicato nodo dello sviluppo degli studi
esegetici (enciclica Divino Afflante Spiritu, 1943). In entrambi i casi è evidente la
preoccupazione di fondo che ispirò i pronunciamenti papali: quella cioè di ribadire
l’assoluta primazia della sede romana nel definire la gerarchia delle priorità, ma anche gli
strumenti e le strategie per risolvere le questioni più urgenti. Anche per questa ragione
Ottaviani si mostrò ostile all’esperienza dei preti-operai promossa dall’arcivescovo di
Parigi Emmanuel Suhard.

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Con la fine della guerra il coinvolgimento politico di Ottaviani aumentò di pari passo con
la ricostruzione democratica dell’Italia. Le modalità concrete di impegno politico dei
cattolici furono oggetto di attenta considerazione del S. Uffizio, anche perché la sconfitta
dei regimi fascista e nazista imponeva alle autorità vaticane la delicata scelta della
strategia da porre in essere per contrastare l’azione dei partiti di ispirazione marxista.
Differentemente da monsignor Montini, strenuo sostenitore di un impegno unitario dei
cattolici nella neonata Democrazia cristiana, Ottaviani parteggiò per la nascita di un
secondo partito cattolico: non tanto perché favorevole alla possibilità di un impegno
diversificato, ma affinché esso fungesse da recinto per l’elettorato minoritario cattolico
più vicino alle sinistre, spingendo al contempo il grosso a impegnarsi in un partito
nettamente ostile a indulgere oltremodo nell’esperienza dei governi ciellenisti e dunque
alla collaborazione con il Partito comunista e quello socialista.

In questo senso occorre rilevare come i suoi contatti con i cattolici comunisti furono
certamente equivocati nelle loro intenzioni più profonde da coloro che tracciarono i primi
profili di Ottaviani: ne sono riprova anche il pieno e convinto sostegno a tutte quelle
iniziative e attività promosse in seno agli ambienti ecclesiastici romani rivolte a
rafforzare l’anticomunismo della DC e, di conseguenza, il suo rapporto con le destre; così
come va ricordato il ruolo di primo piano svolto dal S. Uffizio nell’elaborazione del
decreto di scomunica del 1° luglio 1949, ancorché attenuato nella sua attuazione pratica;
Ottaviani fu anche «uno dei più decisi animatori» della solidarietà con le comunità
cattoliche d’Oltrecortina, considerando pure l’organizzazione di strutture cattoliche
clandestine (Riccardi, 1982, p. 437).

Nel marzo 1948 Ottaviani fu incaricato da Pio XII, con il quale si stabilì una crescente
consonanza di vedute, di promuovere la costituzione di una commissione preparatoria
che esaminasse le materie da discutere nell’eventualità di una ripresa e conclusione del
Concilio Vaticano, progetto infine accantonato da papa Pacelli nel gennaio 1951. In
questa occasione Ottaviani segnalò l’urgenza di rimediare alla diffusione degli ‘errori’ che
si andavano diffondendo in campo teologico, morale e sociale, così come occorreva
fronteggiare i problemi posti dalla diffusione del comunismo nonché considerare le
implicazioni poste dall’impiego delle nuove armi nucleari nell’eventualità di un nuovo
conflitto. Collaborò quindi attivamente alla stesura dell’istruzione Ecclesia Catholica

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(1949), primo importante segnale di attenuazione dell’intransigenza cattolico-romana


rispetto al movimento ecumenico, che già da decenni aveva conosciuto un’importante
diffusione. Fu quindi membro della Commissione di studio istituita per pervenire alla
proclamazione del dogma dell’assunzione di Maria (1950) ‒ una delle questioni che
immaginò potesse essere sciolta dall’eventuale concilio di Pio XII ‒ e presidente della
Commissione spirituale del Comitato centrale per l’Anno Santo 1950.

Nel concistoro del 1953 fu creato cardinale e allo stesso tempo il papa lo nominò
prosegretario del S. Uffizio; un anno più tardi giunse anche la nomina a camerlengo,
funzione che ricoprì sino al giugno 1958 e, successivamente, dal 1970 al 1973.

A partire dalla prima metà degli anni Cinquanta, nel momento in cui le condizioni di salute
del papa andarono aggravandosi, crebbe visibilmente l’interventismo di Ottaviani
nell’ambito politico italiano, al punto che fu frequentemente identificato come uno dei
‘consoli’ che tenevano materialmente le redini del governo ecclesiastico. Emerse in tutta
evidenza la sua fedeltà personale a un progetto di rifondazione cristiana della società
che, se aveva trovato una parziale soddisfazione durante il ventennio fascista, sarebbe
stato irrealizzabile in uno Stato che aveva scelto la via della democrazia parlamentare se
non mediante interventi di indirizzo dall’esterno. Nel marzo 1953 tenne così una
conferenza in cui indicò nella Spagna franchista il modello di Stato cattolico e fu lo
stesso Pio XII a dover correggere in pochi mesi queste affermazioni con un’allocuzione
rivolta ai giuristi cattolici italiani che rimarcava invece il valore della tolleranza. Fu
altrettanto netto nel condannare ‒ anche mediante pressioni e moniti del S. Uffizio ‒ il
processo politico di apertura a sinistra che si avviò in Italia a metà degli anni Cinquanta,
giudicando l’accantonamento della formula centrista un ulteriore allontanamento da quel
progetto statuale imperniato sul concetto di civiltà cristiana che solo un’opposizione
frontale della DC alle sinistre poteva garantire. Questa linea non mutò con il passaggio
del pontificato da Pio XII a Giovanni XXIII e Ottaviani fu protagonista di una clamorosa
contestazione pubblica al presidente della Repubblica Gronchi in occasione del viaggio
compiuto da quest’ultimo in Unione Sovietica (1960), perché giudicato colpevole ‒ tanto
più come cattolico ed esponente della Democrazia cristiana ‒ di cercare un confronto
con i persecutori del cristianesimo d’Oltrecortina.

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L’elezione di Roncalli al papato nell’ottobre 1958, a cui Ottaviani diede un contributo non
marginale, determinò un fondamentale ridimensionamento del suo spazio d’azione: sia
per la volontà del nuovo papa di ripristinare il controllo del funzionamento della Curia
romana, sia per il più profondo mutamento di clima, dal punto di vista tanto ecclesiale
quanto politico, che era intervenuto con la morte di Pio XII. Nel novembre 1959 Ottaviani
ascese al vertice del S. Uffizio con la nomina a proprefetto, perfezionata il 19 aprile 1962
dalla consacrazione episcopale che Giovanni XXIII volle stabilire per tutti coloro che
erano insigniti della porpora cardinalizia (motu proprio Cum gravissima, 1962). Da questa
nuova posizione operò per mantenere inalterata quella linea di condotta intransigente
che ormai lo caratterizzava pubblicamente.

A dispetto della volontà espressa dal nuovo pontefice di un disimpegno della Curia
romana rispetto alle vicende politiche italiane proseguirono i suoi tentativi di ostacolare
in ogni modo la realizzazione dell’apertura a sinistra, anche mediante pressioni dirette sul
presidente della Repubblica Antonio Segni. Nel maggio 1960 apparve quindi su
L’Osservatore Romano una nota intitolata Punti fermi, non firmata ma facilmente
riconducibile al S. Uffizio, che mediante un collage di affermazioni compiute dall’allora
cardinale Roncalli rinnovava il veto a una collaborazione con i socialisti. Ottaviani
perseguì questo obiettivo anche mediante la costituzione, nel 1960, dell’istituto S. Pio V,
un’organizzazione ufficialmente dedita ad attività caritative ma in realtà finalizzata a
procacciare finanziamenti per strutture politiche o organi di informazione ostili a una
evoluzione del quadro politico. Non meno coerente con la stagione precedente fu la linea
di intervento teologico del S. Uffizio, che nel 1959 ribadì la validità del decreto di
scomunica emanato nel 1949 e che nel 1962 emanò un Monitum per rilevare le
«ambiguità» e i «gravi errori» contenuti nelle opere di Pierre Teilhard de Chardin (1881-
1955), qualificato da Ottaviani più come un «poeta che fa teologia e talvolta un
panteista» (Cavaterra, 1990, p. 55).

Tutto questo dovette tuttavia commisurarsi con la decisione assunta da Giovanni XXIII
poco dopo la sua elezione di indire un nuovo concilio, che non sarebbe stato però la
ripresa del Vaticano primo. Come presidente della Commissione teologica preparatoria,
Ottaviani, di concerto con il gesuita Sebastian Tromp (già estensore di alcune encicliche
di Pio XII), progettò un concilio che solennizzasse la linea teologica della scuola romana,

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di cui era stato il più autorevole portavoce negli ultimi due decenni. Il suo progetto di una
preparazione lunga e meticolosa che avrebbe dovuto concludersi non prima del 1967 si
scontrò con la determinazione del papa a procedere con maggiore celerità e già con
l’allocuzione inaugurale dell’11 ottobre 1962, con la quale si qualificava il Vaticano
secondo come concilio ‘pastorale’ e si respingeva l’ipotesi di sancire nuove condanne,
Giovanni XXIII decretò il rigetto delle istanze avanzate dal S. Uffizio.

Ottaviani, che aveva immaginato come massimo responsabile del S. Uffizio di poter
essere il dominus dell’assemblea conciliare, si trovò invece da subito a dover giocare in
difesa: tanto degli schemi preparatori predisposti dalla Commissione teologica quanto
dello stesso S. Uffizio, che soprattutto a partire dal secondo periodo di lavori del concilio
(1963) fu oggetto di critiche e di richieste di riforma. I dibattimenti conciliari misero in
evidenza la sua impreparazione teologica e culturale ‒ nonché l’indisponibilità personale
a rimediarvi ‒ rispetto alle profonde evoluzioni intervenute nel cattolicesimo negli ultimi
decenni, tanto sul fronte esegetico quanto su quello liturgico ed ecumenico; ancora più
tenace fu la sua opposizione al riconoscimento della libertà religiosa, che nella sua ottica
avrebbe fatto decadere automaticamente i concordati con cui la Chiesa cattolica aveva
regolato i rapporti con alcuni Stati.

Partecipò nel giugno 1963 al secondo e ultimo conclave della sua vita, che elesse papa
Paolo VI, il quale ribadì immediatamente l’intenzione di proseguire il concilio sulla rotta di
apertura e di dialogo con il mondo moderno tracciata da Giovanni XXIII. Ottaviani rimase
fedele alla linea teologica da sempre seguita e ai criteri pratici che ne avevano dato
applicazione sino a quel momento. Reagì quindi difendendo a oltranza le tesi che
avevano ispirato il lavoro della Commissione teologica preparatoria, lasciando anzi
intendere in più occasioni che a dispetto delle critiche ricevute riteneva ancora la
Commissione teologica conciliare più autorevole non solo delle altre Commissioni, ma
del concilio stesso. Soffrì per la costituzione della Commissione teologica internazionale,
perché la considerava un ulteriore segnale della progressiva spogliazione di autorità che
il S. Uffizio, nel dicembre 1965 ridenominato congregazione per la Dottrina della fede,
aveva patito a partire dal concilio.

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Così come fu uno dei leader della minoranza conciliare, Ottaviani rimase uno dei punti di
riferimento di quegli ambienti che, nel postconcilio, si opposero al processo di ricezione
del Vaticano secondo. Immaginò dunque di dover assolvere al compito di tamponare gli
errori di un ipotetico fronte progressista responsabile della perdita di quella compattezza
del cattolicesimo che era stato il suo assillo per tutta la vita, arrivando però a contestare
apertamente quelle che erano le decisioni ufficiali della S. Sede. Così giudicò il novus
ordo liturgico un allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa e perorò il
mantenimento della liturgia tridentina; nel 1972 incoraggiò l’arcivescovo francese Marcel
Lefebvre, tra i più tenaci oppositori delle decisioni conciliari, a istituire un centro di azione
anche a Roma; si pronunciò ripetutamente contro il dialogo ecumenico così come contro
l’Ostpolitik vaticana; viceversa appoggiò totalmente le decisioni assunte dal papa in
merito alla contraccezione con l’enciclica Humanae vitae (1968).

Nel gennaio 1968, con la nomina a prefetto emerito della congregazione per la Dottrina
della fede, si concluse il suo lungo periodo di servizio in curia, ma non venne meno la sua
determinazione a intervenire sulle questioni che erano state oggetto del suo lavoro per
decenni. In tal senso Paolo VI tentò in più occasioni di compensarne l’irritazione per le
dimissioni, espressa anche mediante vari interventi pubblici che causarono un certo
imbarazzo alla S. Sede, dandogli ripetutamente segnali di attenzione personale.

Morì a Roma il 3 agosto 1979 e fu sepolto nella cappella di S. Salvatore in ossibus nella
Città del Vaticano.

Tra i suoi scritti vanno ricordati: Institutiones iuris publici ecclesiastici, I-II, Roma 1926;
Compendium iuris publici ecclesiastici, ibid. 1936; Luce di Roma cristiana nel diritto, Città
del Vaticano 1943; Doveri dello Stato cattolico verso la religione, Roma 1953; Pio XI e i
suoi segretari di Stato, in Pio XI nel trentesimo della morte (1939-1969). Raccolta di studi e
di memorie, a cura dell’Ufficio studi arcivescovile di Milano, Milano 1969, pp. 491-507,
Breve esame critico del Novus Ordo Missae, con A. Bacci, Roma 1969; alcune conferenze
e articoli sono stati raccolti in Il baluardo, Roma 1961.

Fonti e Bibl.: C. Falconi, Il pentagono Vaticano, Roma-Bari 1958, ad ind.; G. Damizia, Card.
A. O., in La Pontificia Università lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri, e dei
suoi discepoli, Roma 1963, pp. 230 s.; P. Lesourd - J.M. Ramiz, A. Cardinal O., Notre Dame

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(Indiana) 1964; A. Riccardi, O., A., in Dizionario storico del movimento cattolicoin Italia,
1860-1980, II, Casale Monferrato 1982, pp. 435-439; E. Cavaterra, Il prefetto del
Sant’Offizio. Le opere e i giorni del cardinale O., Milano 1990 (prezioso soprattutto per il
ricorso ai diari inediti di Ottaviani); J. Grootaers, Protagonisti del Concilio, in Storia della
Chiesa, XXV, 1, a cura di M. Guasco - E. Guerriero - F. Traniello, Cinisello Balsamo 1994,
pp. 474-480; P. Vian, «Quest’occhio di amicizia che tu, Tardini e Ottaviani posate su di me».
Don Giuseppe De Luca e la curia romana del suo tempo. I rapporti con Tardini, Montini e
Ottaviani, in Don Giuseppe De Luca e la cultura italiana del Novecento, a cura di P. Vian,
Roma 2001, pp. 87-142; F. Leoni, Il cardinale A. O., carabiniere della Chiesa, Roma 2002. Si
vedano anche: A. Indelicato, Difendere la dottrina o annunciare l’evangelo. Il dibattito nella
Commissione centrale preparatoria del Vaticano II, Genova 1992, ad ind.; A. Riccardi, Il
potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, ad ind.; Storia del concilio
Vaticano II, I-V, Bologna 1995-2001, ad ind.; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il
tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio vaticano II, Roma 2003, ad ind.; Ph. Chenaux,
Pie XII. Diplomateet pasteur, Parigi 2003, ad ind.; M. Velati, Giovanni XXIII e la curia
romana: stato delle conoscenze e prospettive di ricerca, in Cristianesimo nella Storia, XXV
(2004), pp. 659-693; A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e
Curia romana da Pio XII a Paolo VI, II ed., Brescia 2007, ad indicem. 

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