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3 l’antropologia della contemporaneità

Molto spesso gli informatori delle culture studiate sono collocati in un tempo “altro”, senza considerare il
dialogo fra antropologo e l’informatore.
Collocando, invece, gli informatori e gli antropologi sul piano della “contemporaneità”, si restituisce all’
“altro” una parola precedentemente negata: fatti e idee che prendono forma in un determinato contesto
culturale si ripercuotono su altri contesti e sulla vita degli essere umani appartenenti a culture diverse.
Grazie alla globalizzazione società e culture sono analizzabili all’interno di un contesto più ampio, che li
connette con altre culture.
Quindi avere in progetto di studiare l’antropologia della contemporaneità significa studiare le culture oggi e
nel loro ambiente globale, prendendo in considerazione i rapporti che tali culture hanno tra loro,
considerando il passato come una base per il presente, né in un ottica di uno studio classico né pensando
ad una “autointerrogazione”.
La comprensione del mondo attuale dovrebbe avere, in più, la necessità di rivolgersi criticamente a sé
stessa per meglio utilizzare il proprio patrimonio concettuale, dovrebbe applicare strumenti analitici e
teoretici della disciplina alle condizioni della vita culturale presente.

Tra i principali esponenti dell’antropologia della contemporaneità vi sono:

Pierre Bourdieu, “Lineamenti di una teoria della pratica” (1972).


Elabora una teoria prassiologica della conoscenza, che consiste nell’osservare le pratiche sociali così come
sono, seguendo l’approcio sociologico dell’etnometodologia. Geertz definisce questo approccio come
“descrizione esigua”. Secondo Bourdieu tiene conto in modo efficace dei fenomeni indagati più di altri
metodi. Con la conoscenza oggettivistica Bourdieu intende il momento in cui gli antropologi collegano fra
loro fenomeni con una certa familiarità, per poter produrre delle generalizzazioni. Rientrano in questa
visione il funzionalismo strutturale, l’antropologia strutturalistica, e l’antropologia marxista.
Lo studio prassiologico considera la pratica agita come riflesso dell’incorporazione delle strutture oggettive
del mondo sociale: rapporti economici, le relazioni di autorità, di gerarchia, di conoscenza e delle ideologie
del gruppo di appartenenza.
L’habitus è il modo in cui ciascuno di noi esprime, attraverso il comportamento, il pensiero e gli
atteggiamenti di genere, il proprio posto nel complesso delle relazioni che costituiscono il nostro mondo e
all’interno del quale viviamo. E’ “un sistema di disposizioni durature e predisposte a funzionare come
struttura strutturante.”
Il nostro modo di “essere nel mondo” è condizionato dalle strutture oggettive esterne, per cui il
comportamento individuale, il “modo di essere nel mondo”, è visto come modellato dalla realtà sociale.
La nozione di habitus investe quella di corpo in quanto mezzo grazie al quale gli esseri umani entrano in
rapporto con il mondo. Il nostro corpo è stato disposto e pronto sin dalla nascita alla regolarità del mondo,
per cui riusciamo a comprenderlo ed a conoscerlo.
La nostra conoscenza del mondo è una “conoscenza attraverso il corpo” detta incorporata: le strutture
cognitive con cui conosciamo sono il prodotto dell’incorporazione delle strutture del mondo in cui agiamo,
da e attraverso il mondo. Questa conoscenza è alla base del concetto di habitus.

Thomas Csordas è un antropologo americano che contribuisce a costruire e divulgare il paradigma


dell’incorporazione con la sua opera del 1994 “Incorporazione ed esperienza. Il fondamento esistenziale
della cultura e del sé”.
Il corpo è un terreno intersoggettivo che contribuisce alla costruzione di significati che producono forme
diverse di soggetti e di realtà, analizzati dagli antropologi attraverso il concetto di cultura. Il corpo non è
solo un oggetto di studio ma anche il soggetto per eccellenza della conoscenza e della produzione culturale.
Il corpo ha una natura sociale, ma essendo esso stesso produttore di conoscenza viene restituita al
soggetto una funzione creatrice.
L’antropologia marxista diede un contributo notevole negli anni compresi fra il 1960 e il 1990.
Gli studi più esemplari sono quelli di Dobb, Gunder, Wallerstein e Redfield.
Quest’ultimo esaminò le civiltà contadine denominandole “folk” e considerandole come una comunità
speciale, distinguendola da quelle tribali e statuali.
Tuttavia, dal 1980 l’antropologia di ispirazione marxista ha conosciuto un forte declino, legato alla
cancellazione del totalitarismo e del marxismo come ideologia, dello sfruttamento del centro sulla periferia,
che del suo valore in quanto fatto culturale.
Tuttavia l’impostazione data da questo tipo di dinamiche sociali è ancora molto attuale: Wolf quanto Mintz
ne sono molto influenzati. Si ritiene che essa sia un modo utile alla comprensione fra rapporti di forza,
simboli ed ideologie, dominazione e determinazione.
L’antropologia marxista ha sofferto del discredito dell’ideologia di Marx perché egli ha concentrato la
propria analisi in modo pedissequo sulla storia occidentale rifiutando un’applicazione dogmatica di tesi
precostituite e realtà diverse da quelle occidentali. Tuttavia nei paesi dove gli antropologi hanno lavorato e
lavorano permangono delle realtà sociali che tendono ad essere influenzate dal sistema mondiale delle
merci e dello scambio ineuguale fra centro e periferia, quindi l’analisi marxista risulta essere parziale.

Paul Farmer in “Patologie del potere: salute, diritti umani e la nuova guerra dei poveri “ del 2003 analizza
le nozioni di violenza e sofferenza strutturale applicandole alla società di Haiti.
Per “violenza strutturale” si intende uno stato di sofferenza come prodotto di più fattori (economici,
politici, ideologici), per cui è difficile uscirne.
Questa violenza viene incorporata dai soggetti, si inscrive nel loro modo di essere e di “non-progettare” la
propria vita. La violenza strutturale è generatrice di altra violenza, che porta ad un aumento della
sofferenza stessa.
Farmer assume una prospettiva critica rispetto alle posizioni dei governi occidentali, ed in particolare di
quello europeo e americano: la sofferenza è il prodotto di una cultura incapace di gestire determinati
problemi che vede questi problemi solo in una logica di emergenza e di intervento umanitario

Nancy Scheper-Hughes in “Morte senza lacrime: la violenza della vita quotidiana in Brasile” del 1992 ha
studiato la dinamica della violenza e della sofferenza strutturale tra i poveri brasiliani e l’instaurazione di
comportamenti di resistenza e rifiuto nei confronti del potere.
Ne “Il traffico di organi nel mercato globale” del 2000, Scheper-Hughes dà un quadro piuttosto crudo degli
squilibri che favoriscono il commercio di organi umani tra Nord e Sud del mondo.
Dal punto di vista socio-antropologico il traffico di organi umani tocca diversi aspetti della vita culturale,
come la concezione dell’integrità del corpo umano e l’idea di contaminazione.
Il concetto di violenza strutturale si adatta bene per esempio al fatto di considerare la vendita di un organo
del proprio corpo per sopravvivere o tentare di emigrare.

Dal 1960 grazie alle teorie di Geertz sulla cultura l’interesse per la dimensione culturale delle discipline di
altre aree delle scienze umane fu sicuramente più diffuso:
-Affermazione delle denominazioni accademiche di alcuni insegnamenti in “Antropologia culturale”
- Il concetto di cultura riassume in modo più funzionale i termini: struttura sociale, gruppo, etnia.
- Affermazione dell’antropologia americana, poi degli Studi Culturali in Gran Bretagna poco dopo il 1960

Gli Studi Culturali nascono in Gran Bretagna grazie a Hoggart che nel 1964 fondò a Birmingham il Centre for
Contemporary Cultural Studies (CCCS).
Nuovi fenomeni come l’immigrazione dalle ex colonie facevano emergere le dimensioni identitarie, dove la
dimensione legata all’etnia, genere, sesso, corpo e diritti si univano già ai problemi generati dalla crisi del
movimento operaio e alle nascenti discussioni sul genere e l’identità sessuale.
Il concetto antropologico di cultura viene ri-problemizzato nel contesto britannico fra gli anni 1960-70.
Diventa un’arena di confronto, disputa-dibattito e incontro-scontro per l’affermazione di idee e diritti da
parte di gruppi diversi, tesi al riconoscimento.
La cultura diventa un discorso che si costruisce intorno alle donne, ai neri, agli immigrati, che in questi
gruppi producono la rappresentazione di sé stessi o di altri gruppi.

Questa idea di cultura viene in gran parte ripresa da Antonio Gramsci.


La cultura come campo determina i rapporti di egemonia e subalternità tra gruppi e classi sociali.

Stuart Hall sintetizza la capacità che gli individui hanno di dare significato a eventi e rappresentazioni del
mondo con il concetto di “agency”: grazie allo stimolo proveniente da tali eventi, accogliendoli o
rifiutandoli, essi promuovono una propria forma di soggettività.
I lavori di Hall sono stati ripresi nelle ricerche antropologiche sui temi della resistenza, della posizione del
soggetto di fronte al dominio, dell’emarginazione e dello sfruttamento, che richiedevano l’utilizzo di
categorie normalmente non impiegate.
Per il concetto di “versatilità” i cultural studies hanno goduto di grande successo e hanno contribuito a far
usare il termine “cultura” in contesti diversi rispetto a quello dell’antropologia.

Negli anni 1970-1990 molti antropologi svilupparono una critica alla cultura come insieme di tratti
distinguibili fra culture diverse, come “mosaico culturale” in cui emergono principalmente le differenze.
Dopo la seconda guerra mondiale le migrazioni e la diffusione dei media hanno messo in comunicazione le
culture come mai era avvenuto prima.
Il concetto di cultura attualmente nei media viene inteso come gli antropologi di una volta nei discorsi dei
politici, dei politologi.
E’ utile a dare consistenza ai modi di pensare, rende visibile agli occhi degli occidentali i costumi dei popoli
esotici.
Attualmente il concetto è usato soprattutto per indicare gusti alimentari, nomadismo, conoscenze
tecnologiche, stile di vita dei giovani, modo di condurre un’azienda o di arredare una casa.
E’ deludente come politologi e analisti di affari internazionali abbiano usato il concetto di cultura per
avvalorare tesi del ritardo e del sottosviluppo di certe aree del pianeta.
L’uso diffuso e disinvolto del concetto do cultura lo rende buono per tutte le occasioni e serve per
stigmatizzare le diversità.
Gli antropologi intendevano far emergere i popoli altri dalle nebbie della storia, per cui continuano a
parlare di cultura/culture sebbene tutte le precauzioni che non adottano i giornalisti e i non specialisti della
materia.

Arjun Appadurai in “Modernità in polvere” del 1996 sostiene l’utilizzo dell’aggettivo “culturale” al posto
del termine “cultura”. Il termine “culturale” va utilizzato unitamente al sostantivo di cui si voglia
sottolineare il carattere mobile, fluido, relativo, “culturalmente costruito”.
La sfera del “culturale” può così dotarsi di nuovi significati, conferendo alla cultura una capacità descrittiva
assoluta e un potere denotativo.
Nel quadro della globalizzazione conia i termini:
- etno-rama: i nuovi paesaggi umani del pianeta (migranti, rifugiati, turisti, espatriati)
- medio-rama: i flussi di immagini e informazioni generati dai media che creano nuovi immaginari in
persone appartenenti ad ambiti culturali diversi
- ideo-rama: le idee che viaggiano da un capo all’altro del mondo incontrandosi con le tradizioni locali,
dando luogo a nuovi modi diversi di intendere quelle stesse idee (libertà, democrazia, sessualità).
- finanzio-rama e tecno-rama: consentono di parlare in maniera più appropriata di quei fenomeni culturali
che siamo soliti interpretare come effetti della globalizzazione.
Marc Augé è un antropologo francese africanista, egli chiama “surmodernità” quell’eccesso di modernità
che si realizza attraverso tre fenomeni tipici del mondo contemporaneo:
1- accelerazione della storia=un eccesso di eventi di cui siamo quotidianamente informati e che rende la
storia difficilmente pensabile
2- restringimento dello spazio=un eccesso di immagini che tendono a riportare all’individuo lo spazio del
mondo
3- individualizzazione dei destini=un eccesso di riferimenti individuali che si traduce in una solitudine che
porta alla secolarizzazione ed alla “fine delle ideologie” .

Augé ritiene che le società europee e nordamericane stanno vivendo oggi in maniera meno traumatica ciò
che i popoli africani sperimentarono con la colonizzazione: cambiamenti sociali, fine delle religioni
tradizionali e arrivo di nuove divinità, irruzione di beni materiali sconosciuti, contatto con stranieri portatori
di immagini, comportamenti e idee inizialmente incomprensibili.
Tutto dovette fare in modo che gli africani si ritrovassero disorientati in un mondo diventato privo di punti
di riferimento certi, così come oggi il mondo appare a molti occidentali. Così l’antropologia si presenta
come una chiave di interpretazione del mondo contemporaneo attraverso l’esperienza degli altri, con il
compito di esplorare mediante strumenti concettuali e analitici della disciplina antropologica, considerando
il fatto che la cultura è sempre più coinvolta nelle logiche della globalizzazione.

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