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Pluris

Libro IV - Delle obbligazioni


Titolo IX - Dei fatti illeciti

2059. Danni non patrimoniali

[1] Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

AA.VV., La liquidazione del danno alla salute, in BARGAGNA, BUSNELLI (a cura di), La valutazione del danno alla salute,
Padova, 2001; ALPA, Il danno biologico, Padova, 2003; ALPA, BESSONE, I fatti illeciti, in Tratt. Rescigno, 14, Torino,
1995; BIANCA, La responsabilità, in DC, 1994, V; BIANCO, Limiti alla indennizzabilità del danno non patrimoniale ai parenti
delle vittime di sinistri, in DPA, 1970; BERTI, PECCENINI, ROSSETTI, I nuovi danni non patrimoniali, Milano,
2004; BONA, Risarcimento del danno, procedure di liquidazione e azione diretta nel "Codice delle assicurazioni": prime
riflessioni critiche, in RCP, 2005; ID., Stati di incoscienza e risarcimento dei danni non patrimoniali: sofferenze, spirito
o quantum?, in DResp, 2004; ID., Danno morale e danno esistenziale, in Il danno alla persona, Torino, 2000; BONILINI, Il
danno non patrimoniale, Milano, 1983; BRONDOLO, FARNETI, Le micropermanenti, in AA.VV., Il danno biologico, patrimoniale,
morale, Milano, 1995; BUSNELLI, Chiaroscuri d'estate. La corte di cassazione e il danno alla persona, in DResp,
2003; CATAUDELLA, La tutela civile della vita privata, Milano, 1972; CHINDEMI, Il risarcimento del danno non patrimoniale nel
nuovo Codice delle assicurazioni: risarcimento o indennizzo, in RCP, 2006; COMANDÈ, Privacy informatica: prospettive e
problemi, in DResp, 1997; CRICENTI, Il danno non patrimoniale, Padova, 1999; DE CUPIS, Il danno, II, Milano, 1970; FRANZONI, Il
danno risarcibile, in Tratt. Franzoni, Milano, 2004; ID., Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta nel danno
alla persona, in CorG, 2003; ID., Dati personali e responsabilità civile, in RCP, 1998; ID., Il danno alla persona, Milano,
1995; ID., Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma, 1993; GHIDINI, La
concorrenza sleale, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1981; GIANNINI, Micropermanente e così sia, in RCP, 1998; ID., Criteri pratici
per la liquidazione del danno biologico: confronto tra metodo pisano e metodo genovese, in DPA,
1988; GUERINONI, L'interpretazione della Corte di Giustizia riguardo al danno da "vacanza rovinata", in RCP,
2002; GUSSONI, Danno biologico e micropermanenti: ambiguità dell'art. 5 della l. 5 marzo 2001, n. 57 e difficoltà applicative.
Prime considerazioni, in AGCSS, 2001; LUCCHINI GUASTALLA, Trattamento dei dati personali e danno alla riservatezza, in RCP,
2003; MONATERI, La responsabilità civile, in Tratt. Sacco, Torino, 1998; MONATERI, BONA, OLIVA, Il nuovo danno alla persona,
Milano, 1999; NANNIPIERI, La liquidazione del danno alla salute, in BARGAGNA, BUSNELLI (a cura di), La valutazione del danno
alla salute, 3a ed., Padova, 1995; NAVARRETTA, Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, in RCP, 2001; OLIVA, La
liquidazione del danno biologico: alla ricerca del giusto sistema, in MONATERI, BONA, OLIVA; PACCHIONI, Delitti e quasi delitti,
in Corso di diritto civile italiano, II, Padova, 1941; PECCENINI, La liquidazione del danno biologico, in MONATERI (a cura di), Il
danno alla persona, I, Torino, 2000; PERFETTI, Prospettiva di una interpretazione dell'art. 2059, in RTDPC, 1978; PETRELLI, Il
danno non patrimoniale, Padova, 1997; PETTI, Il risarcimento dei danni: biologico, genetico, esistenziale, Torino,
2002; POGLIANI, I titolari del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, in DPA, 1972; ID., Responsabilità e
risarcimento da illecito civile, Milano, 1969; PONZANELLI, Le tre voci di danno non patrimoniale: problemi e prospettive,
in DResp, 2004; ID., La nuova disciplina delle micropermanenti, in DResp, 2001; PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, L'art. 2059 va in
paradiso, in DResp, 2003; RAVAZZONI, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962; RICCIUTO, ZENO ZENCOVICH, Il
danno da mass media, Padova, 1990; ROPPO, La responsabilità civile per trattamento di dati personali, in DResp,
1997; ROSSETTI, in BERTI, PECCENINI, ROSSETTI (a cura di), I nuovi danni non patrimoniali, Milano, 2004; ID., Il danno da lesione
della salute, Padova, 2001; ID., Il danno esistenziale tra l'art. 2043 e l'art. 2059, in RCP, 2001; SALVI, La responsabilità civile,
in Tratt. Iudica, Zatti, Milano, 1998; ID.,Risarcimento, in ED, Milano, 1988; SCOGNAMIGLIO, Il risarcimento del danno in forma
specifica, in RTDPC, 1957; ID., Danno morale, contributo alla teoria del danno extracontrattuale, in RDC, 1957,
I; SGROI, Lesione dei diritti della personalità e risarcimento del danno non patrimoniale, in GC, 1963; VISINTINI, I fatti illeciti,
I, Padova, 1987; ID, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996; ZENO ZENCOVICH, Onore e reputazione nel
sistema del diritto civile, Napoli, 1985; ZIVIZ, E poi non rimase nessuno, in RCP, 2003; ID., Chi ha paura del danno
esistenziale?, in RCP, 2002; ID., Il danno non patrimoniale, in CENDON (a cura di), La responsabilità civile, VII, Torino,
1998; ID., Trattamento dei dati personali e responsabilità civile: il regime previsto dalla L. 675/1996, in RCP, 1997.

Sommario:1. Il contenuto del danno non patrimoniale, prima della pronuncia della C. Cost. n. 233 del 2003
2. (Segue) Il contenuto del danno non patrimoniale, dopo la pronuncia della C. Cost. n. 233 del 20033. Il
danno da lesione di interessi costituzionali o esistenziale prima della sentenza della C. Cost. n. 233 del 2003
4. (Segue) Il danno esistenziale o da lesione di interessi costituzionali, dopo la sentenza della C. Cost. n.

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233 del 2003 5. Il danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione, Sezioni Unite, dell'11
novembre 2008 6. (Segue) La liquidazione del danno non patrimoniale dopo le pronunce della
Cassazione, Sezioni Unite, dell'11 novembre 20087. Il danno morale soggettivo ex art. 185 del codice penale
8. (Segue) La prova del danno morale 9. (Segue) La liquidazione del danno morale 10. (Segue) La
liquidazione del danno morale in caso di lesione della reputazione11. (Segue) Il risarcimento del danno
morale per le lesioni subite da un congiunto 12. Il danno biologico 13. (Segue) La liquidazione del
danno biologico 14. (Segue) La liquidazione del danno biologico e le c.d. «tabelle»15. Le
micropermanenti16. (Segue) L'art. 139, D.Lgs. 7.9.2005, n. 209 e l'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57 17. Il risarcimento
del danno in caso di morte: il danno morale18. (Segue) Il risarcimento del danno morale iure proprio19.
(Segue) Il risarcimento del danno morale al nascituro20. (Segue) Il risarcimento del danno biologico, iure
hereditario21. (Segue) Il risarcimento del danno biologico iure proprio 22. (Segue) Il danno da perdita del
rapporto parentale, come danno esistenziale o da lesione di un interesse costituzionalmente rilevante23.
Il danno non patrimoniale degli artt. 89 del codice di procedura penale e 598 del codice penale24. I casi di
espresso riconoscimento del danno non patrimoniale nella legislazione successiva al codice: l'art. 2, L. n.
117 del 198825. (Segue) Il danno non patrimoniale per l'eccessiva durata del processo (art. 2, L. n. 89 del
2001)26. (Segue) La violazione delle regole sul trattamento dei dati personali27. Il danno non patrimoniale
da inadempimento contrattuale28. Casi particolari di risarcimento del danno non patrimoniale: la lite
temeraria 29. (Segue) Il danno da vacanza rovinata30. (Segue) Il diritto all'equa riparazione per ingiusta
detenzione cautelare ex art. 314 c.p.p31. (Segue) Il diritto morale d'autore 32. (Segue) La riparazione
prevista dall'art. 12, L. n. 47 del 194833. La risarcibilità del danno non patrimoniale in favore di una persona
giuridica34. Legittimato passivo35. Concorso di colpa della vittima36. Danno non patrimoniale e
svalutazione monetaria37. Risarcimento in forma specifica e pubblicazione della sentenza

1. Il contenuto del danno non patrimoniale, prima della pronuncia della C. Cost. n. 233 del
2003

A causa della clausola limitativa prevista, l'art. 2059 è stato più volte sottoposto a denunce di incostituzionalità.
In questo modo, le pronunce della Corte costituzionale che sono seguite hanno forgiato la nozione di danno non
patrimoniale (MONATERI, BONA, OLIVA, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999, 14).

Si è ritenuto che l'espressione danno non patrimoniale sia ampia e generale, e tale da riferirsi senza ombra di
dubbio a qualsiasi pregiudizio che si contrapponga in via negativa a quello patrimoniale caratterizzato dalla
economicità dell'interesse leso (C. Cost. n. 88/1979). Successivamente, si è ristretto notevolmente l'ambito di operatività
dell'art. 2059, affermandosi che l'art. 2059 attiene esclusivamente ai danni morali soggettivi, che consistono
nell'ingiusto perturbamento dello stato d'animo del soggetto offeso (C. Cost. 14.7.1986, n. 184). Secondo tale
ricostruzione i danni non patrimoniali si identificano con i danni morali puri, non suscettibili di valutazione secondo
criteri oggettivi ed uniformi. Tale specie di danno può essere rappresentata dai patemi e dai perturbamenti d'animo,
ma non dal danno alla salute. Il risarcimento del danno non patrimoniale viene pertanto a ricoprire la funzione di
un pretium doloris, per chi ha subito sofferenze morali derivanti da fatti particolarmente offensivi (C. Cost. 14.7.1986,
n. 184). In seguito, l'impostazione della pronuncia C. Cost. 14.7.1986, n. 184 è stata decisamente respinta: si è ricompreso
il danno biologico subito dai congiunti della vittima nell'ambito dell'art. 2059 (C. Cost. 27.10.1994, n. 372); si è sottolineato
che per danno non patrimoniale deve intendersi ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione
economica (C. Cost. 22.7.1996, n. 293). Si è, così, sostenuto che nella categoria del danno non patrimoniale deve essere
ricondotto sia il danno morale soggettivo sia il danno alla salute, intendendo con l'espressione danno morale il dolore,
il patema d'animo, lo stato d'angoscia transeunte, mentre, per danno alla salute si intende una vera e propria
patologia del soggetto (C. Cost. 22.7.1996, n. 293). Secondo tale ricostruzione, il risarcimento del danno morale, non
essendo assistito dalla garanzia dell'art. 32 Cost., può essere discrezionalmente limitato dal legislatore; mentre, il
risarcimento del danno alla salute, essendo tutelato a livello costituzionale, è risarcibile, attraverso un'interpretazione
analogica dell'art. 2043, anche nel caso in cui il fatto illecito non sia qualificato come reato.
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In questo modo, la categoria del «danno non patrimoniale» ha finito per avere soltanto un valore più che altro
dogmatico e classificatorio, senza però alcun riscontro a livello codicistico (BONA, Danno morale e danno esistenziale,
in Il danno alla persona, Torino, 2000, 74; MONATERI, BONA, OLIVA, 16).

In giurisprudenza v.: ( C. 4030/1998; C. 6632/1997; C. 57/1991).

Una tale impostazione ha poi trovato conferma anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha
sottolineato come il danno non patrimoniale ed il danno morale siano nozioni distinte: il primo comprende ogni
conseguenza pregiudizievole di un illecito, che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non può
essere oggetto di risarcimento, bensì di riparazione, mentre il secondo consiste nella c.d. pecunia doloris (C.
2367/2000; C. 10606/1996; T. Bergamo 24.2.2003).

Il danno morale concerne soltanto il dolore, il patema d'animo, le sofferenze ed è sottoposto ai limiti indicati
nell'art. 2059; mentre, tutti gli altri tipi di danno devono essere risarciti come species di danno ingiusto ex art.
2043(MONATERI, La responsabilità civile, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, 16). In tale contesto si colloca l'elaborazione della
categoria del danno esistenziale, in cui si riconducono tutti i danni derivanti dalla lesione di situazioni riconosciute a
livello costituzionale.

! Secondo la giurisprudenza nel nostro ordinamento non esiste l'autonoma categoria del danno "esistenziale",
in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi che scaturiscono dalla lesione di interessi di rango costituzionale
della persona, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 (C. 3290/2013).

2. (Segue) Il contenuto del danno non patrimoniale, dopo la pronuncia della C. Cost. n. 233
del 2003

La C. Cost. 11.7.2003, n. 233, attraverso il richiamo al diritto vivente (in modo particolare, C. 8828/2003; C.
8827/2003), ha operato una vera e propria "svolta" nel sistema del danno alla persona, ricomprendendo nell'ambito
dell'art. 2059, attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, ogni danno di natura non
patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla persona. Tale ripensamento ha poi trovato recente
completamento e specificazione negli arresti della C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U.,
26972/2008 (sulle quali si veda il par. 5). In ogni caso, la C. Cost. 11.7.2003, n. 233 esclude che l'ambito di operatività
dell'art. 2059 possa essere circoscritto al solo danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento
dell'animo determinato da fatto illecito, integrante gli estremi del reato. Nell'ordinamento attuale, in cui ha una
posizione preminente la Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, il danno non
patrimoniale viene inteso nella sua accezione più ampia di danno comprensiva di ogni ipotesi di lesione di interessi
inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica. Tale concezione è testimoniata anche dai numerosi
provvedimenti legislativi che riconoscono il risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di
reato, nel caso di compromissione di valori personali: art. 2, L. 13.4.1988, n. 117, riguardante il risarcimento dei danni
non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale, cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie;art.
29, 9° co., L. 31.12.1996, n. 675, riguardante la raccolta dei dati personali; art. 44, 7° co., D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, riguardante
gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2, L. 24.3.2001, n. 89, riguardante il mancato rispetto del
termine ragionevole di durata dei processi. A favore di tale interpretazione vi è anche l'evoluzione giurisprudenziale,
la quale, per garantire l'integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso
strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona, ha previsto il risarcimento del danno biologico.
Tale danno è sempre stato tutelato in virtù del collegamento tra l'art. 2043 e l'art. 32 Cost., e non già nell'art. 2059, al
solo fine di sottrarre il risarcimento al limite posto dall'art. 2059, secondo la ricostruzione della C. Cost. 14.7.1986, n.
184 il danno biologico, in quanto costituito da due componenti, di cui l'una di natura strettamente psicofisica e l'altra
che influisce sulle attività relazionali del soggetto, deve essere necessariamente personalizzato, poiché un certo tipo
di danno può avere influito sugli aspetti relazionali di un soggetto in una certa misura, mentre su di un altro soggetto
l'incidenza può essere diversa; esso deve essere, pertanto, valutato caso per caso (T. Cassino 22.6.2016). Si esclude che

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la riserva di legge contenuta nell'art. 2059 possa venire in rilievo con riferimento a valori personali di rilievo
costituzionali; si ritiene, infatti, che il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale,
possa essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della stessa atteso che il
riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica
implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, di
riparazione del danno non patrimoniale (C. 8828/2003; C. 8827/2003; C. St., 28.5.2010, n. 3397).

Sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 il danno non patrimoniale, ivi compreso il danno
morale soggettivo, è sempre risarcibile, anche a prescindere dal limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art.
185 c.p. (dunque, anche in assenza di un'ipotesi di reato), allorché si sia in presenza di un'ingiusta lesione di un
interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito (C. St., 16.9.2011, n. 5166).

I doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la relativa violazione, ove cagioni la lesione di
diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione
volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 (C., ord., 4470/2018).

In questo modo, la Corte costituzionale, attraverso il richiamo al diritto vivente, delinea un sistema di danno alla
persona, incentrato sul sistema bipolare del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale; quest'ultimo, a sua
volta, caratterizzato per la presenza, al suo interno, di una trilogia (BUSNELLI, Chiaroscuri d'estate. La corte di cassazione
e il danno alla persona, in DResp, 2003, 829): danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato
d'animo della vittima del reato; danno biologico, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito,
all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico - legale; infine, il danno (spesso
definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona. All'interno dell'art. 2059 è, pertanto, individuabile una duplice struttura ed una
duplice funzione: la prima, punitiva e/o afflittiva, sottoposta ai presupposti dell'art. 185 c.p., che disciplina i soli danni
morali da reato; la seconda, tipicamente compensativa, che consente di risarcire, sulla base degli elementi costitutivi
previsti dall'art. 2043, i «danni non patrimoniali», che, anche in assenza di un reato, derivino dalla lesione di interessi
di rango costituzionale inerenti alla persona (PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, L'art. 2059 va in paradiso, in DResp, 2003, 834).

In giurisprudenza v. C. Cost. 14.7.1986, n. 184; C. 4947/1985.

L'evoluzione di tale orientamento e il suo punto d'arrivo sono puntualmente ricostruiti in C. 15481/2013, secondo cui
assume rilievo essenziale, non solo in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale, ma anche, e prima ancora,
ai fini della esperibilità dell'azione di responsabilità, l'indagine se il diritto oggetto di lesione sia riconducibile a quelli
meritevoli di tutela secondo il parametro costituzionale.

3. Il danno da lesione di interessi costituzionali o esistenziale prima della sentenza della C.


Cost. n. 233 del 2003

Il danno esistenziale è stato ideato per sopperire alle lacune del sistema risarcitorio che non era in grado di
tutelare gli attributi ed i valori della persona, nel caso in cui l'illecito non integrasse gli estremi del reato, così da
permettere la risarcibilità del danno morale, oppure allorché non integrasse una lesione della salute, suscettibile di
giustificare il risarcimento del danno biologico (C. 15449/2002). Nella categoria del danno esistenziale sono stati
ricondotti tutti i danni derivanti dalla lesione di situazioni riconosciute a livello costituzionale; tale pregiudizio è
distinto dal danno biologico, in quanto non comporta un'alterazione dello stato di salute o l'insorgere di una malattia;
il danno esistenziale, invece, senza ridursi al mero patema d'animo interno, richiama disagi e turbamenti di tipo
soggettivo, i quali incidono negativamente su tutte le attività attraverso le quali il soggetto esplica la propria
personalità (C. 9009/2001). Il danno esistenziale causa un'alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di
vita che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività quotidiane e
provocando uno stato di malessere psichico diffuso che, pur non sfociando in una vera e propria malattia, provoca,
tuttavia ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazione, depressione (A. Milano 14.2.2003; T. Milano

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21.10.1999). Il fondamento normativo del danno esistenziale, prima del nuovo assetto delineato dalla C. Cost. 11.7.2003,
n. 233, è individuato attraverso uno schema simile a quello adottato inizialmente per il danno alla salute: il combinato
disposto dell'art. 2043 con una norma della Carta Costituzionale (C. 9009/2001; C. 7713/2000; T. Venezia 27.9.2000; T.
Milano 8.6.2000). Secondo questa ricostruzione, la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, anche in presenza
di una norma come l'art. 2059, sarebbe comunque risarcibile in base al combinato disposto dell'art. 2043, e della norma
che si assume di volta in volta violata.

È individuata una precisa differenza tra il danno esistenziale ed il danno morale: il danno morale si
manifesterebbe su un piano puramente interno (sensazioni, disagi, turbamenti, ansie), mentre il danno esistenziale
avrebbe ad oggetto "il fare", prospettandosi per la vittima la necessità di adottare nella vita di tutti i giorni
comportamenti diversi dal passato. Il danno esistenziale costituirebbe una rinuncia ad un facere, ad una attività
positiva, mentre il danno morale costituirebbe una mera sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile, un pati. In tal
modo, danno esistenziale e danno morale riguarderebbero due aree di pregiudizio ben distinte: nel primo caso sarebbe
presente una modificazione della realtà esterna, nell'altro verrebbe in rilievo una sofferenza di carattere emotivo
(ZIVIZ, Chi ha paura del danno esistenziale?, in RCP, 2002, 815). È, tuttavia, sottolineato il rischio che si venga a creare
unasovrapposizione tra danno morale e danno esistenziale e di compiere così una duplicazione risarcitoria,
liquidando due volte lo stesso pregiudizio: il "non fare" rappresenta una conseguenza della sofferenza morale, che
deve essere valutata al momento della liquidazione del danno morale (NAVARRETTA, Il danno alla persona tra solidarietà
e tolleranza, in RCP, 2001, 792; ROSSETTI, Il danno esistenziale tra l'art. 2043 e l'art. 2059, in RCP, 2001, 809).

Il pericolo di una duplicazione di risarcimento tra danno morale e danno esistenziale è sottolineato anche dalla
giurisprudenza antecedente alla pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n. 233 (T. Roma 7.3.2002), nonché dalla
giurisprudenza richiamata dalla stessa C. Cost. 11.7.2003, n. 233 come diritto vivente (C. 8828/2003; C. 8827/2003).

4. (Segue) Il danno esistenziale o da lesione di interessi costituzionali, dopo la sentenza


della C. Cost. n. 233 del 2003

L'art. 2059 ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla
persona; in tale ambito deve essere collocato oltre al danno morale soggettivo (inteso come transeunte turbamento
dello stato d'animo della vittima) ed al danno biologico anche il danno esistenziale o da lesione di interessi di rango
costituzionale (C. Cost. 11.7.2003, n. 233; C. 8828/2003; C. 8827/2003). Si esclude che, nel caso di lesione di valori personali
di rilievo costituzionale, il risarcimento del danno non patrimoniale possa essere soggetto al limite derivante dalla
riserva di legge di cui all'art. 185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente orientata rende inoperante il limite
di cui all'art. 2059 se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti: il rinvio ai casi in cui
la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale deve essere riferito, dopo l'entrata in vigore della
Costituzione, anche alle previsioni di quest'ultima, in quanto il riconoscimento nella Costituzione dei diritti
fondamentali della persona non aventi natura economica, ne impone, necessariamente, la tutela ed in tal modo
configura un caso determinato dalla legge di riparazione del danno non patrimoniale (C. 8828/2003; C. 8827/2003). Il
danno non è ravvisabile nella lesione dell'interesse costituzionale protetto, non è in re ipsa , ma deve consistere in
una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale; inoltre, il pregiudizio alla sfera personale
derivante dalla lesione di un interesse di natura costituzionale deve essere, da chi lo invoca, allegato e provato secondo
le regole ordinarie. Il giudice, pertanto, non può stimarlo e liquidarlo d'ufficio. Il danneggiato deve quantomeno
allegare le conseguenze sfavorevoli causate dalla lesione dell'interesse costituzionalmente protetto (C.
13546/2006; T.A.R. Campania 13.5.2011, n. 915; Cons. Giust. Amm. Sic. 18.11.2016, n. 401). È, comunque, ammissibile il
ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni, sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del
danneggiato fornire (C. 8828/2003). L'art. 2059, secondo una sua lettura costituzionalmente orientata che ne comporta
l'applicabilità anche nel processo amministrativo, non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito produttiva di danno
non patrimoniale, ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, tra cui va annoverata
la necessità, anche in caso di lesione di diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, che
la lesione sia grave e che il danno non sia futile (C. St. 26.5.2017, n. 2486). Ad esempio, il disagio psico-fisico
conseguente alla mancata utilizzazione di un'area comune condominiale non è in re ipsa, potendosene ammettere il
ristoro solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente
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previsti dalla legge, ai sensi dell'art. 2059, e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile (C.,
ord., 17460/2018).

Nonostante la nuova formulazione, il danno esistenziale o il danno da lesione di interessi costituzionali presenta
ancora problemi di sovrapposizione rispetto al danno morale soggettivo; tuttavia, ai fini del risarcimento del danno da
lesione di interessi costituzionali od esistenziali è necessaria la prova del pregiudizio subito, mentre nel danno morale
soggettivo il danno è in re ipsa ; proprio partendo da questa differenza si può attribuire al danno morale soggettivo
una funzione mista nella quale la componente punitiva è prevalente, mentre al danno esistenziale può essere
attribuita una funzione solidaristico satisfattiva propria del danno alla salute (FRANZONI, Il danno non patrimoniale, il
danno morale: una svolta nel danno alla persona, in CorG, 2003, 1031).

Di recente si è sottolineato che mentre il danno morale ha natura emotiva e interiore, ed il danno biologico è
subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale
deve essere inteso come ogni pregiudizio, oggettivamente accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che
alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e
realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (C., S.U., 6572/2006; C. St. 10.5.2017, n. 2159; C. St. 4.11.2016, n.
4628; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 21.11.2016, n. 2679). Deve escludersi, tuttavia, che il danno c.d. esistenziale sia
integrato non già in presenza di uno "sconvolgimento esistenziale" bensì del mero "sconvolgimento dell'agenda" o
nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, e in particolare da meri disagi, fastidi,
disappunti, ansie, stress o violazioni del diritto alla tranquillità (C., ord., 2056/2018; C., ord., 27229/2017).

Il danno esistenziale, spesso, ha riguardato anche le conseguenze di lesioni di dubbio riferimento a precisi valori
costituzionali, come ad esempio, nel caso, di disagio o stress per contravvenzioni illegittime (G.d.P. Bologna 8.2.2001),
per sospensione dell'attività aeroportuale (G.d.P. Milano 23.7.2002), per ritardata attivazione del servizio telefonico
(G.d.P. Verona 16.3.2000) o per aver conseguito un punteggio di laurea inferiore a quello sperato(T. Bologna
20.1.2003). Nei casi sottoposti all'esame delle pronunce richiamate dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233, come diritto vivente,
invece, la lesione di un interesse costituzionale è di tutta evidenza: esse riguardano la lesione del rapporto parentale,
a causa dell'uccisione di un congiunto (C. 8828/2003) o a causa dello sconvolgimento delle abitudini di vita per
l'esigenza di provvedere perennemente ai bisogni di un figlio ridotto ad uno stato pressoché vegetativo (C. 8827/2003).

È, pertanto, dibattuto se il disagio e lo stress, derivanti da lesioni di interessi non direttamente riconducibili a
valori costituzionali, siano ancora risarcibili alla luce del nuovo assetto del danno alla persona che si è delineato.
Secondo parte della dottrina (ZIVIZ, 709) è possibile a fronte di qualunque accertamento di ripercussioni non valutabili
economicamente, evidenziare la lesione di un interesse costituzionalmente protetto: per qualsiasi conseguenza di
carattere morale potrà essere richiamata la violazione di un interesse all'integrità morale; mentre, se le ripercussioni
dannose interessano la sfera personale esterna al soggetto si deve ravvisare la violazione di un interesse alla libera
esplicazione della personalità protetto dall'art. 2 Cost. Seguendo una diversa ricostruzione appare più corretto
ammettere che anche il solo disagio, se apprezzabile secondo la mentalità corrente, debba essere riparato, a
prescindere dall'individuazione di un interesse costituzionale in capo al danneggiato; infatti, se il pregiudizio non è
socialmente accettabile, nel conflitto tra chi lo ha provocato e chi lo ha subito, è doveroso che l'ordinamento tuteli il
danneggiato, per mezzo delle tecniche della responsabilità civile (FRANZONI, Il danno non patrimoniale, 1031).

Si è però anche affermato che l'atipicità dell'illecito aquiliano è limitata al risarcimento del danno patrimoniale,
mentre per il danno non patrimoniale non esiste un'astratta categoria di «danno esistenziale» risarcibile, poiché la
risarcibilità è limitata ex art. 2059 ai soli casi previsti dalla legge, per essi intendendosi sia i casi da questa
espressamente previsti sia quelli di lesione di specifici valori della persona umana garantiti dalla costituzione (C.
23918/2006). Tuttavia, incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112
c.p.c., il giudice di merito che, a fronte di una domanda di risarcimento del danno esistenziale provocato dall'altrui
condotta e conseguente alla lamentata lesione del bene salute, statuisca sul danno morale conseguente alla ritenuta
commissione di una fattispecie di reato, in tal modo attribuendo al danneggiato un bene non richiesto (C. 20198/2016).

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Pluris
5. Il danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione, Sezioni Unite, dell'11
novembre 2008

Le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008, "ripensano" il
danno non patrimoniale in modo unitario ed onnicomprensivo delle precedenti figure (biologico, esistenziale,
morale), degradate, adesso, ad un livello meramente descrittivo. È di tutta evidenza che una ferma volontà di
"contenere" il sistema di risarcimento del danno alla persona: per questa ragione il danno non patrimoniale viene
ricostruito come categoria unitaria, tipica, in cui la tutela risarcitoria al di fuori dei casi determinati dalla legge è
concessa soltanto se si accerta la lesione di un diritto inviolabile della persona. Il carattere unitario della
liquidazione del danno non patrimoniale preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche
fattispecie di sofferenza patite dalla persona, che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo
restando, però, l'obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non
patrimoniale, nel singolo caso, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitoria in sede di
personalizzazione della liquidazione (C. 24473/2014). L'idea di fondo che accompagna la ricostruzione unitaria, proposta
dai giudici dell'11 novembre, è di evitare una suddivisione del danno non patrimoniale in sottocategorie distinte ed
autonome, variamente etichettate, in quanto ciò potrebbe dare luogo a duplicazioni di risarcimenti; così facendo, viene
respinta la precedente impostazione fatta propria dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233 attraverso il richiamo al diritto vivente
(in particolare alle sentenze di legittimità del 31 maggio 2003), che - nel delineare un danno non patrimoniale,
caratterizzato per la presenza, al suo interno di una "trilogia", presentava indubbiamente il rischio di una
sovrapposizione tra le voci di danno. A seguito della rilettura del danno non patrimoniale operata dalla Cassazione a
Sezioni Unite, al di fuori dei casi determinati dalla legge la tutela risarcitoria è ammessa soltanto «nei casi di danno
non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione». Ma vi è
di più, al fine di evitare "scappatoie" viene anche precisato che non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti
a quelli presi in considerazione dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con
la L. 4.8.1955, n. 848. A tali diritti, seppur fondamentali «non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché
la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri trattati internazionali,
non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia
del diritto comunitario nell'ordinamento interno». La determinazione di contenere il sistema di riparazione del danno
non patrimoniale ha portato i giudici di legittimità ad individuare anche un limite ulteriore al risarcimento dei danni
non patrimoniali conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili: il filtro selettivo della gravità della
lesione e della serietà delle conseguenze (in tal senso anche C. St., 23.3.2009, n. 1716). In tal modo, si rende necessario
effettuare un bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima e quello di tolleranza, cosicché il risarcimento
del danno è dovuto solo nel caso in cui sia superata la soglia di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. È anche
indicato il parametro che deve guidare il giudice nell'effettuare il giudizio di bilanciamento: quello della "coscienza
sociale" del particolare momento storico. La chiusura nettissima ed indiscutibile nei confronti dei c.d. danni bagatellari
è completata dalla circostanza che i giudici di legittimità non solo fissano i limiti alla risarcibilità del danno non
patrimoniale, ma addirittura, temendo comportamenti elusivi soprattutto dei giudici di pace, "ammoniscono"
espressamente questi ultimi al rispetto dei principi enunciati anche nelle decisioni di equità, evidenziando come siffatti
limiti costituiscano principio informatore della materia, con la conseguenza che in caso di violazione vi sarebbe censura
della pronuncia per violazione di legge. In senso parzialmente difforme è stato successivamente affermato che nel
giudizio di equità del giudice di pace, venendo in rilievo l'equità c.d. formativa o sostitutiva della norma di diritto
sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge,
fissata dall'art. 2059, sia pure nell'interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione; ne consegue che il
giudice di pace, nell'ambito del solo giudizio d'equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche
fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente
protetti, sempre che il danneggiato abbia allegato e provato (anche attraverso presunzioni) il pregiudizio subìto (C.
4493/2009). Possono essere risarcite plurime voci di danno non patrimoniale, purché allegate e provate nella loro
specificità (C. 13992/2018).

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6. (Segue) La liquidazione del danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione,
Sezioni Unite, dell'11 novembre 2008

L'intento chiarificatore che aveva mosso l'ordinanza di rimessione (C. 4712/2008) viene profondamente deluso
con riguardo al profilo della liquidazione del danno; anzi, i giudici di legittimità amplificano le incertezze già presenti,
a seguito degli arresti del 2003, in cui per evitare il rischio di sovrapposizioni si auspicava un uso accorto dei criteri di
liquidazione, da parte dei giudici di merito ed una liquidazione tendenzialmente unitaria. Nelle sentenze dell'11
novembre, viene evidenziato che nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, il danno morale se accompagnato da
degenerazioni patologiche, rientra nel danno biologico «del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura
intrinseca costituisce componente». Tale passaggio sembra avere una portata generale, tanto che i giudici di legittimità
arrivano alla conclusione che «determina una duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno
biologico e del danno morale», quest'ultimo inteso nella sua "rinnovata configurazione", non più limitata al danno
morale soggettivo transeunte. In tal modo, ripudiata la liquidazione del danno morale in una frazione del danno
biologico, si sostiene che il giudice dovrà procedere ad una "adeguata personalizzazione" della liquidazione del danno
biologico, se si avvale delle tabelle, valutando, nella loro effettiva consistenza, le sofferenze fisiche e psichiche patite
dal soggetto leso (T. Camerino, 21.1.2009; T. Brindisi, 2.2.2009; G.d.P. Bari, 2.3.2009; G.d.P. Acireale, 18.3.2009). La fase di
personalizzazione del danno biologico non riguarda però solo la sofferenza del danneggiato, ma anche tutti i pregiudizi
esistenziali, concernenti aspetti relazionali, che la menomazione ha comportato nella vita del danneggiato. Tali
pregiudizi, infatti, rappresentano la componente dinamico relazionale del danno biologico, presa in considerazione sia
dall'art. 138, 3° co., c. ass. priv., relativo al danno biologico per lesioni di non lieve entità, sia dall'art. 139, 3° co., dello
stesso Codice, relativo al danno biologico per lesioni di lieve entità. Già prima delle sentenze dell'11 novembre, tuttavia,
si dubitava che i rigidi parametri, indicati dall'art. 138 (la cui tabella comunque non è stata ancora emanata) e dall'art.
139, al fine di effettuare la personalizzazione del danno biologico, potessero garantire un risarcimento integrale del
pregiudizio subito. Adesso, tale sospetto viene ingigantito dall'arresto dei giudici di legittimità, i quali fanno rientrare
le sofferenze fisiche e psichiche nell'ambito dei già stretti e predeterminati limiti, fissati dal Codice delle assicurazioni
nel trenta per cento (art. 138) ed in un quinto (art. 139) del danno biologico. Potrebbe sorgere il sospetto, pertanto, che
le sentenze dell'11 novembre abbiano voluto introdurre un sistema "indennitario", negando di fatto il riconoscimento
del danno morale, che nel sistema precedente rappresentava una voce importante del danno alla persona. Tale
assunto, in ogni caso, sembra smentito dal rilievo che una siffatta decisione dovrebbe spettare al legislatore ed, inoltre,
sarebbe in contraddizione rispetto a quanto ribadito nella motivazione e cioè che «il risarcimento del danno alla
persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio». Più coerente, pertanto, è
ritenere che la tabella di cui all'art. 139 c. ass. priv. e più in generale (tenuto conto che la tabella per le lesioni di non
lieve entità non è stata ancora emanata) quelle normalmente utilizzate dai tribunali non siano più attuali rispetto al
danno non patrimoniale unitariamente inteso, in cui ciò che tradizionalmente era il danno morale soggettivo finisce,
adesso, per rientrare «nel danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca
costituisce componente».

Sebbene il danno non patrimoniale rappresenti una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico
e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso
in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile. Orbene, è erronea
la sentenza che, facendo riferimento alle predette sottocategorie, abbia risarcito due volte le medesime conseguenze
pregiudizievoli. Se, invece, facendo riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice ha preso in esame pregiudizi
concretamente diversi, la pronuncia non può considerarsi erronea in diritto (C. 2413/2014).

In tema di danno non patrimoniale, la natura unitaria dello stesso deve essere intesa come unitarietà rispetto alla
lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica. In tale ottica,
"natura unitaria" sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato
dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione
della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza o del rapporto parentale; "natura
onnicomprensiva" sta, invece, a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice
di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il
concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non

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oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. "bagattellari". L'accertamento e la
liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte (C. 26805/2017).

La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva, ovvero tale da coprire l'intero pregiudizio a
prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento
dell'anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le
tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale, continuano a svolgere una funzione, per quanto solo
descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal Giudice al fine di dare concreto contenuto e parametrare
la liquidazione del danno risarcibile. In tal senso, si rivela erronea la sentenza del Giudice del merito che a tali
sottocategorie abbia fatto riferimento ove, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state
risarcite due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli (C. 687/2014).

Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie (art. 2059).
Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla salute, il risarcimento dovrà essere
commisurato al peggioramento della qualità della vita effettivamente dimostrato dalla vittima, mentre non trova più
spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza d'animo, il quale perciò non rientra tra le conseguenze
dannose che possano formare oggetto di prova (C. St. 10.1.2014, n. 46).

7. Il danno morale soggettivo ex art. 185 del codice penale

Come è noto l'art. 2059 prevede che il danno non patrimoniale sia risarcibile soltanto «nei casi determinati dalla
legge»; in tale ambito, l'ipotesi tradizionalmente più rilevante (almeno fino alla svolta operata dalla C. Cost. 11.7.2003,
n. 233) è rappresentata dall'illecito penale, in virtù del disposto dell'art. 185 c.p., 2° co., il quale dispone che ogni reato
che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole.

In questa fattispecie, il risarcimento del danno viene pertanto a ricoprire la funzione di un pretium doloris, per
chi ha subito sofferenze morali derivanti da fatti particolarmente offensivi; infatti, come sottolinea la relazione al codice
(Relazione al Re Imperatore sul libro "Delle Obbligazioni", n. 273): «nel caso di reato è più intensa l'offesa all'ordine
giuridico, e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione anche con carattere preventivo».

Ai fini del risarcimento del danno non è necessaria, comunque, una lesione della salute o un altro evento
produttivo di un danno patrimoniale; infatti, il danno morale è risarcibile anche nei casi di reato tentato oppure di
reato di pericolo, i quali sono in grado di determinare ugualmente per il soggetto passivo quelle sofferenze e patemi
d'animo che rappresentano il contenuto del danno morale (C., S.U., 2515/2002). Non è, comunque, necessario che il
reato sia accertato in senso tecnico, essendo sufficiente far riferimento al fatto - reato nella sua materialità, cioè che
nella fattispecie siano astrattamente ravvisabili gli estremi del reato (C., S.U., 6651/1982; C. 8845/1995; C. pen.
27.8.1980). Ai fini del risarcimento del danno morale soggettivo, pertanto, non è necessario che il fatto reato sia
effettivamente esistente in tutti i suoi elementi penalmente rilevanti o che sia punibile; è necessario, soltanto che quel
fatto possa astrattamente configurarsi come illecito penale, così da maggiormente turbare nella sua materialità la
coscienza sociale; da ciò consegue che il risarcimento del danno morale può essere accordato anche quando il fatto
illecito è cagionato da un soggetto penalmente non imputabile, come un minore non imputabile oppure altro
soggetto non imputabile (C., S.U., 6651/1982; C. 11198/1990; C. 3664/1985; C. 565/1985). Allo stesso modo, il risarcimento
può essere riconosciuto anche nel caso di estinzione del reato o della pena per amnistia ( C. 11038/1997; C.
8946/1995; C. 3278/1986), di perdono giudiziale (A. Milano 21.5.1974), oppure di prescrizione del reato ( C.
6400/1999; C. 1003/1991); il risarcimento del danno morale deve essere riconosciuto anche nel caso in cui l'autore non
risulti concretamente perseguibile in ragione della sussistenza di una causa di non punibilità, come quella prevista
dall'art. 649 c.p., relativa ai delitti contro il patrimonio, commessi a danno di congiunti (C. 3747/2001). L'inesistenza di
una pronuncia del magistrato penale non è di ostacolo alla liquidazione del danno morale, potendo il giudice civile
accertare incidentalmente la sussistenza degli elementi costitutivi del reato ( C. 3747/2001; C. 3536/2000; C.
1643/2000; C. 6527/1996). Il giudice civile, inoltre, può procedere alla liquidazione del danno morale anche nel caso
di mancata proposizione della querela (C. 1502/2000). Secondo l'orientamento tradizionale, l'accertamento degli
elementi costitutivi del reato, da parte del giudice civile, doveva essere condotto secondo la legge penale ed avere ad
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oggetto l'esistenza del reato in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione
e l'eccesso colposo ad esse relativo. In questo modo, ai fini del risarcimento del danno morale era richiesto non solo
che fosse integrato l'elemento materiale del reato, ma anche l'elemento psicologico negli esatti termini in cui è
previsto dalla norma penale (C. 3747/2001; C. 3536/2000; C. 1643/2000). In base a tali considerazioni, si tendeva a negare
il risarcimento del danno morale nei casi in cui la responsabilità dell'agente fosse affermata dal giudice civile in base
ad una presunzione, come nel caso di cui all'art. 2054, 2° co. ( C. 4113/2001; C. 12741/1999), oppure in base ad un criterio
di imputazione oggettivo (C. 5799/1980; T. Roma 17.3.1998). Tale orientamento giurisprudenziale, tuttavia, è sorto in
relazione al precedente codice di procedura penale che prevedeva la necessità di sospendere obbligatoriamente il
processo civile in attesa di quello penale. Di conseguenza, l'accertamento dell'illecito in sede civile era subordinato
all'accertamento del fatto reato in sede penale ed in tal modo si escludeva la risarcibilità del danno morale nei casi di
responsabilità presunta: l'inesistenza del reato, stabilita in sede penale, non poteva essere contraddetta dagli esiti del
processo civile. Attualmente, però, tali esigenze sono venute meno, in quanto il rapporto tra procedimento civile e
penale è mutato ad opera dell'art. 75 c.p.p., il quale consente che l'azione di risarcimento possa avere un iter autonomo
rispetto al procedimento penale, permettendo anche che vi siano esiti contrastanti tra il giudizio penale e quello civile.
Facendo, proprio, riferimento al mutamento dei rapporti tra processo penale e processo civile, la giurisprudenza
della S.C., nell'ambito della revisione delle proprie posizioni in tema di danno alla persona, ha mutato orientamento,
arrivando a sottolineare come agli effetti civili, un determinato fatto rimanga sempre lo stesso sia nel caso in cui le
risultanze processuali siano tali da consentire il positivo accertamento della colpa, sia nel caso in cui il criterio di
imputazione della responsabilità sia oggettivo oppure vi sia una presunzione di colpa, come nella fattispecie di cui
all'art. 2054, 2° co. (C. 20814/2004; C. 10482/2004; C. 7283/2003; C. 7282/2003; C. 7281/2003). Soltanto nelle ipotesi di
responsabilità oggettiva, al fine del risarcimento del danno morale, è necessario che sia provata, con qualunque mezzo
di prova ammesso dal rito civile, la colpa dell'autore del fatto, salvo che si versi in ipotesi di danno da lesione di valori
costituzionalmente protetti, nel qual caso - venuta meno la limitazione posta dall'art. 2059 - la responsabilità oggettiva
fonda non solo il risarcimento del danno patrimoniale ma anche di quello non patrimoniale (C. 20814/2004).

In materia di conseguenze dannose di un illecito penale (nella specie, episodio di estorsione), il diritto al risarcimento
del danno morale consistente nel turbamento e nella sofferenza patiti dalla vittima sussiste e va riconosciuto in
rapporto al grado ed alla capacità di resistenza che ci si può attendere da un soggetto medio, non assumendo rilievo
la circostanza per cui, in considerazione del particolare coraggio della vittima, il fatto non le abbia impedito di
denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine (C., ord., 18327/2017).

Spetta al giudice investito della domanda risarcitoria accertare, incidenter tantum e secondo la legge penale, la
sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui l'attore riconduce la
fattispecie; accertamento che è logicamente preliminare all'indagine sull'esistenza di un diritto leso di rilievo
costituzionale (cui sia eventualmente ricollegabile il risarcimento del danno non patrimoniale, secondo
l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità ormai
consolidata) potendo quest'ultimo venire in rilievo solo dopo l'esclusione della configurabilità di un reato;
accertamenti, entrambi, preliminari alle indagini in ordine alla sussistenza in concreto del pregiudizio patito dal titolare
dell'interesse tutelato (C. 9445/2012).

8. (Segue) La prova del danno morale

Il danno morale soggettivo è un danno in re ipsa , in quanto l'unico presupposto per la risarcibilità è la
configurabilità di un fatto-reato (C., S.U., 2515/2002).

Nel caso in cui il risarcimento sia richiesto da una persona diversa dalla vittima del reato è, tuttavia, necessaria
la prova del danno, la quale può essere data per presunzioni dimostrando, ad esempio, il legame di coniugio, di
parentela oppure la convivenza (FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma,
1993, 1227). In questo caso la prova è richiesta per non allargare troppo la cerchia degli aventi diritto e per evitare
speculazioni.

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Si tende, inoltre, ad escludere il risarcimento del danno morale alla vittima nel caso in cui risulti con assoluta
certezza, sulla base delle risultanze medico legali, la sua totale ed assoluta incapacità di percepire il dolore (C.
4970/2001). È legittimo il ricorso alla presunzione semplice, intendendosi con ciò la sufficienza della prova
dell'esistenza del fatto base, della ragionevole desumibilità da tale fatto noto di quello ignoto secondo una verificata
regola di esperienza, della conseguente esenzione della parte dall'onere di provare il fatto rilevante ma ignoto in
assenza di prova contraria (C. St. 5.3.2015, n. 1099). Il danno morale, pur non essendo mai in re ipsa per il solo fatto
della lesione d'un diritto, nondimeno può essere provato in via presuntiva e di massime di comune esperienza (C.
26751/2017). In materia di responsabilità civile della P.A. (da ritardo a provvedere) ai fini del risarcimento del danno
non patrimoniale, ed in particolare di quello esistenziale, la sussistenza del pregiudizio ex art. 2059 (che deve attenere
ad interessi di rilievo costituzionale, almeno nei casi di fattispecie non esplicitamente contemplate da leggi di settore)
può esser verificata secondo criteri logico giuridici basati sull'id quod plerumque accidit, con possibile ricorso a stime
presuntive ed equitative (T.A.R. Abruzzo 26.3.2015, n. 234; T.A.R. Abruzzo 14.1.2015, n. 10). La categoria del danno non
patrimoniale ex art. 2059, pur nei casi in cui la sua applicazione consegua alla violazione di diritti inviolabili della
persona, costituisce pur sempre un'ipotesi di danno conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito
dell'integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza e riferibilità eziologica alla condotta del soggetto
indicato come autore dell'illecito (C. 16659/2017; C. St. 15.9.2015, n. 4286).

9. (Segue) La liquidazione del danno morale

Sulla liquidazione del danno morale dopo le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U.,
26973/2008; C., S.U., 26972/2008, si veda il par. 6. In ogni caso, prima di tali arresti, si è affermato che la liquidazione
del pregiudizio morale sfugge necessariamente ad una valutazione analitica, restando affidata ad apprezzamenti
equitativi ( C. 6993/1998; C. 2677/1998; C. 5944/1997); La valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento
del giudice, deve ispirarsi alla considerazione di tutte le concrete circostanze della fattispecie, in modo da adeguare il
risarcimento al caso particolare e da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità. Tale valutazione deve,
inoltre, rispettare l'esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare
dell'equivalente pecuniario, cosicché questo non si riduca a mera espressione simbolica (C. 2272/1998; C. 4671/1996; C.
23/1988). L'esigenza di garantire uniformità di trattamento ha portato, nel caso di fatto che costituisca reato di lesioni
colpose, ad effettuare la liquidazione in una frazione - solitamente da un terzo alla metà - dell'importo liquidato a
titolo di danno biologico (C. 490/1999; C. 475/1999; C. 134/1998). Tale liquidazione risponde all'esigenza di evitare
liquidazioni ogni volta diverse, imprevedibili, suscettibili quanto meno di apparire arbitrarie (C. 134/1998). Il criterio
della frazione del danno biologico è legittimo soltanto se avviene nella effettiva considerazione di ogni aspetto del
caso concreto, il quale poi abbia, riscontro, sia pur sintetico nella motivazione della sentenza, e, perciò, al di fuori di
ogni automatismo ( C. 20814/2004; C. 8169/2003; C. 10725/2000; C. 475/1999). Nella liquidazione equitativa del danno
morale, comunque, il giudice non è tenuto ad adottare il sistema della frazione dell'importo liquidato a titolo di danno
biologico, ben potendo basarsi su criteri correlati esclusivamente alle particolarità del caso concreto (C. 748/2000).
Particolare rilevanza, quindi, è attribuita alla gravità del reato ( C. 14752/2000; C. 5366/1998; C. 2272/1998) ed alla
entità delle sofferenze patite dalla vittima (C. 10405/1998; C. 5366/1998; C. 2272/1998); in alcuni casi si è fatto
riferimento anche ad altri elementi della fattispecie, tra cui l'età, il sesso, il grado di sensibilità del danneggiato o altre
situazioni personali in grado di incidere sulla sofferenza conseguente all'illecito (C. 14551/2009; C. 3357/2009; C.
5944/1997), il dolo oppure il grado di colpa dell'autore dell'illecito (C. 13336/1999), la realtà socioeconomica in cui
vive il danneggiato (C. 1637/2000); il grado di parentela con la vittima (nel caso in cui si agisca in seguito al suo
decesso) (C. 2112/1980; T. Piacenza 11.5.1989); la capacità finanziaria del danneggiante (T. Roma 27.3.1984).

Per C. 19211/2015 l'equità deve intendersi nel significato di adeguatezza e di proporzione, assolvendo alla fondamentale
funzione di garantire l'intima coerenza dell'ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo
diseguale. Devono, dunque, essere prese in considerazione tutte le circostanze concrete del caso specifico, onde
ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, escludendo qualsiasi duplicazione risarcitoria.

La scelta del criterio da impiegare nel caso concreto dovrebbe dipendere anche dalla funzione che si vuole
accordare al risarcimento del danno morale (FRANZONI, Il danno alla persona, Milano, 1995, 673): se si assegna un ruolo
punitivo e dissuasivo al danno morale, ai fini della liquidazione, dovrà essere tenuto in particolare considerazione la
11
Pluris
gravità del reato e soprattutto l'intensità dell'elemento soggettivo; infatti, se si gradua il quantum di risarcimento del
danno morale in funzione del grado di colpa del responsabile, si assegna necessariamente al risarcimento una funzione
punitiva (ROSSETTI, 1120); se, invece, si assegna una funzione prevalentemente riparatoria al risarcimento del danno
morale, assumerà maggior rilievo il dato relativo alle condizioni socio - economiche in cui vive il danneggiato, nonché
il dolore patito dalla vittima ed il grado di sensibilità della stessa.

In materia risarcitoria il criterio della realtà socioeconomica in cui vive il danneggiato, non è fonte in diritto in
quanto il risarcimento del danno deve avere come obiettivo primario il ripristino del valore dell'uomo nella sua
insostituibile unicità (C. 24201/2014).

Ai fini della liquidazione del danno morale, deve essere segnalato anche l'orientamento che prende in considerazione
il dato della pena astrattamente comminabile per quel fatto di reato, convertita in una somma di denaro sulla base
dell'art. 135 c.p. In questo modo si desume dall'entità della pena l'entità delle sofferenze patite (C. 1164/1998; P. Monza
19.12.1992).

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il


riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico od esistenziale, non ricorre
automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel
ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo
rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta
datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art.
2697 del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (C. 29047/2017).

10. (Segue) La liquidazione del danno morale in caso di lesione della reputazione

Per la liquidazione del danno morale, nel caso di lesione della reputazione, sono presi in considerazione -
generalmente - tre criteri: 1) gravità del fatto; 2) estensione della diffamazione; 3) qualità del soggetto leso. Il
criterio della gravità del fatto si riferisce sia all'addebito particolarmente infamante, sia alla situazione prodottasi a
seguito dell'attribuzione diffamatoria (RICCIUTO, ZENO ZENCOVICH, Il danno da mass media, Padova, 1990, 90).

L'onore e la reputazione costituiscono diritti inviolabili della persona, la cui lesione fa sorgere in capo all'offeso
il diritto al risarcimento del danno, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, sicché ai
fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa (C. 25423/2014). Se, tuttavia,
in concreto il comportamento lesivo non sia stato percepito da nessuno, non rimane integrato un danno
civilisticamente risarcibile (C., ord., 14680/2018).

Il criterio dell'estensione dell'addebito diffamatorio tiene in considerazione la diffusione del mezzo con cui è divulgata
la notizia illecita: pertanto, si è proceduto ad una liquidazione modesta in caso di notizia diffamatoria pubblicata su
un quotidiano a diffusione locale (T. Genova 24.10.1986), oppure di un giornale organo di partito (A. Roma 16.1.1991; T.
Roma 19.6.1985). La c.d. "larga diffusione" della notizia, in considerazione dell'ampia distribuzione del quotidiano su
tutto il territorio nazionale, è stato il parametro utilizzato per liquidare con maggiore severità il pregiudizio sofferto (T.
Roma 14.7.1989). Si è sottolineato che vanno distinte le peculiarità del libro rispetto al giornale-quotidiano, dal
momento che il libro, se da una parte conferisce al suo contenuto diffamatorio una certa stabilità, dall'altra, comporta
una limitazione dei destinatari del messaggio (T. Roma 2.5.1995). Particolare rilievo, inoltre, è attribuito alla capacità di
penetrazione del mezzo della televisione, poiché tale mezzo, notoriamente, possiede una capacità di penetrazione
più efficace rispetto alla stampa, impedendo ai destinatari della notizia, la riflessione e la critica, in modo tale che la
notizia si fissa nella memoria dei telespettatori così come viene presentata (T. Roma 30.9.1995).

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C. 24474/2014: nella diffamazione a mezzo stampa, il danno alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in
re ipsa, ma richiede che ne sia data prova, anche a mezzo di presunzioni semplici. (Nella specie, la S.C. ha confermato
la sentenza di condanna al risarcimento dei danni, richiesta da un noto giornalista, di cui in un articolo di stampa si
insinuava che fosse fra i clienti di una casa di appuntamenti, ritenendo lecito presumere che la pubblicazione di tale
notizia avesse inciso sui sentimenti degli stretti congiunti di quest'ultimo, così pregiudicandone, per un non breve
periodo di tempo, la serenità ed i rapporti familiari). Il danno non patrimoniale da lesione della reputazione, alla
stregua degli altri danni da lesione di diritti fondamentali, è un tipico danno-conseguenza e, perciò, non coincide con
la lesione dell'interesse (ovvero non è in re ipsa); deve, pertanto, essere allegato e provato da chi chiede il relativo
risarcimento (C., ord., 9385/2018).

Alcune volte per liquidare il danno morale sono presi in considerazione anche altri criteri quali, i destinatari
della notizia diffamatoria, le modalità di presentazione della notizia lesiva, l'autorevolezza della casa editrice, il grado
della colpa dell'autore ed il suo prestigio. Per quanto riguarda il criterio dei destinatari dell'informazione, tale
parametro dovrebbe trovare applicazione soprattutto quando i destinatari della notizia lesiva dell'altrui reputazione
sono coloro nell'ambito dei quali il soggetto svolge la propria azione o è maggiormente conosciuto, sicché il giudizio o
la stima negativa prodottasi incide direttamente sulla personalità del soggetto leso (RICCIUTO, ZENO ZENCOVICH, 109). Il
riferimento ai destinatari dell'informazione viene utilizzato spesso quando il soggetto diffamato è un uomo politico e
la notizia viene pubblicata su un quotidiano vicino all'area elettorale di appartenenza del personaggio.

In merito all'azione risarcitoria conseguente alla pubblicazione di articoli denigratori, aventi contenuto politico,
si rileva come il diritto di critica politica può contemplare, anche in ragione della forte animosità che caratterizza una
simile manifestazione di pensiero, l'uso di toni aspri e pungenti, maggiormente incisivi rispetto a quelli che
normalmente si usano nei rapporti interpersonali. Detti toni, però, devono essere collegati alla manifestazione di un
ragionato dissenso rispetto alle opinioni ed ai programmi politici dell'avversario, senza mai trasmodare nel punto
insulto o nella contumelia ovvero nel tentativo di suscitare in chi legge o ascolta la sensazione di una sorta di indegnità
personale del soggetto cui si riferiscono. Entro tali limiti, dunque, deve accettarsi che la critica politica non
necessariamente rivesta i connotati di una totale obiettività che normalmente si impongono per l'esercizio del diritto
di cronaca (C. 2081/2015).

Tale criterio può essere applicato anche al professionista o all'imprenditore qualora la notizia diffamatoria
venga diffusa negli ambienti economici da lui frequentati ovvero nell'ambito della clientela attuale o potenziale
dell'imprenditore stesso (RICCIUTO, ZENO ZENCOVICH, 109).

In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno morale
va necessariamente operata con criteri equitativi, il ricorso ai quali è insito nella natura del danno e nella funzione del
risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di un pregiudizio di tipo non
economico (C. 25739/2014). Il risarcimento del danno morale sofferto dal soggetto diffamato a mezzo stampa può essere
ridotto, nel caso in cui pubblicazione su cui sono apparsi gli articoli offensivi è diffusa prevalentemente in un'area
geografica in cui la vittima non ha alcun centro di interessi (T. Palermo 11.6.2002). Spesso si tiene conto anche del
particolare risalto dato dalla notizia diffamatoria nel quotidiano: più la forma è eclatante, più la notizia lede la
personalità morale (T. Torino 18.5.1996); in alcuni casi, si è attribuito rilievo all'importanza della casa editrice e
al prestigio dell'autore dell'illecito (A. Milano 23.12.1986; T. Roma 31.10.1991), nonché al particolare momento storico in
cui è avvenuto il fatto (T. Napoli 28.10.1987).

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11. (Segue) Il risarcimento del danno morale per le lesioni subite da un congiunto

Nel caso di lesioni gravi ma non letali, l'orientamento prevalente, fino ad alcuni anni or sono tendeva a non
riconoscere il risarcimento del danno morale ai congiunti (C. 11414/1992; C. 6854/1988). Le argomentazioni utilizzate
per escludere la legittimazione dei congiunti al risarcimento nel caso di lesioni non mortali si basavano sul fatto che
le sofferenze dei familiari non erano ritenute conseguenze immediate e dirette dell'evento lesivo primario causato
dall'illecito e quindi erano considerate irrisarcibili, ai sensi dell'art. 1223; infatti, nel caso di lesioni, il danno morale dei
prossimi congiunti della vittima era considerato conseguenza mediata ed indiretta del fatto illecito (C. 6854/1988).
Inoltre, era evidente il timore che, concedendo il risarcimento del danno non patrimoniale ai prossimi congiunti del
danneggiato, si sarebbe giunti ad un ampliamento immotivato delle richieste di risarcimento del danno non
patrimoniale, in netto contrasto con la limitazione posta dalla legge (A. Milano 11.5.1973).

Anche la dottrina ha sottolineato il pericolo di allargare troppo la cerchia degli individui ammessi a
lamentare l'affetto colpito, in modo tale da rischiare di gravare l'istituto della responsabilità di una serie infinita di
pretese, basate su allegazioni morali più o meno sincere (DE CUPIS, Il danno, II, Milano, 1970, 104; in senso contrario alla
risarcibilità del danno morale ai congiunti: BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, 452;POGLIANI, I titolari del
diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, in DPA, 1972, 427; SCOGNAMIGLIO, Danno morale, contributo alla teoria
del danno extracontrattuale, in RDC, 1957, I, 321). Si è, anche, sostenuto che l'indennizzo corrisposto al leso sarebbe
idoneo a compensare sia il dolore della vittima, sia il dolore dei congiunti, dal momento che questi ultimi traggono
adeguato conforto dal fatto che vengono a sapere che il loro caro ha ricevuto pieno soddisfacimento (BIANCO, Limiti alla
indennizzabilità del danno non patrimoniale ai parenti delle vittime di sinistri, in DPA, 1970; POGLIANI, 427; SCOGNAMIGLIO,
321).

Contro l'orientamento che tendeva a negare la risarcibilità del danno morale agli stretti congiunti in caso di
lesioni personali, anche gravissime, del danneggiato vi è stata una decisa presa di posizione a favore della risarcibilità
del danno morale ai congiunti del leso, ad opera di alcune corti di merito ( A. Venezia 11.2.1993; T. Verona 15.10.1990; T.
Milano 18.6.1990). Il ragionamento seguito da tali corti è stato incentrato sul fatto che non vi è alcuna differenza tra il
dolore patito dai congiunti in caso di morte del loro caro, rispetto al caso di lesioni gravi di quest'ultimo; talvolta,
infatti, le sofferenze in caso di conseguenze permanenti all'integrità psicofisica dello stesso possono essere
anche maggiori. In modo particolare, si è sottolineato l'irrazionalità del riconoscere il risarcimento per la morte di un
congiunto, e negarlo, invece, nel caso in cui il congiunto sia sopravvissuto, ma in condizioni di totale invalidità per
gravissime infermità permanenti, che lo abbiano ridotto a corpo inerte, bisognoso dell'assistenza diretta e continua
della moglie. Tale dolore, infatti, è destinato a rimanere sempre attuale per tutto il resto della vita ed è persino
maggiore del dolore in caso di morte, inizialmente più intenso, ma destinato a placarsi con il tempo (T. Brescia
26.10.1988). Le argomentazioni espresse dalla giurisprudenza di merito, in precedenza richiamate, sono state recepite
di recente anche dalla Suprema Corte (C. 22909/2012; C. 469/2009; C. 13358/1999; C. 4852/1999; C. 4186/1998), la quale è
giunta a riconoscere la risarcibilità dei danni morali anche ai prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose.
Secondo la Corte, infatti, il danno morale dei congiunti della vittima di una lesione rientra nell'ambito dei danni riflessi,
i quali sono sempre risarcibili quando sono conseguenza normale ed ordinaria del fatto. Si è, inoltre, specificato che
la legittimazione al risarcimento del danno morale in caso di lesioni non mortali non si esaurisce soltanto nei rapporti
familiari, potendo trarre fonte anche da altri rapporti, come ad esempio dalla convivenza more uxorio; allo stesso
modo, la mera titolarità di un rapporto familiare non determina automaticamente il diritto al risarcimento, essendo
necessario di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione subita
dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento (C., S.U., 9556/2002).

Il soggetto che agisca in giudizio per chiedere "iure proprio" il risarcimento del danno subito a seguito della morte di
un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta un pregiudizio concernente un interesse
giuridico diverso sia dal bene salute di cui è titolare e la cui tutela trova ratio nell'art. 32 Cost., sia dall'interesse
all'integrità morale, la cui difesa si rinviene nell'art. 2 Cost. In tal senso, infatti, si rileva che l'interesse fatto valere
attiene all'intangibile sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, nonché all'inviolabile
libertà di piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana all'interno della famiglia, così come intesa

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Pluris
e tutelata dagli artt. 2, 29 e 30 Cost. Tale interesse di rilievo costituzionale, non avente natura economica, può essere
oggetto di una riparazione ai sensi dell'art. 2059, senza il limite ivi previsto in correlazione dell'art. 185 c.p. Di talché, è
corretta la decisione del Giudice con cui, da un lato, si è negato alla madre della vittima di un incidente stradale il
risarcimento del danno biologico, stante l'assenza di un effettivo pregiudizio alla salute della medesima e, dall'altro
lato, si è, invece, incluso nel danno non patrimoniale lo stato di prostrazione provato da quest'ultima per tale
avvenimento luttuoso, provvedendo alla liquidazione del relativo risarcimento (C. 2557/2011). Dall'azione di
disconoscimento di paternità discendono sofferenze morali lesive della dignità e ablative dell'appartenenza al contesto
familiare in cui il soggetto ha vissuto per lungo tempo. Ne consegue che non può mettersi in discussione che un
disconoscimento che avvenga dopo molti anni, sia destinato ad incidere negativamente nelle relazioni sociali di chi
tale disconoscimento abbia subito danneggiando profondamente il risvolto sociale della propria dignità personale.
Trattasi dunque di una lesione dalla quale discende il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, comprensiva
non solo del c.d. danno morale soggettivo, inteso quale sofferenza contingente e turbamento d'animo transeunte,
determinati da fatto illecito integrante reato, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore
inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione
economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. (C. 16222/2015).

Il danno dei congiunti della vittima di lesioni personali va liquidato tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto e senza alcun automatismo, pertanto è illogico ed erroneo il criterio di liquidazione del danno in esame che
quantifichi il pregiudizio in misura pari ad una frazione del danno non patrimoniale patito dalla vittima primaria (C.
9231/2013; C. 22909/2012). È risarcibile il danno del coniuge del soggetto rimasto infortunato in conseguenza di un
sinistro stradale, il quale, al fine di prestare assistenza a questi, abbia dovuto abbandonare completamente e
quotidianamente le occupazioni domestiche (C. 24471/2014).

La sofferenza patita dal prossimo congiunto di persona ferita in modo non lieve costituisce un danno non patrimoniale
risarcibile, il quale, consistendo in un moto dell'animo, difficilmente può essere provato in concreto con le prove
cosiddette storiche, di talché deve farsi ricorso alle cosiddette prove critiche, prime tra tutte la prova presuntiva (C.
17058/2017).

È stata riconosciuta, nell'alveo dei medesimi valori costituzionali, la risarcibilità del pregiudizio per immissioni che
superino la soglia di tollerabilità, come lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della
propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini, in quanto pregiudizi che,
pur non risultando integrato un danno biologico, risultano comunque apprezzabili in termini di danno non patrimoniale
(C. 20927/2015). Tuttavia, il soggetto che in conseguenza di immissioni intollerabili lamenti un danno non patrimoniale,
consistente nella modifica delle proprie abitudini di vita, non può essere risarcito qualora non provi la sussistenza di
un danno attuale e concreto (C. 17013/2015).

12. Il danno biologico

Gli artt. 138 (danno biologico per lesioni di non lieve entità) e 139 (danno biologico per lesioni di lieve entità) c. ass.
priv. specificano che il danno biologico consiste nella «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della
persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un' incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua
capacità di produrre reddito». La novità rispetto alle precedenti definizioni (art. 5, L. 5.3.2001, n. 57; art. 3, D.L. 28.3.2000,
n. 70) è rappresentata dal fatto che per potersi avere un danno biologico, rilevante ai fini della normativa, non basta
che la menomazione della salute sia suscettibile di accertamento medico legale, ma è anche necessario che lesione
all'integrità psicofisica abbia ripercussioni negative sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della
vita del danneggiato.

Il danno biologico è sempre stato tutelato in virtù del collegamento tra l'art. 2043 e l'art. 32 Cost., e non già
nell'art. 2059, al solo fine di sottrarre il risarcimento al limite posto dall'art. 2059, secondo la ricostruzione della C. Cost.
14.7.1986, n. 184; tuttavia, in base all'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059, il danno biologico deve
essere tutelato ex art. 2059 (C. Cost. 11.7.2003, n. 233; C. 8828/2003; C. 8827/2003).

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In tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell'integrità psicofisica del soggetto
sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è suscettibile di valutazione
soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua
completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente
deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea
liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (C. 26897/2014).

L'accertamento in un minore in età infantile che lo stato di invalidità permanente alla persona cagionato da
responsabilità medica (nella specie sordità causata da non tempestiva diagnosi di meningite, stimata determinativa di
invalidità nella misura del 30% derivante da cofosi bilaterale), sia rimediabile e sia in concreto rimediato tramite
l'applicazione di una protesi, non costituisce ragione sufficiente a giustificare l'esclusione dell'esistenza, in ragione
dell'invalidità e sulla base di una valutazione prognostica, di un danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa
del minore (C. 18305/2015). Diverso dal danno patrimoniale futuro è il danno da lesione della "cenestesi lavorativa",
che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell'attività lavorativa, non incidente
neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa e si risolve in una compromissione biologica
dell'essenza dell'individuo e va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute (C., ord., 12572/2018).

13. (Segue) La liquidazione del danno biologico

La liquidazione del danno biologico deve tenere conto della lesione dell'integrità psicofisica del soggetto sotto
il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è suscettibile di valutazione
soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua
completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente
deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea
liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (C. 3806/2004). Il
risarcimento del danno biologico deve rispettare il principio dell'"uniformità di base" e della "flessibilità". Con il
criterio dell'uniformità di base si vuole assicurare che gli esiti di identiche lesioni, in soggetti di uguale età, siano
liquidati in modo uguale; con il criterio della flessibilità si sottolinea l'esigenza di adeguare il risarcimento alle
peculiarità del caso concreto, a seconda dell'effettiva incidenza della lesione sull'attività della vita quotidiana del
danneggiato (C. Cost. 14.7.1986, n. 184; C. 2008/1993; C. 357/1993). Il risarcimento del danno biologico è subordinato
all'esistenza di una lesione dell'integrità psico fisica medicalmente accertabile (art. 2059) (C. St. 13.12.2017, n. 5866).

Al fine di effettuare una liquidazione del danno rispettosa di tali principi sono stati elaborati metodi diversi: il
metodo equitativo puro; il criterio tabellare o genovese; il criterio a punto elastico, o pisano; il sistema a punto variabile.
Il ricorso all'equità pura è un «non criterio», in quanto, in questo caso, il giudice è svincolato da qualsiasi parametro
di riferimento, affidandosi soltanto al buon senso, all'equità del caso concreto (ROSSETTI, 495). In questo modo,
indubbiamente, è ben soddisfatto il principio della flessibilità, in quanto il giudice riesce a personalizzare il danno,
tenendo in considerazione tutte le peculiarità del caso concreto. Tuttavia, così facendo si rischia di sacrificare
inevitabilmente il principio dell'uniformità, consentendo comportamenti arbitrari dell'organo giudicante, con
conseguenti immotivate disparità di trattamento [GIANNINI, Criteri pratici per la liquidazione del danno biologico:
confronto tra metodo pisano e metodo genovese, in DPA, 1988, 281; OLIVA, La liquidazione del danno biologico: alla
ricerca del giusto sistema, in MONATERI, BONA, OLIVA, 28; PECCENINI, La liquidazione del danno biologico, in MONATERI(a cura
di), Il danno alla persona, I, Torino, 2000, 62]. Il c.d. "metodo genovese", invece, consiste nella liquidazione del danno
secondo un criterio che pone a base del calcolo il triplo della pensione sociale. Tale criterio prende spunto dall'art.
4, D.L. 23.12.1976, n. 857 (convertito in L. 26.2.1977, n. 39), il quale nell'ambito della disciplina della Rca obbligatoria,
dispone che: «nel caso di danno alle persone, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l'incidenza
dell'inabilità temporanea o dell'invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si
determina per il lavoro dipendente sulla base del reddito di lavoro maggiorato dei redditi esenti e delle detrazioni di
legge, e per il lavoro autonomo sulla base del reddito netto risultante più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato
ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche degli ultimi tre anni... in tutti gli altri casi il reddito che occorre
considerare ai fini del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione
sociale». Secondo questo criterio, il danno biologico viene liquidato sulla base del parametro costituito dall'ammontare
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annuo del triplo della pensione sociale, moltiplicato per un coefficiente (di cui alla tabella del R.D. 9.10.1922, n. 1403)
che tiene conto della probabile durata della vita residua, e per il grado di invalidità permanente.

Il sistema del triplo della pensione sociale, inizialmente, è stato ritenuto ammissibile anche dalla S.C. (C.
5380/1994; C. 2150/1989; C. 102/1985), la quale, in seguito, ha, mutato orientamento, escludendo che il danno
biologico possa essere liquidato con un criterio che si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla
menomazione della capacità di produzione del reddito personale (C. 10482/2004; C. 101/1999; C. 11974/1998; C.
10897/1998; C. 357/1993). Senza dubbio più flessibile è il metodo elaborato dalla scuola pisana che permette al giudice
di tenere in considerazione tutte le peculiarità del caso concreto. Tale sistema si basa su un valore monetario del
punto d'invalidità, ricavato sulla media delle liquidazioni giudiziarie avvenute; tale valore viene moltiplicato per il
numero dei punti d'invalidità, con la possibilità per il giudice di aumentare o di diminuire il valore del punto sino alla
metà, al fine di adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto (A. Roma 2.7.1986; T. Milano 21.5.1987; T. Pisa
16.1.1985; T. Pisa 28.6.1984; T. Pisa 19.5.1982). Dal sistema elaborato dalla scuola pisana è stato tratto il metodo che
attualmente ha il maggior seguito: la liquidazione secondo il sistema del punto variabile. Seguendo questo criterio,
ad ogni punto d'invalidità corrisponde un valore monetario, che cresce con l'innalzarsi dell'invalidità e diminuisce con
l'innalzarsi dell'età del danneggiato. Sulla base di questi principi il Tribunale di Milano, nel 1995, ha elaborato una
tabella in cui, per ogni punto d'invalidità e per ogni fascia di età del danneggiato è indicato l'ammontare complessivo
del risarcimento dovuto. Successivamente, tale criterio ha avuto una rapidissima espansione, che lo ha reso il criterio
più diffuso.

Ai fini della liquidazione del danno biologico per lesioni di non lieve entità, l'art. 138 c. ass. priv., prevede la
predisposizione di un'unica tabella nazionale sia delle menomazioni all'integrità psicofisica, comprese tra i dieci ed i
cento punti, sia del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di
variazione corrispondenti all'età del soggetto leso (previsioni già contenute nell'art. 23, 4° co., L. 12.12.2002, n. 273,
abrogato dall'art. 354 cod. ass. priv.). Sull'art. 139, riguardante la liquidazione del danno biologico per lesioni di lieve
entità, si veda il par. 15.

14. (Segue) La liquidazione del danno biologico e le c.d. «tabelle»

Sulla base del criterio del punto variabile, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari, molti uffici giudiziari
si sono dotati di "tabelle" nelle quali è indicato l'ammontare complessivo del risarcimento dovuto per ogni grado di
invalidità e per ogni fascia di età del danneggiato. La liquidazione del danno biologico basata sul punto variabile è
attualmente il criterio che meglio garantisce il rispetto dei principi dell'uniformità di base e della flessibilità. Viene
fornito, infatti, un parametro per tutti i casi analoghi, al fine di evitare disparità di trattamento, consentendo così la
prevedibilità delle decisioni giudiziarie; inoltre, una liquidazione basata sul punto variabile rimane pur sempre un
criterio di riferimento, non vincolante per il giudice, così da permettergli di tenere adeguato conto delle circostanze
concrete che acuiscono o alleviano la compromissione della salute (ROSSETTI, 521).

La liquidazione del danno biologico effettuata sulla base delle "tabelle" elaborate nei diversi uffici giudiziari si
basa sul potere del giudice di far ricorso al criterio equitativo previsto dall'art. 1226 (C. 10482/2004; C. 4112/2001;C.
4852/1999). Poiché l'equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla
persona da lesione all'integrità psico-fisica presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di
valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative, vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il
Tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto ( C., ord., 30379/2017 ; C.
17678/2016). La liquidazione del danno compiuta in base a tale criterio non si sottrae al vaglio proprio di ogni giudizio
di merito e pertanto deve essere adeguatamente motivata (C. 4112/2001). In modo particolare, il giudice che ha adottato
la tabella deve dare conto di come nel caso di specie è avvenuta la personalizzazione del risarcimento. Infatti,
l'adozione della cosiddetta tabella non esonera il giudice dalla dovuta personalizzazione dei valori dei punti al caso
concreto, nonostante che la tabella sia costruita in genere con riferimento ai parametri dell'età e del grado di invalidità
del soggetto leso, in quanto ciò attiene ad un'evoluzione e perfezionamento della prima fase operativa, e cioè
l'individuazione di parametri il più possibile uniformi tra casi astrattamente simili, ma non incide sull'opera di
personalizzazione del parametro al caso concreto (seconda fase) (C. 16525/2003; C. 6023/2001; C. 10725/2000; C.
17
Pluris
4852/1999). Il Giudice, infatti, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle
quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro
tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione
delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque accidit, dando adeguatamente conto
in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate (C. 3505/2016). Quando la tabella suggerisce
per una certa menomazione un grado di invalidità, quale, ad esempio, del 50%, questa percentuale indica che l'invalido,
a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona
sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere (C., ord., 10912/2018). All'esito della
necessaria fase della "personalizzazione", comunque, il giudice può riscontrare che il valore indicato dalle tabelle
relative ai punti di invalidità si adatta perfettamente al caso concreto, secondo il suo equo apprezzamento (C.
10725/2000; C. 4852/1999; C. 4801/1999). La parte che in sede di legittimità lamenti una incongrua applicazione delle
tabelle utilizzate per la liquidazione del danno biologico, non può limitarsi ad una generica denuncia del vizio
relativamente al valore del punto preso in considerazione, ma deve dare conto delle tabelle invocate, indicando in
quale atto sono state prodotte oppure producendole nel giudizio di legittimità (C. 13676/2007). In materia di
liquidazione del danno non patrimoniale, l'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità
inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere in
sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta e specificamente
dibattuta nel giudizio di merito (C. 892/2014).

In materia di risarcimento danni, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo la
quale il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell'insieme dei pregiudizi
sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo
il giudice, a tal fine, provvedere all'integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che,
escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri
predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle
particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (nella specie, relativa ad una azione risarcitoria promossa
dagli eredi di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico per esposizione a fibre di amianto, la S.C., nel rigettare
il ricorso, ha ritenuto corretta la decisione della corte territoriale, la quale, ai fini della determinazione della misura
del danno esistenziale, aveva tenuto conto delle ripercussioni "massimamente penalizzanti" della malattia sulla vita
del danneggiato ed aveva valorizzato la penosità della sofferenza, le quotidiane difficoltà, le cure estenuanti e l'assenza
di ogni prospettiva di guarigione, quantificando il risarcimento in misura doppia al danno biologico) (C. 9238/2011). Il
danno non patrimoniale che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia
conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di
responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti. La sussistenza di tale danno può essere
provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio
convincimento (C. 22288/2017). È stato invece ritenuto palesemente non meritevole di tutela risarcitoria, invocata a
titolo di danno esistenziale, il pregiudizio consistente in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di
insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale
e che ogni persona, inserita nel complesso sociale, deve accettare, in virtù del dovere di convivenza, un grado minimo
di tolleranza (C. 12518/2018; C. 10596/2018).

15. Le micropermanenti

Con l'espressione micropermanente si vuole indicare un danno biologico di modesta entità ( C.


15289/2002; C. 15950/2000; C. 9399/1997; C. 535/1997). In caso di incidente stradale, va liquidato anche il danno morale,
ancorché conseguente a lesioni di lieve entità (micropermanenti), purchè si tenga conto della lesione in concreto
subita, non sussistendo alcuna automaticità parametrata al danno biologico, e il danneggiato è onerato dell'allegazione
e della prova, eventualmente anche a mezzo di presunzioni, delle circostanze utili ad apprezzare la concreta incidenza
della lesione patita in termini di sofferenza e turbamento (C. 339/2016).

Le micropermanenti non si riflettono sulla capacità di guadagno del soggetto danneggiato, ma consistono in un
fastidio più o meno tollerabile che, pur dando luogo ad una menomazione irreversibile, normalmente si risolve
18
Pluris
attraverso la capacità di autoadattamento del soggetto leso (FRANZONI, Il danno alla persona, 109; PETTI, Il risarcimento
dei danni: biologico, genetico, esistenziale, Torino, 2002, 224). I requisiti essenziali che debbono necessariamente
sussistere perché da una lesione dell'integrità psicofisica, anche se modesta, possa ritenersi derivata un'invalidità
micropermanente sono: a) la disfunzione anatomopatologica, la quale deve essere irreversibile, non destinata, cioè,
a scomparire nel tempo; b) l'obiettiva accertabilità medico legale della lesione e dei postumi; c) la modestia di
questi ultimi (ROSSETTI, 640). Con riferimento al carattere irreversibile della menomazione, vi è da osservare come la
dottrina medico-legale dubiti del carattere permanente delle microinvalidità, da considerare invece come un
pregiudizio destinato, molte volte, ad esaurirsi in un lasso di tempo più o meno breve (BRONDOLO, FARNETI, Le
micropermanenti, in AA.VV., Il danno biologico, patrimoniale, morale, Milano, 1995, 285; GIANNINI, Micropermanente e così
sia, in RCP, 1998, 163; NANNIPIERI, La liquidazione del danno alla salute, in BARGAGNA, BUSNELLI(a cura di), La valutazione del
danno alla salute, 3a ed., Padova, 1995, 102).

16. (Segue) L'art. 139, D.Lgs. 7.9.2005, n. 209 e l'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57

L'art. 139 cod. ass. priv. ricalca in parte l'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57 (articolo abrogato dall'art. 354 cod. ass. priv., con la
decorrenza indicata dall'art. 355 del medesimo decreto), disciplinante il risarcimento delle micropermanenti, derivanti
da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Allo stesso modo della L. 5.3.2001, n. 57 l'art.
139 cod. ass. priv., contiene una triplice limitazione del proprio ambito di efficacia: si applica ai soli danni alla persona
derivanti da sinistri stradali o nautici; si applica ai danni alla persona che abbiano prodotto postumi permanenti
non superiori al 9% d'invalidità; si applica ai sinistri verificatisi successivamente alla data di entrata in vigore della
nuova disciplina (1.1.2006). A differenza dell'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57, che definiva il danno biologico come «la lesione
all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale. Il danno biologico è risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato», l'art. 139 cod. ass.
priv. specifica che il danno biologico consiste nella «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della
persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua
capacità di produrre reddito».

Nonostante la L. 5.3.2001, n. 57, limitasse il proprio ambito di efficacia ai sinistri verificatisi successivamente alla
data di entrata in vigore della legge, si è verificato un vero e proprio effetto "trascinamento" per i sinistri precedenti
all'entrata in vigore della L. 5.3.2001, n. 57: i parametri previsti dalla L. 5.3.2001, n. 57, sono stati utilizzati anche per
i sinistri antecedenti all'entrata in vigore della stessa (T. Milano 3.12.2001; T. Alba 11.8.2001; T. Lodi 24.7.2001; T.
Venezia, Sez. Chioggia, 11.5.2001). La scelta di utilizzare i valori previsti dalla L. 5.3.2001, n. 57 è stata ricondotta al
principio dell'uniformità di trattamento, al fine di evitare che situazioni in tutto e per tutto analoghe fossero decise
in modi molto diversi (T. Venezia, Sez. Chioggia, 11.5.2001).

Allo stesso modo dell'art. 5, 4° co., L. 5.3.2001, n. 57 (come modificato dall'art. 23, L. 12.12.2002, n. 273 ), l'art. 139,
3° co., cod. ass. priv. prevede che «l'ammontare del danno biologico liquidato può essere aumentato dal giudice in
misura non superiore ad un quinto con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato».
Con tale disposizione il legislatore ha voluto seguire le indicazioni della Corte di Cassazione, che da tempo ha
sottolineato la necessità della "personalizzazione" del valore dei punti adottati per la liquidazione del danno alla
persona (PONZANELLI, La nuova disciplina delle micropermanenti, in DResp, 2001, 455; GUSSONI, Danno biologico e
micropermanenti: ambiguità dell'art. 5 della l. 5 marzo 2001, n. 57 e difficoltà applicative. Prime considerazioni, in AGCSS,
2001, 357; AA.VV., La liquidazione del danno alla salute, in BARGAGNA, BUSNELLI (a cura di), La valutazione del danno alla
salute, Padova, 2001, 757).

In giurisprudenza sono stati evidenziati profili di sospetta illegittimità costituzionale dell'art. 5, L. 5.3.2001, n.
57; in modo particolare si è sottolineato che i valori economici previsti non sono in grado di realizzare l'integrale
risarcimento del danno alla salute, introducendo così, senza motivazioni, un principio indennitario; secondo tale
ricostruzione vi sarebbe una violazione dell'art. 32 Cost., nella parte in cui la legge di riforma prevede un sistema
risarcitorio, che non rispecchia il «diritto vivente», comportando una vera e propria sottovalutazione del valore
uomo (G.d.P. Roma 17.2.2004; G.d.P. Roma 14.1.2002). La Corte Costituzionale ha, tuttavia, dichiarato manifestamente

19
Pluris
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57 (C. Cost. 29.12.2004, n. 434; C. Cost.,
ord., 16.4.2003, n. 126).

I profili di sospetta illegittimità costituzionale appena indicati, sono stati invocati anche con riguardo agli artt.
138 e art. 139 cod. ass. priv.; in particolare, si dubita che il sistema previsto per il risarcimento delle micropermanenti e
delle macropermanenti sia effettivamente in grado di reintegrare in modo pieno il danno alla salute patito dal
danneggiato; tali dubbi sono amplificati dalle limitazioni previste per il giudice alla facoltà di personalizzare il
risarcimento rispetto alle condizioni soggettive del danneggiato (CHINDEMI, Il risarcimento del danno non patrimoniale
nel nuovo Codice delle assicurazioni: risarcimento o indennizzo, in RCP, 2006, 551). Pare, inoltre, che sia effettuata
una discriminazione tra vittime con lesioni gravi e danneggiati con lesioni meno gravi, allorché per le
macropermanenti è previsto, quale margine per la personalizzazione, soltanto un 10% in più rispetto ai danni di lieve
entità (BONA, Risarcimento del danno, procedure di liquidazione e azione diretta nel "Codice delle assicurazioni": prime
riflessioni critiche, in RCP, 2005, 1181).

17. Il risarcimento del danno in caso di morte: il danno morale

L'art. 2059 non indica i soggetti legittimati ad agire per il risarcimento del danno; tuttavia, essendo il danno non
patrimoniale risarcibile soltanto nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi del reato, è evidente che titolare
dell'azione, in via immediata, è la persona ingiustamente offesa dal reato (PETRELLI, Il danno non patrimoniale, Padova,
1997, 327; SCOGNAMIGLIO, Danno morale, 317).

In caso di morte del soggetto passivo del reato è, però, necessario individuare i soggetti che possono
legittimamente richiedere il risarcimento, nonché il titolo in base al quale essi agiscono e cioè se gli aventi diritto al
risarcimento agiscano iure proprio ovvero iure hereditatis. A tal proposito, è consolidato l'orientamento, secondo il
quale il risarcimento del danno non patrimoniale, sofferto in vita da persona deceduta in conseguenza di lesioni
provocate dall'altrui fatto illecito, e dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni subite, si trasmette per via
ereditaria ai prossimi congiunti, che abbiano agito in qualità di eredi e nei limiti della relativa quota ( C. 1704/1997; C.
8177/1994; T. Massa 19.12.1996). È innegabile, infatti, che nell'arco di tempo intercorso fra l'ictus e la morte, il soggetto
leso, specialmente se in stato di coscienza, soffre intensamente dal lato fisico e psichico e, pertanto, appare
incontestabile che, nel tempo in cui resta in vita, acquista il diritto al risarcimento del danno morale verso il
danneggiante, diritto che entra a far parte del suo patrimonio e che, alla sua morte, si trasmette agli eredi secondo le
comuni regole della successione mortis causa (T. Genova 9.7.1992). Il diritto al risarcimento del danno morale si
trasmette agli eredi anche se la vittima dopo la lesione non ha più riacquistato conoscenza (C. 8177/1994). Si tenga in
considerazione, tuttavia, che le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008 hanno ribadito
la risarcibilità del danno morale, a ristoro della sofferenza psichica patita dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia
seguita a breve tempo la morte, limitando tuttavia la risarcibilità al fatto che la vittima sia rimasta lucida durante
l'agonia in consapevole attesa della fine.

Nella giurisprudenza di legittimità si è comunque consolidato l'orientamento che subordinava la venuta a esistenza
del diritto risarcitorio in capo alla vittima (e la conseguente trasmissibilità iure hereditario) alla permanenza in vita
dopo la lesione per un apprezzabile lasso di tempo. Si registrano, all'interno di tale filone giurisprudenziale, piuttosto
divergenze di qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con "mera sintesi
descrittiva" (C. 26972/2008), è indicato come "danno biologico terminale" (C. 1072/2011; C. 21976/2007; C. 18163/2007; C.
3549/2004; C. 7632/2003; C. 3728/2002; C. 24/2002; C. 12299/1995; C. 11169/1994) - liquidabile come invalidità assoluta
temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui a C.
12408/2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno - e, da altro
orientamento, è classificato come danno "catastrofale" (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella
cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno "catastrofale", inoltre,
per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (C. 13537/2014; C. 7126/2013; C. 19133/2011; C. 6754/2011; C.
8630/2010; C. 3357/2010; C. 28423/2008) e per altre, di danno biologico psichico (C. 1072/2011; C. 26972/2008; C.
3260/2007).

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Pluris
Costante, invece, la negazione di un diritto risarcibile (e trasmissibile agli eredi) in caso di decesso immediato o che
segua alle lesioni dopo un brevissimo lasso di tempo (C. 17320/2012; C. 12236/2012; C. 2654/2012; C. 26972/2008; C.
3760/2007; C. 517/2006; C. 7632/2003; C. 4729/2001; C. 491/1999; C. 5136/1998; C. 1704/1997; C. 12299/1995; C.
10628/1995; C. 11169/1994).

In contrasto con il suddetto orientamento, C. 1361/2014 ha statuito che la perdita della vita va ristorata a prescindere
dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte cd. immediata o istantanea, senza che
assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al
danno evento né il criterio dell'intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione
dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine, sollecitando così un intervento delle Sezioni Unite.

C., S.U., 15350/2015 ha composto il contrasto in senso favorevole all'orientamento tradizionale, ribadendo che, ove il
decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la
risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia
collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel
secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale "da uccisione", proposta iure proprio dai congiunti
dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il
rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a
dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno (C.
29332/2017). Secondo un altro orientamento, tuttavia, l'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727, una
conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né
che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno
essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e
superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi
non patrimoniali di sorta al secondo (C., ord., 3767/2018).

È irrilevante il fatto che il de cuius abbia o non abbia promosso la causa nel tempo in cui era in
vita (FRANZONI, Il danno alla persona, 630; SCOGNAMIGLIO, 321, 324): l'avere o non avere promosso la lite ha conseguenze
solo sul piano giudiziale, nel senso che, con la morte della parte, troveranno applicazione le regole sulla successione
a titolo universale nella causa (FRANZONI, Il danno alla persona, 630).

È, altresì, ininfluente che il reato di lesioni colpose non sia punibile perché assorbito nel reato più grave di
omicidio (C. 8177/1994). Il danno morale che la vittima di un sinistro subisce nell'apprezzabile lasso di tempo tra la
lesione e la conseguente morte, è un danno nel quale i fattori della personalizzazione debbono valere in un grado
assai elevato e, per questa ragione, non può essere liquidato attraverso l'applicazione di criteri contenuti in tabelle,
che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi, sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle
invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso (C. 11003/2003); nella liquidazione
di tale pregiudizio, il giudice deve tenere conto delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito
di rilievo penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso
concreto (C. 7632/2003; C. 3414/2003).

Ai fini della configurabilità del diritto al risarcimento del danno catastrofale, ovvero dello sconvolgimento psichico
patito da chi si trovi a cogliere, anche per un periodo di breve durata, il momento terminale della propria esistenza,
assume rilievo non tanto la durata, quanto la effettiva esistenza di un tale pregiudizio. In tal senso, deve ritenersi non
condivisibile la pronuncia del Giudice di merito che pur riconoscendo lo stato vigile della vittima nei momenti
conseguenti al sinistro, escluda tuttavia la lucidità della stessa, in quanto non in grado di stabilire un contatto con i
sanitari, soprattutto in caso di reciprocità di tale difficoltà, dovuta alla circostanza che la vittima non comprenda e non
parli la lingua italiana (C. 5866/2015).

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18. (Segue) Il risarcimento del danno morale iure proprio

Ai congiunti della persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito altrui spetta anche il risarcimento del
danno non patrimoniale per le sofferenze ed i patimenti da loro sofferti, in seguito alla morte del congiunto. In
questo caso, essi agiscono iure proprio, facendo valere un diritto autonomo che nasce in conseguenza della morte
della persona colpita dell'illecito e che prescinde, dunque, dalla loro qualità di eredi (C. 1704/1997).

Il problema, tuttavia, consiste nell'individuare i soggetti legittimati a richiedere il risarcimento. A tal riguardo,
si ritiene che l'unico criterio decisivo ai fini dell'individuazione dei legittimati sia la prova del danno, sebbene questa
possa essere data per presunzioni dimostrando, ad esempio, il legame di parentela oppure la convivenza (BONILINI,
204; FRANZONI, Il danno alla persona, 631; SCOGNAMIGLIO, 319).

È indiscusso che tra i legittimati a richiedere il risarcimento vi possa essere anche il convivente more uxorio,
purché sia dimostrata la stabilità e la durevolezza del rapporto (C. 2988/1994; T. Roma 9.7.1991); infatti, anche la
convivente more uxorio della vittima di un omicidio viene lesa, per effetto della morte dell'uomo con cui stabilmente
conviveva, non già in una mera e semplice aspettativa priva di tutela giuridica, bensì in un fondamentale e inviolabile
diritto, quale è quello alla solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. (A. Milano 16.11.1993). In particolare, il diritto al
risarcimento del danno conseguente alla morte di una persona in favore del convivente more uxorio di questa va
riconosciuto a condizione che venga fornita, con qualsiasi mezzo, la prova dell'esistenza e della durata di una
comunanza di vita e di affetti e di una vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza
avente le stesse caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale (C. 13654/2014).

Il risarcimento del danno morale può essere accordato ad un coniuge per la morte dell'altro coniuge, anche se vi era
uno stato di separazione personale, purché si accerti che l'altrui fatto illecito, ha provocato, nel coniuge superstite,
quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara
(C. 10393/2002; in senso contrario T. Casale Monferrato 5.6.1997; T. Venezia 22.1.1994). Si è, tuttavia, affermato il
risarcimento dei danni morali per i nipoti che perdono i nonni non conviventi in un incidente stradale, anche se non
si prova il "turbamento" derivato dalla morte del congiunto, tenendo in considerazione il legame affettivo basato una
frequentazione in atto e sulla consapevolezza della presenza di una persona cara (C. 15019/2005). Con riguardo alla
morte di uno zio, si è ritenuto che il semplice stato di nipote "ex sorore" o "ex fratre", pur potendo far supporre un
dato emotivo per la morte del congiunto, non autorizza una valutazione della sofferenza del superstite ad un livello
apprezzabile in sede giudiziaria. Ne consegue che la condizione di prossimo congiunto, ai fini di tale legittimazione
sostanziale, non è solo uno dei parametri valutativi concorrenti all'accertamento di una effettiva sofferenza (T. Locri
19.6.1987). Il diritto è stato riconosciuto il risarcimento una congregazione religiosa per la morte di una affiliata (T.
Torino 9.3.1970).

19. (Segue) Il risarcimento del danno morale al nascituro

Particolarmente dibattuta è la possibilità di annoverare tra i sopravvissuti il nascituro che agisca nei confronti
del terzo responsabile della morte di un genitore, avvenuta anteriormente alla sua nascita. L'orientamento
giurisprudenziale contrario alla risarcibilità del danno morale del nascituro sottolinea come dal principio che la
personalità giuridica non preesiste alla nascita discende altresì che le disposizioni di legge, che, in deroga al principio
generale previsto dall'art. 1, 1° co., prevedono la tutela dei diritti del nascituro (ad es. artt. 462 e 784), sono da
considerare disposizioni di carattere eccezionale e come tali di stretta applicazione; pertanto, poiché nessuna norma
prevede la tutela del nascituro per diritti derivanti da obbligazioni extracontrattuali, ne conseguirebbe
l'irrisarcibilità di tale danno (C. 3467/1973). Inoltre, si è sostenuto che anche al di là dell'assenza di una disposizione
normativa ad hoc, appare arduo riconoscere al concepito quella capacità di sofferenza che costituisce il
presupposto indispensabile per la liquidazione della c.d. pecunia doloris (T. Monza 28.10.1997; nello stesso senso
anche T. Casale Monferrato 11. 11. 1998; T. Lecce 2.2.1960). In senso opposto, si è ritenuto che, trattandosi di danno

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futuro con caratteri permanenti, ben si può ammettere la tutela risarcitoria del nascituro (C. pen. 13.11.2000; A. Genova
5.3.1988; T. Monza 8.5.1998).

La soluzione favorevole a riconoscere una tutela risarcitoria del nascituro è indubbiamente da preferire in
quanto esprime maggiore attenzione alla tutela della persona e dei suoi diritti inviolabili che, attraverso la lettura
costituzionale dell'art. 1, 2° co., possono essere riconosciuti anche al nascituro (FRANZONI, Il danno alla persona,
635); inoltre, l'orientamento favorevole è coerente con l'indirizzo giurisprudenziale che riconosce la legittimazione ad
agire ai figli in tenera età: in entrambi i casi siamo in presenza di sofferenze ed angosce che saranno avvertite dal
soggetto nel futuro quando, crescendo, percepirà tutti i riflessi psicologici del tragico evento (PETRELLI, 388).

20. (Segue) Il risarcimento del danno biologico, iure hereditario

La Corte Costituzionale (C. 372/1994) ha definitivamente respinto l'impostazione secondo la quale nel caso in cui
la vittima delle lesioni muoia a causa delle stesse, il de cuius acquisisce nel proprio patrimonio, trasmettendolo iure
ereditario, il diritto al risarcimento del danno biologico, derivante dalla lesione della propria integrità psicofisica (A.
Roma 4.6.1992; T. Treviso 26.3.1992; T. Roma 24.5.1988; T. Napoli 18.5.1988). Secondo la Corte Costituzionale, in caso di
decesso istantaneo della vittima, la morte stessa impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della
persona offesa, ormai non più in vita. L'impossibilità di riconoscere agli stretti congiunti un diritto di risarcimento iure
hereditario deriva da un limite strutturale della responsabilità civile: limite afferente sia all'oggetto del risarcimento,
che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla
liquidazione del danno che non può riferirsi se non a perdite. La morte istantanea impedisce che la vittima possa patire
dei disagi connessi alla propria ridotta efficienza, e che possa avvertire un effettivo pregiudizio. Mancando quest'ultimo,
la fattispecie di responsabilità non può considerarsi completa, ragion per cui nessun diritto al risarcimento può
acquistare la vittima, quando la morte è contemporanea alla lesione (C. Cost. 27.10.1994, n. 372). In applicazione di tali
principi, la giurisprudenza successiva non ha esitato ad ammettere, nel caso in cui la morte sia avvenuta dopo un
apprezzabile lasso di tempo, la risarcibilità iure hereditario del danno biologico, limitatamente, però, a tale
periodo ( C. 15408/2004; C. 3728/2002; C. 1633/2000; C. 4991/1996; C. 11169/1994). Il pregiudizio della salute subito
nell'intervallo di tempo tra le lesioni e la morte, può dare luogo ad un risarcimento del danno solo se il soggetto sia
rimasto in vita per un tempo apprezzabile che consenta di configurare un'effettiva ripercussione delle lesioni sua
complessiva qualità della vita. Il risarcimento, tuttavia, deve essere calcolato sulla base dello spazio temporale per
il quale il danneggiato è effettivamente sopravvissuto alle lesioni mortali, e non con riferimento allo spazio di vita
residua che avrebbe avuto se non avesse subito lesioni e non fosse deceduto (C. 9620/2003). Il risarcimento del danno
biologico da invalidità permanente, infatti, consiste nella riparazione delle ripercussioni negative della lesione
permanente dell'integrità psicofisica del soggetto leso per l'intera durata della sua vita residua; tale durata è
normalmente presunta (di conseguenza, per la liquidazione, nel caso di lesioni non mortali, si tiene in considerazione
l'età e la relativa speranza di vita), ma è, invece, nota se interviene la morte (C. 2775/2003). In tema di risarcimento del
danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in
conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla
durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso,
non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto (C. 679/2016). Nella
liquidazione del danno biologico patito nell'apprezzabile lasso di tempo tra l'evento e la morte si devono tenere in
considerazione le caratteristiche di questo pregiudizio: esso è di tale entità ed intensità da condurre a morte un
soggetto in un limitato, sia pur apprezzabile, lasso di tempo; di conseguenza, la liquidazione di tale danno non può
essere simbolica od irrisoria, ma deve essere personalizzata, con riferimento al caso concreto (C. 1877/2006; C.
3549/2004; C. 7632/2003). In ogni caso, le recenti sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U.,
26973/2008; C., S.U., 26972/2008, che hanno ripensato il danno non patrimoniale in chiave unitaria, sembrano
ricomprendere il pregiudizio subito dalla vittima sotto il profilo del danno morale. Si deve considerare, inoltre, che
nonostante alcune recenti e significative aperture della giurisprudenza di merito (T. Bari 20.3.2004; T. Venezia
15.3.2004; T. Brindisi 5.8.2002; T. Foggia 28.6.2002; T. Vibo Valentia 28.5.2001), si nega, decisamente, la risarcibilità del
danno da perdita del diritto alla vita, subito dal de cuius e da questi trasmesso agli eredi, a prescindere
dall'immediatezza o meno dell'evento. La tesi favorevole al risarcimento del danno da perdita della vita, infatti, pur
avendo trovato riscontro nella giurisprudenza di Cassazione in C. 1361/2014 (cfr. supra par. 17) è stata da ultimo
smentita da C., S.U., 15350/2015, la quale ribadisce principi già rilevati per negare, in caso di morte immediata od

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intervenuta a breve distanza di tempo, il risarcimento del danno biologico iure hereditatis, come la differenza esistente
tra il bene "vita" ed il bene "salute", la natura del bene "vita" intrinsecamente connessa alla persona del suo titolare,
nonché la funzione non sanzionatoria (che invece è affidata integralmente all'ordinamento penalistico) ma di
reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi, svolta dal risarcimento del danno.

21. (Segue) Il risarcimento del danno biologico iure proprio

Agli stretti congiunti della vittima può essere riconosciuto un risarcimento del danno biologico iure proprio,
qualora si dimostri che l'infortunio mortale ha causato a un familiare una lesione dell'integrità psicofisica della persona
in senso patologico (infarto da shock o uno stato di prostrazione tale da spegnere il gusto di vivere). Tale danno
presenta lo stesso presupposto del danno morale, e cioè il turbamento dell'equilibrio psichico, che però in persone
predisposte (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di
angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di
perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il
risarcimento (C. Cost. 27.10.1994, n. 372). Esistono, infatti, gli strumenti per definire il confine tra patema d'animo e
danno biologico da morte del congiunto non solo nei casi più eclatanti (ad es. l'infarto), ma anche nelle diagnosi di
malattie fino a non molti anni fa relegate nell'ambito di disturbi dell'umore e sottovalutate nella loro rilevanza
personale e sociale (es. depressione) (T. Trento 19.5.1995). Al riguardo, la consulenza tecnica, pur avendo, di regola, la
funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già acquisiti al processo, può legittimamente costituire ex
se, fonte oggettiva di prova, qualora si risolva non soltanto in uno strumento di valutazione, ma altresì di accertamento
di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche (C. 881/2002). Il
risarcimento del danno biologico iure proprio può essere liquidato anche per l'aggravamento di una precedente
condizione patologica (C. 1442/2002).

22. (Segue) Il danno da perdita del rapporto parentale, come danno esistenziale o da lesione
di un interesse costituzionalmente rilevante

Presso la giurisprudenza di merito, si è affermato che la morte di un congiunto, cagionata dal fatto illecito di un
terzo, ledendo diritti inviolabili riconosciuti e garantiti ai familiari a livello costituzionale, determina in capo a
questi un danno ingiusto, qualificabile come esistenziale e risarcibile ex art. 2043 (T. Palermo 8.6.2001; T. Firenze
21.2.2001; T. Torino 8.8.1995). Una siffatta ricostruzione ha trovato riscontro anche da parte della C. Cost. 11.7.2003, n.
233, attraverso il richiamo al diritto vivente (C. 8828/2003). In tal modo, il danno non patrimoniale da uccisione di un
congiunto, derivante dalla definitiva perdita del rapporto parentale, si distingue sia dal bene salute, sia dall'interesse
all'integrità morale. Il risarcimento spetta iure proprio ai congiunti della vittima, in quanto subiscono la lesione
dell'interesse costituzionale alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che
riguarda la vita familiare (C. 12124/2003). La sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo va
apprezzata nell'immediatezza dell'illecito, ma anche nel tempo, sotto il profilo delle sue ricadute, dinamico-
relazionali, consistenti nel peggioramento delle condizioni ed abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana ( C.,
ord., 7249/2018 ; C. 9231/2013). In tema di illecito istantaneo ad effetti permanenti, la lesione dell'integrità psichica
che si sostanzi in un danno morale da patema d'animo non costituisce conseguenza di una lesione nuova ed autonoma
rispetto a quella già manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile che abbia determinato il danno (nella
specie, danno da inquinamento), bensì un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto, sicché è dalla
data dell'esaurimento della condotta illecita che decorre il termine di prescrizione del diritto al risarcimento di tutti i
danni (C. 9711/2013). La perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapporti sociali in conseguenza di
una invalidità permanente costituisce una delle "normali" conseguenze delle invalidità gravi, nel senso che qualunque
persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali (C. 7513/2018). Con
riguardo alla prova del pregiudizio, il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto non coincide con la lesione
dell'interesse protetto, e quindi con l'evento morte in sé e per sé considerato, ma consiste in una perdita, nella
privazione di un valore non economico, ma personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del
congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali
normalmente si esprimono nell'ambito del nucleo familiare (C. 13546/2006; C. 4186/2004; C. 4118/2004; C. 8828/2003).

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La prova del danno esistenziale da uccisione dello stretto congiunto può essere data anche a mezzo di presunzioni, le
quali, anzi, assumono «precipuo rilievo» (C. 13546/2006). Il danno ingiusto parentale conseguente alla morte del
congiunto deve essere collocato all'interno dell'art. 2059 e non potrà essere limitato alla sola "societas" stabilizzata
con vincolo matrimoniale, dovendo essere estesa anche quando a richiedere il risarcimento siano i "nuovi parenti" di
situazioni di vita in comune (C. 15760/2006). È sottolineato il pericolo di una sovrapposizione con il danno morale:
costituisce indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti
specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è
percepita, e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che componenti del
complesso pregiudizio, che va integralmente ma unitariamente ristorato (C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C.,
S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008; C. 238/2017). Il giudice può anche riconoscere il danno da perdita del rapporto
parentale unitamente al danno morale soggettivo; tuttavia, nel liquidare quest'ultimo deve tenerne conto del rischio
di una duplicazione del risarcimento (C. 8828/2003).

23. Il danno non patrimoniale degli artt. 89 del codice di procedura penale e 598 del codice
penale

L'art. 89, 2° co., c.p.c. prevede che «il giudice, in ogni stato dell'istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino
le espressioni sconvenienti ed offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona
offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non
riguardano l'oggetto della causa».

Il risarcimento previsto dalla disposizione non ha come presupposto indispensabile l'ordine di cancellazione
delle espressioni ingiuriose, ben potendo essere liquidato d'ufficio dal giudice in via autonoma secondo criteri
equitativi (A. Lecce 20.9.1986). L'azione di danni non può proporsi davanti ad un giudice diverso rispetto a quello del
processo in cui si sono realizzati gli atti che comportano la responsabilità, tranne nel caso in cui il processo si sia
estinto o nel caso in cui i fatti si svolgano in una fase processuale in cui non sia possibile far valere la relativa
responsabilità (C. 10916/2001; T. Roma 1.10.1999).

L'art. 598 c.p., dopo aver previsto al 1° co., la non punibilità delle offese contenute negli scritti o nei discorsi delle parti
o dei patrocinatori nei procedimenti davanti all'autorità giudiziaria o amministrativa quando le offese riguardano
l'oggetto della causa o del procedimento, al 2° co. dispone che «il giudice, pronunciando sulla causa, può, oltre ai
provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive e
assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale».

La portata applicativa dell'art. 598 c.p. è differente rispetto a quella dell'art. 89 c.p.c., in quanto nell'ipotesi
prevista dall'art. 598 c.p., il danno non patrimoniale può essere accordato in caso di offese contenute negli scritti
presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro difensori nei procedimenti davanti all'autorità giudiziaria o
amministrativa, quando le offese riguardano l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo; l'art. 89 c.p.c. si riferisce,
invece, soltanto alle espressioni sconvenienti ed offensive, contenute in scritti presentati ed in discorsi pronunciati
davanti all'autorità giudiziaria civile, che non riguardano l'oggetto della causa (PETRELLI, 223). L'art. 598 c.p. è autonomo
rispetto all'art. 185 c.p., proprio perché tale norma prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale per un fatto che,
in ragione dell'esimente prevista al primo co., non costituisce reato (PETRELLI, 224). Si dubita, invece, che l'art. 89
c.p.c. regoli un'ipotesi diversa rispetto a quella del reato, in quanto il risarcimento, per la norma in esame, può essere
attribuito soltanto quando le espressioni offensive non riflettono l'oggetto della causa e, quindi, per fattispecie che
costituiscono reato, venendo a cessare secondo l'art. 598 c.p. l'esimente prevista per i delitti contro l'onore commessi
negli scritti e discorsi difensionali (PETRELLI, 224; SCOGNAMIGLIO, Danno morale, 312).

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24. I casi di espresso riconoscimento del danno non patrimoniale nella legislazione
successiva al codice: l'art. 2, L. n. 117 del 1988

Nella legislazione successiva al codice si rinviene un notevole ampliamento dei casi di espresso riconoscimento
del risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione alla compromissione di valori personali: art. 2, L. 13.4.1988,
n. 117, sul risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale, cagionati
dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29, 9° co., L. 31.12.1996, n. 675, riguardante la raccolta dei dati personali; art. 44,
7° co., D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, riguardante gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2, L. 24.3.2001,
n. 89, riguardante il mancato rispetto del termine ragionevole di durata dei processi. L'espressa previsione del
risarcimento del danno non patrimoniale, in tali provvedimenti legislativi, testimonia chiaramente come il legislatore,
ancor prima della "svolta" operata dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233, fosse consapevole che la lesione di valori personali,
come quelli che vengono in rilievo nelle fattispecie in precedenza ricordate, determina un danno non patrimoniale che
deve essere risarcito a prescindere dall'esistenza di un reato.

Con riferimento alla legge sulla responsabilità dei magistrati, l'art. 2, L. 13.4.1988, n. 117 dispone che «chi ha subito
un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal
magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro
lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino dalla
privazione della libertà personale». La disposizione ha collegato l'obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale
alla privazione della libertà personale dovuta a colpa grave del magistrato, svincolando, in tal modo, il risarcimento
dal reato, in quanto il comportamento colposo non corrisponde ad alcuna fattispecie penale (CRICENTI, Il danno non
patrimoniale, Padova, 1999, 249). È previsto anche che il provvedimento del magistrato sia stato emesso con dolo,
fattispecie nella quale, indubbiamente, ricorrono gli estremi del reato. Il legittimato passivo dell'azione risarcitoria è
lo Stato e non l'autore dell'illecito, il quale risponde solo in sede di rivalsa, ed entro determinati limiti; da ciò si evince
che, in questo caso, la funzione del risarcimento del danno non patrimoniale è prevalentemente satisfattiva rispetto
al torto subito, mentre la funzione punitiva passa in secondo piano (FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1174; SALVI, Risarcimento,
in ED, Milano, 1988, 1099).

25. (Segue) Il danno non patrimoniale per l'eccessiva durata del processo (art. 2, L. n. 89 del
2001)

L'art. 2, L. 24.3.2001, n. 89, prevede l'equa riparazione del danno patrimoniale o non patrimoniale, subito per
effetto della violazione dell'art. 6 CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole della durata del
processo. Ai sensi dell'art. 6, par. 1, Conv. eur. dir. uomo ogni persona ha diritto alla trattazione della sua causa
equamente e pubblicamente ed entro un termine ragionevole davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale
costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile sia della fondatezza di ogni
accusa in materia penale che gli venga rivolta. Il danno non patrimoniale, previsto dalla L. 24.3.2001, n. 89, è stato, così,
completamente svincolato dall'illecito penale ed è stato collegato direttamente alla violazione di un diritto
fondamentale dell'uomo; il diritto alla riparazione, infatti, deriva da una attività lecita, qual è l'attività giudiziaria, la
quale non diviene illecita per il solo fatto del protrarsi in modo eccessivo (C. 11987/2002). Il diritto all'equa riparazione
per la non ragionevole durata del processo non ha natura risarcitoria, bensì indennitaria (C. 14885/2002), tuttavia, tale
natura non esclude che l'istante debba ugualmente fornire la prova della sussistenza sia del danno patrimoniale
che di quello non patrimoniale ( C. 2382/2003; C. 13422/2002; C. 11987/2002). Con riferimento al danno non
patrimoniale, tale prova può essere agevolata dal ricorso a presunzioni e a «ragionamenti inferenziali», circa gli effetti
che la pendenza di un processo civile, penale e amministrativo provoca nell'uomo medio (C. 11987/2002). Occorre,
comunque, che siano allegati gli elementi costitutivi del pregiudizio e che siano dedotte le circostanze di fatto o quelle
notorie da cui desumere presuntivamente la sua esistenza, secondo una valutazione tipicamente di merito che può
essere censurata in cassazione solo per eventuali difetti di motivazione (C. 1148/2003).

Si è, tuttavia, affermato che il danno non patrimoniale sofferto dalla parte per l'eccessiva durata del processo, pur non
essendo insito nella violazione del termine ragionevole, costituisce una conseguenza della violazione che si verifica

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normalmente secondo l'«id quod plerumque accidit»; esso non necessita pertanto di alcun sostegno probatorio
relativo al singolo caso ed il giudice deve ritenerlo sussistere ogni qualvolta non ricorrano, nel caso concreto,
circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (C., S.U.,
1339/2004; C., S.U., 1338/2004; C. 12242/2009; C. 10412/2009; C. 19666/2006; C. 7145/2006; C. 15093/2004). Ai fini dell'equa
riparazione non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo
eccedente il termine ragionevole di durata (C. 13061/2008; C. 14/2008). Ai fini della legittimazione di una persona
giuridica, è necessario allegare che l'incertezza sull'esito delle vicende processuali ha determinato un pregiudizio sui
diritti immateriali dell'ente, quali quello all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine, alla reputazione dello
stesso (C. 12110/2004). Si è comunque affermato che alla persona giuridica, al pari della persona fisica, può riconoscersi
il danno di natura non patrimoniale non soltanto nel caso di lesione di situazione giuridica soggettiva compatibile con
l'assenza di fisicità, ma anche nel caso in cui sia correlato a turbamenti di natura psicologica (C. 17500/2005). Il
risarcimento del danno non patrimoniale può essere riconosciuto anche nei confronti di una persona giuridica od un
ente, qualora, ad esempio, venga lesa l'immagine di tali soggetti (C. 16093/2013).

L'ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare
dell'incertezza sull'assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non
patrimoniale per l'eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria
consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze. In tal caso, invero, difettando una condizione soggettiva di
incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio (C. 14607/2017).

26. (Segue) La violazione delle regole sul trattamento dei dati personali

Parte della dottrina ritiene che la generica richiesta di risarcimento del danno includa anche la richiesta di
ristoro del danno morale (MONATERI, 305).

L'art. 18, L. 31.1231996, n. 675, relativa al trattamento dei dati personali, dispone che «chiunque cagiona danno ad altri
per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'art. 2050». Il successivoart. 29, 9° co.,
prevedeva la risarcibilità del danno non patrimoniale nei casi di violazione dell'art. 9; di recente, la L. 31.12.1996, n. 675 è
stata sostituita dal D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, il cui art. 15 riproduce, nella sostanza, le disposizioni appena richiamate.
La previsione è di notevole importanza, tenuto conto che nella maggior parte delle ipotesi, il danno derivante da illecito
o scorretto trattamento di dati personali consiste in un danno non patrimoniale o comunque non facilmente
comprovabile nella sua consistenza patrimoniale (LUCCHINI GUASTALLA, Trattamento dei dati personali e danno alla
riservatezza, in RCP, 2003, 650; ROPPO, La responsabilità civile per trattamento di dati personali, in DResp, 1997,
664; ZIVIZ, Trattamento dei dati personali e responsabilità civile: il regime previsto dalla L. 675/1996, in RCP, 1997, 1305).
Tali danni saranno stimati e liquidati secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza con riferimento alle lesioni
dell'onore e della reputazione (FRANZONI, Dati personali e responsabilità civile, in RCP, 1998, 908). Secondo parte della
dottrina, in questa fattispecie, la previsione del risarcimento del danno non patrimoniale viene a svolgere la funzione
di una vera e propria pena privata (COMANDÈ, Privacy informatica: prospettive e problemi, in DResp, 1997, 147). Tuttavia,
una simile ricostruzione collide con la circostanza che il risarcimento del danno è accordato a prescindere da qualsiasi
valutazione circa il comportamento del soggetto preposto al trattamento, con la conseguenza, il risarcimento del danno
non patrimoniale può essere riconosciuto anche se non sia riscontrabile alcuna colpa in capo a chi ha effettuato il
trattamento (CRICENTI, 268; ZIVIZ, 1368). Al riguardo, si deve tenere in considerazione che la fattispecie legislativa prevede
come criterio di imputazione della responsabilità l'art. 2050, il quale prescinde dall'accertamento della colpa del
soggetto al quale è imputato il danno.

Di conseguenza, si può ritenere che la previsione del risarcimento del danno non patrimoniale, nella L. 31.12.1996,
n. 675, stia a manifestare come, anche prima della pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n. 233, fosse chiaro che al fine di
apprestare una tutela risarcitoria appropriata ai diritti della personalità, è necessario svincolare il risarcimento del
danno non patrimoniale dall'esistenza di un reato.

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Pluris

27. Il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale

Le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008, nel ridisegnare
l'assetto del danno non patrimoniale, hanno confermato che anche in caso di inadempimento contrattuale può sorgere
il diritto alla riparazione del danno non patrimoniale. È necessario, tuttavia, che vi sia stata la lesione di diritti inviolabili
della persona e che il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali.

28. Casi particolari di risarcimento del danno non patrimoniale: la lite temeraria

Vi sono ipotesi nelle quali, a prescindere dall'esistenza di un reato o (seguendo le indicazioni della C. Cost.
11.7.2003, n. 233) dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante, è controverso se si possa risarcire il danno
non patrimoniale, attraverso un'interpretazione estensiva dei casi determinati dalla legge, di cui all'art. 2059, come ad
esempio nell'ipotesi della lite temeraria.

In tale fattispecie, le argomentazioni favorevoli alla risarcibilità del danno non patrimoniale sono tratte dalla
generica previsione del «risarcimento dei danni», contenuta nell'art. 96 c.p.c. e negli articoli corrispondenti del codice
di procedura penale (artt. 427, 542), e dal fatto che i pregiudizi conseguenti alla responsabilità processuale aggravata
sono necessariamente di carattere non patrimoniale (BONILINI, 361; PERFETTI, Prospettiva di una interpretazione dell'art.
2059, in RTDPC, 1978, 1069). Nel silenzio della giurisprudenza sul punto, parte della dottrina (FRANZONI, Dei fatti illeciti,
1176) ha individuato nella fattispecie di cui all'art. 96 c.p.c. una sanzione civile indiretta, che realizzerebbe una
funzione punitiva per chi ha temerariamente promosso o resistito in giudizio e contestualmente soddisfarebbe la
vittima con il risarcimento del danno; in tal modo, sarebbe anche rispettato l'interesse dello Stato ad una corretta e
leale dialettica processuale ed all'utilizzo dello strumento processuale per soli fini di giustizia e non per scopi personali
ed illeciti delle singole parti (FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1176).

Il danno esistenziale può originare da un'ipotesi di responsabilità processuale laddove l'altrui temeraria
iniziativa processuale abbia determinato un'effettiva compressione dei diritti della personalità del danneggiato (T.
Bologna 27.1.2005).

29. (Segue) Il danno da vacanza rovinata

Il danno da vacanza rovinata consiste nel pregiudizio risentito dal turista per non aver potuto godere pienamente
del viaggio organizzato come occasione di svago e/o di riposo (GUERINONI, L'interpretazione della Corte di Giustizia
riguardo al danno da "vacanza rovinata", in RCP, 2002, 363); si intende così un pregiudizio di natura prettamente non
patrimoniale, che non si traduce in una perdita economica, né in termini di danno emergente né in termini di lucro
cessante, bensì in disagio, stress, sofferenza per non aver potuto godere del riposo che si era immaginato. La
circostanza che il danno da vacanza rovinata si qualifichi come "non patrimoniale" e che derivi da un inadempimento
contrattuale ha fatto sorgere problemi circa la sua risarcibilità.

Per non lasciare senza ristoro tali pregiudizi, la giurisprudenza si è sforzata di individuare un riferimento
normativo, in base al quale poter liquidare il danno non patrimoniale da vacanza rovinata; tale riferimento è stato
individuato nell'art. 13, 1° par., Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio (CCV), il quale dispone
(nella versione italiana non ufficiale) che «l'organizzatore di viaggi risponde di qualunque pregiudizio causato al
viaggiatore a motivo dell'inadempimento totale o parziale dei suoi obblighi di organizzazione» (T. Torino 28.11.1996). Di
recente, la Corte di Giustizia (C. Giust. CE 12.3.2002) ha ammesso il risarcimento del danno da vacanza rovinata e ne ha
ravvisato il fondamento nella direttiva 13.6.1990, n. 90/314/CEE, disciplinante i contratti di viaggio concernenti

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Pluris
pacchetti turistici «tutto compreso». Secondo la Corte di Giustizia, infatti, l'art. 5, direttiva 13.6.1990, n. 90/314/CEE
riconosce implicitamente l'esistenza di un diritto al risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, tra cui il danno
morale, di conseguenza il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall'inadempimento o
dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio tutto compreso. Riconoscono il risarcimento
del danno da vacanza rovinata, richiamandosi espressamente alla sentenza della C. Giust. CE 12.3.2002 anche T. Roma
26.11.2003; T. Roma 19.5.2003. Si tratta di uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, ai sensi dell'art. 2059, il
pregiudizio non patrimoniale è risarcibile, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva
13.6.1990, n. 90/314/CEE (C. 17724/2018). Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è integrato dal pregiudizio
conseguente alla lesione dell'interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di
piacere e di riposo, tanto più grave ove si tratti di viaggio di nozze e come tale di occasione irripetibile; ed il turista-
consumatore ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da parte dell'organizzatore o del venditore, anche
se la responsabilità sia ascrivibile ad altri prestatori di servizi (T. Reggio Emilia 13.2.2013). Con riguardo al nesso di
causalità, è stato ritenuto sussistente il danno da vacanza rovinata in conseguenza di un sinistro occorso alla vigilia
della partenza (T. Reggio Emilia 30.4.2016). In ogni caso, il danneggiato ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai
quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno
da inadempimento contrattuale (C. 12143/2016). Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata richiede la verifica della
gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall'istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio
di tolleranza delle lesioni minime, e si traduce in un'operazione di bilanciamento demandata al prudente
apprezzamento del giudice di merito (C., ord., 6830/2017).

30. (Segue) Il diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione cautelare ex art. 314 c.p.p

L'art. 314 c.p.p. prevede il diritto ad un'equa riparazione a favore di chi abbia subito ingiustamente un periodo
di custodia cautelare; allo stesso modo, l'art. 643 c.p.p. dispone il diritto alla riparazione del danno a favore di chi,
prosciolto in sede di revisione, abbia subito una ingiusta detenzione. Entrambe le disposizioni nel prevedere il diritto
alla riparazione a favore di chi abbia subito una ingiusta detenzione utilizzano criteri diversi: l'art. 314 c.p.p.impiega
l'espressione "equa riparazione", lasciando così intendere che la determinazione del quantum sia rimessa al potere
discrezionale del giudice, anche se l'art. 315 c.p.p. fissa il limite massimo di un miliardo di lire. L'art. 643 c.p.p., invece,
prevede che la riparazione «sia commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle
conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna». Tuttavia, in virtù del richiamo previsto dall'art. 315, 3° co.,
c.p.p., l'ammontare dell'equa riparazione, di cui all'art. 314 c.p.p. può essere determinata facendo riferimento
al numero di giorni di detenzione oppure alle conseguenze personali e familiari della stessa (CRICENTI, 250).

Le ipotesi previste dagli artt. 314-643 c.p.p. non possono essere annoverate tra i casi determinati dalla legge di
cui all'art. 2059, in quanto l'obbligo dello Stato di riparare il danno da ingiusta detenzione non ha un carattere
risarcitorio. La riparazione per ingiusta detenzione, infatti, è un istituto diverso dal risarcimento del danno, scaturendo
da un rapporto di solidarietà civile nei confronti della vittima (C. pen. 22.1.2004; C. pen. 31.5.1994); inoltre, il diritto alla
riparazione prescinde dall'accertamento di eventuali profili dolosi o colposi nella condotta del magistrato e si basa
unicamente sui dati obiettivi contemplati nelle rispettive norme (A. Milano 29.11.2000).

Anche se si deve escludere che gli artt. 314-643 c.p.p. rientrino nei casi previsti dalla leggi di cui all'art. 2059, non
si può negare che esistano legami tra la riparazione ed il danno non patrimoniale. Tale rapporto, infatti, risulta evidente
dalla formulazione dell'art. 643 c.p.p. (applicabile anche all'art. 314 c.p.p., in virtù del richiamo dell'art. 315, 3° co., c.p.p.),
il quale facendo riferimento alle conseguenze personali e familiari della condanna, esprime un inequivocabile rinvio a
riflessi negativi, tipicamente non patrimoniali patiti dal soggetto che ha subito l'ingiusta detenzione [CRICENTI,
255; ZIVIZ, Il danno non patrimoniale, in CENDON (a cura di), La responsabilità civile, VII, Torino, 1998, 299].

È stato riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale, derivante dal modificato regime di vita e dalla
privazione della libertà personale in un caso di riparazione ex art. 643 c.p.p. (A. Genova 7.2.2003).

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Pluris
31. (Segue) Il diritto morale d'autore

Il diritto morale d'autore consente all'autore dell'opera, anche dopo la cessazione dei diritti di sfruttamento, di
rivendicare la paternità dell'opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell'opera
stessa, che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione. Al riguardo, l'art. 168, L. 22.4.1941, n. 633,
conferisce indirettamente, in base al rinvio contenuto nell'art. 158, il potere di richiedere il risarcimento del danno,
senza però che sia specificato se si tratta di soli danni patrimoniali oppure anche di danni non patrimoniali. Si è
riproposto così il già indicato problema, e cioè se la formulazione generica della norma fosse idonea a legittimare il
risarcimento del danno non patrimoniale. Parte della dottrina ha ritenuto che l'esistenza di un generico rinvio al
risarcimento del danno, sarebbe stata di per sé sufficiente a far rientrare tale ipotesi nei casi previsti dalla legge cui
rinvia l'art. 2059 (BONILINI, 358; PERFETTI, 1067; RAVAZZONI, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962, 129). Si
è sostenuto, infatti, che trattandosi di un bene di natura morale vi doveva essere una corrispondente tutela anche per
i danni di natura non patrimoniale (RAVAZZONI, 129).

Tale problema, tuttavia, anche prima della pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n. 233, ha sempre avuto una scarsa
importanza in quanto, identificandosi il diritto morale d'autore con l'onore e la reputazione di chi ha la paternità di
una opera dell'ingegno, la violazione normalmente si realizza attraverso la consumazione di un reato.

In dottrina v. FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1183; PETRELLI, 266.

32. (Segue) La riparazione prevista dall'art. 12, L. n. 47 del 1948

L'art. 12, L. 8.2.1948, n. 47, l. sulla stampa, prevede che «nel caso di diffamazione commessa col mezzo della
stampa, la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 c.p., una somma a titolo di
riparazione». Tale norma viene considerata come una sanzione civile punitiva che si aggiunge qualitativamente e
quantitativamente al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale e che ha come presupposto l'esistenza
di un reato (FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1185). La sua natura e le sue finalità sono tali da avvicinarla agli exemplary
damages di common law, più che al danno morale; ed il suo ammontare dipende dalla gravità dell'offesa e dalla
diffusione dello stampato (ZENO ZENCOVICH, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Napoli, 1985, 321).

La norma non rappresenta una duplicazione del risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto la
riparazione prevista è una sanzione civilistica che presenta una finalità esclusivamente punitiva, rafforzativa della
sanzione penale (C. 14485/2000). Tale riparazione consegue al reato di diffamazione a mezzo stampa e pertanto
presuppone l'accertamento degli elementi costitutivi di tale reato, che può essere compiuto anche dal giudice civile (C.
14485/2000; T. Venezia 29.2.2000). Essendovi un collegamento indefettibile tra la riparazione prevista dall'art. 12, L.
8.2.1948, n. 47 ed il reato di diffamazione a mezzo stampa, può essere condannato alla riparazione soltanto il soggetto
responsabile del reato stesso (C. 9672/1997). Di conseguenza, si esclude che la sanzione possa essere applicata nei
confronti del direttore responsabile della pubblicazione ove a suo carico risulti una responsabilità a norma dell'art.
57 c.p., per omesso controllo (colposo) sul contenuto dello stampato da lui diretto, e non un concorso (doloso) nel
reato di diffamazione (C. 14485/2000). La satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di
critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all'obbligo di riferire fatti veri, in quanto esprime mediante il
paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio
critico, possono essere utilizzate espressioni anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente
collegate alla manifestazione della critica e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della
reputazione del soggetto interessato (C., ord., 6919/2018).

In tema di diritto alla riservatezza, dal quadro normativo e giurisprudenziale nazionale (artt. 2 Cost., 10 e 97, L.
22.4.1941, n. 633) ed europeo (artt. 8 e 10, 2° co., CEDU e 7 e 8 della c.d. "Carta di Nizza"), si ricava che il diritto
fondamentale all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo

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Pluris
in presenza dei seguenti specifici presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia
ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per
ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali);
3) l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del
Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità
non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì
da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la
pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato
il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico. (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della
corte d'appello che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno avanzata da un noto cantautore, a seguito
della trasmissione su una rete televisiva, ad oltre cinque anni dall'accaduto, delle immagini relative al suo rifiuto di
rilasciare un'intervista accompagnate da commenti denigratori) (C. 6919/2018).

33. La risarcibilità del danno non patrimoniale in favore di una persona giuridica

In passato, è stata particolarmente dibattuta la possibilità di riconoscere il risarcimento del danno non
patrimoniale in favore di una persona giuridica. La soluzione del problema dipende dalla nozione di danno non
patrimoniale che si vuole accogliere (FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1204); infatti, se si identifica il danno non patrimoniale
con un'alterazione dello stato d'animo del soggetto, si deve concludere che soltanto alle persone fisiche spetta il
risarcimento per i danni morali subiti.

Se, invece, come fa la giurisprudenza più recente, non si circoscrive l'ambito di applicazione dell'art. 2059 al solo
danno morale c.d. subiettivo, cioè al dolore ed alla sofferenza, ma si ritiene che il danno non patrimoniale ricomprenda
ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, si possono risarcire anche le persone giuridiche,
che, in quanto tali, non provano le sofferenze ed i dolori espressi dalla tradizionale nozione di danno morale (C.
2367/2000; C. 12951/1992; C. 7642/1991).

In questo modo, anche le persone giuridiche possono subire un danno non patrimoniale, potendo questo
configurarsi in effetti pregiudizievoli, che a prescindere dalla sensibilità e percezione psicologica del danneggiato, si
risolvono in un'aggressione a beni immateriali, di cui anche l'ente personificato può essere titolare (BIANCA, La
responsabilità, in DC, 1994, V, 169, nt. 165). Diventa, così, irrilevante il fatto che la persona giuridica, in quanto entità
astratta, sia per sua natura insensibile, perché ciò che viene in rilievo ai fini della risarcibilità del danno non
patrimoniale, è la lesione della sfera di dignità, di rispettabilità e di credibilità nei confronti dei consociati
(FRANZONI, Dei fatti illeciti, 1205).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando
il fatto lesivo leda l'immagine e la considerazione della persona giuridica, sia sotto il profilo della incidenza negativa
che tale diminuzione comporta nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte
dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca
(C. 12929/2007; C. St. 3.11.2016, n. 4615).

34. Legittimato passivo

Legittimato passivo è il soggetto che ha compiuto il fatto e le persone che debbono rispondere del fatto altrui, secondo
le norme sulla responsabilità civile. In questo caso bisogna far riferimento agli artt. 2048, 2049 e all'art. 2054, 3° co.

In giurisprudenza si è affermato che la sussistenza di specifici elementi di colpa addebitabili al domestico o al


commesso autore del comportamento dannoso e la propagazione della responsabilità al padrone o al
committentelegittimano il danneggiato, ricorrendone gli ulteriori presupposti, alla domanda di risarcimento del danno

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Pluris
morale nei confronti di entrambi i responsabili, restando del tutto indifferente, a tal fine, sia l'autonomia delle azioni
colpose dei diversi soggetti sia la differente normativa che configuri le loro responsabilità (C. 75/1983). Inoltre il
padrone o il committente rispondono delle conseguenze giuridiche, compreso il risarcimento del danno non
patrimoniale anche nel caso in cui sia rimasta ignota la persona fisica autrice dell'illecito ( C. 12023/1995; C.
12951/1992; C. 222/1985). Anche nel caso di danno cagionato da un minore di 14 anni è risarcibile il danno non
patrimoniale (C. 6651/1982). Inoltre, perché sussista la diretta responsabilità dello Stato verso i terzi, per l'attività
colposa o dolosa di pubblici dipendenti è necessaria la riferibilità della detta attività allo Stato, perché diretta al
perseguimento dei suoi fini istituzionali, ancorché con abuso di potere. Tale riferibilità deve essere esclusa, allorché
l'attività trovi nell'esplicazione della pubblica funzione solo l'occasione del suo manifestarsi per finalità estranee a
quelle dell'ufficio o, addirittura, contro la P.A. (C. 9935/1993), oppure per fini egoistici e privati (C. 485/1985).

35. Concorso di colpa della vittima

Si è affermato che il risarcimento del danno non patrimoniale è suscettibile di riduzione nel caso di concorso
di colpa del danneggiato (C. 3079/1955). La riduzione trova applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia
unsoggetto incapace (C. 1442/1983).

36. Danno non patrimoniale e svalutazione monetaria

In giurisprudenza si ritiene che il ristoro del danno non patrimoniale integri un debito di valore, suscettibile
come tale di rivalutazione, con la conseguenza che, ai fini della liquidazione del danno da fatto illecito, devono essere
considerate alla stessa stregua tutte le partite che, costituiscono il danno risarcibile, tenendo conto della svalutazione
monetaria anche con riferimento ai danni cosiddetti morali (C. 3675/1984). Nel caso in cui per liquidare il danno morale
siano utilizzati valori monetari propri del tempo della decisione, la somma non deve essere rivalutata (C.
14930/2000). Oltre alla rivalutazione monetaria possono essere computati anche gli interessi per il pregiudizio che il
danneggiato dimostri di avere sopportato per la ritardata effettiva percezione del suo credito(C. 9376/1997).
Gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale decorrono dal
giorno in cui il fatto illecito si è verificato, secondo i principi generali in materia di cui agli artt. 1224 e 1282 (C.
1384/1993).

37. Risarcimento in forma specifica e pubblicazione della sentenza

Si ritiene che la lesione cagionata dal danno morale non possa essere riparata in forma specifica, dal momento
che non è possibile creare una situazione identica a quella che precede il fatto (BONILINI, 439). La pubblicazione della
sentenza anche se rende più completo e satisfattivo il ristoro, tuttavia non ripara integralmente il danno non
patrimoniale (SCOGNAMIGLIO, Il risarcimento del danno in forma specifica, in RTDPC, 1957, 335).

In giurisprudenza si è affermato che nella determinazione del danno non patrimoniale arrecato alla reputazione
va considerato anche il risarcimento in forma specifica tramite pubblicazione della sentenza penale, il qualediminuisce
il quantum residuo di danno da risarcire per equivalente (A. Napoli 12.6.1992; T. Milano 27.5.1985).

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