Sei sulla pagina 1di 9

SEZIONE I: LA RESPONSABILITA’ DEL PROVIDER

1.EVOLUZIONE DELLE REGOLE DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEL PROVIDER

E comportamenti illeciti che si possono verificare nel mondo del web possono essere raccolti in due principali categorie:
VIOLAZIONI DI DIRITTI DELLA PERSONALITA’ e VIOLAZIONI DI DIRITTI DELLA PROPRIETA’ INTELLETTUALE.

Per comprendere a pieno come si verificano in rete, è fondamentale riprendere la classificazione degli operatori che
prestano servizi della società dell'informazione:

 ACCESS PROVIDER: forniscono l'accesso alla rete.

all'inizio degli anni 2000, l'accesso alla rete era fornito da compagnie telefoniche, oggi esso è fornito anche da altri
operatori commerciali (bar, ristoranti, negozi) e da enti pubblici (scuole, università), grazie al servizio wi-fi.

 CACHE PROVIDER: forniscono un servizio di memorizzazione temporanea delle informazioni inserite in rete dagli
utilizzatori (motori di ricerca).
 HOST PROVIDER: mettono a disposizione un’area del proprio server in cui memorizzare informazioni (Facebook e
youtube memorizzano contenuti generati dagli utenti).
 CONTENT PROVIDER: forniscono contenuti che essi stessi hanno generato (testate giornalistiche online).

Se gli operatori che prestano un servizio della società dell'informazione realizzano questi comportamenti illeciti nello
svolgimento delle attività descritte, essi rispondono personalmente dei fatti illeciti (art. 2043 c.c.).

Ma, i comportamenti illeciti in rete possono anche essere realizzati dai destinatari che trasmettono o memorizzano
informazioni e contenuti illeciti.  Questi casi sono molto aumentati con lo sviluppo di host provider come eBay, YouTube
e Facebook: essi consentono agli utenti di caricare in rete i contenuti che generano, i quali possono essere illeciti perché
violano diritti della personalità o diritti della proprietà intellettuale.

Ci si è chiesti se i provider possono essere considerati completamente estranei rispetto a fatti illeciti causati dai destinatari
dei loro servizi oppure se essi possano essere ritenuti corresponsabili:

 Alla fine degli anni ‘90, il provider era ritenuto personalmente responsabile, senza dare rilevanza al fatto che
l’illecito fosse stato compiuto dal destinatario dei loro servizi.
 Nel 2000, è stato introdotto un regime speciale della responsabilità del provider per le informazioni ai contenuti i
placiti generati dagli utenti: la Direttiva 2000/31/CE.
Essa elenca le condizioni che devono verificarsi affinché un provider possa beneficiare di un esonero dalla
responsabilità per fatto illecito causato da informazioni e contenuti generati e caricati dai destinatari (il provider
deve svolgere le attività di access, cache e host).

Dunque, nel caso in cui si verifichi un fatto illecito online possono trovare applicazione tre diversi regimi di responsabilità:

1. la responsabilità del provider per i fatti illeciti commessi personalmente (art. 2043 c.c.).
2. la responsabilità unica della persona che abbia trasmesso o memorizzato contenuti illeciti (Direttiva
2000/31/CE).
3. la responsabilità solidale (art. 2055 c.c.) del provider ed è l'autore dei contenuti illeciti, qualora il provider non
riesca a provare le condizioni di esonero richieste dalla legislazione nazionale.
1.1LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEL PROVIDER PER I FATTI ILLECITI COMPIUTI DAI DESTINATARI DEI SERVIZI DELLA
SOCIETA’ DELL’INFORMAZIONE

NORME:
 ATTIVITA’ DI MERE CONDUIT  Tipicamente prestata dai primi operatori e popolavano il web e virgola in
particolare, ghali Access provider che fornivano l'accesso a internet.
Il provider che svolge attività di semplice trasporto delle informazioni o di fornitura dell'accesso alla rete, non è
responsabile delle informazioni che trasmette a patto che si verifichino queste tre condizioni:
- non deve aver dato origine alla trasmissione delle informazioni illecite;
- non deve aver selezionato chi chiede il trasporto delle informazioni o chi ha chiesto la fornitura dell'accesso
alla rete;
- non deve aver selezionato non è modificato le informazioni trasmesse.
Le condizioni appena descritte devono verificarsi tutte contestualmente perché il provider possa essere esonerato dalla
responsabilità civile per le informazioni illecite trasmesse.

 ATTIVITA’ DI CACHING
Il provider che presta il servizio di memorizzazione automatica, intermedia e temporanea (caching) non è
responsabile delle informazioni illecite memorizzate a richiesta del destinatario del servizio a patto che esso:
- non abbia modificato le informazioni memorizzate su richiesta del destinatario dei suoi servizi;
- si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;
- si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni;
- non interferisca con l'uso lecito di tecnologie riconosciuta ed utilizzate nel settore per ottenere dati
sull'impiego delle informazioni;
- agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitarne l'accesso, non
appena venga a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovava
inizialmente sulla rete o che l'accesso alle informazioni è stato disabilitato, oppure che ne è stata disposta
la rimozione.
Le condizioni appena descritte devono verificarsi tutte contestualmente perché il provider possa essere esonerato dalla
responsabilità civile per le informazioni illecite trasmesse.

 ATTIVITA’ DI HOSTING  mette al centro la conoscenza effettiva dell’illecito da parte del provider.
Il provider che, svolgendo l'attività di hosting, memorizza in maniera duratura informazioni fornite dal destinatario
del servizio, non è responsabile delle informazioni memorizzate qualora:
- non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita;
- agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso, non appena sia a
conoscenza del fatto illecito.
Le due condizioni di esonero sono alternative: è sufficiente che si verifichi soltanto una delle due perché il provider possa
beneficiare dell'esonero dalla responsabilità.

L'ultima norma che completa il regime speciale della responsabilità del provider è l’ARTICOLO 15: una norma di
chiusura, che stabilisce che il provider non è tenuto a controllare tutte le informazioni che trasmette o memorizza su
richiesta degli utilizzatori, né a cercare attivamente i fatti/le circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
L’ARTICOLO 17 COMMA 3, invece, stabilisce che il provider possa essere ritenuto responsabile per le informazioni
trasmesse o memorizzate qualora:
- abbia ricevuto una richiesta di impedire l'accesso ha un contenuto illecito da parte delle autorità e non abbia agito
prontamente per assecondare tale richiesta;
- non abbia informato l'autorità competente della presenza di un contenuto illecito o pregiudizievole per un terzo,
avendone avuto conoscenza.
Il DIGITAL MILLENNIUM COPYRIGHT ACT (DMCA), adottato gli Stati Uniti nel 1998 per regolare la responsabilità dei
provider per i casi di violazione delle tutele garantite dal copyright, propone una soluzione interessante  il DMCA
introduce un obbligo di rimozione dei contenuti presunti illeciti anche a fronte di una comunicazione (notification)
proveniente da chi afferma di essere stato danneggiato. Qualora la segnalazione dovesse rivelarsi infondata, il DMCA
impone al segnalante di risarcire la persona danneggiata dalla rimozione del contenuto.
2. LO SVILUPPO DELLE PIATTAFOME DI INTERMEDIAZIONE E LA RESPONSABILITA’ DEL PROVIDER

Lo sviluppo delle piattaforme di intermediazione ha comportato una trasformazione significativa dell'attività di hosting:
oltre alla memorizzazione dei contenuti generati dagli utenti, queste piattaforme prestano servizi aggiuntivi (ES:effettuare
una ricerca tra i contenuti pubblicati) che rendono abbastanza complicato capire se tale attività sia prestata in modo
NEUTRALE. (ricordiamo che la PASSIVITA’ del provider è la condizione necessaria per l'applicazione del regime speciale
della responsabilità).

Spesso, però, i provider effettuano l'attività di hosting in modo attivo, né neutrale né passivo, Difatti organizzano e
selezionano i contenuti immessi online su richiesta dei destinatari del servizio.

COME SONO IMMESSI IN RETE I CONTENUTI?  i contenuti memorizzati su richiesta dei destinatari dei servizi della società
dell’informazione possono essere immessi in rete:

- nella forma di testi scritti (post su FB) e di file (foto Instagram, video YouTube)
- in maniera indiretta, pubblicando un collegamento ipertestuale che rimanda ad un altro sito web.

ES: Pensiamo alle piattaforme digitali in cui è possibile trovare un link per accedere a partite di calcio trasmesse da siti
stranieri.
In tali casi, occorre prima di tuttoverificare.se la pubblicazione del link sia stata autorizzata dal titolare dei diritti esclusivi di
utilizzazione economica dell'opera  secondo l’art. 3 della Direttiva 2001/29/CE, la pubblicazione del link non autorizzata
rappresenta una condotta illecita.

Inoltre, bisogna verificare se la piattaforma che memorizza il link immesso in rete possa essere ritenuta responsabile
nell’ipotesi in cui esso rimandi ad un’opera protetta dal diritto d’autore.
Negli ultimi anni, la CGUE è stata più volte chiamata a rispondere alla seguente domanda: l’attività di hyperlinking può
essere considerata una comunicazione al pubblico ai sensi della normativa Europea sul diritto d’autore?  L’hyperlinking è
la possibilità di muoversi facilmente e liberamente da un’informazione all’altra rappresentano l’essenza stessa della rete.
Limitare le possibilità di linking o gravare questa attività di eccessivi oneri e responsabilità potrebbe compromettere le
fondamenta stesse del web.

Negli ultimi anni la CGUE è tornata ad affrontare il rapporto tra diritto esclusivo di comunicazione al pubblico ed
hyperlinking in tre decisioni:

- IL CASO SVENSSON (2014): causa avviata dal Sig. Svensson e da altri suoi colleghi giornalisti nei confronti della società
Retriever Sverige, colpevole di aver inserito sul proprio sito internet, senza il loro permesso, alcuni collegamenti
ipertestuali che rinviavano a dei loro articoli protetti da diritto d’autore. CONCLUSIONE: La CGUE ha stabilito che in questo
caso non vi è violazione del copyright perché le opere non vengono comunicate ad un pubblico nuovo, ma allo stesso
pubblico destinatario della comunicazione originariamente operata dall’editore che ha pubblicato il contenuto. Pertanto in
un caso come questo, dove le opere protette dal diritto d’autore erano legittimamente pubblicate con il consenso dei
titolari su un sito internet accessibile liberamente da chiunque, il link non costituisce comunicazione ad un nuovo pubblico
e non richiede alcuna autorizzazione.

- IL CASO GS MEDIA (2016): GS Media è il gestore di un sito web su cui nell’ottobre2011 era stato pubblicato il link di una
piattaforma di file sharing che consentiva di visualizzare un servizio fotografico di una modella di Playboy. La rivista
avrebbe dovuto pubblicare le foto nel dicembre 2011, per questo, Sanoma, la società editrice, aveva intimato a GS MEDIA
di non divulgare il link, dunque non aveva acconsentito alla pubblicazione delle foto sul sito web della piattaforma di file
sharing.
La CGUE ha quindi aggiunto due ulteriori parametri utilizzati nel caso in cui il criterio della comunicazione al nuovo
pubblico non debba rivelarsi sufficiente:
1. Bisogna verificare se chi fornisce il link sia a conoscenza del fatto che rende accessibile un contenuto senza il
consenso del titolare dei diritti di utilizzazione;
2. Bisogna verificare se la pubblicazione del link sia stata fatta a fini di lucro e quindi l’attività di linking deve
considerarsi comunicazione al pubblico. In questo caso è quindi lecito, secondo la Corte, svolgere le indagini
necessarie ad accertare se l’opera a cui il link rinvia sia stata pubblicata con le necessarie autorizzazioni.
2.1ANALISI DELLL’APPLICAZIONE DEL REGIME SPECIALE DELLA RESPONSABILITÀ DEL PROVIDER ALLE PIATTAFORME DI
INTERMEDIAZIONE

Le attività dell’intermediazione che determinano il regime speciale della responsabilità del provider sono caratterizzate da:

 l’attività di hosting  svolta spesso in modo attivo, in quanto l’intermediazione richiede servizi aggiuntivi per
essere efficace.
 la segnalazione di contenuti illeciti effettuata dagli utenti direttamente alla piattaforma.
 le piattaforme che spesso usano sistemi automatizzati per filtrare i contenuti illeciti.

COME SONO STATE AFFRONTATE QUESTE TRASFORMAZIONI DALLA GIURISPRUDENZA?

A. L’ATTIVITÀ DI HOSTING ATTIVO: La CGUE ha individuato dei criteri che consentono di capire quando un provider stia
presentando attività di hosting in modo attivo. ESEMPI:
- IL CASO LOUIS VUITTON: nel 2011 la CGUE è stata chiamata a pronunciarsi su una questione che contrapponeva la casa
di moda Louis Vuitton a Google. Infatti, la ricerca di prodotti di Louis Vuitton sul motore di ricerca fornito da Google aveva
consentito tra i vari link di accedere a siti di inserzionisti che vendevano prodotti contraffatti con il marchio Louis Vuitton.
Ciò succedeva perché Google, nell’offrire il servizio di posizionamento, aveva consentito a questi operatori di scegliere le
parole chiavi (come imitazione, copia) che se cercate avrebbero rimandato al collegamento ipertestuale di questi siti.
Dopo aver accertato la contraffazione del marchio, la CGUE è passata a verificare se Google, prestando il servizio di
posizionamento e memorizzando come parole chiave un segno identificativo di un marchio, stesse facendo un uso del
marchio improprio. In altre parole, si è dovuto verificare se queste attività fossero svolte in modo passivo: se così fosse
stato, la società non avrebbe potuto essere ritenuta civilmente responsabile. Secondo la Corte, Google però non svolgeva
in modo passivo l’attività di hosting in quanto il posizionamento delle inserzioni commerciali e la memorizzazione delle
parole chiave per la ricerca indicano un’esecuzione attiva e pertanto non è stato possibile applicare il regime speciale della
responsabilità del provider.

- IL CASO L’ORÉAL: con questo caso la CGUE ha avuto modo di affermare che non è sufficiente il provider svolga l’attività di
hosting in modo attivo, ma occorre verificare singolarmente il caso.
Nel 2011, il caso contrappose L’Oréal a eBay, in quanto L’Oréal chiese un risarcimento del danno causato dalla vendita e
dalla promozione di prodotti contraffatti, in violazione del suo diritto al marchio. La decisione della CGUE ha ritenuto che
eBay fosse un hosting attivo, dal momento che la piattaforma non si era limitata a fornire ai destinatari dei suoi servizi
soltanto uno spazio di memorizzazione consistente in una vetrina online per i venditori, ma prestava un’assistenza
consistente nell’ottimizzazione delle vendite.
In Italia, invece, una delle prime controversie in materia di responsabilità del provider ha avuto come protagonista Google.
La piattaforma era stata accusata di aver concorso omissivamente nel reato di diffamazione a danno di un ragazzo con
sindrome di Down che in un filmato memorizzato nella sezione Video di Google era vittima di violenza e umiliazione. È un
procedimento penale per diffamazione. Ma come è stato coinvolto Google in questo crimine? Secondo la procura
Milanese, la colpa di Google era quella di non aver rimosso il filmato dalla sezione e di averlo posizionato tra i video più
divertenti. Secondo il Tribunale di Milano, Google non era ritenuto responsabile del reato di diffamazione, ma fu
condannato per trattamento illecito dei dati, in quanto Google aveva pubblicato il video senza informare adeguatamente
la persona circa il trattamento dei suoi dati e senza ottenere il consenso. La Corte di Cassazione del 2014 ha stabilito che
Google fosse un host passivo perché aveva solo svolto un’attività passiva di memorizzazione dei contenuti immessi in rete,
che non era tenuto a controllare.
GOOGLE SPAIN  CAP 5
B.LA SEGNALAZIONE DEI CONTENUTI ILLECITI
La corte di giustizia dell’Unione Europea ha fornito alcune linee interpretative ai giudici nazionali.
 Quando si riceve una segnalazione, essa va valutata dal provider tenendo conto delle circostanze del caso concreto: la
rimozione non è una conseguenza automatica della segnalazione.
ES: il caso di RTI (Reti Televisive Italiane) contro YouTube e Google del 2009. Il tribunale di Roma ha ritenuto responsabili le
due piattaforme convenute in giudizio per non aver rimosso, a fronte di numerose diffide, alcuni video memorizzati dai
destinatari dei loro servizi della società dell’informazione, contenenti sequenze estratte dal programma televisivo Grande
Fratello. Secondo il tribunale di Roma sia YouTube che Google sono stati ritenuti responsabili perché avevano continuato a
pubblicizzare i contenuti illeciti, rendendoli liberamente accessibili a tutti, nonostante le diverse diffide ricevute.
ES2: RTI contro Yahoo (2011). RTI accusava Yahoo di aver pubblicato nella sezione video dei frammenti di trasmissioni
televisive i cui diritti di sfruttamento economico erano di sua titolarità. RTI aveva segnalato a Yahoo la natura illecita
chiedendo la rimozione, che però non è avvenuta. Conclusione analoga al caso precedente.
La giurisprudenza italiana ha optato per un’interpretazione estensiva della nozione di conoscenza dell’illecito. Il problema
di questa larga interpretazione è che essa potrebbe determinare una selezione tra i fornitori dei servizi (SSI) che
lascerebbero in rete solo coloro che sono nelle condizioni di accettare il rischio di pagare dei danni a seguito della
rimozione preventiva di contenuti, effettuata da una segnalazione del presunto danneggiato. Quindi in qualche modo ne
sono avvantaggiati gli operatori più forti economicamente a differenza degli operatori più deboli che sarebbero incapaci di
sostenere i costi della rimozione preventiva.
C.FILTRI E DOVERE DI CONTROLLO
La Direttiva 2000/31/CE ha stabilito che i provider non abbiano il dovere di controllare i contenuti immessi in rete su
richiesta dei destinatari dei servizi della società dell’informazione. L’assenza di questo dovere produce effetti positivi e
negativi sulla struttura della rete. Da una parte, i provider non possono effettuare una selezione dei contenuti, lasciando ai
destinatari dei loro servizi la piena libertà sulle informazioni da far circolare. Dall’altra, un’assenza di controllo non
consente di evitare che in rete circolino contenuti illeciti, falsi e talvolta pericolosi.
La giurisprudenza della CGUE ha collegato l’assenza di un dovere di controllo generalizzato dei contenuti alla libera
iniziativa economica del provider.
ES: SABAM, società belga che si occupa della gestione collettiva dei diritti d'autore che agiva contro il provider Netlog a
causa di numerose violazioni del copyright causate dalla condivisione di numerose opere musicali e audiovisive del suo
repertorio.
La Corte ha escluso che un giudice possa ordinare al provider di introdurre un sistema che filtri tutti i contenuti
memorizzati dagli utilizzatori e bloccare quelli illeciti. Perché? perché questa imposizione, oltre a comprimere l’iniziativa
economica, sarebbe lesiva del diritto al segreto delle comunicazioni, del diritto alla riservatezza e della libertà delle
informazioni. Pertanto, non esiste un dovere di controllo generalizzato né esso può essere imposto al provider dal giudice.
È invece possibile ordinare al provider di effettuare controlli specifici su determinati contenuti
secondo la corte quindi le misure che i giudici degli Stati Membri possono adottare per tutelare i danneggiati devono
preferibilmente essere interventi specifici piuttosto che di carattere generale.
Il blocco all’accesso a singole pagine web, ad esempio, è una misura in grado di bilanciare, in modo proporzionale, i diversi
diritti concorrenti: la libera iniziativa economica del provider, il diritto d’autore del danneggiato e infine il diritto
all’informazione degli utilizzatori.
Nonostante la direttiva non abbia imposto ai provider un dovere di controllo generalizzato dei contenuti alcune
piattaforme digitali hanno sviluppato strumenti tecnologici per poterlo esercitare. In particolare, esse effettuano il
controllo al momento in cui i contenuti vengono immessi in rete, per evitare il caricamento di materiali protetto da diritto
d’autore o diritto sui marchi (proprietà intellettuale) o che ledano la persona.
Il controllo può anche essere anche automatico e quindi avvenire grazie ad un algoritmo che rileva la presenza di
contenuti illeciti. ES: YouTube ha sviluppato un software per monitorare, filtrare e bloccare i contenuti illeciti (YouTube
Content ID). I social network invece ricorrono ai meccanismi di peer review dei contenuti, cioè il controllo viene eseguito
dopo la pubblicazione dei materiali e viene eseguito in modo decentralizzato e diffuso, cosicché tutti gli utilizzatori possano
segnalare i contenuti illeciti.
3.VERSO UNA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ DELLE PIATTAFORME

La questione delle recensioni ingannevoli o finte la Direttiva 2019/2161/UE ha stabilito che le piattaforme devono
chiarire se e come garantiscono che le recensioni pubblicate siano effettivamente opera di consumatori che abbiano
comprato o usato il bene o il servizio.

APPROFONDIMENTO  CASI E QUESTIONI: TRIP ADVISOR E LE FALSE RECENSIONI


Trip advisor è una piattaforma molto celebre per i suoi servizi di recensioni su alberghi, ristoranti, caffè eccetera. Nel 2015,
il tribunale di Venezia è stato chiamato a pronunciarsi su ricorso di un ristorante veneziano al quale era stata fatta una
recensione diffamatoria da un utente anonimo. Il ricorrente aveva già ottenuto la rimozione della recensione che però era
poi riapparsa e rimasta consultabile per alcuni mesi. Il ristoratore aveva agito in giudizio per ottenere un provvedimento di
carattere inibitorio che condannasse la piattaforma alla rimozione definitiva. In effetti, trip advisor nel contratto ha alcune
clausole che specificano che le recensioni vengono controllate e nel caso in cui siano contenuti illeciti vengano rimosse;
perciò, non può considerarsi in questo caso un provider passivo. Secondo il tribunale quindi trip advisor è un provider che
svolge un’attività di hosting attivo. ma, secondo l’Authority (meccanismo di controllo delle recensioni) non si può verificare
se questa recensione si frutto di una reale esperienza turistica o l’esito di un’attività fraudolenta.

La lotta ai contenuti illeciti nel 2017 la Commissione europea è tornata sul tema della Comunicazione 555, dedicata alla
lotta ai contenuti illeciti online con cui ha continuato ad incoraggiare ad una condotta responsabile delle piattaforme,
invitandole ad adottare misure di autoregolazione per reagire a fenomeni preoccupanti come, per esempio, la crescente
disponibilità online di materiale che incita al terrorismo. In questa Comunicazione vengono forniti alcuni principi per
orientare la condotta delle piattaforme:
- Quando le segnalazioni consistono in un provvedimento giudiziario o di un’autorità amministrativa o un’autorità di
contrasto, le piattaforme dovrebbero cooperare per rimuovere rapidamente il contenuto illecito ed evitare la
diffusione.
- Quando la segnalazione è effettuata da entità specializzate nell’identificazione di contenuti illegali e di strutture
dedicate per l’individuazione e identificazione di tali contenuti online (SEGNALATORI ATTENDIBILI), la piattaforma
deve dimostrarsi pronta a cooperare, anche con la predisposizione di una procedura accelerata.
- Per quanto riguarda le segnalazioni inviate dagli utenti, le piattaforme dovrebbero fornire meccanismi che
consentono di indicare il materiale illecito in modo preciso. La segnalazione può avvenire dall’utente anche in
forma anonima.
Pertanto, le misure che la Commissione incoraggia sono tutte di natura tecnologica e consistono in strumenti per
l’individuazione e il filtraggio automatico che sono già diffusi tra molte piattaforme digitali.
Esistono poi molte direttive dedicate a contenuti illeciti online specifici che completano e integrano quanto stabilito dalla
Direttiva 200/31/CE, come il materiale pedopornografico, incitamento all’odio online (hate speech), merci contraffatte,
ecc.
APPROFONDIMENTO LA PUBBLICAZIONE DI CONTENUTI CHE INCITANO ALL’ODIO (c.d. Hate Speech)
Hate speech indica il fenomeno di incitamento all’odio razziale, etnico, sessuale che viola la dignità della persona. Già la
direttiva 2013/13/CE consentiva agli stati membri di ostacolare la ritrasmissione di servizi audiovisivi per ragioni di ordine
pubblico in cui era compresa la lotta contro l’incitamento di odio basato su razza, sesso, violazione della dignità umana del
singolo individuo. L’attuazione delle misure di prevenzione viene estate alle piattaforme digitali che si impegnano a fornire
segnalazione sui contenuti, a rimuoverli e a predisporre regole o orientamenti per la comunità degli utenti. Facebook ad
esempio ha negli standard della community ha descritto cosa è consentito e cosa no all’interno del social network e
stabilisce che verranno rimossi i contenuti che incoraggiano alla violenza fisica o emotiva.

3.1 LA DIRETTIVA COPYRIGHT E LA RESPONSABILITÀ DEL PROVIDER


Il legislatore europeo a seguito della Direttiva Copyright 2019/790/CE si è concentrato sul ruolo delle piattaforme online in
relazione ai contenuti trasmessi, memorizzati oppure ospitati su richiesta dei destinatari di servizi della società
dell’informazione, che violano il diritto d’autore. La direttiva Copyright è intervenuta sulle modalità con cui è riconosciuto
un compenso economico all’autore dell’opera dell’ingegno qualora essa sia distribuita online dopo la prima pubblicazione
su un sito web. Si pensi ad esempio al caso di un articolo che viene pubblicato dal giornalista su un giornale telematico e
tutelato dal diritto d’autore: se si condivide l’articolo su Facebook, l’autore del testo non riceverà nessun guadagno,
mentre la piattaforma trae vantaggio da ciò. Questo vuol dire che si crea un gap tra la piattaforma che memorizza i
contenuti, che si avvantaggia delle dinamiche di condivisione dei contenuti coperti da copyright, pur se non autorizzati
dall’autore, che dovrebbe consentire la riproduzione della sua opera e che invece assiste ad una distribuzione senza
ricevere compenso. La direttiva 2000/31/CE ha introdotto appunto delle norme caratterizzate da uno speciale favor nei
confronti del provider che non è ritenuto responsabile degli atti di pirateria digitale compiuti attraverso i servizi offerti
passivamente da loro.
Questo tema viene trattato ad esempio nel caso di The Pirate Bay, una piattaforma di condivisione di file (file sharing) che
non controllava la liceità dei contenuti condivisi e acconsentiva a condividere e scaricare file che rinviavano a opere
protette dal diritto di autore, senza autorizzazioni dal titolare del diritto. La Corte con la sentenza del 2017 ha ritenuto The
Pirate Bay civilmente responsabili per la violazione del copyright, mettendo in evidenza il ruolo attivo della piattaforma che
era fornito di un elenco dei materiali online e di un’indicizzazione. Infatti, the Pirate Bay consentiva di condividere e
scaricare file che rinviarono in gran parte a opere protette dal diritto d’autore, senza che le operazioni abilitate dal
provider fossero state in alcun modo autorizzate dai loro titolari. Secondo la Corte, il provider aveva svolto un ruolo attivo
nella violazione del copyright, in quanto elencando e indicizzando i file torrent che consentono agli utenti della medesima
di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito della rete tra utenti, i gestori del sito svolgevano un ruolo essenziale
per far sì che avvenisse il file sharing. La direttiva Copyright è pertanto intervenuta seguendo questo orientamento, già
analizzato dalla Commissione e poi è stato ripreso anche dalla Corte di Giustizia dell’UE. Il legislatore europeo ha preferito
non tenere in considerazione quella letteratura che ha messo in evidenza il ruolo che la pirateria ha rivestito nel
trasformare e far evolvere il mercato, segnalando la necessità di sviluppare originali modelli di business capaci di
rispondere a nuovi bisogni, come dimostra la grande diffusione di piattaforme che consentono di fruire di opere protette
dal diritto di autore in streaming e ad un costo non elevato.
CASI E QUESTIONI LA DECISIONE DELLE CORTE EUROPE DEI DIRITTI DELL’UOMO NEL CASO DI PIRATE BAY
Il caso di The Pirate Bay è arrivato sino alla Corte europea dei diritti dell’Uomo che ha condannato gli amministratori della
piattaforma in via definitiva al pagamento di un ingente sanzione pecuniaria e alla pena detentiva per aver concorso nel
reato di diffusione di materiale protetto da Copyright. I ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’articolo 10 della
Convenzione dei diritti dell’uomo (CEDU), in quanto con la condanna della corte di Stoccolma, si sarebbe leso il diritto di
ricevere o comunicare informazioni o idee, che dovrebbero potersi esplicare senza ingerenze da parte delle autorità
pubbliche. La corte dei diritti dell’uomo (EDU) ha dichiarato la questione inammissibile e ha aderito alla sentenza di
condanna dei giudici svedesi. Infatti la libertà di espressione di cui all’articolo 10 della CONVENZIONE è stata, in questo
caso, bilanciata con la protezione del diritto d’autore, riconducibile all’ambito della proprietà intellettuale (tutelato ex
art.1, del Protocollo 1 della CEDU).

I NUOVI DIRITTI DI ESCUSIVA DELLA DIRITTIVA COPYRIGHT nel 2016 il Parlamento Europeo ha avviato i lavori per una
Direttiva in materia di copyright ed ha approvato definitivamente il testo nel 2019. – DIRETTIVA 2019/790/UE
Scopo della direttiva: aggiornare le regole in materia di copyright.
Questa Direttiva ha riservato agli editori di giornali i diritti esclusivi della loro pubblicazione e riproduzione per l’utilizzo
delle loro pubblicazioni giornalistiche (i cosiddetti diritti ancellari; articolo 15) in modo da tutelare i titolari delle privative
dalla distribuzione online delle loro opere.
questi nuovi diritti di esclusiva durano due anni a partire dalla data di pubblicazione del contenuto e non hanno
applicazione retroattiva, quindi non è valida per le pubblicazioni già edite prima dell’adozione della Direttiva.
L’importanza di questa Norma è, secondo il Parlamento, nella necessità di tutelare adeguatamente gli editori di giornali
nella transazione da carta a formato digitali, dal momento che essi non riescono a concludere contratti di licenza con quei
fornitori di autorizzazione, causando così un danno al loro investimento economico. Il problema che si è affrontato
riguarda le piattaforme digitali che offrono sistemi di aggregazione delle notizie, come ad esempio Google News, anche
consentendo agli utilizzatori di caricare articoli che provengono da fonti diverse. Le notizie vengono poi ordinate per tema
dagli aggregatori e sono liberamente consultabili. In base alla direttiva copyright, gli aggregatori di notizie dovrebbero
concludere un trattato di licenza con gli editori dei giornali interessati, se vogliono includere il link ad un articolo già
pubblicato sulla loro pagina.
Una norma di questo tipo già in atto è vigente in Germania e in Spagna, ma secondo molti autori non c’è evidenza che
questo abbia procurato un ritorno economico agli editori; anzi, la cessazione del servizio Google News in Spagna ha fatto
diminuire il traffico internet sui siti dei quotidiani locali. Inoltre, se escludiamo Google, gli aggregatori di notizie sono
spesso piccoli operatori che funzionano condividendo i contenuti immessi dagli utilizzatori: l’effetto che hanno è quello di
espandere il mercato, perché sono generalmente visitati da visitatori che, altrimenti, non consulterebbero le pagine degli
editori dei giornali. Il rischio dei piccoli aggregatori è di scomparire a vantaggio delle piattaforme più ricche, più forti che
potranno sottoscrivere un contratto di licenza a titolo oneroso con gli editori. Insomma, in altre parole possiamo dire che la
riforma potrebbe avere un effetto negativo sul mercato digitale e sull’accesso all’informazione che questi diritti esclusivi
riducono, centralizzando la distribuzione delle notizie. La norma produce anche un impatto delle responsabilità del
provider perché i contenuti che riproducono opere potranno essere ripubblicati solo a seguito della sottoscrizione di un
contratto di licenza d’uso con il titolare dei diritti -> senza contratto può esserci una violazione del copyright.
3.2 IL COORDINAMENTO TRA LA DIRETTIVA COPYRIGHT E IL REGIME SPECIALE DI RESPONSABILITÀ DEL PROVIDER.
L’articolo 15 della nuova Direttiva Copyright ha sollevato numerose perplessità. Il parlamento europeo, nella stesura della
Direttiva Copyright ha deciso di escludere dal regime i collegamenti ipertestuali, per cui quindi continua a valere il criterio
della comunicazione al pubblico nuovo e i cosiddetti “snipet”, ossia gli estratti molto brevi dei contenuti che possono
essere visualizzati per esempio sui motori di ricerca in corrispondenza del risultato. Inoltre, il sistema di nuovi diritti di
esclusiva (art 15 direttiva copyright) non si applica quando i soggetti che utilizzano i contenuti altrui sono degli organismi di
ricerca (come università o enti di ricerca scientifica) oppure possiedono già questi materiali digitalizzati (come le
biblioteche) o si occupano di estrazioni di testi e dati (text and data mining) per analizzarli e generare informazioni o infine
usano i contenuti per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e nei processi di machine learning. L’articolo 17 della Direttiva
Copyright stabilisce che ai fini della Direttiva il prestatore di servizi di condivisioni di contenuti online effettua un atto di
comunicazione pubblica o di messa a disposizione pubblica quando concede l’accesso al pubblico a opere protette da
diritto d’autore.
per poter svolgere queste attività, deve ottenere un’autorizzazione dal titolare dei diritti, stipulando un contratto di licenza
d’uso: se la piattaforma rispetta questa previsione, allora può beneficiare dell’esonero di responsabilità. Di conseguenza, i
provider che svolgono attività di hosting potranno immettere in rete i contenuti memorizzati su richiesta degli utenti, solo
dopo aver concluso un contratto di licenza d’uso se tali contenuti memorizzati sono protetti dalle norme in materia di
diritto di autore.
Nell’Articolo 17 della direttiva di Copyright, per beneficiare dell’esonero, il legislatore europeo ha stabilito che il provider
debba provare che:
a. Di aver cercato, con massimi sforzi, di ottenere un’autorizzazione alla comunicazione al pubblico dei contenuti da
parte del titolare dei diritti di utilizzazione esclusiva, ma non ci sia riuscito: ad esempio perché il titolare dei diritti
di utilizzazione esclusiva non è disposto a stipulare un contratto di licenza d’uso.
b. Di aver compiuto i massimi sforzi per assicurare che non siano stati memorizzati contenuti illeciti che violano i
diritti di utilizzazione esclusiva dell’autore o di un altro titolare; non vengono precisate però né il modo né le
tecniche con cui ciò deve avvenire, quindi il provider può ricorrere anche alla programmazione di algoritmi per
filtrare i contenuti.
c. Di aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto la segnalazione motivata da parte dei titolari dei diritti per
disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione.
Queste tre condizioni devono verificarsi cumulativamente. Il paragrafo 5 dell’articolo 17 specifica che bisogna prendere in
considerazione ovviamente la tipologia, il pubblico e la dimensione del servizio e la disponibilità di strumenti adeguati ad
evitare la liceità dei contenuti e il relativo costo per i prestatori di servizi.
1- LA RESPONSABILITÀ DELLA PIATTAFORMA DI INTERMEDIAZIONE QUANDO PRESTA IL SERVIZIO SOTTOSTANTE
Descriviamo ora la responsabilità della piattaforma di intermediazione quando si ritiene che essa presti il servizio e quindi
per i fatti illeciti che si verificano offline, causati alla condotta di chi materialmente presta il servizio sottostante. Uber può
essere ritenuto civilmente responsabile dei danni derivanti da un incidente stradale causato dal conducente ? ricorrendo ai
criteri indicati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per risolvere il caso UBER-SPAIN la piattaforma può essere
ritenuta responsabile del servizio sottostante nel momento in cui crea una offerta di servizi che rende accessibili attraverso
strumenti informatici ed esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione del servizio sottostante. In
un caso simile quindi la piattaforma risponde anche dei fatti illeciti causati dalla condotta di chi presta materialmente il
servizio sottostante.
L’articolo 2049 che stabiliva che padroni e committenti sono responsabili per i danni arrecati del fatto illecito dei loro
domestici nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Dato che la terminologia è molto arcaica, si è lavorato molto
sull’attualizzazione di queste figure e i rapporti e si è stabilito che per applicare l’articolo 2049 è necessario che vi sia un
rapport di predisposizione tra le due parti che deve però essere descritto verificando la subordinazione dell’uno all’altro
(da interpretare in senso materiale e non giuslavoristico) e l’attività è svolta nell’interesse del responsabile.
nel caso di Uber, tra Uber e il conducente non professionista c’è un rapporto di preposizione, nel senso che il driver non
compie un atto di volontà autonoma nell’esecuzione del servizio di trasporto, ma segue le direttive della piattaforma.
Pertanto, in caso di sinistro stradale, causato dal conducente non professionista, Uber potrebbe essere citata in giudizio
dal danneggiato per un risarcimento.
ILLECITI OFFLINE  Nel caso in cui le piattaforme svolgono solo un’attività di intermediazione, mettendo quindi in contatto
la domanda e l’offerta di un servizio, non sono responsabili nel caso in cui si verifichi un illecito offline; ciononostante
capita però che esse forniscano un servizio di copertura dei rischi come ad esempio Airbnb che presta la “garanzia host” a
coloro che decidono di utilizzare i suoi servizi per locare l’appartamento, offrendo una copertura dei danni in caso di danni
all’immobile causati da un ospite.

5.LA RESPONSABILITÀ DA PRODOTTO DIFETTOSO NELL’ECONOMIA DELLA PIATTAFORMA


5.1 IL RUOLO DELLA PIATTAFORMA DIGITALE.
Le piattaforme digitali che abilitano transazioni tra privati fornendo il servizio di intermediazione intervengono nella catena
di distribuzione dei prodotti. Ci si chiede quindi se le piattaforme, intervenendo nella catena di distribuzione come
intermediari, possano essere equiparate a un distributore e quindi acquisire una responsabilità oggettiva nel caso di difetti
del prodotto messo in circolazione.
Il tema non è stato ancora approfondito degli studiosi e anche nella giurisprudenza europea non è possibile trovare dei
precedenti.
Per capire meglio possiamo prendere come esempio il caso Inman vs. Technicolor USA, deciso in Pennsylvania nel 2011 in
cui il ricorrente aveva agito contro eBay per ottenere un risarcimento del danno causato da alcune valvole termoioniche
acquistate tramite la piattaforma. La Corte non ha accolto la richiesta del ricorrente perché il prodotto difettoso non era
mai stato nella disponibilità di eBay, non era mai passato ad esempio all’interno di un suo magazzino in attesa di essere
consegnato all’acquirente.
Diversamente accadde nel 2019 ad Amazon col caso Oberdorf. Anche qui il ricorrente voleva condannare la piattaforma
per un danno risalito ad un prodotto difettoso. In questo caso però né il ricorrente né Amazon sono stati in grado di
contattare il venditore perché questo aveva usato un nome di fantasia e il suo account era stato cancellato.
Secondo il giudice Amazon, in questo caso, era ritenuto responsabile del danno considerati quattro elementi:
1. La piattaforma era l’unico soggetto della catena di distribuzione del prodotto al quale poteva essere chiesto un
risarcimento;
2. È risultato rilevante il controllo della piattaforma sui propri venditori: è necessaria una supervisione più attenta e
diretta a escludere i prodotti non sicuri.
3. Ha rilevato il ruolo centrale di Amazon nella distribuzione, quindi il fatto di raccogliere le recensioni da parte dei
compratori e di mettere quindi il prodotto recensito negativamente fuori commercio.
4. Amazon avrebbe potuto prevedere i costi di eventuali risarcimenti di danni e di conseguenza decidere di
aumentare il costo dei servizi riservati ai venditori.
APPROFONDIMENTO-> L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA.
Con obsolescenza programmata si intende la tendenza di beni di consumo a divenire obsoleti rapidamente, portando il
loro proprietario a sostituirli anche dopo non molto tempo dall’acquisto. I prodotti possono diventare obsoleti alla fine del
loro ciclo di vita oppure quando vengono adottate specifiche tecniche produttive che hanno l’obiettivo di programmare
l’obsolescenza, di rendere cioè obsolescente il bene prima della fine del suo ciclo di vita. La prima forma di obsolescenza
programmata si registrò nel 1925, quando alcuni produttori si accordarono costituendo un cartello per ridurre il ciclo vitale
delle lampadine da 2500 ore a 1000. Con la diffusione dei software oggi è più semplice programmare l’obsolescenza, non
soltanto distribuendo beni sempre più avanzati ma anche facendo in modo che le più recenti versioni del software
installato rallentino il funzionamento del prodotto, spingendo il consumatore ad acquistarne uno nuovo. In Italia, hanno
avuto grande risonanza mediatica due diversi provvedimenti pronunciati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato nel 2018 contro Apple e Samsung che, con un aggiornamento software su due smartphone avevano provocato
gravi disfunzioni e ridotto le prestazioni. Inoltre, le due società avevano realizzato pratiche scorrette, inducendo i
consumatori a installare gli aggiornamenti su dispositivi non in grado di supportarli. Alle due imprese sono state applicate
delle sanzioni paria 5 milioni di euro a Samsung e 10 a Apple. Il rischio è che esse trovino più vantaggi nel pagare la
sanzione che rinunciare all’obsolescenza programmata dei loro smartphone. In Francia la questione è stata affrontata dal
legislatore nel 2015 con l’articolo 213-4-1 secondo cui la violazione di questa norma causerebbe 2 anni di reclusione e una
pena pecuniaria di 300.000 euro che può anche essere aumentata.
La commissione europea ha manifestato l’intenzione di combattere l’obsolescenza programmata nella Direttiva
2019/771/UE promuovendo l’idea di un’estensione minima per della garanzia per i consumatori di beni, attualmente pari a
due anni, con lo scopo di incentivare i produttori a mettere sul mercato prodotti che durino più a lungo.

Potrebbero piacerti anche