Il pensiero politico dantesco è il frutto di una particolare
parabola evolutiva che trova le sue ramificate radici in una complessa serie di fattori: la vicenda biografica dell’autore, il suo impegno politico nella città natia nella fazione “bianca” dei Guelfi, l’esperienza dolorosissima dell’esilio e i rapporti diretti avuti con diverse corti italiane nel periodo del forzato allontanamento da Firenze. A ciò si aggiungono tutte le speranze (e l’approfondita riflessione storico-sociale precedente) che Dante affida alla fallimentare spedizione di Arrigo VII (1275-1313) del 1311. Possiamo quindi trovare gran parte di queste riflessioni in diverse opere dantesche, tra cui il Convivio, le Epistole (V, VI, VII, XI), il trattato intitolato Monarchia e - ovviamente - la Commedia stessa. Si può osservare, leggendo trasversalmente queste testimonianze, come il centro della riflessione politica dantesca sia la ferma consapevolezza della necessità della divisione tra il potere temporale e il potere spirituale (secondo la cosiddetta “teoria dei due soli”, di matrice ghibellina ma che Dante stesso appoggia nel terzo libro nel Monarchia) e il riconoscimento dell’Impero come istituzione universale; infatti l’imperatore viene considerato da Dante come colui che possiede ogni cosa, essendo di conseguenza libero dalla cupidigia, e che proprio per questo ha la capacità di porsi in maniera neutrale, come giudice, e riportare la pace e la giustizia tra i popoli. In quest’ottica e con una rilettura della Bibbia e dell’Eneide, all’Impero Romano viene data una valenza provvidenziale, teoria che ritroviamo nel Convivio, nella Commedia e che viene sviluppata in maniera approfondita nei primi libri del Monarchia. Dante quindi cerca di allontanarsi dal proprio presente, rifiutato in quanto corrotto, e prende piuttosto ad esempio il passato, sia vicino sia lontano 1, ipotizzando un’epoca felice in cui il potere temporale e quello spirituale siano stati concordi nel guidare le anime al loro duplice destino: la felicità terrena e la salvezza eterna (Purgatorio, XVI, vv. 106-08; Paradiso, VI, vv. 22-27 ecc.). Per questo motivo capiamo perché la Commedia sia costellata da dure reprimenda ai centri di potere temporale italiani, schiavi della sete di potere politico-economico e capaci solo di fomentare la faziosità, l’odio e la violenza interna 2. Quindi, la tematica politica nella Commedia non è affatto secondaria, e viene sviluppata nelle tre cantiche, secondo due principi-guida: uno di ricorrenza strutturale (così che, com’è noto, ogni sesto canto tratta sempre un tema politico) e uno di progressivo ampliamento del punto di vista, da una dimensione cittadina e “municipale” sino alla prospettiva dell’Impero terrestre. Quindi, schematizzando:
Inferno: III Cerchio (Golosi). Incontro con Ciacco e situazione
politica di Firenze (vv. 37-93). Purgatorio: Antipurgatorio, II Balzo (Negligenti, morti per violenza). Incontro con Sordello da Goito e apostrofe all’Italia e a Firenze (vv. 58-151). Paradiso: II cielo, Mercurio (Spiriti operanti per la gloria terrena). Incontro con Giustiniano e situazione dell’Impero (vv. 1-142).. Il primo di questi incontri riguarda la città natia del poeta e la situazione di lotta intestina che si era venuta a creare in Firenze; a parlarne è Ciacco, figura non meglio identificata che profetizzerà gli eventi che accadranno dopo il 1300; Sordello nell’Antipurgatorio sarà da contraltare a Dante per poter presentare la situazione ormai decadente e malata dell’Italia, e non solo di Firenze stessa; infine Giustiniano descriverà al poeta la situazione e la storia dell’Impero con un’ampia digressione sul ruolo e sul significato dell’aquila romana, concludendo però con una forte invettiva contro la situazione e le lotte tra i Guelfi e i Ghibellini, che nuocciono al grande disegno di unità e pace, “punto fisso” della “scienza politica” dantesca.
Il canto VI dell’Inferno si apre allora con la presentazione del
girone dei golosi, il cui custode, di ascendenza virgiliana, è Cerbero; Ciacco, anima dannata che giace in mezzo alle altre 3, è il primo dei trentatré fiorentini che Dante incontra durante il suo viaggio ultramondano e a cui chiede, grazie alla particolare prescienza dei dannati (doti di cui abbiamo spiegazione da Farinata degli Uberti, ai vv. 94-120 del decimo canto dell’Inferno), notizie in merito alla situazione della sua città e del futuro che l’aspetta. Nel colloquio con il poeta, l’anima parla di Firenze e della sua situazione degenerata e perversa tra le fazioni dei guelfi, Bianchi e Neri.
Dante riesce a porre all’anima dannata tre domande a cui
riceverà risposta: fino a quale punto arriveranno le discordie tra le fazioni interne, se esistono ancora cittadini non colpevoli e le ragioni di queste lotte intestine. Ciaccio risponde ai quesiti postigli profetizzando le vicende che accadranno negli anni successivi a Firenze e i motivi di tali discordie; tenendo presente la cronologia dantesca l’incontro nel girone dei golosi avviene l’8 aprile del 1300 e il primo scontro tra le due fazioni avverrà il giorno di calendimaggio del 1300, un mese doto l’incontro tra l’anima e il poeta 4. In solo tre terzine viene così delineata infatti la storia della città di Firenze e l’alternarsi del potere tra la parte Bianca, capeggiata dai Cerchi, e la parte Nera, con a capo i Donati 5; in merito alla seconda domanda ci viene detto che ormai esistono solamente due giusti e inascoltati, identificati dalla critica con Dante stesso e o con Guido Cavalcanti o con Dino Compagni; inoltre il poeta chiede ancora dove potrà trovare le anime di altri fiorentini illustri che hanno vissuto e agito bene per la loro città, come Farinata (Inferno, X), Tegghiano Aldobrandi, Jacopo Rusticucci (Inferno, XVI), Arrigo e Mosca dei Lamberti; Ciaccio, dopo aver risposto anche a quest’ultimo quesito, tace e ritorna tra le altre anime dannate.
Nel sesto canto della seconda cantica, Dante si trova
nell’Antipurgatorio, al secondo balzo (dove ci sono i morti per morte violenta); tra le diverse figure è presente un’anima posta in disparte, solitaria e disdegnosa 6. Questo personaggio è Sordello da Goito (1200/1210-1269), poeta trovatore italiano che dopo aver frequentato alcune corti italiane (Ferrara e Verona) si spostò in Spagna, Portogallo e in Provenza (qui Sordello diventò cavaliere e consigliere prima di Raimondo Berengario V e poi di Carlo I d’Angiò, facendo parte del suo seguito anche a Napoli): egli è insomma un interlocutore adatto per sviluppare, ad un livello più ampio che Ciacco, la problematica politica della Commedia. La scena tuttavia si apre con un accento “privato”: Sordello, riconosciuto Virgilio quale mantovano (Goito è appunto in provincia di Mantova) lo abbraccia fraternamente, senza nemmeno lasciargli il tempo di completare la frase 7. Il gesto - simbolo esplicito, nella visione del mondo di Dante, dei buoni costumi e della moralità civile del tempo antico - scatena prima una celebre invettiva contro l’Italia (vv. 74-126) e poi (ovviamente) contro Firenze (vv. 127-151), che si conferma come l’emblema della corruzione socio-politica del tempo.
Dante sfrutta l’incontro con Sordello per mettere in luce come
l’Italia sia ormai in balia di ogni potere senza che nessuno sia in grado di governarla e di darle una stabilità politica e morale 8, paragonabile quindi ad un cavallo senza più né morso né redini, ormai tornato selvaggio ed indomabile, e quindi ritroso a riconoscere come un cavaliere o un padrone, chiunque esso sia (vv. 87-96). In seguito (vv. 97-105), il poeta profetizza anche che questa mancanza di autorità e di potere dell’imperatore nei confronti della situazione italiana sarà per certo giudicata e condannata da Dio, unendo esplicitamente - ed anche questo è tipico della visione politica dantesca - piano terreno e piano trascendente. Infine, ai vv. 106-126, vengono riesaminate le condizioni difficili e riprovevoli in cui versa l’Italia in questi momenti, lasciata quindi al suo destino senza aiuto alcuno. Ancor più sentita e dolente è però l'apostrofe contro la città natia. Di Firenze vengono condannate ancora una volta la leggerezza, la frivolezza, l’avarizia, l’avidità (come già nel VI canto dell’Inferno); il tono con cui il poeta si rivolge alla sua città passano dallo sdegno e dal rimprovero al sarcasmo tagliente e all’ironia è proporzionale all’amore e all’affetto che prova nei confronti della sua patria 9. Prova ne è l’amara consapevolezza (con una nota di pietosa commiserazione) che chiude l’atto di accusa e il canto stesso: Firenze ormai non è altro che una donna malata che non trova più pace per i suoi dolori e continua a girarsi nel suo letto per cercare una posizione che la faccia soffrire in maniera minore 10. Rispettando la simmetria e la progressione ampliamento di prospettiva, nel sesto canto del Paradiso la tematica politica è affidata all’anima beata di Giustiniano (già citato esplicitamente al v. 89 del sesto canto del Purgatorio), imperatore romano d’Oriente dal 527 al 565. L’incontro è ambientato nel secondo cielo, il cielo di Mercurio, dove sono presenti le anime che si sono attivate per conseguire fama e onori terreni; di Giustiniano vengono ricordate le imprese personali e le più importanti azioni di governo (dalla conversione alla fede alla costituzione del Corpus Iuris Civilis), inserendole nella storia universale e provvidenzialistica dell’Impero terrestre di Roma (ricostruita attraverso l’immagine dell’aquila). Anche in questo caso, la scelta di Dante è funzionale ai suoi intenti 11: ribadire la necessità impellente di superare le divisioni intestine per non ostacolare il disegno “politico” di un Impero terrestre che assicuri pace e armonia. E in tal senso vanno intese, nella seconda parte del canto VI del Paradiso, l’invettiva contro la perversa rivalità che divide guelfi e ghibellini e la menzione (vv. 127-142) di Romeo di Villanova (1170-1250), uno dei più fidati consiglieri del conte provenzale Raimondo Berengario V (1198-1245) e modello dantesco dell’esule per un destino ingiusto 12.
Come si vede, “politica” in Dante è insomma un termine ad
ampio spettro di significati ed interpretazioni, che può riunire molte delle tematiche che stanno a cuore al poeta: la propria storia personale di esule ingiustamente condannato, il rapporto di amore-odio con Firenze, il percorso di redenzione e remissione dei peccati del buon cristiano, la necessità dell’Impero terrestre come anticipazione e prefigurazione della città celeste di Dio.