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PLOTINO

MONDADORI

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g 2002 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
1 edizione 1 Meridiani ottobre 2002

Per questa edizione «1 Classici del pensiero»


g 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
1 edizione «1 Classici del pensiero» ottobre 2008

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SOMMARIO

Cronologia di Plotino
a cura di Giovanni Reale

ENNEADI
Prefazioni di Giovanni Reale
Traduzione di Roberto Radice

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LA BELLEZZA INTELLIGIBILE

1. Dato che, a nostro giudizio, chi si trova nella condizio-


ne di contemplare il mondo intelligibile e di capire la bel-
lezza della vera Intelligenza saprà anche awenturarsi nella
conoscenza del Padre dell'Intelligenza che sta al di sopra di
essa, cerchiamo di vedere e di esporre a noi stessi, per
quanto queste cose si lascino esporre, come awiene la con-
templazione della bellezza dell'Intelligenza e del suo
cosmo. Ammettiamo, se vuoi, che ci siano due blocchi di
pietra uno accanto all'altro, uno di forma irregolare e senza
traccia di lavoro umano e l'altro invece già ridotto dall'arte-
nella forma di un Dio, o di un qualche uomo o di una divi-
na Grazia o Musa, oppure anche di un uomo, ma non di
uno normale, bensì di quello che l'arte ha prodotto radu-
nando tutte le parti belle. Ebbene, quella pietra che è stata
trasformata dall'arte in una bella forma, apparirà tale non
in quanto pietra - perché altrimenti anche l'altra pietra,
<quella grezza>, lo sarebbe allo stesso titolo-, ma in ragio-
ne della forma che l'arte vi ha apportato. Senz'altro, questa
forma non era una proprietà della materia, ma esisteva in
chi la pensava ancor prima di finire nella pietra: era, insom-
ma, nell'artista non in quanto dotato di occhi o di mani, ma
in quanto partecipe dell'arte. Dunque, tale bellezza, in una
forma decisamente superiore, stava nell'arte. Non fu la bel-
lezza dell'arte a finire nella pietra, perché quella permane
immobile, ma un'altra di minor pregio e derivata da essa, la
quale, una volta immessa nella pietra, non preservò la sua
purezza, né vi rimase come avrebbe voluto, ma solo per
quel tanto che la pietra si arrendeva ali' arte. Se, poi, l'arte
produce in conformità dei caratteri che ha e di ciò che è,
costituendo il bello in coerenza con la forma razionale delle
sue produzioni, essa stessa è bella in un modo ancor più
vero e sublime, perché ha la bellezza dell'arte, che di per sé

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Enneade V, 8 725

è superiore e migliore di quella esteriore. Tuttavia, questa


medesima bellezza man mano si protende verso la materia,
perde potenza rispetto a quando era una in se stessa. Del
resto, tutto ciò che si dissipa si allontana dalla sua condizio-
ne originaria, e se è forza perde in forza, se è calore in calo-
re, e, in generale, se è potenza perde in potenza, se è bellez-
za in bellezza. Per questo, ciò che crea, originariamente,
deve essere di per sé migliore della sua creatura. Non è
certo la non-musica a formare il musicista, ma la musica, te-
nendo conto che quella sensibile è prodotta da una che la
supera in valore. Se, poi, qualcuno non apprezza le arti per-
ché nelle loro opere imitano la natura, bisogna in primo
luogo riconoscere che anche la natura a sua volta imita
qualcos'altro. In secondo luogo, si deve capire che le arti
non si limitano a imitare la realtà visibile, ma si elevano alle
ragioni formali dalle quali proviene la natura, molti partico-
lari producendoli da sé e colmando con adeguate aggiunte
le eventuali mancanze, grazie alla bellezza che posseggono.
Del resto, anche Fidia scolpì il suo Zeus senza rifarsi ad
alcun modello sensibile, ma cogliendolo come egli sarebbe
stato se, di sua iniziativa, si fosse rivelato ad occhi umani.
2. Lasciamo le arti e consideriamo le opere che, secondo
l'opinione generale, l'arte imita, ossia le realtà belle per na-
tura e riconosciute tali, ossia gli esseri dotati di ragione e di
vita e anche tutti gli esseri privi di ragione, fra i quali so-
prattutto quelli ben riusciti, perché chi li ha realizzati e co-
struiti è riuscito a piegare la materia imponendole la forma
che voleva. In questo genere di realtà in che cosa consiste il
bello? Non è certo il sangue o il mestruo. Ma neanche il
loro colore - che pure non ha nulla a che vedere con il san-
gue e con il mestruo-, né l'aspetto - che peraltro è inconsi-
stente o sformato o proprio di ciò che racchiude qualcosa
di semplice - <si può dire che abbiano rapporti con la bel-
lezza>. E allora, da dove veniva la luminosa bellezza di
Elena oggetto di tante contese, o di tutte le donne la cui av-
venenza uguagliava quella di Afrodite? Da dove deriva la
bellezza della stessa Afrodite o dell'uomo del tutto bello o
di un Dio, sia di quelli che si fanno visibili, sia di quelli che
non si rivelano pur essendo di per sé dotati di una bellezza

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che si può vedere? Non si tratta forse, in ogni caso, della


forma che passa dal creatore alla creatura, quella stessa che
nelle arti si diceva passare dalle arti alle loro produzioni? E
che? Sarà bello il prodotto e la ragione formale che informa
la materia, e invece quella che non è nella materia, ma nel-
1' artefice, non sarà bella, pur essendo originaria e immate-
riale? Se fosse il pezzo di materia in quanto tale a essere
bello, ne seguirebbe necessariamente che la ragione formale
responsabile della produzione, che non è certo un pezzo di
materia, non è bella. Se invece la stessa forma, sia quando
inerisca a un piccolo oggetto sia quando inerisca a uno
grande, riesce con la sua forza a commuovere e a piegare
l'animo di chi la vede, allora <vuol dire che> la bellezza
non può essere attribuita alle dimensioni della massa. Prova
ne è il fatto che noi non cogliamo la bellezza finché questa
resta fuori di noi; ma non appena si trova in noi, ecco che ci
affascina. Essa penetra attraverso gli occhi solo come
forma: altrimenti come potrebbe passare da una fessura
così piccola? Peraltro, vi fa ingresso anche la grandezza, ma
non il grande che è nel corpo, bensì quello che è diventato
forma. La causa creatrice, potrebbe essere bella, brutta o
indifferente. Ora, se fosse brutta, non darebbe certo luogo
al suo contrario, e se fosse indifferente, perché darebbe
luogo al bello piuttosto che al brutto? Indubbiamente,
anche la natura, autrice di siffatte meraviglie, è bella ed era
tale ancor prima <che si mettesse a creare>. E noi che non
siamo abituati a scrutare nel profondo, ci mettiamo alla ri-
cerca dell'apparenza esteriore, trascurando il fatto che ciò
che determina il movimento è all'interno: è come se qualcu-
no volesse guardare la sua immagine, ignorando la sua pro-
venienza.L'oggetto della nostra ricerca sta dunque in altro,
e il bello non si trova certo nella grandezza: lo dimostra la
forma di bellezza della scienza, delle nobili imprese e, in ge-
nerale, delle Anime. Una bellezza senz'altro migliore di
quella insita nella grandezza si ha ogni qual volta guardi in
qualcuno la saggezza e ne resti affascinato, non perché ne
ammiri il volto - quell'uomo potrebbe anche essere brutto!
-, ma perché, prescindendo da ogni figura, punti sulla sua
bellezza interiore. Che se, poi, la bellezza di costui ancora

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non riuscisse a commuoverti, fino a costringerti ad ammet-


tere che è bello, allora, neppure quando scruterai nel tuo
intimo potrai avvertire la tua bellezza; e la tua ricerca del
bello, in tali condizioni, sarà vana perché avverrà in manie-
ra non pura e brutta. Certo, discorsi su queste cose non
sono per tutti; ma se mai ti è capitato di vederti bello, allora
non scordartene.
3. La ragione formale della bellezza si trova dunque
anche in natura, e questa è il modello del bello corporeo;
quella poi che si trova nell'Anima è ancor superiore alla
bellezza della natura, perché ne sta all'origine. Ancor più
evidente è la ragione della bellezza che si trova in un'Anima
saggia e in via di miglioramento. Questa dà armonia all'A-
nima, comunicandole una luce che viene da un'altra ancora
superiore, quella del bello originario; e finché questa per-
mane nell'Anima, induce a pensare a quale sia la bellezza
che viene prima, che non è più soggetta al divenire, né è
compresa in altro, ma solo in se stessa. Per questo essa non
è neppure una ragione formale, ma il creatore della ragione
formale primigenia della bellezza, inerente alla materia del-
l'Anima. E questa è l'Intelligenza, l'Intelligenza che è eter-
na, e non è tale solo in qualche occasione, dato che non
può essere estranea a se stessa. Ma allora come potremmo
rappresentarcela, se ogni possibile immagine si rifarebbe
comunque a realtà di natura inferiore? In verità, l'immagi-
ne dovrebbe provenire direttamente dall'Intelligenza, non
nella forma di immagine, ma come nella forma di un cam-
pione d'oro prelevato dall'insieme dell'oro: in questo caso,
se il campione scelto non desse garanzie di purezza, an-
drebbe purificato, o con un adeguato procedimento oppu-
re dimostrando esplicitamente come l'oro non è tutto que-
sto, ma qui c'è solo quello che è inerente alla sua massa.
Così, anche qui da noi si deve fare opera di purificazione a
partire dalla nostra Intelligenza, o, se si preferisce, dagli dèi
e dai caratteri dell'Intelligenza che è in loro. Tutti gli dèi
sono degni di venerazione, e belli di una «bellezza straordi-
naria». Ma che cosa li fa essere tali? L'Intelligenza, la quale,
nel loro caso, è molto più attiva, fino al punto da poter es-
sere vista. Indubbiamente, la bellezza degli dèi non dipen-

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de dai loro corpi, perché anche quelli che si trovano ad


avere un corpo, non devono la loro divinità a questo, ma
sono dèi essi pure grazie all'Intelligenza, e belli in virtù
della natura divina. Gli dèi, infatti, non sono talora saggi e
talora no, ma la loro saggezza è sempre in una Intelligenza
imperturbabile, salda e incontaminata, sicché sono anche
onniscienti, non delle vicende umane, ma delle loro cose di.
vine e di quante l'Intelligenza può coglierne. Nella loro
beata pace gli dèi celesti non smettono di contemplare le
realtà del cielo superiore, come da lontano, sollevando a
esso la testa. Invece, gli dèi che stanno nel cielo superiore, e
che trovano qui il loro posto e la loro dimora, ne occupano
ogni luogo, perché quassù tutto è cielo: la terra, il mare, gli
animali, le piante e gli uomini; insomma, ogni essere che
appartenga a questo cielo superiore è di natura celeste. Eb-
bene, i suoi dèi non provano disprezzo né per gli uomini né
per le altre realtà di lassù, proprio perché lì si trovano, e
percorrono l'intero loro mondo in ogni suo angolo in per-
fetta quiete.
4. Lassù c'è «una vita beata», mentre la verità fa <per
quegli esseri divini> da madre, nutrice, sostanza e alimento.
Gli dèi, inoltre, vedono ogni cosa, «non però quelle con-
nesse con il divenire», ma quelle a cui appartiene l'essere, e
guardano se stessi compresi nelle altre realtà, perché qui
tutto è trasparente, né vi è ombra di ostacolo, ma ogni esse-
re si rivela totalmente all'altro nella sua interiorità, come la
luce è manifesta alla luce. Ognuno ha tutte le cose dentro
di sé, e vede tutte le cose riflesse nell'altro, al punto che
tutto è dovunque, tutto è tutto, e ciascuno è tutto in un in-
commensurabile fulgore. Non c'è realtà che non sia grande,
perché anche il piccolo lo è. Il Sole lassù è tutti gli astri, e
ciascuno è il Sole insieme a tutti gli altri. In ogni essere pre-
vale un certo carattere, ma pure tutti gli altri si manifesta-
no. Anche il movimento è puro, perché la sua causa non in-
terferisce sulla sua andatura per il fatto di differenziarsi da
esso; e così pure la quiete non si altera, perché non contie-
ne ciò che è instabile; e il bello è bello, perché non si fissa
nel non-bello. È come se ciascuno si muovesse su una spe-
cie di terra che non è qualcosa di diverso da sé, per cui l'es-

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sere quello che è e l'essere in quel dato luogo coincidono,


quasi che il luogo d'origine seguisse chi va verso l'alto nella
sua corsa, in modo che egli non si differenzia dal suo luogo.
Il suo sostrato, infatti, è Intelligenza e lui stesso è Intel-
ligenza. È come se qualcuno, riferendosi a questo nostro
cielo visibile e luminoso, ritenesse che quella luce che pro-
viene da esso sia in grado di generare astri. Quaggiù, inve-
ce, una parte non potrebbe generarne un'altra qualsiasi, e
ciascuna è solo un frammento isolato, mentre lassù ognuna
deriva sempre dal complesso del cielo ed è a un tempo cia-
scuna e tutto. Certo, ha l'aspetto di una parte, ma chi guar-
da con occhio penetrante vede l'intero, come se avesse una
vista tanto acuta quanto quella di Linceo, il quale, stando a
quello che si dice, vedeva fin dentro la terra: un mito che
indubbiamente alludeva agli occhi di lassù. Lassù, inoltre,
non si fa fatica a contemplare, né per questo c'è saturazione
che induca il contemplante a smettere di contemplare; non
c'è neanche un vuoto, riempito il quale uno abbia raggiun-
to il suo fine; neanche c'è differenza fra le cose, di modo
che i caratteri dell'una non piacciano all'altra. Là tutto non
ha fine, eppure non si è mai sazi, perché la pienezza non su-
scita disgusto per ciò che l'ha causata. Così, chi vede ve-
drebbe sempre di più, e in questa infinita contemplazione
di sé e delle realtà persegue la sua propria natura. Ora, se la
vita quando è pura non stanca mai nessuno, ciò che ha una
vita eccellente come potrebbe stancarsi? Tale vita è sapien-
za: un genere di sapienza che non si acquista a forza di ra-
gionamenti, ma che è sempre completa e senza lacune che
richiedano una qualche indagine. È la prima sapienza e non
deriva a sua volta da un'altra. È sapienza nella sua stessa so-
stanza, e quindi non è prima quello che è e in un secondo
tempo sapiente. Per tale motivo non ne esiste un'altra più
grande e la scienza in se stessa, in un'unica figurazione, qui
sta seduta presso all'Intelligenza, come nel noto esempio
della Giustizia e di Zeus. Tutte queste cose lassù sono come
immagini che si vedono di per sé, così da essere <<Visioni
per spettatori di sublime felicità». A voler considerare la
grandezza e la forza di questa sapienza, si rileva che essa
mantiene in sé e crea tutti gli esseri, i quali dipendono da

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lei, anzi si identificano con lei, perché ambedue sono nati


insieme, sicché sono due realtà in una: sostanza e sapienza
di lassù. Noi, però, non giungiamo a questi livelli di com-
prensione perché abbiamo sempre pensato che le scienze
consistono in teoremi e in un insieme di tesi, anche se ciò
non vale neppure per le scienze di questo mondo. E se poi,
a tal punto, qualcuno volesse sollevare dei problemi, lascia-
moli pure cadere, almeno per il momento, e invece trattia-
mo della scienza di lassù, quella che anche Platone ha in
mente, quando nega «che sia altra in altro», affidando poi a
noi il compito di ricercarne e di scoprirne la natura, per es-
sere degni del nome <di platonici> di cui ci fregiamo. Pro-
prio da qui è forse meglio prendere le mosse.
5. Tutte le cose che si generano, siano esse naturali o
prodotto della tecnica, sono opera di una certa sapienza,
sicché la sapienza dovunque è a capo della generazione.
Ma se un uomo fosse capace di creare in conformità della
stessa sapienza, anche le arti sarebbero tali e quali è la sa-
pienza. L'artista, però, fa ritorno alla sapienza della natura,
in conformità alla quale è stato generato: una sapienza che
non si riduce a un insieme di teoremi, ma che è un tutto
organico non derivato dalla unificazione di una moltepli-
cità, ma piuttosto dal disciogliersi nel molteplice a partire
dall'uno. E se, poi, si riconoscerà questa sapienza come
prima, a tal punto ci si può anche arrestare, perché essa ef-
fettivamente non deriva da un principio ulteriore, né risie-
de in altro. Se, invece, la ragione formale è inerente alla na-
tura, diranno che il principio di questa è proprio la natura:
ma allora - chiederemo noi - da dove essa la prenderà?
Forse da quell'altra natura <superiore>? Ora, se la attinge
da se stessa, per noi non è più necessario proseguire oltre;
ma se si ascende all'Intelligenza, allora, a tal punto, si deve
vedere se essa ha generato la Sapienza. E se sì, in quale
modo? Nel caso l'abbia generata da se stessa, allora non
potrebbe distinguersi dalla sapienza. Così, la vera sapienza
è sostanza e la vera sostanza è sapienza, e il valore della
prima sta nella seconda; e proprio per il fatto di venire
dalla sapienza la sostanza è autentica sostanza. Pertanto,
anche tutte le sostanze che non hanno sapienza, per il fatto

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stesso di essere divenute tali a opera di una qualche forma


di sapienza, senza per altro averla in sé, non sono vere so-
stanze. Non bisogna, pertanto, credere che lassù gli dèi e i
veri beati vedano delle proposizioni, ma tutte le cose di cui
abbiamo parlato in quel mondo equivalgono a belle figure
_ come qualcuno si immaginò che fossero così si trovano
pure nell'Anima del sapiente -, e non a figure disegnate,
ma veramente esistenti. E con questo si spiega come mai,
per gli antichi, anche le Idee sono esseri e sostanze.
6. A mio giudizio, anche i saggi d'Egitto giunsero a que-
ste conclusioni, o per via di una scienza precisa o per via in-
tuitiva. Infatti, quando volevano dare dimostrazioni sulla
base della sapienza, non si servivano dell'incisione di lettere
che tengono dietro alle parole e alle proposizioni e che imi-
tano certe voci e la pronuncia di frasi, ma disegnavano figu-
re e scolpivano nei templi una singola figura per ciascun
oggetto, per dimostrare che lassù il pensiero non ha biso-
gno di procedimenti, dato che ogni singola figura è scienza
e sapienza, e anche il contenuto che sottende; in tal senso è
qualcosa di unitario, e non una conoscenza discorsiva e un
atto di volontà. In un secondo tempo, però, da questa
forma di conoscenza così concisa, l'immagine si sviluppò in
altro e si esplicò in procedimenti, mettendo in luce i motivi
per cui le cose sono come sono. In questo senso, siccome
quello che viene a crearsi è di straordinaria bellezza, chi an-
cora sa provare meraviglia non può fare a meno di stupirsi,
confessando di ammirare la sapienza e la maniera in cui
essa, pur non avendo le cause della sostanza che la determi-
nano nel modo in cui è, le sa partecipare alle creature di cui
è punto di riferimento. Dunque, il bello che mediante la ri-
cerca poco o nulla ha rivelato circa le ragioni del suo essere,
già era così com'è, prima di ogni nostra indagine o argo-
mentazione. Ma prendiamo a esporre quest'unico caso si-
gnificativo, che va bene anche per tutti gli altri.
7. Siccome siamo d'accordo nell'ammettere che questo
universo deve la sua forma e il suo essere ad altro, dobbia-
mo forse convincerci che il creatore abbia nella sua mente
P.ensato alla terra con la necessità che essa occupi una posi-
zione intermedia, e poi anche all'acqua che sta sulla terra e

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a tutti gli altri esseri, fino a giungere, in quest'ordine, al


cielo? Inoltre, dobbiamo forse credere che abbia pensato a
tutti i viventi nelle loro forme specifiche - quelle che anco-
ra oggi rivelano, sia per quanto concerne i loro organi inter-
ni sia per l'aspetto esteriore - e poi, dopo avere tutto ben
disposto dentro di sé, abbia, sulla base di questo ordine, in-
trapreso a realizzare l'opera? No, questo progetto non può
esistere, perché da dove il creatore l'avrebbe tratto, dato
che non l'aveva mai visto prima? E se pure l'avesse preso
da qualcun altro, poi non avrebbe saputo realizzarlo, come
fanno ancor oggi i nostri artisti che si servono delle mani e
degli strumenti: in effetti, mani e piedi furono prodotti in
seguito. Non resta che collocare tutte queste realtà in qual-
cos'altro. Tuttavia, dato che nella sfera dell'essere ogni vici-
nanza non comporta alcun intermediario, è possibile che
d'improvviso compaiano un'immagine e un'effigie di quel
mondo, o di per sé o per la mediazione dell'Anima - e a tal
punto della trattazione non fa alcuna differenza - o di
un'Anima individuale. Pertanto, tutte le cose del nostro
mondo vengono da lassù, e là si trovano in una forma mi-
gliore, per il fatto che solo queste nostre realtà, e non quelle
di lassù, si trovano in una condizione di mescolanza, anche
se qui da un capo all'altro sono governate dalle forme: in
primo luogo la materia è dominata dalle forme degli ele-
menti, poi su queste forme se ne depositano altre e poi altre
ancora, sicché alla fine non è facile trovare la materia co-
perta com'è da tante forme. D'altra parte, anch'essa è una
certa qual forma estrema, e di conseguenza l'intero univer-
so è forma, anzi, è tutte le forme: e del resto, il suo modello
era una forma. Il creatore creò nel silenzio, perché tutto ciò
che crea è sostanza e forma, e per tal motivo anche la crea-
zione avviene senza fatica: e fu creazione del tutto, perché
chi creava era tutto. E, dunque, non trovava ostacolo di
sorta, e anche ora ha saldo dominio, per quanto le realtà si
ostacolino vicendevolmente; tuttavia, nonostante ciò, nep-
pure oggi ostacolano la creazione perché essa permane
come tutto. A mio giudizio, se noi fossimo realtà archetipe,
sostanza e insieme forma, e se la nostra sostanza quaggiù
fosse creatrice. anche la nostra attività creativa dominereb-

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Enneade V, 8 733

be senza alcuna fatica. Ma sebbene l'uomo sappia produrre


una forma di sé, egli ha modificato il suo vero essere, per-
ché, divenendo uomo, ora ha rinunciato a essere tutto. Ma
se cessa d'essere tale, come dice <Platone> «vola in alto e
governa tutto il mo~d~», e per il f~tto. d'essere dive~tato
parte integrante dell universo, crea 1 universo. Ma veniamo
~punto che ci stava a cuore: tu hai la possibilità di spiegare
la ragione per cui la terra si trova in mezzo ed è sferica, e
perché l'eclittica ha questa data forma. Ma lassù questo non
si è deciso, costretti da una qualche necessità; invece, è per-
ché quel mondo ,era così fatto, che anche questo mondo ri-
sulta ben fatto. E come se in un sillogismo causale la con-
clusione precedesse e non seguisse le premesse. Quel
mondo non è conseguenza di qualcosa o risultato di un di-
segno, ma esiste prima dell'uno e dell'altro. Tutto ciò, in ve-
rità, viene dopo: l'argomentazione, la dimostrazione e la
credenza. È perché c'è un principio che tutte le realtà deri-
vano da esso così come sono. Per questo è tanto esatta l' af-
fermazione «non si cerchino le cause del principio», e
ancor più lo è quando si tratti di un principio di tale perfe-
zione da coincidere con il fine: quel principio che è anche
fine, di per sé equivale all'universo intero e non ha bisogno
di nulla.
8. Chi non dirà bello ciò che è originariamente bello,
tutto intero e completamente bello in ogni sua parte, così
da non lasciare neppure un suo frammento privo di bellez-
za? Indubbiamente, non può dirsi bello ciò che di per sé
non è il tutto, ma del tutto possiede solo una parte o nem-
meno quella. E se non è bello quell'essere, cos'altro potreb-
be esserlo? Ciò che viene prima non vuole nemmeno essere
bello. Solo ciò che originariamente è destinato a essere
visto per il fatto che è forma e visione dell'Intelligenza, que-
sto è anche ammirevole a vedersi. Anche Platone, volendo
esprimere ciò con un'immagine che fosse più chiara nel no-
stro linguaggio, ritrae il Demiurgo nell'atto di approvare
l'opera conclusa, con ciò intendendo additare all'ammira-
zione la bellezza del modello e dell'idea.Quando qualcuno
resta affascinato da un oggetto che è foggiato a imitazione
di un altro, riversa la sua ammirazione su quello che è servi-

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734 Enneade V

to da esemplare. Se, poi, non è ben consapevole di ciò che


gli capita, nessuno stupore: anche gli innamorati e, in gene-
rale, gli uomini sensibili alla bellezza del nostro mondo ,
non sanno che ciò è dovuto a quell'altra bellezza che ne è la
causa. Il fatto che Platone facesse riferimento proprio al
modello con le parole «se ne compiacque», è puntualmente
dimostrato dalle affermazioni che seguono, che hanno que-
sto tenore: «se ne compiacque e pensò di renderlo ancora
più simile all'esemplare». Tale espressione rivela di quale
bellezza fosse il modello, col riconoscere che anche il suo
prodotto, che pure ne è solo una copia, è bello. E se l' esem-
plare non fosse superlativamente bello, di una «bellezza
straordinaria», che cosa ci sarebbe di meglio di questo
cosmo visibile? Pertanto, sbagliano quelli che lo disprezza-
no, a meno che non lo sviliscano per il fatto che non è il
mondo di lassù.
9. Afferriamo col pensiero questo mondo in cui ogni
parte resta quale è senza confondersi con le altre, propo-
nendoci di cogliere, per quanto ci riesce, «tutte le cose in-
sieme» come unità, cosicché, in presenza di una rappresen-
tazione di una sua qualsiasi cosa - per esempio, della sfera
del cielo esterno -, consegua in diretta connessione con
essa anche la rappresentazione del Sole e parimenti degli
altri astri, e si colgano pure la terra e il mare, nonché tutte
le forme viventi come in una sfera trasparente che lasci ve-
dere in azione ogni cosa che contiene. Ci sia dunque nell'A-
nima la rappresentazione luminosa di una sfera che rac-
chiude tutte le realtà immobili o mobili, o talora in uno
stato talora nell'altro. Ora, senza perdere questa immagine,
rappresentane un'altra liberandoti della massa; liberati al-
tresì dei luoghi e della rappresentazione della materia che
hai in te e, a tale scopo, non cercare <di raffigurarti la
sfera>, prendendone un'altra più piccola quanto a massa,
ma chiamando il Dio creatore dell'immagine che possiedi, e
supplicandolo di intervenire. Venga, questo Dio che è uno
e tutti, con l'intero suo mondo composto da ogni Dio che
ha in sé, dove ciascuno è tutti gli altri raccolti in unità; inve-
ro sono diversi, per via delle loro facoltà, ma nello stesso
tempo tutti sono uno per via di quell'unica potenza molte-

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Enneade V, 8 735

plice. Meglio sarebbe dire di quel Dio che è «uno-tutti»,


perché egli non si disperde se pure tutti gli altri si genera-
no. In verità, questi dèi si trovano insieme eppure ciascuno
è per sé, essendo in un mondo senza dimensioni, privi di
ogni forma sensibile: in caso contrario, uno sarebbe in un
posto e un altro in un altro e nessuno sarebbe un tutto in sé
concluso. Inoltre, nessuno possiede parti diverse che siano
sue o di altri, e neppure è simile a una potenza frantumata,
e fatta in maniera tale da essere misurata in ragione delle
sue parti. Il tutto è dunque una potenza universale che
tende all'infinito, dotata di un potere infinito, ed è talmente
esteso che anche le sue parti sono infinite. Del resto, quale
posto potresti nominare dove lui non sia ancora
arrivato? Anche questo cielo è grande, e altrettanto lo sono
tutte le forze che racchiude, ma lo sarebbe ancor più, addi-
rittura in misura indicibile, se non contenesse alcuna poten-
za corporea con la sua esiguità. Certo uno definirebbe
grandi le potenze del fuoco e degli altri corpi; ma è solo per
ignoranza dell'autentica potenza che si possono raffigurare
come un ardere e un distruggere, un consumare e un con-
tribuire alla nascita dei viventi. In verità, se queste forze
hanno il potere di distruggere è perché sono distruttibili, e
se contribuiscono alla generazione è perché sono a loro
volta generate; le potenze di lassù, invece, hanno solo l' es-
sere, e solo il bello è essere. Infatti, che cosa sarebbe il bello
senza l'essere? E che cosa sarebbe la sostanza senza il
bello? Al venir meno del bello, viene meno anche la sostan-
za, e appunto per questo motivo l'essere è amabile, perché
si identifica col bello, e così il bello è desiderabile perché
non è diverso dall'essere. Che bisogno c'è, allora, di cercare
quale dei due ha generato l'altro, se li accomuna una sola
natura? È piuttosto questo essere mendace del mondo ad
aver bisogno di un'immagine di bellezza che non gli appar-
tiene, per apparire bello e, in generale, per essere; difatti
esso è nella misura in cui partecipa della bellezza in funzio-
ne della forma, e quanto più ne ha ottenuta, tanto più è
perfetto: insomma, la sostanza cresce in proporzione della
bellezza.
10. Per questo motivo anche Zeus, per quanto sia il più

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venerabile degli dèi, di cui è guida, «apre la processione»


di coloro che vanno alla contemplazione di quella bellezza;
«dopo di lui vengono gli altri dèi e i dèmoni» e le Anime
che sanno reggere una tale visione. <L'intelligibile> si ma-
nifesta da un luogo invisibile e sorge lassù, sopra di loro,
inondando tutte le cose dei suoi raggi e colpendo quelli
che stanno più in basso, i quali sono costretti a distogliere
lo sguardo per non poterne sopportare la luce, come awie-
ne col Sole. Alcuni, però, reggono <quella luce> e guarda-
no, altri, al contrario, ne restano tanto più atterriti quanto
più ne sono lontani. Invece, quelli che hanno la capacità di
vedere guardano tutti verso l'Intelligenza e verso il suo
mondo. Tuttavia, non ognuno di loro ne trae sempre la
medesima visione, ma uno fissando lo sguardo vede brilla-
re la sorgente e la natura della giustizia; un altro si riempie
della vista della temperanza, ma non quella temperanza
che gli uomini hanno presso di loro, ammesso pure che
l'abbiano: questa, invero, non è che una copia approssima-
tiva di quella. L'Intelligenza scorre sul tutto, per così dire
in tutta la sua estensione e alla fine si dà a vedere a coloro
che già hanno goduto molte visioni splendenti, cioè agli
dèi uno per uno e nel loro insieme, alle Anime capaci di
vedere ogni cosa di lassù e che, derivando dal tutto, tutto
sanno abbracciare da un capo all'altro. In verità, esse si
trovano lassù per quanto la loro natura lo permette, ma tal-
volta vi si trovano completamente, quando non siano stati
divisi. Zeus, dunque, contempla tutte queste realtà, e se
qualcuno di noi condivide il suo amore, alla fine, vede la
bellezza universale che sovrasta ogni altro essere, avendo
parte della bellezza di lassù. Questa illumina ogni cosa e
inonda di luce coloro che si trovano in quei luoghi, col ri-
sultato che loro stessi divengono belli: capita come a quegli
uomini che, salendo ad altezze vertiginose dove la terra as-
sume un colore dorato, si saturano di quel colore, divenen-
do simili al luogo che percorrono. Lassù si mostra il colore
della bellezza, anzi ogni colore è bello fin dal profondo,
perché la bellezza non è qualcosa di diverso, come una
specie di efflorescenza. Coloro che non riescono a raggiun-
gere una visione universale riservano la loro fiducia solo a

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Enneade V, 8 737

ciò che superficialmente li tocca; invece, coloro che sono,


oserei dire, del tutto ebbri e colmi di nettare, non sono dei
semplici spettatori, perché la bellezza ha invaso tutta la
loro Anima. Infatti, non ci sono più un soggetto e un og-
getto della visione, l'uno esterno all'altro, ma chi guarda
con occhio penetrante porta in se stesso il suo oggetto e,
pur avendo in sé molte cose, non si rende conto di posse-
derle e le considera come esterne, appunto perché le guar-
da come oggetti della visione, e perché vuole essere lui a
guardarle. Ora, tutto ciò che si vede come oggetto, è colto
come realtà esterna. A questo punto, va riportato in noi
stessi quell'oggetto che si guarda e va visto in forma di
unità, identico a noi stessi; è come se uno, ispirato dal Dio
o posseduto da Apollo o da una Musa, riproducesse in sé
la visione del Dio, sempre che abbia la forza di contempla-
re la divinità dentro di sé.
11. Ma se uno di noi, incapace di autocontemplazione e
posseduto da quel Dio, proiettasse all'esterno la cosa vedu-
ta per poterla guardare, con ciò proietterebbe anche se
stesso e finirebbe col rimirare la propria immagine resa
bella. Poi, però, se si spogliasse di tale immagine, nonostan-
te la bellezza di essa, giunto a essere un'unità in se stesso,
senza più divisioni, sarebbe ormai un uno-tutto alla presen-
za silenziosa di quel Dio di cui condivide la compagnia, per
quanto può o per quanto vuole. E se anche torna a sdop-
piarsi, purché rimanga puro resta ancora al seguito di quel
Dio, e così, nel modo che si è detto, può ancora farsi a lui
presente, non appena di nuovo si converte a lui. Nel con-
vertirsi ottiene questo vantaggio: all'inizio, finché è nell'al-
terità, coglie se stesso, ma poi, tornando precipitosamente
in sé, possiede il tutto; a tal punto, nel timore di differen-
ziarsi, si spoglia della sensazione e lassù torna a essere uno.
Se, però, lo coglie il desiderio di vedere come un essere di-
verso, si rende estraneo. Colui che apprende e si trova sotto
la spinta del Dio, seguendo le ricerche, deve farsi «una co-
noscenza precisa» del Dio e del luogo in cui entrerà; in tal
modo, una volta che ha compreso per via di fede a quale
straordinario tesoro ha avuto accesso, deve del tutto dedi-
carsi al proprio intimo e trasformarsi da veggente in visione

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di un altro, rilucendo dei pensieri che vengono da lassù. Ma


come può essere nel bello, se neppure lo vede? Se lo guar-
da come qualcosa di diverso, allora non è ancora nel bello,
e invece vi sarà in sommo grado se lui stesso diviene bello.
Se la vista implica un oggetto esterno, allora non c'è posto
per essa, a meno che non comporti un'identità con l'ogget-
to veduto: così è, per esempio, nel caso della coscienza e
della percezione, dove bisogna badare a non distaccarsi da
se stessi per volere potenziare la propria percezione. Biso-
gna anche tenere conto del fatto che le sensazioni dei mali
tanto più sono impressionanti quanto meno favoriscono le
conoscenze, che anzi sono respinte dai loro urti: così un
malanno ci crea turbamento, e invece la presenza di una se-
rena salute ci farebbe conoscere più chiaramente, perché ci
è vicina come una di famiglia e fa tutt'uno con noi. Al con-
trario, la malattia non ci è per nulla familiare e anzi è estra-
nea, e così risalta chiaramente in ragione della sua manife-
sta estraneità a noi stessi. Ma anche dei nostri caratteri non
abbiamo sensazione: tuttavia, è proprio in questo stato che
noi raggiungiamo la massima conoscenza di noi stessi, per-
ché qui riusciamo a portare a unità noi e la conoscenza che
abbiamo di noi. Pertanto, anche lassù, quando raggiungia-
mo il vertice della conoscenza secondo l'Intelligenza, abbia-
mo l'impressione di non conoscere, perché ci aspettiamo
un'affezione sensibile, la quale però riferisce di non aver
scorto nulla: essa, del resto, non coglie, né avrebbe la capa-
cità di cogliere cose di tal genere. La parte che dubita è
dunque la sensazione; ma ben diverso è colui che vede, il
quale, se dovesse dubitare, non dovrebbe neppure credere
nella propria esistenza: infatti, estraniandosi da sé, non po-
trebbe osservarsi con gli occhi del corpo alla stregua di un
oggetto sensibile.
12. Abbiamo precisato come tutto questo si possa fare
secondo l'alterità o secondo l'identità. Ma colui che vede
come altro o come identico, che cosa dice? Dice di aver
visto un Dio nei travagli del parto di una bella creatura, un
Dio che in sé ha generato tutte le cose, e in sé ha sopporta-
to senza dolore il suo travaglio: si rallegra infatti di quelli
che ha generato e prova affetto per i suoi figli tanto da trat-

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tenerli tutti in sé, fiero del proprio e del loro splendore. I


figli belli, anzi i più belli, rimasero dentro il Dio: uno, però,
lo Zeus fanciullo, si rivelò all'esterno. Prendendo le mosse
da lui, benché ultimogenito, è possibile vedere, come per
riflesso, la grandezza di quel padre e dei fratelli che sono ri-
masti presso il padre. Egli dice poi di non essersi allontana-
to senza motivo dal genitore, ma perché bisognava che ci
fosse un cosmo separato da lui e che fosse bello, un'imma-
gine del bello: non è lecito, infatti, che manchi un'immagi-
ne bella della Bellezza e della sostanza.Questa immagine è
imitazione perfetta del modello e, in quanto tale, ha la vita
e la natura della sostanza e la bellezza simile a quella che
viene da lassù. E ha l'eternità dell'archetipo, sia pure come
immagine; altrimenti l'archetipo ora avrebbe ora non a-
vrebbe la sua immagine. Qui, però, non si tratta di un'im-
magine prodotta ad arte. E, d'altra parte, ogni immagine se-
condo natura dura quanto dura il modello. Di conseguen-
za, coloro che <rappresentano> come distruttibile l'imma-
gine <sensibile>, mentre mantengono inalterato il modello
ideale, e poi presentano la genesi del mondo come fosse, in
un certo momento, il frutto della scelta del suo Creatore,
sono in errore. In particolare, non riescono a capire in
quale modo awenga una tale creazione, ignorando il fatto
che, finché l'intelligibile risplende, tutto il resto non può
venir meno, perché dal momento in cui quello c'era, anche
questo c'è: ossia, da sempre e per sempre. Certo, ci costrin-
ge all'uso di questi termini la necessità che abbiamo di vo-
lerci esprimere.
13. Dunque, il Dio che era stato costretto in catene a ri-
manere qual era concesse al figlio il comando di questo
mondo. In ragione del suo rango non era concesso a lui di
lasciare la signoria del mondo di lassù per seguirne una se-
condaria e più giovane di lui, quasi si fosse saziato del
bello. Dunque, lasciò questo mondo e trasferì suo padre in
se stesso, elevandosi fino a lui. Per il resto stabilì che le
realtà che prendevano inizio dal figlio fossero dopo sé, e
così si trovò in una posizione intermedia, e per l'alterità
che lo taglia fuori da ciò che gli sta sopra, e per il legame
che lo trattiene verso il basso a ciò che segue: a metà, dun-

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que, fra un padre superiore e un figlio inferiore. E siccome


il padre, a suo giudizio, era troppo elevato per essere
conforme al bello, fu lui il primo a rimanere bello, per
quanto anche lAnima non manchi di bellezza. Ma <questo
Dio> è certo migliore dell'Anima - lAnima invero non è
che una sua traccia - e così questa, pur essendo bella di na-
tura, lo diviene ancor più allorché guarda lassù.Se, dun-
que, la stessa Afrodite - ossia, per farci capire, l'Anima del
tutto - è bella, che dire di quello? Se lAnima ha di per sé
la bellezza, quanto più grande lavrebbe l'Intelligenza? E
se lAnima la riceve da un altro, da chi avrà questa bellez-
za, tanto quella acquisita, quanto quella congenere alla sua
sostanza? Del resto, anche noi, quando siamo belli, lo dob-
biamo al nostro essere, e quando siamo brutti a un cambia-
mento di natura: e per belli si intendano coloro che cono-
scono se stessi, e brutti coloro che non si conoscono. Dun-
que, lassù è il bello e da lassù viene. Ma, intanto, basta ciò
che si è detto per elevare a una conoscenza chiara del
«luogo intelligibile», oppure bisogna nuovamente seguire
un'altra via?

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