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Michele Amari tra le righe del Consiglio d’Egitto

«Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella, frate cappellano dell’Ordine
Gerosolimitano, il quale con quel suo dialetto mescolato d’arabico corrotto e di pessimo italiano,
potea comprender tanto dell’idioma degli Arabi, quanto un contadino di Roma intenderebbe
Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato il latino; e, per giunta, il Vella ignorava i caratteri,
né li apprese che a capo di parecchi anni, da uno schiavo musulmano che vivea in Palermo. Digiuno
d’ogni erudizione, ma furbo, baldanzoso, sfacciato, ciarlatano che testè facea mestier di dare i
numeri del lotto, il Vella aprì nuova bottega: fabbricò due codici diplomatici in arabico, dicea, ma
ne mostrava la sola versione italiana; dei quali il primo intitolò Consiglio di Sicilia, e vi finse il
carteggio degli emiri dell’isola coi principi aghlabiti e fatimiti d’Affrica; il secondo, Consiglio
d’Egitto, e lo disse raccolta delle lettere dei principi normanni di Sicilia, i quali, per passatempo,
raccontassero tutte le faccende di casa loro ai moribondi califi fatimiti d’Egitto. Annali, geografia,
statistica, dritto pubblico di due epoche, fasti gentilizi, tutte le fole che gli parean profittevoli,
accozzò l’ignorante impostore ne’ codici diplomatici; oltre le false leggende che spacciò di monete
e suggelli genuini; le monete ch’ei falsò a dirittura, come si afferma; e i diciassette libri perduti di
Tito Livio, dei quali si vantò di tener sotto chiave la versione arabica. Per quattordici anni (1783-
1796) si godè onorificenze, favor di governanti, pensioni, e in ultimo la grassa abbadia di San
Pancrazio. Condannato dai magistrati, quando si scoprì la frode, alla reclusione in fortezza, il re gli
fece espiar la pena in una deliziosa villa ch’egli avea comperato di sue baratterie; e gli fu reso il
medagliere ch’egli avea raccolto, di 364 monete non false, tra le quali 219 di oro. Ma è da sapersi
che un segretario del governo era stato complice, o forse promotore, della magagna del Consiglio
d’Egitto, intesa a fingere un nuovo dritto pubblico siciliano del duodecimo secolo, ampliando
l’autorità del principe e scorciando quella dei baroni. […] Pur la impostura del Vella diè occasione
a buoni studii» (Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, v. I, Firenze, Felice Le Monnier,
1854, pp. X-XII).

«Era venuto da Malta a cercar fortuna in


Palermo il fracappellano Giuseppe Vella. «Don Giuseppe non li sentiva nemmeno:
Alto e complesso era della persona, colore alto e robusto, lento e solenne nel passo,
avea pallido-scuro, occhi piccoli e grave il volto olivastro, gli occhi assorti, la
furbeschi, e grave nell’andare e nel gran croce di Gerusalemme sul petto,
portamento, fregiato il petto di croce camminava tra quel pulviscolo umano.
gerosolimitana, procedea per la città. […] – Vedete com’è mansueto, il nostro
Negli atti e ne’ modi ostentava schiettezza, fracappellano? – disse al Meli monsignor
mansuetudine, e moderazione, ma fronte Airoldi – Un uomo d’oro: paziente,
avea imperturbabile, era riservato, posato, umile…» (Leonardo Sciascia, Il Consiglio
e parco nel dire» (Domenico Scinà, d’Egitto, Torino, Einaudi, 1963, pp. 20-
Prospetto della storia letteraria di Sicilia 25).
nel secolo decimottavo, v. III, Palermo,

«Quando Amari dice che l’idea di scrivere sul Vespro gli venne dal furoreggiare dei romanzi del
Manzoni, del D’Azeglio e del Guerrazzi e che in tutta Italia non si parlerebbe tanto del Vespro «se
la Sicilia non lo avesse replicato, anche più bello e più glorioso, nel 1860», quando dice questo
riconosce, al di qua della sua opera di storico, che i miti della storia servono più della storia stessa –
ammesso possa darsi una storia pure, oggettiva, scientifica. […] Questo mito, che per lui non era un
mito ma la storia stessa nella sua scientifica oggettività, Amari difese sempre» (Leonardo Sciascia,
Il mito del Vespro, in Id., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 12-22).
«E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio,
un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da
antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro ad inventarla» (Leonardo
Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Torino, Einaudi, 1963, p. 59; vedi anche oltre).

«Bisogna poi dire che l’impostura ebbe felici conseguenze negli studi: Rosario Gregorio cominciò
ad apprendere l’arabo per smascherare il Vella, ne trasmise la passione al suo allievo Salvatore
Morso, e questi a Michele Amari. Sicché, in effetti, dobbiamo al falsario Vella la Storia dei
musulmani di Sicilia dell’Amari» (Leonardo Sciascia, Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero
La felicità di far libri, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2019, p. ?).

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