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Elisa Paganini

(Università degli Studi di Milano)

KRIPKE:
LA DISTINZIONE FRA RIFERIMENTO DEL PARLANTE
E RIFERIMENTO SEMANTICO
(Dispense per il terzo modulo del corso di Filosofia del linguaggio 2012-13)

[Le dispense sono uno strumento per aiutare lo studente a orientarsi nella lettura del testo di Kripke.
Chiunque trovi errori o parti poco comprensibili è pregato di segnalarli all’autore. Grazie]

1. Breve introduzione a Saul Kripke (la sezione §1 è ad uso dello studente e non sarà richiesta
all’esame)
Saul Kripke (1940- ) è un filosofo e logico statunitense. È considerato da gran parte della comunità
internazionale uno dei filosofi più innovativi degli ultimi 200 anni; ha vinto il prestigioso premio
Schock per la logica e la filosofia nel 2001.
E’ una persona dalle capacità prodigiose: già all’età di sei anni era in grado di leggere testi in
ebraico antico, aveva letto Shakespeare a nove anni e entro la fine delle elementari conosceva e
padroneggiava i testi di Descartes ed era in grado di risolvere sofisticati problemi matematici.
All’età di 17 anni riuscì a dimostrare la completezza della logica modale (un risultato molto
importante per la logica contemporanea) che fu pubblicata l’anno successivo.
Nel campo della filosofia del linguaggio, i suoi libri più famosi sono Naming and Necessity [Nome
e necessità] e Wittgenstein on rules and private language [Wittgenstein su regole e linguaggio
privato]. Noi non prenderemo in considerazione questi testi, ma considereremo un sottile e
sofisticato articolo in cui presenta delle osservazioni metodologiche sul testo di Donnellan
“Reference and Definite Descriptions”. Il testo è un utile strumento per riuscire a ricostruire la
sottigliezza delle capacità argomentative di Kripke ed è interessante in sé, introducendo strumenti
concettuali che sono tuttora molto utilizzati nella filosofia del linguaggio e aiutando a interrogarsi
sul ruolo delle descrizioni definite.

2. La tesi del testo “Speaker’s Reference and Semantic Reference”


2.1 Kripke e Donnellan
Con questo saggio Saul Kripke critica la posizione di Keith Donnellan sulle descrizioni definite.
Kripke vuole sostenere che Donnellan non riesce a dimostrare che la teoria di Russell delle
descrizioni definite non è corretta (o che è anche solo parzialmente corretta).
Kripke osserva che ci sono due modi di rendere conto della distinzione fra uso attributivo e uso
referenziale: uno (che può essere attribuito con una certa approssimazione a Donnellan) è
incompatibile con la teoria di Russell e l’altro (quello verso cui Kripke propende) è invece
compatibile con la teoria di Russell. Kripke fa notare inoltre che non ci sono argomenti decisivi a
sostegno dell’uno o dell’altro modo di render conto di questa distinzione.
La conclusione dell’articolo è quindi che ci sono due teorie che rendono conto della distinzione fra
usi referenziali e usi attributivi delle descrizioni definite e che non c’è modo di dimostrare che una è
è corretta, mentre l’altra non lo è. Le osservazioni proposte da Kripke hanno un carattere
metodologico, si propongono cioè di fornire strumenti per analizzare gli argomenti che il
sostenitore di ciascuna delle due teorie ha per difendere la sua tesi. Nel caso specifico Kripke
mostra che nessuna delle due teorie in considerazione può vantare argomenti conclusivi a suo
sostegno.
2.2 Kripke e Russell
Kripke, come abbiamo appena visto, non riesce a dimostrare la correttezza della teoria da lui
proposta. Si potrebbe credere che sebbene Kripke non riesca a mostrare la correttezza della teoria
per cui propende, dia per lo meno per assodato che la teoria di Russell sia corretta giacché la teoria
verso cui propende è compatibile con quella di Russell.
Non è così. Kripke ritiene che ci siano degli usi delle descrizioni definite che sono chiaramente
incompatibili con la teoria di Russell e quindi che la teoria di Russell non sia completamente
corretta.
Quando fa queste osservazioni, Kripke ha in mente enunciati che contengono descrizioni definite
“indefinite”, come ad esempio la descrizione “il tavolo”. Secondo Kripke l’enunciato “Il tavolo è
pieno di libri” non può essere analizzato - à la Russell - come “c’è uno e un solo tavolo e qualunque
cosa sia un tavolo è pieno di libri” perché la descrizione non contiene condizioni univocamente
determinanti. Poiché Kripke non è in grado di fornire un’analisi di tali enunciati che sia compatibile
con la teoria di Russell, non ritiene che la teoria di Russell sia pienamente adeguata a rendere conto
delle descrizioni definite.

3. La struttura dell’articolo di Kripke


Il saggio di Kripke è diviso in quattro parti (facilmente individuabili perché evidenziate dalla
numerazione dei paragrafi).

3.1 La prima parte: la ricostruzione della distinzione di Donnellan fra uso attributivo e uso
referenziale delle descrizioni
Nella prima parte (§1) Kripke presenta la distinzione di Donnellan fra uso referenziale e uso
attributivo, si tratta di una ricostruzione intelligente ed efficace che lo studente è invitato a leggere
autonomamente e attentamente.
Un’osservazione interessante che fa Kripke è che nel caso di un uso attributivo di una descrizione
definita è legittima l’introduzione di un inciso fra parentesi del tipo “chiunque sia (a soddisfare la
descrizione)/qualunque cosa sia (a soddisfare la descrizione)”, mentre questa introduzione non è
legittima nel caso dell’uso referenziale delle stesse descrizioni definite. Consideriamo ad esempio
l’enunciato preso in considerazione da Donnellan “L’assassino di Smith è pazzo”. Nel caso di un
uso attributivo della descrizione quello che il parlante intende è equivalente a “L’assassino di
Smith, chiunque sia a soddisfare la descrizione, è pazzo”, mentre nel caso dell’uso referenziale il
parlante intende riferirsi a una particolare persona e quindi non possiamo introdurre l’inciso per
riferire quello che è inteso con l’enunciato.

3.2 La seconda parte: alcuni tentativi fallimentari di rendere conto della distinzione proposta
da Donnellan e di applicare tale distinzione
Nella seconda parte (§2), Kripke prende in considerazione alcune osservazioni che non si trovano
nell’articolo di Donnellan. Sono osservazioni che in parte si trovano nella letteratura filosofica, in
parte sono state sentite da Kripke in conversazione. Kripke ritiene utile sgombrare il campo da
alcuni grossolani fraintendimenti e quindi si appresta a fare le opportune osservazioni.
Come si può osservare, le questioni che Kripke prende in considerazione sono tre (opportunamente
distinte nei sottoparagrafi §2.1, 2.2 e 2.3). Noi prenderemo in considerazione solo le osservazioni
nel paragrafo §2.1 (i paragrafi §2.2 e 2.3 non sono in programma).

3.2.1 La distinzione de dicto-de re e la distinzione attributivo-referenziale


La distinzione de dicto-de re è una distinzione fondamentale nella logica modale, cioè la logica che
presiede al funzionamento di un linguaggio che contiene gli operatori di necessità e possibilità. Tale
distinzione è stata poi applicata anche ad altri ambiti con opportuni accorgimenti.
Alcuni filosofi hanno ritenuto che la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale delle
descrizioni sia riducibile (o sostituibile) alla distinzione fra lettura de dicto e lettura de re degli

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enunciati. Incominciamo a considerare in cosa consiste la distinzione fra lettura de dicto e lettura de
re degli enunciati e poi vediamo perché qualcuno può essere indotto a paragonare la distinzione fra
lettura de dicto e lettura de re degli enunciati alla distinzione fra uso attributivo e uso referenziale
delle descrizioni definite.
Prendiamo in considerazione il seguente enunciato:

(1) “Il numero dei continenti del pianeta terra è necessariamente dispari”

Questo enunciato ha due letture: in base alla prima lettura (de dicto) quello che si intende è che
l’enunciato “il numero dei continenti del pianeta è dispari” abbia la proprietà di essere
necessariamente vero. In questo caso l’operatore di necessità è applicato a un enunciato (o a ciò che
quell’enunciato esprime). Se adottiamo la convenzione per cui l’operatore di necessità può essere
abbreviato col simbolo “☐” che leggeremo “necessariamente”, possiamo scrivere l’enunciato (1)
interpretato de dicto come segue (assumendo che ciò che è fra parentesi sia ciò a cui l’operatore di
necessità si applica):

(1 de dicto) ☐ (Il numero dei continenti del pianeta terra è dispari)

Probabilmente per la maggior parte di noi, l’enunciato inteso de dicto è falso: infatti il fatto che il
numero dei continenti del nostro pianeta sia dispari è considerato dai più un fatto contingente, gli
eventi che portarono alla deriva dei continenti avrebbero potuto essere diversi e il numero dei
continenti avrebbe potuto essere diverso. Ci sono ovviamente persone che pensano che tutto ciò che
accade non avrebbe potuto essere diverso da com’è di fatto (i cosiddetti fatalisti), per queste
persone l’enunciato è ovviamente vero interpretato de dicto e in generale tutti gli enunciati veri
sono necessariamente veri. Quello che però ci interessa è la distinzione fra enunciati de dicto e
enunciati de re e per fare questa distinzione è utile prendere in considerazione persone per cui
l’operatore di necessità non si applica invariabilmente a tutti gli enunciati. Quindi per il momento
dimentichiamoci dei fatalisti e consideriamo le persone per cui l’enunciato (1) interpretato de dicto
è chiaramente falso.
Consideriamo ora la seconda lettura (de re). In base a questa lettura, si intende che il numero dei
continenti del pianeta terra ha la proprietà di essere necessariamente dispari. In questo caso,
l’operatore di necessità non si applica a un intero enunciato (o al contenuto di un intero enunciato),
ma si applica a una proprietà che viene attribuita a un oggetto. Possiamo quindi riscrivere
l’enunciato (1) interpretato de re come segue (assumendo ancora che l’operatore di necessità si
applichi a ciò che è fra parentesi):

(1 de re) Il numero dei continenti del pianeta terra ☐ (è dispari)

Consideriamo ora l’enunciato considerato de re: quale valore di verità ha? La maggior parte dei
filosofi essenzialisti condivide la convinzione che i numeri dispari siano necessariamente dispari. Il
numero 5 pertanto ha la proprietà di essere dispari e quindi ha anche la proprietà di essere
necessariamente dispari. La proprietà di essere dispari non è posseduta contingentemente dal
numero 5, ma necessariamente.
Dal momento che uno stesso enunciato interpretato de dicto può risultare falso, mentre può risultare
vero se interpretato de re, è evidente che le due interpretazioni non sono equivalenti.

La distinzione fra de dicto e de re può essere estesa anche agli enunciati che descrivono
atteggiamenti proposizionali. Prendiamo in considerazione il seguente enunciato (lo stesso che
considera Kripke):

(2) “Jones crede che la più ricca debuttante di Dubuque lo sposerà”.

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Incominciamo con la lettura de dicto. In questo caso Jones ha una credenza che riguarda un
enunciato, Jones ha un atteggiamento di credenza nei confronti dell’enunciato “la più ricca
debuttante di Dubuque sposerà Jones”. Possiamo rappresentare la lettura de dicto nel modo
seguente (assumendo che l’operatore di credenza si applichi a ciò che è fra parentesi):

(2 de dicto) Jones crede che (la più ricca debuttante di Dubuque lo sposerà)

D’altra parte c’è anche una lettura de re. In base alla lettura de re, Jones ha una credenza sulla
proprietà di una particolare persona (la persona che di fatto è la più ricca debuttante di Dubuque),
crede di questa persona che lo sposerà. Possiamo quindi scrivere la lettura de re dell’enunciato nel
modo seguente:

(2 de re) La persona che di fatto è la più ricca debuttante di Dubuque è tale che Jones crede che (lei
lo sposerà)

Jones può aver incontrato questa persona ad una festa e può non essere consapevole che soddisfa la
proprietà di essere la più ricca debuttante di Dubuque (supponiamo ad esempio che si è innamorato
di questa persona senza sapere quali sono le sue disponibilità economiche), ma di quella persona
crede che lo sposerà.

Cerchiamo ora di vedere perché qualcuno potrebbe ritenere che ci sia un parallelo fra enunciati de
dicto che contengono una descrizione definita e l’uso attributivo di quella stessa descrizione; e che
ci sia un parallelo fra enunciati de re che contengono una descrizione e l’uso referenziale di quella
stessa descrizione.
Per rendersene conto, basta provare a utilizzare il test dell’inciso “chiunque sia (a soddisfare la
descrizione)/qualunque cosa sia (a soddisfare la descrizione)”. Come abbiamo visto, l’uso
attributivo consente l’inserimento dell’inciso “chiunque sia (a soddisfare la descrizione)/qualunque
cosa sia (a soddisfare la descrizione)” che non è invece consentito dall’uso referenziale. Alcuni
hanno osservato che l’inciso può essere inserito nel caso degli enunciati letti in modo de dicto, ma
non può essere utilizzato per gli enunciati letti in modo de re. Quindi l’ipotesi è che una descrizione
usata in un enunciato interpretato de dicto sia usata solo in modo attributivo, mentre una descrizione
usata in un enunciato de re (al di fuori dell’ambito di applicazione dell’operatore intensionale) sia
usata solo in modo referenziale.
In effetti, se proviamo a fare l’inserimento dell’inciso nei casi precedentemente analizzati, vedremo
che è accettabile per i casi de dicto, ma non per i casi de re (lo studente è invitato a fare la prova
autonomamente e verificare che, almeno ad una prima considerazione, il test sembra adeguato –
vedremo più avanti che di fatto non lo è).

Tuttavia questa assimilazione è, a parere di Kripke, confusa. Kripke fa tre osservazioni al riguardo.

Prima osservazione: non è sempre vero che quando uno proferisce un enunciato contenente una
descrizione usato in modo de dicto stia usando una descrizione in modo attributivo.

Kripke fa due esempi in cui un parlante usa un enunciato interpretato in modo de dicto, ma in cui la
descrizione definita in esso inclusa non è usata né in modo attributivo né in modo referenziale.
Questi esempi sono molto sottili: non solo mostrano che c’è un grossolano fraintendimento nel
paragonare uso attributivo delle descrizioni con interpretazione de dicto dell’enunciato che le
contiene, ma fa anche vedere che la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo non esaurisce
tutti gli usi delle descrizioni definite.

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Supponete che io sia convinta che non ci siano debuttanti a Dubuque, ma so che Jones è di parere
opposto: non solo crede che ci siano debuttanti a Dubuque, ma mi ha confessato di essere convinto
che la più ricca lo sposerà. Se qualcuno mi interroga sulle credenze di Jones, io rispondo “Jones
crede che la più ricca debuttante di Dubuque lo sposerà”. Ovviamente il mio uso non è de re, non
sto dicendo di una particolare persona (che io identifico tramite la descrizione “la più ricca
debuttante di Dubuque”) che Jones crede che lo sposerà, infatti io non ho affatto intenzione di
impegnarmi all’esistenza di una tale persona. La mia attribuzione è pertanto de dicto, io riporto una
certa credenza di Jones riguardo al contenuto di un certo enunciato. Ma non si può dire che il mio
uso della descrizione sia attributivo: io non mi aspetto che ci sia una qualche persona che soddisfa
la proprietà di essere la più ricca debuttante di Dubuque, quindi non si può dire che io uso la
descrizione in modo attributivo quando riporto la credenza di Jones. Il mio uso della descrizione “la
più ricca debuttante di Dubuque” non è pertanto né attributivo, né referenziale.

Il secondo esempio di Kripke è il seguente. Supponete che io asserisca “E’ possibile che (nel 1976
la Francia fosse una monarchia e) il re di Francia nel 1976 fosse calvo”. E’ evidente che il mio uso
dell’enunciato non è de re: non sto dicendo di una particolare persona che potrebbe essere calvo, ma
sto dicendo che è possibile che il re di Francia nel 1976 sia calvo. Il mio uso dell’enunciato modale
è quindi de dicto, ma non sto usando la descrizione in modo attributivo: non mi impegno al fatto
che ci sia qualcuno che soddisfa la proprietà di essere re di Francia nel 1976; non ho intenzione di
asserire che ci sia qualcuno che soddisfa quella proprietà, il mio uso della descrizione non è
pertanto attributivo.

Seconda osservazione: l’uso referenziale delle descrizioni non può essere identificato con l’uso
delle descrizioni negli enunciati usati de re.

Kripke anche in questo caso presenta due esempi. Supponiamo che ci sia una teoria astronomica
molto accreditata in base alla quale il numero dei pianeti è dispari. Sulla base di questa teoria,
qualcuno è disposto a dire “Il numero dei pianeti (qualunque sia il numero che soddisfa questa
proprietà) è dispari”: questo enunciato può essere asserito da una persona che non sa quale sia il
numero dei pianeti, per quanto ne sa il parlante è 9 o 11 o 341 o … : qualunque sia questo numero,
questa persona è disposta ad asserire che quel numero è dispari. Ora, se il parlante è un
essenzialista, e cioè crede che i numeri dispari siano necessariamente dispari, sarà disposto anche ad
asserire “Il numero dei pianeti (qualunque esso sia) è necessariamente dispari”. Qui abbiamo
un’asserzione de re in cui la descrizione definita non è usata in modo referenziale, ma tutt’al più in
modo attributivo.
Consideriamo poi questo secondo esempio “L’assassino di Smith (chiunque sia a soddisfare questa
proprietà) è tale che la polizia sa che egli ha commesso l’assassinio, ma non dice chi è per ragioni di
sicurezza”. Qui abbiamo un’affermazione de re, ma la descrizione che serve per identificare la
persona su cui i poliziotti hanno informazioni non è usata in modo referenziale, ma è usata in modo
attributivo.

Terza osservazione: Russell ha ritenuto di poter rendere conto della distinzione fra de dicto e de re
con la sua distinzione di ambito [scope] di una descrizione. Alcuni filosofi hanno creduto di poter
rendere conto della distinzione di ambito tramite la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale.
Di fatto, Kripke mostra che la distinzione di ambito è molto elastica e permette ripartizioni più
sofisticate della semplice ripartizione bipartita fra uso attributivo e uso referenziale (o fra
interpretazione de re e interpretazione de dicto di un enunciato).

Per riuscire a intendere questa osservazione occorre innanzitutto ricostruire che cosa intenda
Russell per “ambito” di una descrizione.

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Abbiamo già avuto modo di constatare che Russell distingue ambiti diversi che possono avere le
descrizioni definite. Ricapitoliamo velocemente quello che dice Russell. Prendiamo in
considerazione l’enunciato “Il re di Francia è calvo”. Come sappiamo, una volta che abbiamo
introdotto le seguenti costanti predicative:

R = essere re di Francia
C= essere calvo

traduciamo l’enunciato come segue:


∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ C(x))
Per intendere la distinzione d’ambito, occorre ricordarci che la negazione può essere posta in
posizioni diverse.
Una posizione che può assumere la negazione è la seguente:
∼∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ C(x))
In questo caso, la descrizione ha ambito ristretto.
La seconda posizione che può assumere la negazione è la seguente:
∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ ∼C(x))
In questo secondo caso la descrizione ha ambito ampio.

Ora questa distinzione di ambito può essere utilizzata anche quando vengono introdotti operatori
modali. Ad esempio, proviamo ad analizzare l’enunciato: “Il re di Francia è necessariamente
calvo”. Questo enunciato può essere analizzato in due modi distinti. Nel primo la descrizione ha
ambito ristretto:
☐∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ C(x))
Come possiamo osservare all’ambito ristretto della descrizione corrisponde la lettura de dicto
dell’enunciato modale.
Il secondo modo in cui possiamo analizzare l’enunciato, quello in cui la descrizione ha ambito
ampio, è il seguente:
∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ ☐C(x))
E questa lettura corrisponde alla lettura de re dello stesso enunciato.
A questo punto, ricapitoliamo l’idea che Kripke vuole criticare. Russell ritiene che la sua
distinzione di ambito di applicazione delle descrizioni definite possa rendere conto della distinzione
fra lettura de dicto e lettura de re di un enunciato che contiene una descrizione (nel modo che
abbiamo appena considerato). Alcuni filosofi pensano che la distinzione fra uso referenziale e uso
attributivo delle descrizioni possa rendere conto della distinzione di ambito appena presa in
considerazione.
Kripke mostra che Russell ha ragione: la distinzione di ambito è certamente in grado di rendere
conto della distinzione fra lettura de dicto e de re. Kripke mostra inoltre che non si può dare conto
della distinzione di ambito delle descrizioni attraverso la coppia concettuale uso referenziale/uso
attributivo delle descrizioni (e in generale attraverso una qualunque distinzione bipartita), dato che
gli ambiti che una descrizione può avere sono più di due.

Per renderci conto della ricchezza della distinzione d’ambito di una descrizione, occorre considerare
enunciati in cui compaiono almeno due operatori intensionali. E sia gli operatori modali, sia i verbi
che introducono atteggiamenti proposizionali sono operatori intensionali.
Prendiamo in considerazione il seguente enunciato:

(3) Il numero dei continenti avrebbe potuto essere necessariamente pari


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Innanzitutto occorre rendersi conto che in questo enunciato compaiono due operatori modali, uno è
presente con l’espressione “avrebbe potuto” (e corrisponde all’operatore di possibilità,
generalmente rappresentato con “◊”) e l’altro è presente con l’espressione “essere necessariamente”
(e corrisponde all’operatore di necessità che abbiamo già incontrato e che si rappresenta
comunemente con il simbolo “☐”).

Ora l’enunciato (3) può essere intenso in tre modi:

3.1) ◊☐ ∃x (ci sono esattamente x continenti ∧ x è pari)


Questa lettura dà alla descrizione l’ambito più ristretto, che corrisponde alla lettura de dicto
dell’enunciato.

3.2) ∃x (ci sono esattamente x continenti ∧ ◊☐(x è pari))


Questa lettura dà alla descrizione l’ambito più ampio, che corrisponde alla lettura de re
dell’enunciato.

3.3) ◊∃x (ci sono esattamente x continenti ∧ ☐x è pari)


Questa è la lettura che rende l’enunciato vero (l’unica che lo rende vero). In questo caso l’ambito
della descrizione è intermedio e questa lettura non corrisponde né alla lettura de dicto né alla lettura
de re.
Quando gli operatori di atteggiamento proposizionale sono iterati, si possono dare diverse letture
(più di due) degli enunciati così costituiti. Si evince quindi che la distinzione di ambito proposta da
Russell non possa essere ridotta a una qualunque distinzione bipartita. L’esempio di enunciato con
atteggiamenti proposizionali iterati proposto da Kripke è il seguente: “Jones dubita che Holmes
creda che l’assassino di Smith sia pazzo”. Kripke considera anche il seguente enunciato: “Hoover
accusò i Berrigans di aver tramato il rapimento di un alto ufficiale americano”. (Lo studente è
invitato a elaborare le tre letture che ciascuno di questi enunciati permette sulla base di quello che
scrive Kripke).

Kripke (nel paragrafo 2.a) si è preoccupato di mostrare che la distinzione fra uso referenziale e uso
attributivo non sostituisce altre nozioni: in particolare non sostituisce la distinzione fra lettura de
dicto e lettura de re degli enunciati e non sostituisce la distinzione fra diversi ambiti di applicazione
delle descrizioni definite. Inoltre abbiamo visto che per Kripke la distinzione fra uso referenziale e
uso attributivo non esaurisce tutti gli usi delle descrizioni definite (alcuni usi delle descrizioni
definite non sono né referenziali né attributivi).

3.3 La terza parte: il problema centrale che interessa Kripke


Nel terzo paragrafo (§3) si trova il cuore dell’argomentazione di Kripke.
Come abbiamo già osservato, Donnellan si è proposto di dimostrare che l’analisi di Russell delle
descrizioni definite non riesce a rendere conto dell’uso referenziale delle stesse. Kripke si propone
di mostrare che Donnellan non è riuscito in questo intento; di fatto, è possibile rendere conto della
distinzione fra uso referenziale e uso attributivo in un modo che è compatibile con la correttezza
dell’analisi russelliana.
Queste osservazioni di Kripke lasciano aperta la questione se l’analisi corretta degli usi referenziali
delle descrizioni sia quella verso cui lo stesso Kripke propende o sia quella proposta da Donnellan.
Kripke sottolinea i pregi dell’analisi verso cui propende, ma non riesce a dimostrare che è quella
corretta.

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3.3.1 La distinzione fra semantica e pragmatica: la lezione di Grice
Grice ha proposto una distinzione fra ciò che le parole significano (o semantica) e ciò che il parlante
intende con quelle parole (o pragmatica). Come abbiamo avuto modo di constatare, i teorici del
linguaggio ideale ritenevano che l’unica analisi corretta fosse l’analisi logica che forniva le
condizioni di verità dell’enunciato, mentre i fautori del linguaggio comune ritenevano che il
linguaggio, per come è normalmente usato dai parlanti, non può essere rigidamente ricondotto a
un’analisi logica. Grice ha il pregio di aver mostrato che le due analisi possono coesistere: l’analisi
semantica ci fornirà gli strumenti per analizzare le condizioni di verità di un enunciato (per dirla
con il primo Wittgenstein, ci dice come sarebbe il mondo se l’enunciato fosse vero), mentre
l’analisi pragmatica ci permetterà di comprendere quello che un parlante intende con le parole che
usa.
Kripke riprende questa distinzione griceana, e propone di distinguere fra ciò che le parole
significano e ciò che il parlante intende con quelle parole. Supponiamo che uno scassinatore,
mentre sta racimolando il bottino, dica all’altro scassinatore che gli è accanto “Gli sbirri sono dietro
l’angolo”; in questo caso l’enunciato è vero se e solo se in prossimità dei due scassinatori c’è un
angolo e dietro l’angolo ci sono dei poliziotti (e falso altrimenti). Ma è evidente che lo scassinatore
ha inteso probabilmente qualcosa d’altro con le sue parole: probabilmente ha inteso far
comprendere al suo interlocutore (cioè l’altro scassinatore) “Non possiamo fermarci a racimolare
altro bottino; dividiamoci!”.
Per il momento, quello che ci interessa è la distinzione fra l’analisi semantica di un enunciato, che
ci permette di stabilire le condizioni di verità dello stesso enunciato sulla base di convenzioni, delle
intenzioni del parlante di usare quelle stesse convenzioni e sulla base del contesto, e l’analisi
pragmatica dello stesso enunciato che dipende da intenzioni particolari del parlante. L’analisi
pragmatica di un enunciato non modifica l’analisi semantica dello stesso enunciato. Se
riconsideriamo l’esempio dei due scassinatori, il significato inteso dal parlante è diverso dal
significato semantico. Ciò che rende l’asserzione vera è che i poliziotti siano dietro l’angolo e non il
fatto che i due scassinatori abbandonino il luogo dello scasso dividendosi. Quindi le due analisi
possono coesistere, ma su piani diversi.

3.3.2 L’analisi proposta da Donnellan degli enunciati che contengono descrizioni definite è
semantica o pragmatica?
Donnellan, nel saggio che abbiamo letto, considera la questione proposta nel titolo del paragrafo
(questo paragrafo, cioè §3.3.2) e dichiara esplicitamente che la distinzione da lui proposta fra uso
referenziale e uso attributivo delle descrizioni definite deve essere intesa come una distinzione
pragmatica e non come una distinzione semantica (o sintattica). Lo studente è invitato a rileggersi il
paragrafo VII dell’articolo di Donnellan “Riferimento e descrizioni definite” per rendersene conto.
Donnellan scrive esplicitamente di non fornire un argomento al riguardo, ma di sfidare il suo
interlocutore a dimostrare che la sua analisi non è pragmatica.
Kripke osserva che se l’analisi di Donnellan è pragmatica (e non semantica), allora Donnellan non
riesce semplicemente a criticare Russell. Infatti Russell si propone evidentemente di fornire
un’analisi semantica degli enunciati che contengono una descrizione definita (infatti, l’analisi logica
proposta da Russell è un modo per stabilire il valore di verità dell’enunciato in questione ed è
quindi un’analisi semantica degli enunciati che contengono descrizioni definite). E l’analisi
semantica di Russell è compatibile con diverse letture pragmatiche dello stesso enunciato. Ad
esempio l’analisi semantica di Russell dell’enunciato “L’assassino di Smith è pazzo” ci permette di
stabilire che l’enunciato è vero se e solo se esiste uno e un solo assassino di Smith e costui è pazzo.
Tuttavia, la descrizione definita può essere usata sia in modo attributivo sia in modo referenziale. E
la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale è pragmatica.
Oppure consideriamo l’enunciato “Suo marito è gentile con lei” quando il parlante usa la
descrizione “suo marito” per riferirsi a quello che di fatto è l’amante della donna in questione.
L’analisi di Russell può fornirci quelle che sono le condizioni di verità dell’enunciato in questione

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che è vero se e solo se esiste uno e un solo marito della donna in questione e costui è gentile con lei.
L’enunciato può essere falso (supponiamo che il marito della donna in questione non sia gentile con
lei), ma il parlante con quell’enunciato può aver inteso far capire qualcos’altro al suo interlocutore:
ad esempio che l’amante della donna è gentile con lei.
E’ bene tener presente che Kripke è favorevole a intendere la distinzione fra uso attributivo e uso
referenziale come una distinzione pragmatica e non semantica (come avremo modo di vedere) e
inoltre Kripke sosterrà che l’analisi pragmatica da lui proposta è compatibile con l’analisi semantica
alla Russell degli enunciati che contengono descrizioni definite.

L’interpretazione pragmatica della distinzione fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni
risolve molti problemi. Consideriamo ancora il caso del parlante che dice “Suo marito è gentile con
lei” intendendo con “suo marito” quello che di fatto è l’amante della donna in questione e quando il
marito effettivo della signora in questione non è gentile con lei. Qual è il valore di verità di questo
enunciato? Che cosa viene effettivamente detto? A queste domande Donnellan non sembra dare una
risposta chiara. Ma proprio l’assenza di una risposta chiara rende particolarmente problematico che
cosa uno può riferire di ciò che è stato detto dal parlante.
Supponiamo che il parlante si chiami Jones e mi venga chiesto che cosa ha detto Jones. Se io dico
“Jones ha detto che suo marito è gentile con lei” sto effettivamente riportando quello che ha detto
Jones?
La risposta è affermativa se uno accetta che l’analisi semantica dell’enunciato detto da Jones è
quella fornita da Russell. Io in questo caso riporto quello che è stato letteralmente detto e non mi
impegno a ciò che è inteso dal parlante. Allo stesso modo, nel caso dello scassinatore che dice “Gli
sbirri sono dietro l’angolo”, io posso riportare ciò che è stato detto nel modo seguente “Lo
scassinatore ha detto che la polizia era dietro l’angolo”, ma non mi devo impegnare a quello che lo
scassinatore intendeva.
Tuttavia, se questo è il modo corretto di intendere l’analisi di Donnellan, allora Donnellan non
riesce a criticare Russell. Donnellan propone una distinzione fra uso referenziale e uso attributivo
delle descrizioni definite per mostrare l’inadeguatezza dell’analisi russelliana, ma non riesce a
mostrare che tale analisi è inadeguata.

Kripke, per cercare di rendere più plausibile la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo
proposta da Donnellan, si pone la seguente domanda: se Donnellan avesse inteso la distinzione fra
uso attributivo e uso referenziale come una distinzione semantica invece che pragmatica
(contrariamente a quello che Donnellan dice esplicitamente), Donnellan sarebbe riuscito a
dimostrare che l’analisi di Russell è sbagliata?
Kripke di fatto dedica la maggior parte del terzo paragrafo (§3) del suo articolo a rispondere a
questa domanda. La risposta che dà Kripke è negativa: se l’analisi di Donnellan fosse semantica
invece che pragmatica, Donnellan non riuscirebbe comunque a dimostrare che l’analisi russelliana
degli enunciati che contengono descrizioni definite sia sbagliata. Un’analisi semantica della
distinzione fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni definite non esclude che ci sia
anche un’analisi pragmatica della stessa distinzione (che è compatibile con l’analisi russelliana).
Kripke sottolinea che l’analisi semantica e l’analisi pragmatica della distinzione fra uso referenziale
e uso attributivo delle descrizioni coesistono, e sebbene Kripke metta in luce i pregi dell’analisi
pragmatica, tuttavia non ritiene che ci siano argomenti conclusivi a sostegno dell’una o dell’altra
analisi.

3.3.3 Riferimento del parlante e riferimento semantico


Grice, come abbiamo visto, distingue fra ciò le parole significano e ciò che il parlante intende con
quelle parole.

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Kripke propone una distinzione che è da intendersi come un caso particolare della distinzione
griceana: la distinzione fra riferimento del parlante e riferimento semantico. Questa distinzione
riguarda le descrizioni definite e i nomi propri.
Il riferimento semantico di un nome o una descrizione è l’oggetto a cui il termine si riferisce e tale
riferimento è determinato dalle convenzioni di un idioletto o linguaggio insieme alle intenzioni del
parlante e alcuni fattori contestuali.
Il riferimento del parlante è l’oggetto a cui il parlante intende riferirsi e di cui crede che soddisfi la
descrizione o a cui crede che il nome si riferisca. Per intendere qual è il riferimento del parlante,
Kripke fa il seguente esempio: supponiamo che due persone vedano Smith in lontananza, ma lo
confondano con Jones. Uno dei due dice all’altro: “Che cosa sta facendo Jones?” e l’altro risponde
“Sta rastrellando le foglie”. In questo caso, sebbene il nome “Jones” continui ad avere come
riferimento semantico Jones, ha come riferimento del parlante Smith.
Il riferimento semantico è dato da un’intenzione generale del parlante di riferirsi a un certo oggetto
ogniqualvolta il termine referenziale è usato. Il riferimento del parlante è dato da un’intenzione
specifica del parlante di riferirsi a un oggetto particolare in una particolare situazione d’uso.
Kripke presenta un modo di intendere la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo che sfrutta
proprio l’intenzione specifica che caratterizza il riferimento del parlante. Quando l’intenzione
specifica è quella di adeguarsi al riferimento semantico del nome (cioè coincide con l’intenzione
semantica generale) allora il termine singolare (sia esso nome o descrizione definita) è usato in
modo attributivo. Quando invece l’intenzione specifica è distinta dall’intenzione semantica
generale, ma il parlante crede che di fatto coincidano, allora si ha un uso referenziale del nome o
della descrizione definita.
E’ interessante notare che Kripke propone un’analisi della distinzione fra uso referenziale e uso
attributivo che si adatta tanto ai nomi propri che alle descrizioni definite. Quindi, l’osservazione di
Donnellan in base alla quale le descrizioni usate in modo referenziale sono equivalenti ai nomi (a
differenza di quelle usate in modo attributivo che non sono equivalenti a nomi) non è accettabile
perché la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo è ugualmente adatta a rendere conto di
nomi e di descrizioni.

3.3.4 Linguaggi Russelliani e linguaggi-D


Kripke intende confrontare l’ipotesi che la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo sia una
distinzione pragmatica e l’ipotesi che tale distinzione sia una distinzione semantica. Per far ciò
mette a confronto due ipotesi sul funzionamento del linguaggio:
Prima ipotesi: Russell fornisce la corretta analisi semantica del linguaggio che usiamo e la
distinzione fra uso attributivo e uso referenziale è una distinzione puramente pragmatica (questa è
l’ipotesi che Kripke privilegia).
Seconda ipotesi: Russell non fornisce un’analisi semantica corretta del linguaggio che usiamo, ma
l’analisi corretta può essere ottenuta fornendo due diverse analisi semantiche degli enunciati a
seconda che la descrizione definita che essi contengono sia usata in modo referenziale o in modo
attributivo (se questa seconda ipotesi è corretta, abbiamo a che fare con il linguaggio-D, D sta per
“Donnellan”, ma non viene chiamato “linguaggio Donnellan” perché, come abbiamo visto,
Donnallan non interpreta la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale in modo semantico, ma
in modo pragmatico).
Ciò che Kripke si propone di dimostrare è che le due ipotesi sono ugualmente percorribili. Sebbene
Kripke propenda per la prima ipotesi e fornisca motivi per preferire la prima ipotesi alla seconda,
non riesce a dimostrare che la seconda ipotesi sia scorretta. D’altra parte Kripke osserva che
Donnellan non è in una posizione migliore della sua: supponendo che Donnellan sia disposto ad
adottare la seconda ipotesi, non può dimostrare che la prima ipotesi sia scorretta. Se è così,
Donnellan non è riuscito nel suo intento: Donnellan si proponeva di dimostrare che la teoria di
Russell è almeno parzialmente inadeguata a rendere conto dell’uso referenziale e dell’uso

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attributivo delle descrizioni definite, ma se non riesce ad escludere la prima ipotesi non è riuscito
nel suo intento.
Per confrontare le due ipotesi, Kripke innanzitutto assume che il linguaggio sia in tutto e per tutto
uguale al linguaggio che parliamo con la sola eccezione che una delle due ipotesi sia corretta. Se
supponendo la correttezza di una tale ipotesi riusciamo a rendere conto della distinzione fra uso
referenziale e uso attributivo delle descrizioni, allora l’ipotesi non è esclusa. Egli adotta questa
strategia per ciascuna delle due ipotesi sopra menzionate.

3.3.4.1 La prima ipotesi: il linguaggio naturale è russelliano


La prima ipotesi è che il linguaggio naturale sia come il linguaggio che parliamo con l’aggiunta di
alcune assunzioni che riflettono la teoria russelliana delle descrizioni definite. Di fatto, le assunzioni
che riflettono la teoria russelliana possono essere specificate in tre varianti che verranno qui di
seguito specificate.
1) Assunzione di un linguaggio russelliano debole: noi parliamo un linguaggio in tutto e per
tutto identico al linguaggio naturale, ma le condizioni di verità delle asserzioni che
contengono descrizioni definite sono specificate dall’analisi logica russelliana. Ogni volta
che asseriamo un enunciato della forma “Il P è F”, l’enunciato è vero se e solo se c’è uno e
un solo oggetto che soddisfa P ed è F, ed è falso altrimenti. In questa ipotesi, la descrizione
definita è un termine referenziale, cioè ha il ruolo privilegiato di riferirsi a un oggetto.
L’enunciato è vero se il predicato (“è F”) si applica all’oggetto a cui la descrizione si
riferisce (cioè dell’oggetto a cui si riferisce “il P”) e falso se il predicato non si applica a tale
oggetto o se la descrizione non si riferisce ad un oggetto.
2) Assunzione di un linguaggio russelliamo intermedio: noi parliamo un linguaggio
indistinguibile dal linguaggio naturale che usiamo con la sola eccezione che quando noi
utilizziamo un enunciato contenente una descrizione definita, noi stiamo utilizzando
un’abbreviazione per la parafrasi russelliana. Quindi ogniqualvolta noi diciamo “Il P è F”,
stiamo utilizzando un’abbreviazione per “Esiste uno e un solo P e qualunque cosa sia P è F”.
In base a questa seconda ipotesi le descrizioni definite non sono termini referenziali, non
hanno un riferimento o un significato presi isolatamente dall’enunciato a cui appartengono.
Gli enunciati che contengono descrizioni definite sono enunciati esistenziali.
3) Assunzione di un linguaggio russelliano forte: noi utilizziamo un linguaggio indistinguibile
dal linguaggio naturale che usiamo con la sola eccezione che le descrizioni definite sono
bandite da linguaggio. Per esprimere ciò che comunemente intendiamo con un enunciato che
contiene una descrizione definita dobbiamo proferire la corrispondente parafrasi russelliana.
Quindi, invece di dire “Il P è F”, diciamo “Esiste uno e un solo P e qualunque cosa sia P è
F”.
La questione che si pone Kripke è la seguente: se una di queste assunzioni fosse corretta, potremmo
riscontrare in tali linguaggi la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale delle descrizioni (o di
ciò che le sostituisce, nel caso del linguaggio russelliano forte)? Kripke risponde che evidentemente
le cose stanno così.
Supponiamo sia corretta l’assunzione che il linguaggio che usiamo sia il linguaggio russelliano
debole o intermedio, supponiamo di andare a una festa e dire a un amico “L’uomo nell’angolo che
beve champagne è felice questa sera” e supponiamo di farlo perché crediamo, erroneamente, che le
condizioni di verità russelliane dell’enunciato siano soddisfatte (supponiamo, per esempio, che
l’uomo nell’angolo non beva champagne ma acqua tonica). Non è questa una situazione
chiaramente immaginabile? Quindi l’uso referenziale può essere adottato anche se si desse il caso
che il linguaggio che parliamo è un linguaggio russelliano debole o intermedio.
Supponiamo ora che siamo in una una comunità in cui si parla il linguaggio russelliano forte. Siamo
alla stessa festa di prima e diciamo “C’è solo una persona che sta bevendo champagne nell’angolo
ed è felice questa sera”. Non potremmo sbagliarci come prima, non potremmo quindi usare

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l’enunciato esistenziale per far capire a chi ci riferiamo anche se non c’è nessuno che soddisfa la
descrizione “bere champagne nell’angolo”? Ovviamente sì.
Ne possiamo concludere che la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni
definite occorrerebbe anche se parlassimo un linguaggio russelliano: in base a tale ipotesi, l’analisi
russelliana fornirebbe le condizioni di verità dell’enunciato che di volta in volta esprimiamo, ma
tale analisi semantica è compatibile con diversi usi pragmatici che possiamo fare dello stesso
enunciato. La distinzione fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni definite non esclude
quindi la possibilità che l’analisi di Russell sia corretta.

3.3.4.2 La seconda ipotesi: il linguaggio naturale è un linguaggio-D


La seconda ipotesi è che Russell non abbia fornito un’analisi semantica corretta degli enunciati che
contengono descrizioni definite. In base a quest’ipotesi, gli enunciati che contengono descrizioni
definite sono semanticamente ambigui. L’idea è ancora una volta che il linguaggio naturale sia in
tutto e per tutto indistinguibile dal linguaggio naturale che usiamo, ma ogniqualvolta un enunciato
contiene una descrizione definita “…il P …” (dove i puntini devono essere colmati col predicato
che completa l’enunciato e che può trovarsi prima e/o dopo la descrizione), la sua analisi semantica
possa essere fatta utilizzando gli operatori non ambigui “IL” e “YL”. Abbiamo quindi le seguenti
condizioni di verità dell’enunciato che contiene una descrizione definita a seconda di quale dei due
operatori non ambigui venga adottato:

“… IL P…” è vero se e solo se il predicato rappresentato dai puntini si applica all’unico oggetto che
soddisfa P (condizioni di verità per l’uso attributivo della descrizione definita)
“… YL P …” è vero se e solo se il predicato rappresentato dai puntini è vero dell’unico oggetto a
cui il parlante pensa che P si applichi (condizioni di verità per l’uso referenziale della descrizione
definita)

E’ evidente che questa assunzione in base alla quale i parlanti parlano il linguaggio-D è compatibile
col fatto che le descrizioni definite possono avere un uso referenziale e un uso attributivo. Ne segue
che la distinzione fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni non esclude che il
linguaggio che parliamo sia un linguaggio-D.
Ora, abbiamo dimostrato che l’ipotesi in base alla quale parliamo un linguaggio russelliano (in una
qualunque delle sue varianti) è compatibile con il fatto che si possa distinguere fra uso attributivo e
uso referenziale delle descrizioni. Ma anche l’ipotesi che parliamo un linguaggio-D è compatibile
con lo stesso fatto. Non c’è quindi modo di dimostrare che una delle due ipotesi è corretta e l’altra
no.
Kripke vuole dimostrare qualcosa di più, ovvero che le due ipotesi sul funzionamento del
linguaggio possano addirittura coesistere. Supponiamo che ci siano due comunità linguistiche: una a
cui è insegnato il linguaggio russelliano (in una delle prime due varianti) e l’altra a cui è insegnato
il linguaggio-D. Supponiamo che poi queste due comunità vengano fatte interagire fino a formare
un’unica comunità. Certo gli appartenenti alle due comunità d’origine avrebbero intuizioni diverse
sui valori di verità da dare a certi enunciati che contengono descrizioni definite, ma potremmo dire
che per questo parlano lingue diverse? Kripke non è sicuro al riguardo. Sembra accettare l’ipotesi
che i parlanti delle due comunità potrebbero parlare la stessa lingua, nonostante le divergenti
intuizioni sul valore di verità da attribuire ad alcuni enunciati.

Kripke quindi sostiene che le due ipotesi sul funzionamento del linguaggio possono coesistere, ma
si chiede che cosa potrebbe portare a ritenere che una delle due ipotesi è corretta mentre l’altra non
lo è. In particolare: che cosa permetterebbe di stabilire in modo incontrovertibile che l’ipotesi che
parliamo un linguaggio-D è l’ipotesi corretta?
Questo linguaggio sarebbe corretto se effettivamente noi ritenessimo che l’uso referenziale di una
descrizione definita concorresse alla determinazione del valore di verità in modo diverso dall’uso

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attributivo. Prendiamo in considerazione l’enunciato “Suo marito è gentile con lei” detto di una
signora ben nota al parlante e al suo interlocutore. Ora se il parlante ha confuso l’amante della
signora con suo marito, e intende riferirsi all’amante della signora quando usa la descrizione “suo
marito”, e inoltre si dà il caso che l’amante sia gentile con la signora, mentre il marito non lo sia,
qual è il valore di verità dell’enunciato? Se Donnellan avesse fornito evidenza per la verità di
questo enunciato, allora l’analisi dei linguaggi-D sarebbe appropriata e si dimostrerebbe
chiaramente che i linguaggi russelliani sono inadeguati a descrivere il linguaggio che usiamo. Ma
Donnellan si guarda bene dal fare un’affermazione così perentoria. Dunnellan afferma
semplicemente che il parlante dice veridicamente dell’uomo che ha in mente che è gentile con la
signora in questione. Quindi, Donnellan non fornisce un argomento convincente per mostrare che il
linguaggio-D è il linguaggio che effettivamente usiamo.
Inoltre, gli esempi di Donnellan non forniscono evidenze probanti che il linguaggio che usiamo è il
linguaggio-D e non il linguaggio russelliano. Quindi, Donnellan non riesce a fornire argomenti
definitivi per escludere che Russell abbia fornito un’analisi adeguata del linguaggio che usiamo.

3.3.5 I pregi dell’analisi Russelliana e i limiti dell’analisi di Donnellan


Ricapitoliamo la tesi di Kripke sostenuta fin qui. Possiamo fornire due ipotesi diverse su come
funziona il linguaggio. Nessuna delle due ha ragioni schiaccianti a suo favore. Nessuna delle due
ipotesi quindi può vantare un’argomentazione convincente per dimostrare la falsità dell’altra
ipotesi.
Tuttavia Kripke ritiene che l’ipotesi che noi parliamo un linguaggio russelliano (debole o
intermedio) sembra di gran lunga preferibile all’ipotesi che noi parliamo un linguaggio-D (per dirla
in altre parole, la prima ipotesi è preferibile alla seconda ipotesi). Vediamo perché.
1) Se si accetta che la distinzione fra uso attributivo e uso referenziale delle descrizioni definite
non sia semantica, ma pragmatica, allora c’è un modo unitario di trattare sia la distinzione
fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni definite, sia la distinzione fra uso
referenziale e uso attributivo dei nomi propri.
Se invece si adotta l’analisi del linguaggio proposta dal teorico del linguaggio-D occorre
distinguere fra uso referenziale e uso attributivo delle descrizioni da una parte e uso
referenziale e uso attributivo dei nomi propri dall’altra. Cioè, se si accetta l’analisi del
linguaggio proposta dal teorico del linguaggio-D dobbiamo accettare che
a) le descrizioni definite sono semanticamente ambigue: l’uso attributivo determina
un’analisi semantica dell’enunciato che contiene la descrizione e l’uso referenziale detta
un’altra analisi dell’enunciato che contiene la descrizione.
b) i nomi non sono semanticamente ambigui e la differenza fra uso attributivo e uso
referenziale può essere spiegata solo in termini pragmatici.
Se riflettiamo ancora sull’esempio di Smith-Jones (che raccoglie le foglie) ci rendiamo
conto che una tale distinzione non ha ragione d’essere. Nel caso di Smith-Jones è evidente
che non c’è ambiguità semantica, e che la distinzione fra riferimento del parlante e
riferimento semantico è perfettamente adeguata a rendere conto del fenomeno. E il caso
delle descrizioni definite (si pensi ad esempio all’enunciato “L’assassino di Smith è pazzo”)
non è così diverso da richiedere un trattamento distinto dal precedente.
2) Supponiamo che i sostenitori del linguaggio-D abbiano ragione, allora le descrizioni definite
sono espressioni ambigue e ogni loro uso deve essere opportunamente disambiguato.
Tuttavia nel caso di altre espressioni ambigue noi possiamo constatare che ad una
espressione ambigua corrispondono spesso diverse espressioni in lingue diverse. Pensate ad
esempio alla parola “tasso” in italiano (che denota un albero, un animale e anche un
rapporto numerico fra grandezze): è evidente che in lingue diverse possono esserci parole
diverse per i diversi significati della parola “tasso”. Se anche le descrizioni definite fossero
ambigue, allora ci dovrebbero essere lingue che utilizzano espressioni diverse per i diversi
usi delle descrizioni definite, ma, per quanto se ne sa, non esistono lingue del genere. Questo

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è un elemento a supporto del fatto che non esiste un’ambiguità semantica delle descrizioni
definite.

3.4 La quarta parte: le conclusioni


Nella parte conclusiva, Kripke riassume ciò che ha presentato nel suo articolo. Kripke chiaramente
propende per l’ipotesi che il linguaggio sia un linguaggio russelliano piuttosto che per l’ipotesi che
il linguaggio sia un linguaggio-D. Tuttavia Kripke non sostiene che un sostenitore del linguaggio-D
abbia torto. Forse le due analisi del linguaggio possono coesistere e forse non c’è un’analisi
semantica corretta del linguaggio.

Inoltre Kripke ribadisce che ci sono enunciati che contengono descrizioni definite e le cui
condizioni di verità non sono fornite ovviamente dall’analisi russelliana, si tratta degli enunciati che
contengono quelle che Kripke chiama “descrizioni definite “indefinite””. Si pensi ad esempio
all’enunciato “Il tavolo è pieno di libri” (un esempio di Strawson). In questo caso l’enunciato non
può essere analizzato come propone Russell. Come abbiamo già considerato nell’introduzione al
saggio (§2.2), secondo Kripke l’enunciato “Il tavolo è pieno di libri” non può essere analizzato - à
la Russell - come “c’è uno e un solo tavolo e qualunque cosa sia un tavolo è pieno di libri” perché
la descrizione non contiene condizioni univocamente determinanti. Quindi, Russell non può aver
fornito un’analisi completamente corretta degli enunciati che contengono descrizioni definite.
In questo caso si può essere tentati di trattare la descrizione definita “indefinita” come contenente
un dimostrativo: un enunciato che contiene una descrizione come “Il tavolo è pieno di libri” sarebbe
equivalente a “Quel tavolo è pieno di libri”, ma questa osservazione andrebbe a favore dell’analisi
di Donnellan delle descrizioni definite. Se fosse così, la descrizione definita in un tale enunciato
avrebbe un ruolo referenziale e l’enunciato potrebbe essere analizzato come vengono analizzati nel
linguaggio-D gli enunciati che contengono descrizioni definite usate referenzialmente. Le
condizioni di verità dell’enunciato sarebbero quindi le seguenti: “Il tavolo è pieno di libri” è vero se
e solo se il tavolo che ha in mente il parlante ha la proprietà di essere pieno di libri. Kripke quindi
conclude il suo saggio riconoscendo che l’analisi russelliana non può essere pienamente esaustiva.

Kripke non fornisce pertanto una conclusione perentoria. Le tesi principali che Kripke riesce a
sostenere sono le seguenti tesi negative: (I) Donnellan non è riuscito a dimostrare che la distinzione
fra uso referenziale e uso attributivo renda inadeguata l’analisi russelliana delle descrizioni definite
e degli enunciati che le contengono; (II) anche se la teoria delle descrizioni di Russell è compatibile
con l’analisi dei diversi usi delle descrizioni definite proposta da Kripke, la teoria di Russell non
può essere applicata indistintamente a tutti gli usi delle descrizioni definite.

Kripke ha indubbiamente il merito di aver proposto una critica sofisticata e sottile della posizione di
Donnellan e di aver proposto uno strumento teorico importante, cioè la distinzione fra riferimento
del parlante e riferimento semantico, che è molto utile per la filosofia del linguaggio
contemporanea.

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