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La pratica del tradurre è affermata da molto tempo, ma la disciplina degli studi sulla
traduzione è nuova. In passato la traduzione è stata funzionale solamente a un’attività
mirata all’apprendimento linguistico. Essa era intesa come un utile mezzo
“grammatico-traduttivo” favorevole all’apprendimento di una nuova lingua.
Lo studio di questo campo si è tramutato in disciplina accademica soltanto nella
seconda metà del XX secolo. Esso è iniziato attraverso la letteratura comparata, i
“laboratori di traduzione” e l’analisi contrastiva.
L’approccio allo studio della traduzione più sistematico e più orientato cominciò ad
emergere negli anni Cinquanta e Sessanta, iniziando così a delineare il territorio della
ricerca accademica in traduzione. The name and nature of translation studies di
James Holmes è considerato lo statuto di una nuova disciplina che si è ampliata
enormemente nel corso del tempo, tanto da essere considerata una interdisciplina.
Volendo andare per gradi possiamo guardare agli studi relativi ai problemi della
traduzione da ben cinque punti di vista:
3. Dal punto di vista descrittivista dobbiamo menzionare una data importante: agosto
1972 quando il traduttore James Holmes con la sua relazione, intitolata The name
and nature of translation studies propose una nuova disciplina per lo studio della
traduzione. Egli traccia una vera e propria mappa sottoforma di diagramma per
spiegare la sua teoria. I translation studies constano di due parti: una pura e una
applicata. La parte pura si suddivide in un’area descrittiva, la quale illustra i fenomeni
traduttivi, e in un’area teorica. L’area descrittiva si suddivide a sua volta in tre parti:
product-oriented (destinata alla descrizione delle traduzioni e al confronto fra trad.
dello stesso testo); function-oriented (destinata alla descrizione della funzione della
trad. nel contesto di recezione); process-oriented (lo studio di ciò che avviene nel
processo traduttivo). Nel quadro proposto da Holmes si circoscrivono i vari tipi di
traduzione, ma il vero obiettivo non è quello di definire una teoria della traduzione
quanto studiarne i procedimenti.
Tuttavia i translation studies, hanno avuto un grande successo grazie al contributo
della scuola di Tel Aviv, con Itmar Even-Zohar e Gideon Toury, i quali hanno messo
in luce le condizoni storico culturali in cui avviene una traduzione.
In particolare Itmar Even Zohar ha introdotto la cosiddetta teoria dei polisistemi
secondo la quale la letteratura tradotta non va studiata in maniera isolata ma
all’interno del sistema storico-culturale-letterario della lingua d’arrivo. Lo studioso
parla di polisistema, intendendolo come un contesto dinamico, eterogeneo e
gerarchizzato in cui si assiste a una sorte di lotta di supremazia per raggiungere la
posizione principale all’interno del canone letterario.
Accanto a Zohar, ricordiamo Toury il cui obiettivo era la ricerca di una metodologia
nell’ambito degli studi descrittivi sulla traduzione, tentando di fornire delle norme
generali fondamentali nel processo traduttivo.
4. Con Susan Bassnett e André Lefevere si da avvio alla cosiddetta “svolta culturale”.
I due studiosi infatti, furono i primi a concentrarsi sull’interazione tra traduzione e
cultura andando oltre il piano linguistico. In questo modo i translation studies sono
sfociati nei noti cultural studies.
Lefevere sostiene che la traduzione è la forma di riscrittura più evidente e influente,
in quanto capace di proiettare in un’altra cultura l’immagine di un autore, l’ideologia,
superando il confine della cultura d’origine. Lefevere vede il sistema letterario nel
quale la traduzione opera, sotto il controllo del cosiddetto patronato ossia centri di
potere, in grado di favorire o ostacolare la produzione, diffusione, riscrittura di opere
letterarie. Ogni riscrittura è pertanto una manipolazione testuale che si pone al
servizio del potere.
Un approccio alla traduzione che sia decisamente indirizzato verso gli studi culturali
è quello adottato da Lawrence Venuti. Secondo venuti un testo non è semplicemente
uno strumento di comunicazione utilizzato dagli individui. Chiaramente la traduzione
è una delle funzioni che la lingua può svolgere ma non è quella esclusiva. Venuti
considera ogni uso della lingua come un luogo di rapporti di potere, dato che una
lingua è una specifica realizzazione di forma dominante che esercita la propria
supremazia sulle variabili minori. Venuti chiama questa potenzialità remainder. Esso
mette in discussione la forma dominante in quanto ne mette in luce le contraddizioni
all’interno di un contesto sociale e storico. Dunque, un testo letterario non può
esprimere solo il significato voluto dall’autore in uno stile personale, ma mette in
moto forme collettive.
Venuti inoltre descrive due diversi atteggiamenti traduttivi: “domesticating
translation” e “foreignizing translation”. Con la prima si cerca di evitare ai lettori la
sensazione di stare leggendo un testo letterario, con la seconda ci cerca di evidenziare
proprio la diversità linguistica e culturale del testo.