Sei sulla pagina 1di 10

Lezione del 19.03.

2019 di Farmaco 1
Sbobinatore: Klaudia Eshja
Docente: Martelli

Argomenti: vie di somministrazione e distribuzione dei farmaci.

Ripasso della volta precedente:


I fattori che influenzano l’assorbimento dei farmaci sono vari: la struttura fisico-chimica del farmaco, la
sua capacità di passare le membrane ma soprattutto la scelta della via di somministrazione da usare.
Le vie naturali di somministrazione sono quelle più gradite dai pazienti e inoltre le più economiche. I
costi delle terapie risultano essere un problema, infatti le farmacie mettono in commercio solo il farmaco
meno costoso, quindi bisogna sapere i costi per saperli gestire.

Facendo riferimento ai costi, le vie artificiali di somministrazione, visto che prevedono l’uso di
dispositivi -come siringhe, aghi- e di personale addetto alla gestione di tali dispositivi, sono molto più
costosi delle vie naturali e perciò poco usati. Per questo si preferiscono le vie naturali di
somministrazione, tuttavia non sempre è possibile perché un farmaco magari non può essere sintetizzato
in una forma somministrabile per via orale perché non viene assorbito, quindi necessariamente si ricorre
alla somministrazione artificiale del farmaco.

Vantaggi delle vie artificiali: permette di somministrare farmaci anche a soggetti non collaboranti
(paziente privo di conoscenza, non è collaborante, oppure un soggetto psicotico, bambino, non
cosciente). L’abbiamo detto anche la scorsa volta, nel caso delle vie naturali si richiede la collaborazione
del paziente. Invece per le vie artificiali non è appunto richiesto. In più danno la certezza del dosaggio: in
linea di massima tutto il farmaco che viene somministrato riesce a raggiungere la circolazione sistemica,
che è quello che abbiamo definito assorbimento.

Esistono vari tipi di vie artificiali di somministrazione, quelle di uso più comune sono la via
sottocutanea, intramuscolare e endovenosa.
La via sottocutanea e la via intramuscolare hanno caratteristiche simili: entrambe consentono la
somministrazione di soluzioni, in genere acquose, più raramente con una certa percentuale di alcool. Si
possono somministrare anche soluzioni oleose: quando il principio attivo è molto lipofilo, esso non si
riesce a sciogliere in acqua, perciò viene sciolto in una soluzione contenente dei grassi.
Si possono somministrare soprattutto per la via sottocutanea le sospensioni, cioè formulazioni in cui nella
fiala il prodotto non è limpido, poiché ci sono aggregati del farmaco di grosse dimensioni o addirittura
aggregati su supporti (es: insulina a lenta azione), si vede materiale sospeso nel liquido.
Nel caso della via sottocutanea si può ricorrere alla somministrazione anche di compresse, si crea una
tasca nel sottocutaneo dove viene immessa una compressa del farmaco, il quale viene rilasciato
lentamente. Per la via sottocutanea non possono assolutamente essere somministrare sostanze irritanti.
Da ricordare, soprattutto perché ultimamente la via sottocutanea ha visto un aumento delle prescrizioni
dal momento che si utilizzano molto farmaci biologici, come anticorpi monoclonali. Questi non possono
essere somministrati per bocca, perché essendo di natura proteica, verrebbero digeriti a livello
gastroenterico. Infatti si utilizza una via iniettiva e nello specifico la via sottocutanea. Questa via
consente al paziente l’autosomministrazione, con speciali penne che realizzano una facilità d’uso. Il
preparato non deve assolutamente essere irritante perché a livello del sottocutaneo c’è una “valanga” di
terminazioni nervose. Quelle dolorifiche potrebbero essere sollecitate dal contatto con particelle irritanti
del farmaco, quindi il paziente sente dolore.
Per la via sottocutanea l’assorbimento richiede un po’ di tempo perché i capillari non sono molti e
nemmeno grossi: le molecole di farmaco stentano a raggiungere il torrente circolatorio. Si stima un
tempo di 30/45 minuti affinché il farmaco raggiunga la circolazione.
Ci sono dei casi in cui si vuole rallentare l’ingresso in circolo del farmaco, pertanto esistono degli artifici
cosicché il farmaco rimanga più a lungo nel sottocutaneo: quello più noto è l’associazione del farmaco ad
un vasocostrittore (di solito l’adrenalina) per far sì che il calibro dei vasi del tessuto sottocutaneo sia
molto stretto e piccolo. Le molecole di farmaco in questo modo fanno molta fatica a raggiungere la
circolazione e restano nel sito più a lungo. [questo succede per esempio con gli anestetici locali che si
usano dal dentista: per mantenere l’anestesia nella zona interessata si aggiunge adrenalina].
Si può rallentare l’assorbimento rendendo più difficile il passaggio in circolo del farmaco. Per esempio si
formula il farmaco in una sospensione, come alcuni tipi di insulina che invece di essere costituiti in
monomeri -forma attiva dell’insulina- vengono prodotti in esameri: essendo prima necessario aprire
questa struttura, il tempo di assorbimento diventa più lungo.
Si possono somministrare anche quantità consistenti di liquidi, anche 100 cc (differenza più rilevante tra
via sottocutanea e quella intramuscolare). Il tessuto sottocutaneo è ricco di grassi e di fatto consente un
assorbimento prolungato. Differentemente da quanto accade nel tessuto muscolare, dove le fibre sono
lunghe e strette e fittamente stipate tra loro, avvolte da una fascia esterna. Quindi la quantità di liquido
somministrabile per via intramuscolare è molto bassa, perché le fibre si danneggiano non essendoci
“spazio di manovra”; la quantità massima è molto bassa, circa 5 cc ma ottimale è 3cc.

L’assorbimento è più veloce per la via intramuscolare perché è un tessuto più irrorato→ è molto più
probabile per le molecole di farmaco raggiungere il circolo. Si stima che l’assorbimento giunga già dopo
15 minuti. Ci sono meno terminazioni nervose, quindi si possono somministrare sostanze parzialmente
irritanti.
Si possono somministrare preparati di deposito, che vengono assorbiti lentamente nel tempo, ma sempre
in quantità piccole per non danneggiare le fibre. Come per la via sottocutanea si possono somministrare
soluzioni acquose, limpide. Ma anche sospensioni e a volte soluzioni oleose, con più attenzione.

La via endovenosa è quella con cui si conclude l’assorbimento ( tutti i passaggi che il farmaco deve
compiere per giungere in circolo); se immettiamo il farmaco con una ago o una siringa già in circolo, si
salta la fase dell’assorbimento. È quella che ha i maggiori vantaggi così come i maggiori svantaggi.
Vantaggi: rapidità d’azione perché si salta appunto una tappa consentendo al farmaco di arrivare agli
organi bersaglio in un tempo più breve. Ho la certezza che la quantità di farmaco che somministro arriva
tutta all’organo bersaglio. Quindi la quantità deve essere giusta. Nelle altre vie, soprattutto in quelle
naturali di somministrazione, si può interrompere, se ci si accorge di un errore, l’assorbimento e quasi
sempre si riesce o comunque si può recuperare (se somministrato per os si può indurre il vomito, si può
fare la lavanda gastrica, ecc). Se si somministra in vena un farmaco questo entra in azione subito, quindi
l’effetto tossico si vede subito. Perciò la dose va’ valutata con estrema attenzione.
Si possono somministrare solo soluzioni acquose, non certamente soluzioni oleose e sospensioni perché
le parti non miscelabili provocano ostruzioni nei piccoli vasi → embolia polmonare.
Si possono somministrare sostanze irritanti perché a livello dell’endotelio non ci sono terminazioni
nervose. Si possono immettere farmaci con pH molto diversi da quello fisiologico, che vanno da 4,5 a 11.
Si dovrebbero somministrare possibilmente soluzioni isotoniche. Le ipertoniche si usano spesso, per
esempio la glucosata al 10%, ma c’è il rischio che i globuli rossi possano disidratarsi, ma in linea di
massima non succedono danni gravi. Stesso discorso vale per le ipotoniche, purché siano poche e
controllate→ rischio emolisi.
Modalità di somministrazione per via endovenosa: sono due e si possono anche usare
contemporaneamente nella stessa somministrazione. Esse sono:
➢ Bolo, cioè il farmaco è somministrato tutto insieme. Devo assicurarmi che non sia tossico per il
pz, si somministra lentamente in vena con la siringa per permettere al farmaco di diluirsi nel
compartimento sanguigno (5L di sangue ci mettono un minuto a fare il giro completo). Si deve
impiegare circa un minuto per la somministrazione. Se non si fa ciò, il farmaco si concentra in un
volume ristretto di sangue, quello che attraversava in quel momento il vaso, e se arriva agli organi
nobili può causare danni. Nel caso di un farmaco in grado di influenzare l’attività elettrica, se
giunge a livello cardiaco o del SNC può dare problemi.
➢ Fleboclisi: posso fare un bolo per avere un’azione rapida del farmaco, dopodiché mantengo
l’erogazione lenta grazie ad una fleboclisi continua. Può avere varie velocità di infusione e se si
dispone di una pompa si può andare anche a velocità rilevanti, altrimenti la velocità varia fra 20 e
60 gocce al minuto. La fleboclisi consente di mantenere il trattamento per tempi molto lunghi.
Prima si deve controllare la funzionalità renale del pz.

Se si esegue una somministrazione per via endovenosa tutto il farmaco entra in circolo→ biodisponibilità
totale.

Come fa il farmaco dal sangue ad arrivare all’organo bersaglio → DISTRIBUZIONE


Per svolgere la sua azione, che spesso è una modificazione funzionale a livello dell’organo, è necessario
che il farmaco raggiunga tale organo che presenta dei recettori coi quali interagisce, per cui provoca la
modificazione desiderata.

Fattori che influenzano distribuzione:


 caratteristiche del farmaco: così come ha passato
tutte le membrane delle cellule per immettersi nel
circolo, allo stesso modo deve attraversare altre
membrane cellulari e uscire dal circolo e arrivare
all’organo bersaglio. Chiaramente le caratteristiche
chimico-fisiche esercitano un’influenza e sono
favoriti farmaci lipofili, perché sia sono assorbiti sia
si distribuiscono meglio nelle cellule. Questo
rappresenta un handicap in un secondo momento: il
farmaco essendo lipofilo sta bene nelle cellule,
quindi ci saranno problemi ad eliminarlo.

 Flusso di sangue nei vari organi: non tutti gli organi hanno lo stesso flusso, infatti ci sono quelli
ad alto flusso (cuore, SNC, rene, fegato riceveranno più farmaco e più in fretta) e quelli a basso
flusso. Se un farmaco interviene sulle capacità elettriche di una cellula questo può essere
compromettente a livello di cuore e SNC. Es: si somministra un anestetico per fermare l’attività
nel SNC, perciò si fa la somministrazione in bolo perché più rapida; quel farmaco può deprimere
anche attività cardiaca. Quindi si deve tenere conto di questi aspetti nell’uso di anestetici. Il
farmaco arriva anche a livello di cute e sottocutaneo, ma è meno rilevante. Si parla di modello
bicompartimentale: il farmaco ha una prima distribuzione importante, agli organi a cui associo
l’effetto, e successivamente si distribuisce anche ad altri compartimenti meno rilevanti (valido per
determinati tipi di farmaci).

 Capillari non sono tutti uguali nei vari organi: nel fegato ci sono i sinusoidi caratterizzati da un
endotelio fenestrato e questi grossi “buchi” consentono il passaggio di sostanze tra cellule e
sangue; nel SNC ci sono molte protezioni, i farmaci non ci arrivano facilmente perché devono
superare delle chiusure, fra le cellule, molto più strette. Per cui il tipo di capillari dei singoli
tessuti influenza l’arrivo e quindi la distribuzione nei vari organi del farmaco.
 Legame alle proteine plasmatiche: farmaco, per essere assorbito e distribuito al meglio, deve
essere lipofilo perché passa meglio le membrane per diffusione semplice. Quando si trova nel
plasma è in difficoltà perché si trova in un ambiente acquoso. Perciò il farmaco “si nasconde”,
attaccandosi a proteine plasmatiche (le quali sono tutte a struttura glomerulare), infilandosi nelle
apposite tasche → tale legame è cruciale, il farmaco viene veicolato, ma finché è legato alla
proteina non arriva all’organo bersaglio perché le proteine non possono lasciare il circolo.

La maggior parte si lega all’albumina (la più


rappresentata, 3,6-4,9 g/dl); il legame è
aspecifico, le tasche sono tante quindi molte
molecole sono trasportate. Il legame è labile,
quindi il farmaco si può staccare e c’è un
equilibrio tra quota legata e quota libera.
Quella libera è l’unica che può raggiungere
l’organo bersaglio.
Lascia il circolo quando raggiunge il suo
organo bersaglio e, per la legge dell’equilibrio
di massa, una quota di farmaco uguale a quella
che ha lasciato il circolo si stacca dalla
proteina e mantiene nel tempo la quota libera.

Non tutti i farmaci si legano all’albumina, si


possono legare ad altre globuline: ci sono globuline specifiche che trasportano farmaci specifici come gli
ormoni; c’è la proteina specifica di trasporto dei cortisonici, che sono estremamente lipofili. L’effetto del
farmaco è legato alla sola quota libera. Quindi un farmaco di dimensioni piccole e idrofilo non ha tanto
bisogno di legarsi alle proteine plasmatiche ed è disponibile subito, avendo legame basso con proteine
plasmatiche può raggiungere facilmente l’organo bersaglio. L’ aspirina è abbastanza idrofila, il suo
legame è circa del 40% quindi una grossa quota è disponibile.

Il problema sorge in pz di età avanzata che assumono più farmaci contemporaneamente: ci può essere
competizione tra farmaci molto lipofili che vogliono legarsi alle proteine disponibili per proteggersi
dall’ambiente acquoso. Così facendo si spiazzano l’uno con l’altro. Perciò i farmaci che hanno un alto
legame possono andare incontro a spiazzamento, cioè possono essere spinti via da un altro farmaco che
ha altrettanta affinità per le proteine. Per esempio il walfarin, farmaco anticoagulante, si lega al 99,9%.
Se arriva un altro farmaco e spiazza via il walfarin, anche solo di poco, e fa scendere il suo legame alle
proteine da 99, 9 al 90%, allora aumenta la quota di molecole di walfarin libere → in questo modo
esercita un’azione maggiore ed essendo un anticoagulante c’è il rischio che il paziente sanguini. Perciò i
fenomeni di spiazzamento posso causare danni gravi; sono stati rilevati anche nel caso di
ipoglicemizzanti orali che hanno un elevato legame con le proteine. Quindi bisogna fare attenzione alla
somministrazione contemporanea di più farmaci ad alto legame perché si è scoperto che in pazienti che
prendevano il walfarin e FANS contemporaneamente (non tanto l’aspirina che si lega poco, quanto
l’ibuprofene che ha legame del 98 %), questi entrano in competizione causando emorragie gravi a causa
dello spiazzamento.

 Barriere che non consentono o consentono il passaggio: ce ne sono molte, quelle più importanti
sono la barriera ematoencefalica e quella fetoplacentare. Sono completamente diverse, entrambe
sono chiamate barriera ma hanno una differenza abissale. Quella vera è la barriera
ematoencefalica perché è una struttura funzionale che impedisce l’ingresso nel SNC ai farmaci
che non siano piccoli e lipofili. Le cellule che compongono lo strato esterno della barriera sono
unite da giunzioni serrate e non fanno passare nulla; l’ambiente interno, creato e mantenuto dagli
oligodendrociti e dalle strutture gliali, impedisce di nuovo il passaggio.
Per trattare patologie al SNC i farmaci devono essere piccoli e lipofili. Possiamo sfruttare il fatto che
l’infiammazione allenta le giunzioni serrate, quindi di fatto consente a volte il passaggio (es meningite
acuta, ascesso cerebrale) di farmaci. Se ne deve tener conto per due motivi: innanzitutto perché si
possono usare dei farmaci che in condizioni normale non passerebbero mai; in secondo luogo può
passare un farmaco che non si intendeva far passare nel SNC, ma in condizioni di infiammazione non
viene fermato→ tossicità.
Barriera fetoplacentare: si chiama barriera ma di fatto non ferma niente, non è una barriera.
Semplicemente rallenta, i farmaci fanno un po’ più fatica a superare tale filtro, ma passano. Inoltre esiste
una differenza di pH tra sangue materno e fetale → potrebbe favorire l’arresto nel bambino di farmaci
basici, con aumento della concentrazione. Nel trattamento di una signora in gravidanza si usano farmaci
di grosse dimensioni e idrofili, sapendo che passeranno certamente la barriera fetoplacentare, ma
passeranno in numero minore per limitare i danni al bambino. Anche altri organi hanno barriere protettive
quali prostata e occhio. Spesso i farmaci non sono in grado di arrivarci, perciò è un aspetto di cui tenere
conto nella scelta del trattamento.

 esistenza dei tessuti di deposito: spesso le case farmaceutiche sfruttano i tessuti deposito e il
legame a proteine per mantenere più a lungo nell’organismo un farmaco, che viene rilasciato man
mano in un tempo più lungo. Vantaggio: paziente lo assume meno spesso. È vero che si allunga il
tempo di permanenza, ma serve una quantità attiva in un tempo ragionevole. I farmaci che si
legano alle proteine plasmatiche o che hanno tropismo per i tessuti di deposito non si possono
usare in emergenza.
I tessuti di deposito sono stati scoperti per caso quando ci si è accorti che alcuni farmaci, che dovevano
essere in circolo o nell’organo bersaglio, si erano andati a depositare nel tessuto dove stavano meglio,
spesso nel tessuto adiposo ma non solo → se si fermano qui non fanno effetto. Man mano che il farmaco
viene utilizzato nella sua sede di azione, si mantiene la legge di azione di massa e una piccola quota di
farmaco di uguale quantità si stacca dal tessuto di deposito e va in circolo. Anche questo sistema
prolunga l’azione del farmaco.

I tessuti di deposito spesso sono un problema: per esempio l’anestetico tiopentale (che ora non si usa più)
arriva molto velocemente al SNC in quanto è molto lipofilo. Quando esce dal SNC non viene eliminato,
ma si accumula nel tessuto adiposo perché appunto lipofilo; viene poi lasciato gradualmente. Quindi il
paziente, pur non essendo più in anestesia, rimaneva sonnolento anche dopo l’intervento per il rilascio
lento e in piccola quantità dell’anestetico, che si era accumulato nel tessuto deposito. In alcuni casi può
essere favorevole perché appunto si mantiene più a lungo l’effetto, ma in moltissimi casi è un effetto più
sfavorevole. Un farmaco depositato non può essere usato in trattamenti in acuto.
Misurazione della distribuzione: in che volume di liquidi biologici si è distribuito il farmaco → a seconda
di come si è distribuito si stabilisce più o meno l’effetto. Tengo conto dell’acqua tot dell’organismo =
60% del peso corporeo (in un individuo di 70 kg corrisponde a 48 L). Il farmaco potrebbe distribuirsi in
vari modi. Può riuscire ad arrivare in circolo grazie all’assorbimento ma poi rimanere confinato nel
plasma perché non riesce a superare l’endotelio. Se non raggiunge l’organo bersaglio non ha alcun effetto
farmacologico. Quindi i farmaci che hanno una distribuzione esclusivamente plasmatica sono stati usati
in passato soltanto per valutare il volume plasmatico tot del soggetto, ma non si usano dal punto di vista
farmacologico perché non hanno effetto.
Di maggior interesse sono quelli che passano l’endotelio e si distribuiscono almeno nell’acqua
extracellulare. Questo perché i recettori, coi quali il farmaco interagisce, sono perlopiù situati sulla
membrana esterna della cellule → se il farmaco riesce ad arrivare in prossimità delle cellule può
contattare il recettore sull’esterno ottenendo così l’effetto voluto. Quindi è sufficiente una distribuzione
del farmaco nei liquidi extracellulari, che corrispondono circa a 12-14 L d’acqua.
Se invece il farmaco attraversa tranquillamente le membrane, si distribuisce nell’acqua totale, cioè dentro
e fuori le cellule: ad esempio un cortisonico ha una distribuzione che gli consente di arrivare fino al
nucleo delle cellule.
Un farmaco può avere volume di distribuzione (espresso in L/kg) che è superiore all’acqua totale, alcuni
di 2000 litri. Siccome è un rapporto tra la quantità di farmaco somministrato e il volume che trovo nel
sangue, vuol dire che tale farmaco si è depositato da qualche altra parte, in un tessuto di deposito.

METABOLISMO O BIOTRASFORMAZIONE
Come liberarsi del farmaco: eliminandolo con le urine, è la via più semplice.
La maggior parte dei farmaci è lipofila pertanto non può essere eliminata con le urine, le quali sono
acquose. Quindi si deve modificare la struttura del farmaco da più lipofilo a più idrofilo, per renderlo più
adatto a essere eliminato con la
via principale di eliminazione dei
farmaci, ovvero quella renale.
Il metabolismo dei farmaci può
avvenire a livello di tutti gli
organi, però quello più importante
nella biotrasformazione dei
farmaci è indubbiamente il fegato.
Qui avviene la trasformazione: gli
enzimi epatici (ma anche gli
enzimi degli altri organi)
modificano il farmaco con
reazioni di fase 1 (ossidazione,
riduzione e idrolisi); oppure
possono subire reazioni di
coniugazione o sintesi, che
farmacologicamente vanno sotto
il nome di reazioni di fase 2.
Sono distinte in reazioni di fase 1 e 2 per diversi motivi:
1. Le reazioni di fase 1 spesso non sono definitive, cioè il farmaco subisce una reazione di fase 1
(per esempio si ossida oppure si riduce), ma non viene eliminato in questa forma, deve essere
ulteriormente trasformato. È un metabolita che ha ancora attività, anche se inferiore a quella
originaria; raramente è inattivo.
2. Molto spesso una reazione di ossidazione serve per rendere evidente sulla superficie della
molecola di farmaco un gruppo reattivo su cui poi possa avvenire una reazione di coniugazione
→ meccanismo di passaggio che favorisce l’ulteriore processazione del farmaco.
3. La fase 1 precede sempre la fase 2. Sono possibili diverse combinazioni, ma questa regola deve
essere rispettata.
4. Un metabolita, dopo le reazioni di fase 1, può risultare più tossico, cioè questa trasformazione gli
toglie l’effetto farmacologico ma lo rende più tossico. Una reazione di fase 2 è sempre
detossificante, una farmaco che ha subito una reazione di coniugazione è sempre meno tossico del
farmaco originale.

La biotrasformazione, oltre che a rendere il farmaco da più lipofilo a più idrofilo, deve ridurre l’attività
farmacologica, ma non sempre avviene: ci sono alcuni farmaci che subiscono metabolizzazione ma i
prodotti metaboliti sono ancora attivi, continuano l’azione del farmaco originario. Per esempio il valium
(ansiolitico e anticonvulsivante) agisce nel SNC, è molto lipofilo. Deve essere quindi trasformato, ma
produce dei composti ancora parzialmente attivi che continuano l’effetto, perché essendo ancora lipofili,
passano la barriera ematoencefalica → la durata è estremamente lunga.

Di solito la trasformazione per reazione di fase 1 -così come di fase 2- rende il farmaco meno adatto a
legarsi alle proteine plasmatiche, perché lo rendono più idrofilo; in generale si deposita meno facilmente.
Sono stati messi a punto dei farmaci non attivi, cioè profarmaci i quali divengono attivi dopo essere stati
modificati da una metabolizzazione. In questo caso la metabolizzazione è cruciale, altrimenti non c’è
effetto farmacologico.

Reazioni di Fase 1: ossidazioni e riduzioni sono di solito accoppiate, c’è una parte che si ossida e una che
si riduce. Possono avvenire in strutture microsomiali e non microsomiali. I microsomi sono un artefatto,
si ottengono da un omogenato di fegato per centrifugazione. Sarebbero la separazione di zone del RER, a
cui sono legate delle attività enzimatiche. Le reazioni microsomiali cruciali dal punto di vista
farmacologico sono quelle mediate dalla famiglia dei citocromi, in particolare del CYT p450 (il numero
indica la lunghezza d’onda a cui è dosato tale CYT). I citocromi sono molto importanti per la
metabolizzazione della maggior parte dei farmaci, ma il corredo genetico di citocromi è diverso da
soggetto a soggetto. Quindi anche la competenza metabolica, cioè la capacità di trasformare un farmaco,
è diversa a seconda del paziente: in alcuni sarà molto rilevante, in altri sarà scarsa. Quindi la durata e
l’effetto farmacologico saranno diversi da un paziente all’altro. Inoltre i citocromi possono essere
soggetti a induzione e inibizione.

Le reazioni extra-microsomiali: sono in genere più note, fra queste vi sono le reazioni che metabolizzano
l’alcool (enzima: aldeide deidrogenasi), le reazioni delle aminoossidasi, cioè le MAO, che metabolizzano
le ammine simpatico-mimetiche, cioè l’adrenalina e la noradrenalina.
Nelle idrolisi gli enzimi più importanti sono le peptidasi, ma ce ne sono diverse.
Fra le reazioni di coniugazione la più importante e quella che avviene più frequentemente è la
glucuronazione, cioè la coniugazione con l’acido glucuronico (→ segue sempre l’eliminazione,
soprattutto per via renale). C’è la solfoconiugazione, cioè la coniugazione con l’acido solforico (diversa
fra maschi e femmine, è un aspetto della medicina di genere). La coniugazione può avvenire con
qualunque altro amminoacido (glicina, taurina, ecc). Posso acetilare, metilare e via dicendo.

Quelle che creano più problemi sono le reazioni di ossido-riduzione mediate dai citocromi perché si
pensa che il problema sia dovuto alle reazioni extra-microsomiali: ciò significa che le strutture
enzimatiche che attuano quelle metabolizzazioni sono sparse nel citoplasma, non hanno una sede fissa.
Per cui di fatto non c’è qualcosa di esterno che agisce, perché sono talmente sparsi nel citoplasma che
non risentono più di tanto dell’azione di altri agenti. Diversamente i citocromi che sono localizzati nel
RER e quindi hanno una sede forzata, possono essere più soggetti a fenomeni di interazione. Il citocromo
ha una struttura molto rappresentata soprattutto a livello epatico (ma in generale a livello di tutti gli
organi), è costituito da parecchie famiglie. A noi interessano quelle che metabolizzano i farmaci.
Normalmente i citocromi metabolizzano sostanze introdotte con la dieta, sostanze organiche, ecc. I
farmaci sono metabolizzati dalle classi di citocromi 1, 2, 3: su questi il farmaco può essere substrato,
cioè utilizza il citocromo per essere ossidato oppure ridotto.
Ci sono farmaci che sono inibitori, cioè il farmaco entra nel citocromo (che immaginiamo come una
serpentina) e viene ossidato-ridotto più volte ed esce in forma o ossidata o ridotta. Ci sono dei farmaci
inibitori, che entrano nella serpentina, si fermano dentro e bloccano il sistema.
Ci sono infine farmaci induttori, che sono in grado di stimolare la copiatura del gene del citocromo,
favorendo l’espressione di maggiore quantità del citocromo stesso.

Il grafico a sinistra rappresenta la


parte di citocromi più importanti
per la metabolizzazione dei
farmaci.

Il CYT 3A metabolizza circa il


55% dei farmaci.
Il CYT 2C metabolizza una
buona quota di farmaci. Gli altri
sono meno importanti.
Questo dal punto di vista della
capacità dei singoli citocromi di
metabolizzare i farmaci.

Il grafico a destra rappresenta la


quantità di questi citocromi
normalmente presenti
mediamente nella popolazione. Il
CYT 3A è piuttosto
rappresentato. Lo stesso vale per
il CYT 2C. Di particolare
interesse è il CYT 2D6 che normalmente nella popolazione generale è poco rappresentato ma
metabolizza il 30% dei farmaci. Quindi è poco numericamente parlando, ma metabolizza una buona
quota di farmaci. Ciò fa capire che problemi nel metabolismo dipendono dal tipo di farmaco che si sta
usando, dalla sua quantità e dallo specifico paziente.

FATTORI che possono modificare e influenzare il metabolismo dei farmaci: siccome il fegato è l’organo
più importante nella metabolizzazione dei farmaci, un problema potrebbe essere un fegato non
funzionante, quindi patologie epatiche gravi che impediscono tali processi. D’altro canto non sono così
frequenti tanto che deve esserci una patologia estremamente grave perché il fegato smetta di
metabolizzare. Quindi si parla di incompetenza metabolica per patologie gravi come la cirrosi e epatite
virale acuta che distruggono proprio gli epatociti. Pazienti invece con metastasi epatiche metabolizzano
normalmente. Quindi ci vuole un danno alle cellule importante perché si veda una compromissione del
metabolismo epatico.

Quello che influenza molto di più la metabolizzazione epatica dei farmaci sono:

➔ Polimorfismo genetico: ci sono differenze che comportano la minore o maggiore produzione di


citocromi, più o meno funzionanti.
➔ Differenze nell’espressione e nell’attività dei singoli enzimi.
➔ Differenze in relazione al sesso (ad esempio la solfoconiugazione è diversa tra maschi e femmine,
lo stesso vale per l’aldeide deidrogenasi) e alla razza (le statine hanno grossi problemi nei soggetti
asiatici).
➔ Età, è un problema nelle fasce estreme: neonati entro i 30 giorni di vita hanno un fegato ancora
incompetente enzimaticamente, soprattutto nella coniugazione. Possono esserci problemi negli
anziani, non tanto per competenza quanto per rapidità, dove le attività enzimatiche ci sono ma
sono più lente, perciò il farmaco permane più a lungo.
➔ Abitudini voluttuarie: alcool, fumo (inibitore dei citocromi), co-somministrazione di altri farmaci
perché uno dei due potrebbe essere inibitore del CYT e l’altro semplicemente substrato. Quindi le
concentrazioni del farmaco, il cui metabolismo è bloccato, continuano a salire perché non viene
trasformato e di conseguenza escreto → effetti tossici.
Alcuni farmaci o sostanze possono indurre i citocromi, cioè aumentare l’espressione delle attività
enzimatiche andando ad aumentare la copiatura del gene → aumento della quantità dei citocromi 
quindi metabolizzazione più veloce dei farmaci → Effetto breve del farmaco, tanto che può non essere
riscontrabile.
Quindi si parla di induzione quando c’è un aumento dell’attività degli enzimi (la copiatura dei geni è un
processo lento, occorrono giorni), perciò i farmaci verranno smaltiti più in fretta perché di citocromi ce
n’è di più. Al contrario se un farmaco è inibitore blocca l’attività del citocromo e lo fa subito
(contrariamente all’induzione che è lenta), si vedono gli effetti tossici rapidamente.

Ci sono tabelle che danno un’idea generale di come agiscono sostanze introdotte con la dieta o altri
farmaci sui citocromi. Sul CYT 3A (che è quello che metabolizza il maggior numero di farmaci)
possiamo avere degli inibitori (potenti o moderati); tutti gli altri farmaci, che avrebbero voluto usare il
CYT 3A per essere metabolizzati, non possono perché il citocromo è bloccato. Fra questi ci sono quasi
tutti i farmaci anti-HIV: atazanavir e ritonavir sono inibitori potenti tanto che si abbassa la dose di altri
farmaci anti-HIV usati contemporaneamente. Nel caso del ritonavir si usa una dose che non sarebbe
efficace perché blocca il citocromo così potentemente: questo fa funzionare automaticamente molto
meglio gli altri farmaci anti-HIV che vengono associati.

Non sono solo farmaci quelli che possono inibire, ma per esempio il succo di pompelmo (è stato scoperto
per caso che fosse un inibitore perché è stato usato come veicolo nella sperimentazione di un farmaco
nuovo, che aveva un sapore spiacevole, e sono venuti fuori “casini tremendi” perché è appunto un
inibitore dei citocromi), alcool, noce moscata, olio di sesamo.

Gli induttori sono farmaci molto noti, per la


maggior parte sono anti-epilettici che si usano
in una terapia estremamente protratta dato che
l’epilessia prevede un trattamento molto
lungo. Il fenobarbital, la carbamazepina sono
induttori di citocromi, cioè aumentano
progressivamente la quantità dei citocromi e la
loro stessa metabolizzazione: cominciamo ad
esempio con una dose di 100 mg, dopo
qualche mese devo passare a 150, poi 200,
viene fatto fuori molto velocemente perché lui
stesso è induttore dei citocromi che lo
metabolizzano→ bisogna alzare la dose fino a
incombere nella tossicità.
La rifampicina è un antibiotico, usato per la TBC, quindi usato per almeno sei mesi e più, quindi induce i
citocromi in maniera importante.
La differenza fra induttori e inibitori è il tempo: per vedere l’effetto degli induttori si necessita di una
terapia protratta nel tempo, mentre negli inibitori l’effetto si vede subito.

Potrebbero piacerti anche