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Questa relazione si propone di fornire un rapporto sulle attività svolte e le conoscenze acquisite

durante l'assegno di ricerca “I makers in Campania. Innovazione e nuove opportunità lavorative e di


ricerca,” di cui è stata titolare la sottoscritta, Dott.ssa Stamatia Portanova, e responsabile scientifico
la Prof.ssa Tiziana Terranova, nel periodo che va dal 01/03/2016 al 28/02/2017, presso il
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Tale
lavoro si è anche inserito nel contesto delle attività di ricerca della neonata TRU (Technocultures
Research Unit) presso il Centro di Studi Postcoloniali e di Genere, di cui sia la titolare che la
responsabile dell'assegno sono partecipanti.

Attività svolte durante l'anno di ricerca:

 Ricerca delle fonti e scrittura di una 'literature survey'


 Contatti e interviste (con Antonio Mele di Hub.dmx makerspace di Giugliano, Luca Recano
di Jolie Rouge)
 Incontri periodici con la responsabile scientifica
 Un colloquio telefonico con il Prof. Consiglio (Unina) in quanto esperto del settore
 Partecipazione a Futuro Remoto per la presentazione di Open Rehabilitation Prototypes, un
progetto di Vittorio Milone, dottorando all'Orientale e maker, in collaborazione con il
makerspace di Giugliano (compiti da me svolti: scrittura di una proposta di presentazione
per Futuro Remoto, coordinamento con Hub.dmx, incontri organizzativi sia interni che
esterni all'università, preparazione del materiale informativo, documentazione post-evento)
 I risultati della ricerca sono stati inseriti anche nella didattica del corso di Studi Culturali e
Media, con svariate lezioni su cultura digitale, sharing economy e sharing culture, e sui
makers
 Stesura del rapporto sui makers in Campania
 Un articolo in fase di preparazione sulla fashion digital fabrication
Il mondo makers

La definizione più generale del movimento dei makers è quella di una cultura che unisce la
costruzione e la fabbricazione di oggetti tramite l'abilità manuale, all'uso di tecnologie digitali
avanzate, e alla pratica dello scambio e della condivisione. I makers sono quindi persone che sanno
sia programmare che costruire un circuito elettronico, che collaborano a disegnare con il software e
ad assemblare i loro stessi strumenti creativi. Claude Lèvy-Strauss sosteneva che l'artigiano è il
'principe degli innovatori'. Nel caso dei makers, questa definizione trova una importante conferma,
in quanto lo sviluppo di soluzioni software e di artefatti artigianali si incontrano in un unico
modello di creazione e, spesso, nella stessa persona. Per Chris Anderson, chiunque può essere un
maker, cioè può creare qualcosa, ma la dimensione digitale e quella di comunità rimangono un
punto fondamentale. Si tratta della cosiddetta Fabbricazione Digitale (o, nella forma contratta,
Fabbing): fresature di precisione, taglio al laser, stampa 3D di plastica, vetro, ceramica, metalli... La
fabbricazione digitale, in altre parole, consiste nel gestire le interazioni e trasformazioni che
avvengono tra informazione e materia, tra bit e atomi, sia come informazione che dà forma ad un
artefatto fisico, che come informazione tratta da artefatti o ambienti fisici. E' quindi una rivoluzione
fatta di software e hardware, ma insieme ad oggetti fisici, spazi, persone, processi, organizzazioni,
con possibilità sicuramente molto più numerose e vaste rispetto alla semplice stampa 3D, possibilità
che vanno dall'uso di sensori per misurare la salute delle persone, a quelli usati dai cittadini stessi
per misurare la salubrità dell'ambiente. Tutto questo è stato anche definito come una Terza
Rivoluzione Industriale.

Per quanto riguarda la storia 'ufficiale' di questo movimento, possiamo dire che l'idea del Fab Lab
(laboratorio di fabbricazione digitale) come luogo operativo dei makers, è nata da una lezione
intitolata “How to make (almost) Any-thing” presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT)
nel 1998. Questa lezione fu tenuta da Neil Gershenfeld, il quale è professore presso il MIT e
direttore del MIT Center for Bits and Atoms (CBA). In seguito a questa esperienza, Gershenfeld
sviluppò il concetto di Fab Lab, un “piccolo laboratorio dove assemblare macchine per la
produzione che siano modeste, ma in grado di consentire a tutti di creare praticamente qualsiasi
cosa.” (Traduzione mia) Con il supporto della National Science Foundation degli USA (NSF),
Gershenfeld promosse l'installazione dei primi Fab Lab nell'India rurale, in Costa Rica, nella
Norvegia del nord, a Boston, e in Ghana nel 2002. L'idea del FabLab divenne sempre
più popolare, dando origine ad un'associazione con una propria Charter (Fab
Charter). Il concetto alla base dei Fab Lab è in pratica quello dell'imparare facendo (learning
by doing) e 'giocando', divertendosi, unendo la manipolazione fisica alla programmazione digitale.
In questi luoghi, le idee astratte trovano una realizzazione concreta, e la sperimentazione è
consentita dalle tecnologie (sia programmi per la progettazione che stampanti 3D), ma anche e
soprattutto dalla dimensione collaborativa.

In realtà, i Fab Lab non sono gli unici spazi attivi nel mondo makers, ma ci sono anche
Hackerspaces, Makerspaces, TechShops, Sewing Cafès, e molto altro ancora, in un vero e proprio
ecosistema di attori, laboratori, imprese, fabbriche, servizi, progettisti, makers, cittadini, istituzioni.
In quest'ambito, possiamo però distinguere due principali direzioni prese dal movimento: quella più
orientata verso il business e guidata dalla tendenza a fare 'start up', e quella animata invece da
tendenze collaborative e di libero scambio e spinta soprattutto da esigenze comunitarie. Oltre alle
ovvie commistioni e sfumature tra questi due modelli, ci sono infine molti laboratori stabiliti
all'interno delle università, come lo Scientific Fabrication Laboratory (SciFabLab) dell'ICTP di
Trieste, che offre accesso gratuito ad un'ampia comunità regionale di makers durante le ore di
apertura serale e nei fine settimana attraverso la presentazione di progetti, e cha aiuta gli studenti a
coltivare la propria competitività, ma anche creatività ed innovatività, in un periodo in cui il
curriculum accademico sembra sminuire tali abilità. Se infatti all'università l'enfasi dei primi anni di
corso cade su teorie e modelli, a mancare è soprattutto un approccio basato sulla pratica, la
progettazione e i processi di costruzione. Nel SciFabLab, gli studenti possono quindi lavorare ai
loro progetti e sviluppare competenze più liberamente, senza costrizioni di curriculum o orario. Il
ruolo di questo tipo di spazi diventa quindi fondamentale per incrementare le capacità
imprenditoriali e la possibilità di commercializzare le proprie idee. Nel corso di questa relazione,
vedremo come la molteplicità dei modelli caratterizza anche la presenza dei makers sul territorio
regionale campano, e anche come la relazione con le scuole e l'intento formativo sia un elemento
importante. Manutentori, operatori di macchine a controllo numerico, tecnici, progettisti, saldatori,
saranno sempre più ricercati dalle PMI, e i lavori del futuro saranno quelli di programmatori, esperti
informatici, data scientist, artigiani digitali, makers, esperti di stampa 3D, Industry 4.0, design.
Occorre allora un ecosistema di privati, mondo della ricerca, educazione, policy makers e imprese,
per far germogliare questo territorio.

Dale Dougherty ha affermato che siamo tutti makers, ossia nasciamo tutti con una capacità di creare
delle cose: il mondo che ci circonda è stato praticamente fatto da noi. L'enfasi è quindi tutta sulla
manualità, e sul controllo del mondo fisico. Amateurs, dilettanti che amano ciò che fanno, dotati di
curiosità e controllo, allo stesso tempo un po' radicali e sovversivi, i makers si autodefiniscono
come gli hobbisti tecnologici del ventunesimo secolo. Si occupano di tecnologia, design, arte,
sostenibilità, ma anche e soprattutto di business alternativo. Da questo punto di vista, molti
sostengono che il fenomeno potrebbe avere un effetto virtuoso sull'economia, soprattutto in virtù del
basso costo delle sue applicazioni, promettendo la possibilità di una produzione artigianale
'autonoma'. Per Massimo Banzi, si tratta di una vera e propria rivoluzione, un ritorno all'economia
del mondo reale (che è sempre stata troppo costosa, prerogativa delle grandi aziende), mentre grazie
al digitale, ora gli oggetti fisici e gli strumenti che li producono si possono fare, costruire,
dappertutto e con pochi mezzi: le stampanti 3D cominciano praticamente ad essere fatte in casa. La
grande rivoluzione non riguarda quindi tanto come si fanno le cose, ma chi può farle. Inoltre, c'è
una certa voglia di riprendere a vivere e lavorare oltre gli schermi: il tattile, il concreto, hanno ormai
superato l'attrattiva dei pixel. Da qui, l'importanza della collaborazione e commistione con
l'artigianato: oltre ad essere degli artigiani digitali essi stessi, molteplici sono i modi in cui i makers
possono collaborare con le maestranze già esistenti su un territorio. Alla base di questa nuova
economia manifatturiera, bottom-up, distribuita, imprenditoriale, c'è il concetto di open software e
open hardware: gli hobby e le conoscenze condivise diventano delle aziende che iniziano a vendere
su Etsy (sito di e-commerce), vengono finanziate tramite Kickstarter (piattaforma di crowdfunding),
ed entrano in contatto tra loro durante la Maker Faire (fiera annuale dei makers italiani).

La principale potenzialità di Fab Lab e makerspaces è innanzitutto allora la democratizzazione di


progettazione, manifattura e, più in generale, dell'economia. A questo si collega anche una
dimensione di innovazione sociale: design è in realtà un termine da intendersi non solo come
progettazione tecnica di un oggetto, ma anche come un modo per migliorare le condizioni sociali,
ambientali ed economiche di un territorio la cui diversità può diventare una ricchezza, più che uno
svantaggio. Non è più “Il progetto … di un singolo oggetto e per un singolo utente, ma una rete di
oggetti, spazi, organizzazioni, persone,” che collaborano allo sviluppo di un territorio: parole chiave
sono in questo senso comunità e partecipazione, il 'p2p', e tutte quelle dinamiche oggi note con le
diverse definizioni di 'crowdsourcing', o 'intelligenza collettiva', e 'sharing economy'. Cercando, al
tempo stesso, di rendere queste potenzialità accessibili a tutti: è il cittadino stesso a diventare attivo.
Fab Lab e makerspaces sono spazi in cui i makers possono utilizzare tecnologie e processi di
fabbricazione digitale, con una cultura della condivisione e della collaborazione, per progetti sia for-
profit che no-profit. La prototipazione e la produzione secondo l'ottica del business non dovrebbero
quindi prendere il sopravvento sulla dimensione collaborativa, comunitaria ed educativa, neppure
negli spazi più diretti verso l'ottica imprenditoriale: “Il Fab Lab non è solo una fabbrica o un
laboratorio artigiano, ma anche una scuola, un centro di ricerche, una biblioteca ed un museo.” Un
esempio di questo concetto è rappresentato da Smart Citizen, una piattaforma spagnola che permette
ai cittadini di misurare la qualità dell'ambiente, concetto che ribalta quello della Smart City
istituzionale, in cui istituzioni e multinazionali gestiscono l'automazione e l'intelligenza della città.
In questo progetto, i cittadini collaborano alla mappatura dell'ambiente urbano, arrivando ad una
scala e un dettaglio dove le amministrazioni non potrebbero arrivare. La tecnologia digitalizza
l'ambiente, rendendo le persone e le comunità attive nella sua gestione. Un altro esempio è quello di
Fab City, un progetto del Fab Lab Barcelona, una rete urbana di laboratori in collaborazione tra loro
ma anche con i privati e con l'amministrazione locale, ognuno con un progetto basato su una
tematica precisa (come inclusione, sostenibilità, lavoro), per rendere ogni quartiere della città
autosufficiente da tutti questi punti di vista. A Napoli, uno spazio animato da questo stesso spirito di
apertura e collaboratività è lo Hub.dfx makerspace di Giugliano, un luogo nato per fornire a tutti i
cittadini la possibilità di acquisire competenze e seguire corsi, ma anche di conoscere persone e
condividere o collaborare a progetti.

In realtà, se è vero che possiamo pensare a macchine e prodotti come dei costosi soprammobili, “se
non riusciamo a pensare a progetti che vi traggano beneficio con un senso ben preciso non saranno
utili. Se poi non ne abbiamo accesso o interesse, non potremo mai portarle nelle nostre vite sì che
possano avervi un impatto reale.” Ed è su questo punto che emergono una serie di difficoltà che
caratterizzano anche (ma non solo) il contesto italiano della cultura maker. Innanzitutto, le
tecnologie sono ancora relativamente costose, e la connessione è ancora di scarsa qualità. E'
interessante poi analizzare le implicazioni di carattere economico di questo fenomeno, e le sue reali
ricadute al livello dell'occupazione. Una delle problematiche più specifiche, da questo punto di
vista, è ad esempio che gli artigiani spesso non possono permettersi di lasciare il lavoro per
dedicarsi ad attività DIY e di collaborazione. E' importante allora innanzitutto trovare modelli
economici e commerciali sostenibili.

Riflessioni generali sul mondo maker


Nel suo libro 'Neurocapitalismo', Giorgio Griziotti parla, da un ottica Marxista, di Fab Lab e
makerspaces come spazi dove la coesistenza fisica diventa il modo per boicottare un sistema che
sfrutta l'uniformità del gregge, e dove i lavoratori acquisiscono i mezzi di produzione materiali in
quanto, nella maggior parte dei casi, conoscenza e produzione rimangono autonome e non
sottomesse a proprietà o accumulazione. In questi laboratori, infatti, “...è possibile organizzare
entità di realizzazione autonoma a basso costo di manufatti non complessi, come parti di ricambio,
prodotti ad assemblaggio semplice etc. In tal modo si evit[a] di ricorrere ai costosi meccanismi della
fabbricazione in serie, del trasporto, della distribuzione e della logistica con relative procedure
contabili ed amministrative ad ogni passaggio.” Tutti i costi di trasporto, stoccaggio,
commercializzazione e assemblaggio sono eliminati, per cui si parla di una nuova economia della
gratuità, del 'mettere in comune', che richiede anche la creazione e l'uso di un nuovo copyright,
licenze free ed open. Dall'altro lato, se ancora non c'è competizione con postfordismo e taylorismo
in quanto le produzioni seriali robotizzate e delocalizzate non possono essere sostituite dall'oggi al
domani, è pur vero che tali spazi sono comunque caratterizzati da una grande variabilità di regole e
comportamenti. E, se per Anderson il nuovo business parte dal basso e non dalle multinazionali, in
realtà il paradigma capitalista non è veramente messo in discussione dal modello del 'bottom up
empowerment'. La cooperazione sociale e il desiderio di autonomia rispetto alla cattura del General
Intellect, la capacità autonoma e produttiva del lavoro, la produzione sociale (p2p), sfociano in
realtà nelle stesse dinamiche di competitività sul mercato, e nello stesso pericolo di sfruttamento. Se
il p2p appare come una nuova dinamica per nuove forme di organizzazione, crowdsourcing e
intelligenza collettiva sono fenomeni di collaborazione su larga scala con un grande impatto anche
offline, ma da soli non bastano ad evitare lo sfruttamento e la riappropriazione capitalista di questi
fenomeni.

La possibile critica è allora simile a quella fatta da Trebor Scholz alla 'sharing economy': prima di
tutto, non si tratta affatto di 'condivisione', ma di una 'economia dei servizi on-demand' che si basa
sulle stesse tecniche di sfruttamento del capitalismo convenzionale, ma con degli sviluppi
tecnologici molto sofisticati. Nel suo rapporto sull'economia delle piattaforme, Scholz nota che la
cosiddetta sharing economy finanziarizza risorse che erano in precedenza fuori dal mercato: auto,
appartamenti, ma anche tempo libero e creatività, hobbies, tutto può essere ora monetizzato
attraverso piattaforme corporative e reso subordinato al mercato. In effetti, questo nuovo sistema
inserisce processi estrattivi nelle pratiche di relazione sociale, estendendo il libero mercato in aree
delle nostre vite che erano prima esclusivamente private. Come spiega Scholz, il cooperativismo
può essere una alternativa umana a questo tipo di economia, basandosi su tre strategie:
riappropriazione dell'uso delle tecnologie, sviluppo di meccanismi di solidarietà sociale, e
ridefinizione delle idee di innovazione ed efficienza, in modo che tutti possano beneficiarne.
Questioni di proprietà, compenso adeguato, trasparenza e portabilità dei dati, riconoscimento dei
diritti, si legano a necessità come quelle di nuove forme di finanziamento.

In Italia
La diffusione delle tecnologie non ha ancora raggiunto tutti e non ha colmato il cosiddetto 'digital
divide', il divario digitale, che è sicuramente più forte laddove ci sono situazioni economiche e
sociali più critiche, anche se non soltanto nei Paesi considerati come economicamente e
tecnologicamente arretrati. “Non si tratta di inserire nei contesti organizzativi soluzioni digitali che
impongano metodi e comportamenti standard – che sarebbero deleteri nel mondo delle imprese,
togliendo diversità, dinamicità e in ultima istanza competitività – quanto piuttosto di adattare una
“cassetta di attrezzi” a uno specifico contesto, bilanciando correttamente buone pratiche consolidate
con specificità individuali.” Nel caso dell'Italia, ad esempio, il 'divide' è molto rilevante (il 21%
della popolazione ha accesso alla banda larga, contro una media europea del 64%). Ma oltre a
questo, un'altra caratteristica dell'Italia riguarda lo scarso uso di Internet e del capitale umano, oltre
che la bassa integrazione delle tecnologie digitali nei settori pubblici, di ricerca e sviluppo. Se è
vero che le tecnologie compiono rapidi progressi e sviluppi, in genere c'è ancora poca disponibilità
a rischiare. Delle piccole e medie imprese italiane, soltanto il 5% vende i propri prodotti e servizi
online, e non è quindi un caso che sia Google che Samsung si stiano avvicinando agli artigiani
italiani e alla digitalizzazione di queste imprese. Il digitale rappresenta quindi un panorama
strategico, ma che l'Italia deve ancora sfruttare. In particolare, una delle principali risorse del
territorio italiano è costituita dalla sua diversità di esperienze e competenze, quasi sempre di
carattere multidisciplinare. La stessa ricchezza umana e culturale è il punto di forza dei Fab Lab:
ogni laboratorio ha le sue differenze, a differenza di un franchising, che impone ovunque le stesse
dinamiche.

Ancora in relazione alla specificità italiana, vale la pena a questo punto menzionare come un
progetto che è da molti riconosciuto come l'antecedente del mondo maker, il Programma 101 (o
P101, il primo personal computer da desktop del mondo) fu messo a punto in Italia dalla Olivetti,
progettato nel 1962-64 e prodotto nel 1965-71, quindi ben prima della Apple e di Steve Jobs. Un
altro momento importante per la storia della tecnologia in Italia, soprattutto per la sua dimensione di
democratizzazione e creazione di comunità, è l'emergere degli Hacklab (che oggi si chiamerebbero
Hackerspaces), soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni '90. Il FreakNet Media Lab nasce
a Catania nel 1995, ed è il primo Hacklab italiano. Si tratta di un fenomeno principalmente
underground, poco conosciuto al grande pubblico, spesso ospitato in centri sociali siti in strutture
occupate e autogestiti in condizioni precarie, quindi esperienze spesso di breve durata, dove
principalmente si riparavano vecchi computer, si costruivano reti di comunicazione, si realizzavano
giochi e opere d'arte digitale, si sviluppavano discussioni e pratiche di attivismo legate alla privacy,
la sicurezza informatica, la condivisione ed il Free/Open Source Software, la dimensione politica
della tecnologia e dei media. L'Hackmeeting, l'incontro annuale degli hackers italiani, che sancisce
la costituzione di una vera comunità (il collettivo degli Autistici/Inventati) si è tra l'altro svolto lo
scorso anno a Napoli, una città in cui il mondo maker è ancora fortemente caratterizzato dal
modello Hackerspace. Dal basso, fuori dalla luce dei riflettori, in Italia c'è stata (e c'è) una comunità
fertile di appassionati di tecnologie che le hanno sviluppate, promosse, insegnate con il fine di
democratizzarle e di rendere tutti i cittadini attivi, non controllati dalle tecnologie ma potenziati da
esse.

Nonostante questa attività, sotterranea ma importante, la storia di Fab Lab e makerspaces in Italia è
solo recente: solo tra il 2000 e il 2005 nascono i primi fenomeni di Fabbricazione Digitale, i quali
costituiscono però ancora un settore di nicchia. Grazie ad un'iniziativa congiunta di Olivetti e
Telecom Italia, nel 2001 nasce l'Interaction Design Institute di Ivrea, una scuola post-laurea attiva
nel campo dell'Interaction Design, tra i cui progetti figura Arduino, un prototipo di scheda hardware
sviluppato da Massimo Banzi, e la cui prima versione funzionante fu pronta nel 2005. L'istituto però
successivamente chiuse, e il progetto Arduino venne reso open source, una strategia che si è rivelata
fondamentale per la sua sopravvivenza, e per la costituzione di una vera e propria comunità
mondiale attorno ad esso, garantendone il successo negli anni a venire. Il successo di questo
progetto (ora alla base della sostenibilità economica di quasi tutti i laboratori e dell'attività di molti
makers) sta nell'aver creato un ecosistema di schede hardware e software che facilitano la
progettazione di artefatti interattivi, abbassando i requisiti sia in termini economici che di
competenze. Nel 2009 si inizia a sviluppare in Italia un ecosistema makers: a Milano abbiamo
Serpica Naro ed Openwear, attivi/sti nel campo della moda, ma non solo Milano è attiva in questi
anni. Oltre alle diverse reti di professionisti legati al computational design, nasce nel 2011 il primo
Fab Lab, Fab Lab Italia, e poi il Fab Lab Torino. E infine il mondo maker arriva al grande pubblico,
estendendosi anche in centri urbani minori e con risorse limitate (come ad esempio il MedArch, il
Mediterranean Fab Lab di Cava de'Tirreni in provincia di Salerno). Ed è nel 2013 e 2014 che il
fenomeno esplode: l'anno scorso, la stima era di un totale di un centinaio di laboratori sparsi sul
territorio nazionale.

La rapida crescita di questi laboratori 'pionieristici' non li ha però portati ad ottenere quelle risorse e
quella attenzione di cui, già da tempo, godono altrove. Una persistente perplessità continua ad
indurre molti a pensare che Fab Lab e makerspaces non siano molto diversi e più innovativi dei
cosiddetti 'distretti industriali' (un fenomeno molto forte e già da lungo tempo ampiamente esteso
sul territorio italiano), ignorando però che non si tratta tanto della specializzazione di un territorio,
ma dell'introduzione di tecnologie e dinamiche che renderebbero possibile una
multispecializzazione e una collaborazione tra i vari territori. Da questo punto di vista (punto di
vista alquanto problematico anche e soprattutto per il Sud del paese), l'Italia conferma una certa
chiusura rispetto alle nuove idee, ma anche un grande entusiasmo e competenza una volta che tali
idee vengono introdotte. Il rapidissimo sviluppo dei Fab Lab in Italia, oggi secondo paese al mondo
per numero di esperienze, ne è la dimostrazione. In particolare, i laboratori italiani sono
principalmente frutto dell'iniziativa di singoli o gruppi privati (e quindi partono con poche risorse),
e più che associare queste strutture alla ricerca e all'educazione si tende a considerarle come
un'opportunità per rilanciare l'industria e (soprattutto) l'artigianato italiani, grazie al digitale. In
realtà, la comunità italiana deve ancora affrontare numerosi problemi come la sostenibilità
economica di questi laboratori, il coinvolgimento di aziende ed istituzioni, l'omogeneità della
diffusione, la costruzione di reti locali che privilegino la collaborazione alla competizione. Un
progetto digitale non è infatti soltanto un progetto scaricato da Internet in formato digitale, ma un
progetto sviluppato in una cultura nuova: è la sperimentazione tra professionisti ed amatori, imprese
e comunità, che produce innovazione. Il mondo maker e Fab Lab è un mondo di condivisione e
collaborazione, ma si tratta di dinamiche non necessariamente messe in atto ovunque (data anche la
diversità dei possibili approcci): dinamiche di Open Source ed Open Innovation, per cui le aziende,
non più isolate, aprono i confini di idee e progetti, sia verso l'interno che l'esterno. Il design per
l'innovazione sociale dovrebbe infine affrontare, tramite la collaborazione di designer e cittadini, i
bisogni concreti di luoghi diversi. Approcci Open e p2p offrono proprio questo: le persone e le
comunità ritornano al centro del progetto. Questa dimensione sociale, per cui le persone, con le loro
esperienze ed esigenze, comunicazioni ed interazioni, sono la risorsa più importante, è sicuramente
la più promossa, ma anche la meno esplorata, all'interno di questi spazi.
Oltre al passaggio da zero Fab Lab a due associazioni e una fondazione in soli tre anni, la
particolarità del contesto italiano risiede infine nell'aver generato alcune tra le prime reti regionali al
mondo. La prima ad apparire è stata la Rete Mak-ER in Emilia Romagna, nel 2014, che “mette in
rete i laboratori di making, digital fabrication e manifattura avanzata della regione Emilia-Romagna,
per attività di making sia digitali che analogiche: con 18 laboratori, la rete include la quasi totalità
delle iniziative regionali.” Quello dei makers è infatti un fenomeno che andrebbe affrontato sia al
livello della comunità che degli organismi statali, i quali possono collaborare per la gestione dei
conflitti e le capacità organizzative di queste realtà. La creazione di connessioni tra luoghi,
organizzazioni e laboratori, è infatti la grande ricchezza che questo mondo può portare all'Italia e,
soprattutto, alla Campania.

Occorre infine ricordare che questo progetto di ricerca ha riguardato principalmente la Campania,
quindi una regione del Sud Italia, oltre che del Sud del mondo (laddove il termine Sud diventa una
categoria, oltre che geografica, anche economica e soprattutto culturale), e la presenza di un
fenomeno 'moderno', contemporaneo, come quello dei makers, in questa regione. Nel suo articolo
sulla questione meridionale rivisitata, il professor Iain Chambers menziona, tra le altre cose, le
pratiche pre-moderne che sono ancora profondamente parte della modernità e della complessità
stratificata del presente. Andando oltre il vitalismo brutale di un presunto progresso che tende a
cancellare tutto senza lasciare traccia, ma anche oltre la nostalgia romantica per un passato oggi
recuperato in chiave commerciale, un approccio critico più produttivo è quello che vede la
congiunzione delle due istanze. Si tratta quindi non tanto di rispondere alla retorica tecno-entusiasta
che vede un Sud (del mondo, prima che dell'Italia) arretrato che dovrebbe adeguarsi, ma di
comprendere come in Campania, l'artigianalità ancora costituisca quella storia minore e subalterna
che questa regione può contribuire, sfidando le versioni egemoniche della narrativa della modernità,
e offrendo sia punti di partenza che di critica nella sua interazione con le nuove tecnologie.

In questo senso, e con una certa generalizzazione, possiamo definire i laboratori nati in Campania
con il termine di 'subaltern labs', un termine che Denisa Kera (filosofa, designer, scienziata che
lavora presso l'università di Singapore e membro di Hackteria.org) ha introdotto per parlare di
luoghi come la DIY community di Singapore. Secondo Kera, in luoghi come l'Indonesia, Taiwan, la
ex-Yugoslavia, il Nepal, la Svizzera, il Giappone, ma anche Napoli, la scienza è sicuramente fatta in
modi diversi. Questi laboratori subalterni avvengono ai confini del sistema, e contro quella violenza
epistemica (come lei stessa la definisce) che vede un Nord moderno e tecnologizzato opposto ad un
Sud arretrato. Il problema, in questo senso, è spesso rappresentato proprio dai ricercatori
provenienti da questo 'Nord', che spesso interpretano i bisogni locali e si fanno carico di trovare
delle soluzioni che dovrebbero invece essere 'auto-generative'. In questo senso, 'open science'
significa per Kera scienza postcoloniale.

In Campania
Il tecno-entusiasmo del mondo makers ci invita ad esplorare la possibilità di lanciare progetti di
innovazione ed inclusione, inserendoli in quell'economia leggera che sta proliferando, creando
condivisione e reti di saperi basate sul dividere con e sul fare in comune. Tali progetti
rimanderebbero alle pratiche di valorizzazione di un mutualismo che sia adeguato ai nostri tempi,
avendo chiaro che l'innovazione non può prescindere da un'innovazione sociale che produca
inclusione. Si tratta, in poche parole, dell'inserimento dell'economia manifatturiera, sia artigianale
che industriale, nel contesto della sharing economy. Nella metamorfosi spaziale campana
dell'ultimo decennio, tali pratiche non sono per nulla estranee.

Ci sono diversi modi in cui i makers operano sul territorio regionale, modi che riflettono la
molteplicità dei modelli possibili di questo fenomeno: da quello più aperto dell'Hub.dmx,
makerspace nato in seno ad Hub Spa di Giugliano, uno spazio per il coworking e l'innovazione
sociale, a quello più chiuso e business-oriented del MedArch di Cava de'Tirreni, uno spazio di
carattere aziendale nato da uno studio professionale di architettura che ha preso il taglio della
fabbricazione digitale, e ora presente anche a Città della Scienza, fino alle vere e proprie start-up,
ma anche gli Hackerspaces o i laboratori in casa. Osservarle e favorirne la crescita in forma
consapevole può essere di aiuto nell'intraprendere una rigenerazione urbana sostenibile e
intelligente, aperta al territorio. Gli esempi analizzati durante quest'anno di ricerca sono due:
Hub.dmx, e il progetto Laboratorio 0 Pryl dell'associazione Jolie Rouge. Il primo caso è stato
analizzato sia tramite una mia collaborazione diretta con il makerspace per la presentazione di un
progetto alla manifestazione scientifica napoletana Futuro Remoto, che attraverso un'intervista fatta
al coordinatore del laboratorio Antonio Mele. Il secondo caso è stato analizzato soltanto attraverso
intervista al coordinatore del progetto Luca Recano. Le interviste, per le quali è stato adottato un
approccio qualitativo, sono riportate in appendice. Un altro caso di cui sono venuta a conoscenza è
lo Urban Fab Lab di Napoli coordinato da Paolo Cascone, che non ha concesso l'intervista ma ha
invitato la sottoscritta a consultare il materiale informativo online (http://www.urbanfablab.it/urban-
fablab.html)

I case studies
Hub.dmx è un laboratorio dedicato a fabbricazione digitale e stampa 3D con sede a Giugliano
(Napoli). Si tratta di un laboratorio le cui attività, già abbastanza avviate, spaziano dalla
collaborazione con le scuole ai servizi di consulenza, prototipazione e modeling per le aziende.
Hub.dmx fa parte della rete MakeInItaly, e conta svariati soci che gli consentono di autofinanziarsi.
Si tratta di una realtà che suscita molto interesse sul territorio napoletano, soprattutto per la
potenzialità che offre di realizzarsi i propri prototipi e prodotti, a differenza delle aziende
tradizionali che, adottando un metodo classico di produzione, devono dedicarsi alla propria clientela
e dare priorità al lavoro, mettendo da parte le idee più nuove e sperimentali. Stagisti e tirocinanti
delle università e delle scuole di design possono interagire con artigiani e passare alla fase di
prototipazione, oltre che di realizzazione e produzione per il mercato. A questo proposito, Hub.dmx
si occupa anche della parte economica, come accompagnamento a start up. Ma un forte interesse
proviene soprattutto dalle scuole (ITIS, ITS, licei scientifici), che vedono nel centro un punto di
riferimento. Come ogni makerspace, Hub.dmx è un luogo aperto, che dà la possibilità ai propri soci
di entrare, stampare, lavorare liberamente. Un luogo di acquisizione di competenze che non si
possono acquisire nei percorsi di studio, come l'utilizzo di stampanti e plotter a controllo numerico,
e che offre corsi su modellazione 3D, Arduino, grafica, spendibili nel mondo del lavoro,
competenze che, insieme alle esperienze sul campo, sono fondamentali per l'occupabilità. Questo
aspetto ha fatto avvicinare scuole come l'istituto tecnico, in modo da dare ai ragazzi la possibilità di
fare pratica, interfacciarsi con professionisti, specializzarsi su un software o un linguaggio.
Hub.dmx nasce infatti come realtà di innovazione sociale sul territorio e per il territorio: si propone
quindi di dare ai ragazzi la possibilità di realizzare progetti e stampare pezzi, oltre a ricevere
nozioni di elettronica, ma anche di dare alle aziende la possibilità di conoscere professionalità e
creare gruppi di lavoro. Quest'ultimo, come riconosce lo stesso Mele, è forse l'aspetto più
importante, in quanto i concetti di collaborazione e condivisione costituiscono oggi il nuovo modo
di concepire il lavoro, di sviluppare progetti e fare impresa.

L'intervista a Mele è interessante in quanto da essa emergono anche le principali problematiche del
contesto maker in Campania. Oltre al problema più generale dei costi di lavorazione e delle
attrezzature più sofisticate, come il taglio laser o le stampanti per materiali come gesso o terracotta
(costi che rendono spesso impossibile l'offerta di servizi più importanti), esistono problematiche più
specifiche che riguardano la struttura e la cultura del territorio. Trattandosi di una realtà nuova, tra
l'altro inserita in un contesto alquanto ampio, persiste un certo scetticismo ancora diffuso tra ampie
fasce della popolazione interessata. In particolare, in una realtà come quella di Giugliano, la
questione ambientale emerge come una delle principali motivazioni dietro questo scetticismo,
soprattutto riguardo le componenti e i filamenti plastici utilizzati dalle stampanti, e riguardo
l'eventuale aumento della quantità di rifiuti plastici da smaltire. Nonostante si tratti di un materiale
riciclabile in laboratorio, il problema della dispersione degli oggetti rimane, soprattutto in virtù
della alquanto complessa gestione del riciclaggio.

Tra le principali 'esigenze' o proposte espresse durante l'intervista, in particolare è emersa quella di
avere un punto di riferimento, un fulcro, per la rete dei laboratori presenti sul territorio. Da questo
punto di vista, Mele suggerisce che le istituzioni potrebbero intervenire contribuendo alla creazione,
o alla facilitazione, della rete. Si tratta di un compito non semplice, soprattutto per la scarsa
interazione esistente tra le diverse realtà presenti sul territorio. Avviare una serie di progetti da far
sviluppare a tutti i laboratori campani potrebbe essere un modo per facilitare la rete. Un modello
simile è già stato attuato, con successo, a Reggio Emilia, dove la regione Emilia Romagna ha creato
una sorta di incubatore, un laboratorio per integrare le varie realtà e renderle operative in maniera
collaborativa, una rete di manifattura digitale (mak-ER) coordinata dal FabLab Reggio Emilia: un
network che mette a sistema le migliori energie e idee di makers e artigiani digitali sul territorio
regionale, insieme a diversi partner come le università e il CNR, promossa dall'associazione
MakeInItaly. Se da un lato Hub.dmx è già parte di un progetto del CNR e collabora con l'Università,
dall'altro lato, per i laboratori più piccoli tali interazioni sarebbero enormemente facilitate. Un'altra
interessante idea emersa dall'intervista a Mele è la creazione di un marketplace, o di un vero e
proprio brand campano.

La seconda intervista a Luca Recano di Jolie Rouge, una piccola associazione che ha promosso
PRYL (Print Your Life), un progetto composto da 13 persone, ci mostra un atteggiamento
abbastanza simile, soprattutto per quanto riguarda l'idea che l'apertura, oltre alla multidisciplinarità
ed alla collaborazione/condivisione, costituiscono la principale potenzialità di makerspaces e Fab
Lab, e quindi la caratteristica culturale da implementare maggiormente. Si tratta, in questo caso, di
un progetto più piccolo finanziato dal MIUR, e che coinvolge 80 studenti dell'Istituto Casanova di
Napoli. Il progetto prevede attività di formazione su stampa e modellazione 3D, e la realizzazione
finale di un progetto o oggetto da stampare. Oltre a questo tipo di formazione più legata alla
professionalizzazione e alla sperimentazione pratica, il progetto prevede anche una parte più
incentrata sull'autopercezione rispetto al proprio percorso formativo, e quindi di formazione psico-
sociale. Nell'insieme, il progetto cerca di far emergere attitudini e capacità, competenze che la
scuola non riesce a sviluppare.

Per quanto riguarda l'intervento dell'istituzione pubblica, ancora un volta l'intervista ha dato voce
alla necessità di valorizzare le attività produttive già esistenti sul territorio, colmando il gap
informativo sui vantaggi che le nuove tecnologie possono offrire alle diverse attività artigianali,
anche tramite la messa in rete di queste realtà, oppure facilitando dei mini consorzi, delle sinergie,
dei partenariati, o ancora tramite una sorta di servizio di consulenza pubblico che dia informazioni e
accesso. Lo stesso discorso vale per le scuole, che andrebbero messe in rete per consentire loro di
abbassare i costi ed offrire un maggiore accesso.

Una delle principali problematiche di carattere socio-culturale legate al mondo dei makers è la
scarsa, insufficiente analisi finora compiuta del potenziale di questo fenomeno come una logica
sociale, e quindi per le politiche culturali ad un livello locale. Per quanto riguarda la partecipazione
femminile, nello Hub.dmx, se è emerso che la frequentazione costante è prevalentemente maschile,
l'utilizzo del laboratorio si divide al 50%, mentre i tirocinanti hanno costituito una maggioranza
femminile, di ragazze soprattutto interessate alla fabbricazione digitale nel campo della moda, degli
accessori e del tessile, delle scarpe. Per quanto riguarda invece la partecipazione delle comunità
locali ed etniche, nel progetto PRYL notiamo anche una quota non trascurabile di immigrati di
seconda e terza generazione.

Conclusione
Entrambe le interviste realizzate hanno evidenziato che, sul territorio campano, anche date le
caratteristiche dal punto di vista economico, occupazionale, ambientale e socio-culturale, quella dei
makers può sicuramente rappresentare una notevole risorsa per l'innovazione e la ricerca. La
principale idea espressa da entrambi gli intervistati, è stata quella di Fab Lab e makerspaces come
luoghi il cui potenziale è rappresentato soprattutto dal carattere associativo, di condivisione e
coworking, che possa contribuire a sviluppare le competenze e ricchezze già esistenti sul territorio,
grazie ad un'attenzione per la collaborazione piuttosto che la competizione, e anche grazie ad un
approccio di sintesi tra artigianato e tecnologia. L'esigenza che è stata quindi ritenuta più
importante, in vista di una tale implementazione, è sicuramente quella di una istituzione che possa
garantire quella messa in rete che possa dare la possibilità ai vari laboratori di essere ancora più
aperti e 'comunicanti', pur nelle loro differenti vedute (di business, associazione, hackerspace), ma
anche di permettere sia alle PMI che ai giovani e studenti in cerca di occupazione in questi settori di
conoscere la realtà dei makers ed entrare in contatto con i vari laboratori. L'esperienza di relazione e
progettualità con le scuole superiori e le università è infatti emersa come un punto fondamentale
delle attività di entrambi. Una risorsa, quella del mondo maker, sicuramente presente ma anche da
approfondire e potenziare, anche grazie al supporto delle istituzioni pubbliche, per poterla adattare
ad un territorio ricco di potenzialità come quello campano.

Bibliografia e sitografia
Anderson, Chris, Makers. Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale, Rizzoli,
2013
Chambers, Iain, “The Southern Question... Again,” The Routledge Handbook of Contemporary
Italy, Routledge, 2015
Coleman, Gabriella E., Coding Freedom: the Ethics and Aesthetics of Hacking, Princeton
University Press, 2013
Critical Making. http://conceptlab.com/criticalmaking/
Critical Making Lab. http://criticalmaking.com/
Doctorow, Cory, Makers, Creative Commons Licence, 2009, disponibile su
http://craphound.com/category/makers/
Doctorow, Cory, “Lockdown: The coming war on general-purpose computing, ”2012,
http://boingboing.net/2012/01/10/lockdown.html
Gershenfeld, Neil, Fab: The Coming Revolution on Your Desktop. From Personal Computers to
Personal Fabrication, Basic Books, 2007
Griziotti, Giorgio, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e vie di fuga, Mimesis,2016
Levy, Steven, Hackers: Heroes of the Computer Revolution , O’Reilly Media, 2010
Menichinelli (aggiungere)
Scholz, Trebor, Platform Cooperativism. Challenging the Corporate Sharing Economy, Rosa
Luxemburg Stiftung, 2016
Appendice

Intervista ad Antonio Mele (Hub.dmx makerspace di Giugliano)

A - Il makerspace di HubSpa, unico makerspace presente sul territorio, collaborando con le scuole,
vuole creare un’opportunità per gli studenti, dando loro modo di conoscere una nuova realtà che si
sta espandendo in tutto il mondo. I principi sono gli stessi dei FabLab, pur non avendo ufficialmente
aderito alla chart del MIT. Si tratta di un laboratorio di fabbricazione digitale, uno spazio condiviso,
parte di una rete nazionale di makerspaces, hackspaces, techshops, fablabs: “Make in Italy”. Il
portale consente di interagire, favorendo la collaborazione dei vari laboratori su particolari progetti.
Oltre a creare un network di professionalità, competenze, lavori di interscambio anche culturale, si
dà l'opportunità ai frequentatori di avere tools e labs a disposizione in tutta Italia. Da Milano a
Giugliano, da Roma a Reggio Emilia, ogni networker può utilizzare le attrezzature con costi ridotti
ad hoc.
I FabLab ed i makerspaces possono aver un taglio associativo, oppure aziendale.
Ci sono tante piccole realtà nei vari quartieri e zone di Napoli, ma c'è bisogno di un punto di
riferimento sul territorio, fulcro degli altri lab, creando una sorta di link per il network nazionale.
A Napoli, c'è anche il FabLab Napoli, e lo Urban FabLab, prima a Città della Scienza (iniziato in
piccolo con laptop e stampante 3D) che ha collaborato con WASP di Massimo Moretti, realtà
italiana all'avanguardia sulla stampa 3D.
Una realtà con più soci può autofinanziarsi, rispetto ad un piccolo laboratorio di professionisti che
avviano un'attività.

S - La realtà regionale campana è una realtà problematica, dal punto di vista economico ed
occupazionale. La nascita e l'aumento dei vari laboratori, pur nei diversi modelli, ha un potenziale
su questo territorio?

A - Si, sul territorio c'è interesse. Dal punto di vista mediatico si sta facendo molto attorno al mondo
delle stampanti 3D, Arduino, fabbricazione digitale, artigianato 2.0, innovazione, per cui questo
argomento sta entrando nella mentalità delle persone. Suscita molto interesse, e questo è il primo
motivo che sta alla base dell'apertura di tutti questi lab, oltre al fatto di vederla come una concreta
opportunità di business (che secondo me è sbagliato). Credo, però, che oltre ad avere una
sostenibilità economica, sia necessario anche avere le giuste competenze, per non creare una visione
distorta.
L'Open Day, del 18 dicembre 2015, del Makerspace di Giugliano ha suscitato un buon interesse sul
territorio. L'azienda tradizionale ha infatti un metodo classico che non ti consente di realizzare un
tuo prototipo o prodotto, perchè deve dedicarsi alla clientela, dando priorità al lavoro e al business,
mettendo da parte le idee più innovative e sperimentali. In realtà un imprenditore deve puntare alle
realtà più giovani presenti sul territorio, con un approccio diverso, più aperto all’innovazione.
Fortunatamente alcune realtà hanno aperto le loro porte agli stagisti e ai tirocinanti provenienti dalle
università e dalle scuole di design, che qui nei lab interagiscono con artigiani, makers e designer,
per poter passare dalla fase della prototipazione a quella della realizzazione e produzione per il
mercato. A questo proposito, Hub Spa di Giugliano si occupa anche della parte economica, come
accompagnamento e acceleratore di startup.
Inoltre, le stesse scuole superiori di Giugliano hanno manifestato il loro apprezzamento per gli
atelier digitali, tant’è che è nata una proficua collaborazione con l’ITIS “Galvani”, nell’ambito
dell’alternanza Scuola-Lavoro, e la SMS “Cante”, nell’ambito del PON per la costituzione degli
atelier digitali.
Molti makers dalla provincia di Napoli sono entrati a far parte del Makerspace di Hub tramite il
tesseramento.
Il makerspace deve essere un laboratorio a disposizione, aperto, dove i makers possano avere
sempre la possibilità di entrare , sviluppare idee, prototipi e stampare in 3d. Il lab è infatti un luogo
di acquisizione di competenze, come l'utilizzo di stampanti 3d, laser cut plotter a controllo
numerico, che oltre ai servizi e alla consulenza, fornisce anche la formazione su modellazione 3D e
Arduino, tramite corsi spendibili nel mondo del lavoro. Inoltre è un “meeting-point” che consente di
conoscere altre persone ed altre professionalità. Il concetto di condivisione delle competenze,
collaborazione tramite socialità, è un nuovo modo di lavorare, sviluppare progetti, fare impresa, al
di là del modello classico, in cui si assumono figure con varie competenze. Nei lab l'azienda che
deve realizzare un prodotto particolare può essere flessibile, trovare delle competenze nei gruppi di
lavoro che si sono creati, per cui non deve accollarsi tutte le spese. Allo stesso modo, le conoscenze
possono trasformarsi in startup innovative dal punto di vista tecnologico e sociale (si pensi al
coworking, nuova visione di lavorare in uno spazio condiviso, facendo rete). Il lavoro flessibile e
collaborativo è sicuramente precario, però i lab offrono la possibilità di acquisire competenze che
non si possono acquisire nei percorsi di studio tradizionali, facendo esperienze sul campo utili per il
proprio appealing sul mercato del lavoro. Oggi tutte le aziende hanno bisogno ad esempio di un
modellatore 3D, e quelle che fanno web hanno bisogno di uno sviluppatore, oppure un esperto di
Arduino, e un grafico, e questo ha fatto avvicinare scuole come l'istituto tecnico, in quanto qui c'è la
possibilità per i ragazzi di fare pratica o interfacciarsi con professionisti, o specializzarsi su un
software o un linguaggio di programmazione.
L'interazione con le scuole - è da sottolineare - non è rivolta ad ottenere un guadagno economico,
perchè Hub nasce come una realtà di innovazione sociale sul territorio e per il territorio, per cui la
disponibilità è fondamentale. Il business si fa con le aziende che chiedono commesse, quando hanno
bisogno di diverse professionalità. Gli studenti, invece, devono avere la possibilità di realizzare i
loro progetti e stampare i pezzi, oltre a ricevere nozioni di elettronica. L'apprendimento teorico
acquisito a scuola può quindi essere complementare con una esperienza pratica di laboratorio che è
importantissima nel mondo del lavoro.

S - Quindi dal punto di vista delle aziende, voi offrite sia dei servizi che voi stessi realizzate, sia la
messa in contatto con altre persone che gravitano o sono dei vostri soci?

A - Si, che fanno parte del network, membri della comunità. Hub ha un network di professionalità
ricco di competenze. Noi svolgiamo un servizio come Hub e come makerspace. Per quanto riguarda
il makerspace, svolgiamo un servizio di prototipazione e progettazione per le aziende. Inoltre,
forniamo formazione per privati, pur non essendo un centro di formazione accreditato, perché
quello che ci interessa è la condivisione delle competenze. Per le aziende, abbiamo effettuato dei
corsi di formazione sulla modellazione 3d e sul taglio dei plotter, per formare il personale interno o
per trovare delle competenze, o per prototipare. Ad esempio c'è un coworker che frequenta il
makerspace che è un ingegnere meccanico, che ha avuto modo di conoscere un’azienda che si è
avvicinata ad Hub per creare un prototipo e da questo incontro è nata una collaborazione lavorativa
che dura tuttora. Da un'idea di un design maker che frequenta il laboratoio nha iniziato a prendere
forma il progetto Cartoo (teatrino delle ombre per bambini), Ecco il vero potenziale di Hub.

S - E allora, problemi?

A - Problemi tanti. Dopo tutte le cose belle, dal punto di vista dei problemi tecnici, cose che non si
possono realizzare ce ne sono! Spesso si pensa che con la stampa 3D si possa realizzare qualsiasi
cosa, è stata lanciata così, soprattutto all'inizio quando non era ancora ben chiaro il suo utilizzo. Io
compravo la macchinetta e mi stampavo tutto a casa. Invece non è così. Si stanno facendo grossi
passi dal punto di vista tecnologico: ad oggi esistono stampanti che stampano metalli, ceramiche.
Ma dal punto di vista delle tecnologie che si trovano nei lab ci sono dei problemi tecnici: strutture
che non sono autoportanti, strutture a sbalzo, con tempi di lavorazione un po' lunghi. I problemi
riguardano fondamentalmente i costi di lavorazione, i costi delle attrezzature che vanno ad incidere,
perché un laboratorio base, medio, come il nostro, che ha due tipologie di stampa 3D, un coltellino
da taglio, una minifresa, una stampante rifresatrice, ha un costo di investimento relativamente
basso. Volendo invece offrire dei servizi più importanti, come il taglio laser, una stampante a
sinterizzazione per stampare metalli, per stampare il gesso, la terracotta che poi va in cottura, allora
parliamo di investimenti più alti, sono stampanti che partono dagli 80 ai 100,000 euro. E
naturalmente questo va ad incidere sul costo della lavorazione.
La tecnologia attualmente ci permette di fare tutto, soprattutto dal punto di vista della manifattura.
Un esempio è la Tesla Motor. Loro hanno fatto una catena di produzione con questi bracci Kuka,
che permette di programmarli. Un singolo braccio può montare un pezzo su una macchina, oppure
può montare più pezzi, o addirittura montare pezzi su postazioni diverse. Non è la classica linea di
produzione, che pur essendo robotizzata, aveva una macchina diversa per montare ciascun pezzo: il
cruscotto, le ruote etc. Ora invece la stessa linea può fare più cose e modelli, grazie alla
programmazione, cambiando i parametri e l'algoritmo, o addirittura costruire tutt'altro. Quindi da
questo punto di vista, dell'interazione di bracci robotici, stampanti 3D, taglio laser, si riesce a
realizzare quasi tutto.
Inoltre, anche le problematiche dal punto di vista strutturale e culturale del territorio sono molteplici
perché è una realtà nuova, ed essendo un territorio abbastanza ampio, le informazioni che circolano
possono essere fuorvianti: c'è chi ne sa già qualcosa, e c'è chi guarda sempre con un po' di
scetticismo, per esempio, dal punto di vista ambientale. Le stampanti utilizzano delle componenti,
dei filamenti plastici, il che pone il dubbio se tutto ciò che viene stampato costituisca un aumento
della plastica in circolazione. E' la domanda che io stesso mi sono posto quando ho approcciato per
la prima volta una stampante 3d. Essendo un designer, mi affascinava che tutti quei prodotti che
avevo disegnato nel mio percorso formativo, ora potevano essere realizzati senza l'iter infinito delle
aziende. Venivo in laboratorio con il file, preparavo il modellino, facevo slicing e stampavo.
Tuttavia, la prima cosa che viene in mente, soprattutto per il territorio di Giugliano che soffre di
problematiche ambientali importanti, è quanto l’utilizzo della stampa 3D possa incidere
negativamente sull’ecosistema. In realtà, poi, si arriva a capire che i materiali utilizzati sono per lo
più degli acidi polilattici, dei PLA, derivati del mais, oppure dei polivinilici. Sono quindi dei
materiali – secondo alcuni esperti - ecosostenibili. In realtà, lo scetticismo resta e la questione è
tutt’altro che risolta. C’è da dire, però, che il materiale è riciclabile, a livello di laboratorio, in
quanto tutti gli scarti possono essere tritati, ridotti in pellet per poi ottenere i filamenti, e usarli per
stampare. Si tratta quindi soprattutto di un problema di dispersione. A differenza della bottiglia di
plastica in PET, per la quale occorre fare la raccolta differenziata, con una gestione un po' più grossa
e complicata, nei makerspaces e nei FabLab esistono dei macchinari che permettono di rigenerare il
filamento. Prendo l'oggetto che non è venuto bene, prendo il pezzo del supporto, lo trito con il
classico frullatore, lo sminuzzo, lo metto nel macchinario attraverso un imbuto, una resistenza lo
riscalda e ottengo il filamento. Quindi tutti gli scarti si ristampano. Per cui il problema nasce nel
momento in cui si buttano gli oggetti che si hanno a casa. Noi in realtà mostriamo tutte le
problematiche e le possibili soluzioni a tutti quelli che vengono ad approcciarsi alla stampa 3d.
Anche se, alla fine, è sempre plastica. Ci sono anche altri materiali, come fibre che derivano dal
legno, dalla canapa, che si possono utilizzare che, però, hanno sempre una componente chimica al
loro interno. Sono sempre materiali che lavorano per estrusione: un filamento che arriva ad una
temperatura di fusione e quindi viene depositato su un piano, deve attaccarsi e diventare solido. Il
concetto fondamentale della stampa 3d è quello del layer by layer, strato su strato, come se il solido
venisse affettato in tanti strati. I vari layer si devono amalgamare tra di loro. E' quindi una
componente plastica, delle resine che utilizzano il calore. Poi c'è quella più utilizzata, l'FDN; c'è la
stereolitografica che utilizza delle resine di metacrilato, che va smaltito e riciclato come plastica.
Quelle che utilizzano polvere di gesso sono più sostenibili; quelle più industriali per fare lo stampo
da utilizzare nella colata di fusione dell'alluminio e dell'acciaio; e qualcuna meno professionale che
stampa con delle polveri che non resistono ad alte temperature, che vengono utilizzate per fare dei
prototipi.

S - Se tu dovessi pensare ad un'ideale modo in cui una istituzione come la regione potesse
intervenire in una maniera utile, con una policy di qualche tipo, cosa vi piacerebbe che accadesse?

A - Secondo me, una possibile soluzione è potenziare la rete. E' difficile però, perché ho notato -
non solo in Campania ma in tutta Italia - che si parla molto di rete, ma poi ognuno guarda sempre a
sé e non interagisce. Allora la Regione dovrebbe incentivare queste attività tramite progetti da far
sviluppare a tutti i makerspace e i FabLab della Campania, a cui tutti devono partecipare.
Un’esperienza del genere esiste già a Reggio Emilia, ed è un progetto in cui la Regione ha creato
una sorta di incubatore, di laboratorio, per integrare le varie realtà. Non per lavorare insieme tutti i
giorni, ma per avere una struttura in cui ogni mese, tre giorni al mese, si fa una riunione. Anche qui
in Campania si potrebbe realizzare. Non una passerella di eventi di innovazione, con un tavolo per
parlare di fabbricazione digitale sul territorio e di innovazione, che è solo una conferenza. Ma per
essere operativi, fare dei tavoli chiusi, con Hub o Città della Scienza come sede, ad esempio, dove
ogni settimana o ogni mese devono riunirsi tutte le varie realtà per sviluppare sul territorio, per
avere delle idee, o magari dare delle idee, ad esempio chiedendo di fare un piano per le scuole sul
territorio. Ad oggi si organizzano dei corsi per animatori digitali col MIUR, che però non
coinvolgono nessuno. Questi corsi, invece dovrebbero dare l’opportunità di interagire, facendo
emergere naturalmente le realtà come Hub, come punto di riferimento che eviti alle persone di
spostarsi altrove. Questa secondo me è la cosa fondamentale, alla base. E non ci sarebbe bisogno di
investire molte risorse. Secondo il modello della rete di manifattura digitale di Reggio Emilia (Mak-
ER). Questo è stato uno dei temi trattati all'Innovation Village, presso la Mostra d'Oltremare: si
tratta di un network che mette a sistema le migliori energie e aspirazioni dei makers e degli artigiani
digitali sul territorio regionale, promossa dall'associazione MakeInItaly. La regione ha proposto di
fare un network, coordinato dal FabLab Reggio Emilia, con Aster (portavoce dell’idea) ed altri
partner come le università, il CNR, ENEA. Se invece le realtà non vengono messe a sistema, sono
semplicemente delle molecole vaganti, non coordinate bene. La capacità dovrebbe essere quella di
mettere insieme 'operativamente', e non 'politicamente'. Ci vorrebbe una realtà un po' distaccata
dalla politica, per dare l'opportunità ad un piccolo lab, una piccola realtà, di coordinare. Ogni
partner dà un referente per il progetto, creando una lista di referenti responsabili, riuniti attorno ad
un tavolo e mettendo in campo, ciascuno, le proprie competenze. Potrebbe non uscire niente, oppure
un semplice evento dedicato alla manifattura digitale, ma anche un progetto più significativo, dalle
sinergie tra vari laboratori. In realtà Hub è già parte di un progetto del CNR, abbiamo già dei
legami, delle interazioni con l'Università. Ma per i piccoli lab renderebbe più semplice l'interazione
con le università o il CNR.

S - A proposito di questo, quale livello di networking voi avete già con le altre realtà sul territorio?

A - Coltiviamo buoni rapporti quasi con tutti coloro con cui siamo entrati in contatto nel tempo. Con
Antonio Grillo del FabLab Napoli, che Hub ha ospitato presso la propria sede per un anno e di cui
ho fatto parte, siamo in buoni rapporti e ci siamo incontrati in vari eventi, si parla, c'è uno scambio.
Ultimamente si stanno sviluppando molti incubatori, molti hub. C'è il Rural Hub ad esempio. Un po
di tempo fa sono stato l'Urban FabLab di Paolo Cascone, per aver partecipato a degli eventi
organizzati a Città della Scienza. Sono delle realtà molto diverse. Il FabLab Napoli, che gravita
nell’area dell'amministrazione comunale, è un'associazione e non può vendere prodotti. Poi ci sono
dei ragazzi di Casal Di Principe che hanno un laboratorio dove fanno service di progettazione e
stampa 3d come azienda. Il modello che si sta sviluppando molto è quello di una rete tra
associazioni e cooperative, istituti e privati, una cordata di soggetti, e si crea uno spazio unico. E' un
po' quello che è previsto dal 'tappeto digitale' del MIUR. E secondo me la regione dovrebbe fare una
cosa del genere, un po' più aperta.
Cosa c'è da fare? As esempio, si potrebbe fare un marketplace dei giovani designer indipendenti
napoletani, campani, mediterranei, che si può estendere alle altre regioni come la Sicilia e la Puglia,
la Calabria. Questo marketplace avrebbe una ricaduta economica, di visibilità, occupazionale. Il
giovane designer campano deve restare qui e sviluppare i suoi progetti sul territorio, ma occorre la
visibilità a livello nazionale e internazionale, cosa che può dare un'istituzione come la Regione. Un
giovane designer che lo fa su Etsy, o sul proprio blog personale, avendo il sostegno della Regione
Campania, che è un'istituzione forte, godrebbe di una visibilità diversa. Gli investimenti
sicuramente non sono quelli che occorrono, ad esempio, per creare una struttura grande in cui
inserire i vari soggetti, i vari referenti delle varie istituzioni. Sarebbe interessante promuovere il
brand campano, come si promuove la mozzarella, o la pizza. I campani hanno l'etichetta di persone
creative, che hanno una veduta ampia delle cose, un approccio diverso nei progetti e sul mondo del
lavoro.
La Regione potrebbe promuovere questo progetto, magari coordinandolo lei stessa. Servirebbe uno
sviluppatore per i siti, per la parte dei codici, informatica; un grafico che si occupa di
comunicazione, associato al web designer, che si occupa della parte grafica, la collocazione, le foto,
lo shooting, dei vari prodotti; una parte tecnica di laboratorio dove produrre oggetti, non solo con la
stampa 3d ma anche in legno, in ceramica, a controllo numerico; e un soggetto che si occupa di
elettronica, Arduino, che può dare supporto ai progetti che si stanno sviluppando nella IoT, la
domotica; con competenze a 360 gradi insomma, in modo che il designer possa realizzare il proprio
progetto. Due ragazze laureate alla SUN, hanno portato ad Hub due progetti con una componente
elettronica. Io ho stampato il prototipo esterno, mentre a livello di concept loro hanno espresso tutta
la parte elettronica. Però sarebbe utile avere anche una figura che si occupa di questo. E poi c'è
bisogno di un coordinatore tecnico che deve essere presente nel laboratorio dove si lavora, per
coordinare le attività, andare all'università a parlare con il preside per contattare i professori etc. Un
progetto del genere andrebbe tenuto in piedi per quattro anni, prima di assicurarsi che possa
camminare con le proprie gambe. Si tratta di cinque risorse impiegate a tempo pieno per quattro
anni; il fitto di una struttura che potrebbe essere messa a disposizione da un partner (ad esempio il
comune, che ha degli immobili non utilizzati); e poi i costi vivi, gestionali, come Internet o la
corrente elettrica. Poi ci sono i costi per la comunicazione, l'acquisto del dominio. Il progetto è
regionale, coinvolge tutti i comuni, patrocinato da tutti i comuni, già con delle quote di
cofinanziamento. Poi ci sono le università di Napoli. E ogni comune si deve preoccupare di trovare
delle persone che presentino dei progetti che noi poi presentiamo sul marketplace. E può anche
essere rivolto alle aziende. Con un piccolo cofinanziamento, ad ogni fiera si può essere visibile
come partner, quindi oltre a dare delle possibilità a dei giovani e a delle aziende, si ha un ritorno di
visibilità. Per le aziende, la quota di finanziamento può anche essere fatturata come quota
pubblicitaria, che possono scaricare.
Hub è partito con 70 soci ed una sola responsabile della sede nella struttura, e sono stati anni duri.
Da due anni hanno assunto altre competenze, qualcuno che si occupa di comunicazione e di grafica,
io mi occupo del laboratorio, della coordinazione di prototipazione e produzione, Laura si occupa
della grafica e del web, Milena di quella amministrativa. Nell'ultimo anno abbiamo fatto dei
progressi notevoli, sia dal punto di vista mediatico che dal punto di vista operativo. Riusciamo a
tenere la struttura aperta tutta la giornata, ad essere presenti, dare delle consulenze, abbiamo creato
una gamma di servizi. Dal punto di vista di immagine e comunicazione, sul web riusciamo ad essere
presenti. Siamo riusciti a far partire un'attività sociale, l'Open Hour, in cantiere da un paio d'anni.
Una sola persona non riesce a fare tutte queste cose, ma noi abbiamo costituito un gruppo di lavoro
affiatato che porta avanti delle cose, e l'Open Hour è stata una soddisfazione e un traguardo, perchè
lo spazio è aperto, nell'ottica dell'incubatore.

S - In conclusione, da tutte le cose che mi hai detto, mi sembra che per voi il concetto di apertura è
importante.

A - Si. Noi siamo aperti al territorio. Diamo l'opportunità ai coworkers di accadere al badge
magnetico per entrare anche se non c'è nessuno nella struttura. Ma con l'Open Hour siamo aperti a
tutti, il cancello è aperto. E si sono creati già dei rapporti. Aperto a tutti, coworkers, soci di Hub,
persone di Giugliano, studenti.
S - A proposito di questo, dalla tua esperienza, quali sono le persone che vengono, che sono
interessate, partecipano? Mi interessa anche la questione di genere.

A - La prevalenza all'inizio era maschile. Ricordo che il Fablab Napoli era prettamente frequentato
da uomini, e in un paio d'anni ci saranno state giusto un paio di designer. Nel Makerspace, invece,
la situazione è un po’ diversa: la frequentazione costante è prettamente maschile; tuttavia,
nell'utilizzo del laboratorio, l'interesse è diffuso anche tra le ragazze. Dal punto di vista dei tirocini,
soprattutto, provenienti da Università o Scuole di Alta Formazione, la maggioranza è stata di
studentesse. In particolare, con l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, c’è stato
un buon riscontro. A seguito della campagna di comunicazione (volantini, brochure, contatti diretti).
Nel giro di un mese abbiamo ottenuto circa 15 contatti di interesse per partecipare a tirocini.
Purtroppo possiamo ospitarne solo uno alla volta, a causa del nostro numero di dipendenti, e la
maggior parte delle interessate provengono da un curriculum di design per la moda, interessate
all'utilizzo della fabbricazione digitale nella moda, sia negli accessori, che nel tessile e nelle scarpe,
per giungere, poi, ad un progetto finale da presentare in sede di seduta di Laurea, dove emergesse il
fenomeno della fabbricazione digitale in relazione col mondo della moda.

Intervista a Luca Recano (Progetto PRYL Print Your Life)

Parte 1.

Il finanziamento (specificare finanziamento e progetto) è arrivato lo scorso anno, per un progetto


presentato quasi tre anni fa. Le attività sono iniziate in primavera, con 80 studenti del'Istituto
Casanova del centro storico, a Via San Sebastiano. Il progetto prevede attività di formazione per i
ragazzi, e per noi, il gruppo che si occupa della formazione. In realtà è un progetto su stampa e
modellazione 3D, e prevede come prodotto finale la realizzazione di un progetto, anche di oggetti
da stampare da parte dei ragazzi in collaborazione con noi, sviluppando e mettendo in pratica le loro
competenze diversificate. Loro vengono da sezioni diverse. Il Casanova non è stato scelto a caso: si
tratta di un istituto professionale che ha una dirigenza abbastanza illuminata, pur applicando una
serie di innovazioni in 'negativo' (buona scuola etc, alternanza scuola-lavoro), loro provano ad avere
un profilo più attento ai bandi regionali, con un'offerta formativa molto ricca. Pur avendo una platea
complessa, con persone da tutta la provincia di Napoli, di tutte le fasce sociali, per cui ci trovi il
ragazzo di buona famiglia che cerca di formarsi e specializzarsi in un determinato settore, e ci trovi
chi non va al liceo perchè al secondo o terzo anno c'è una percentuale di abbandono abbastanza alta.
Infatti il progetto prevede una parte più centrata sulla formazione, la professionalizzazione, la
sperimentazione, ed una più incentrata sulle attività legate alla percezione di sé, l'autopercezione
rispetto al percorso formativo. Il progetto è diviso in due moduli: uno si occupa della formazione su
modellazione e stampa 3D, e un altro modulo con attività di carattere più ricreativo, tipo lavoro di
gruppo, discussione su articoli di giornale, autopercezione. C'è un gruppo di formatori e un gruppo
di tutor, che si occupa di questo modulo, che lavora sulla formazione del gruppo,
sull'autoconsapevolezza rispetto alle proprie competenze, anche dal punto di vista un po' più
relazionale. Cercano di tirare fuori dai ragazzi le loro attitudini e capacità, competenze positive che
la scuola per come è fatta non riesce a far venire fuori. Noi cerchiamo di mettere in comunicazione i
due moduli, di far sì che il lavoro di coscienza del sè e del rapporto con gli altri, di consapevolezza
delle proprie competenze e attitudini, sia legato a quello che si fa, come si lavora in gruppo. Sono
sezioni con indirizzi diversi, da produzioni audiovisive, lavorazione del legno, odontoiatria... In
realtà tutti questi indirizzi hanno a che fare con la stampa 3D, ma bisogna declinarlo in maniera
diversa. Noi proviamo a fare degli esempi, a spiegare come le cose che loro studiano, ad esempio
produzione audiovisiva, usare macchina fotografica e telecamera, si collega con la stampa 3D. Nel
processo della stampa e modellazione 3D, una delle parti che però noi non pratichiamo, ma sta solo
nella parte teorica, è quella della scansione 3D, in particolare con la fotogrammetria, per cui loro,
con l'uso degli strumenti che usano in laboratorio a scuola, possono ad esempio fare la scansione 3D
di un oggetto. Oppure l'indirizzo odontotecnico, in questo settore noi usiamo delle macchine a
fusione di filamento, mentre le macchine che vengono utilizzate in campo biomedico sono diverse,
a solidificazione laser. Noi abbiamo due macchine a fusione di filamento, però gli facciamo vedere
che le macchine cambiano, ma il processo della modellazione è quasi lo stesso. Alcuni programmi
sono più intuitivi e permettono di fare la modellazione in maniera più intuitiva, con strumenti
geometrici, altri prevedono l'uso delle equazioni e sono più complesse, cosa che anche noi non
sappiamo fare. Però il meccanismo è lo stesso, e quindi noi cerchiamo di trasmettergli questo, che si
tratta di un primo approccio a un settore, un mondo che può avere una relazione con quasi tutto
quello che loro fanno.

Oltre a questo progetto, voi prevedete di continuare, di realizzare un fablab?

Si, noi vorremmo avviare un fablab. Ma le difficoltà sono molteplici. La prima è trovare una sede
adatta. Noi abbiamo ora una sede, nei quartieri spagnoli. Le prime fasi del progetto le abbiamo
svolte a scuola, perchè c'erano stati dei ritardi, come al solito, per ottenere la sede, che era in
condizioni pietose, quindi per fare i lavori di manutenzione... Noi abbiamo inserito nel partenariato
il comune di Napoli a titolo gratuito, cosa che dà prestigio, sono ancora poche le attività all'interno
delle scuole. Noi ci siamo dovuti formare in questo periodo, e ci stiamo ancora formando, quindi la
difficoltà di fare contemporaneamente la formazione per noi, la formazione per gli studenti, e poi
pensare un'ipotesi di continuità... Noi abbracciamo i principi della chart dei fablab, anche se non ci
interessa più di tanto il riconoscimento formale, in quanto si tratta più di una filosofia che di una
definizione stretta. Spesso le due filosofie di sharing economy e rental economy vengono
sovrapposte in maniera indiscriminata, e non si capisce la differenza tra air bnb e couchsurf, oppure
tra uber e blabla car: nonostante siano comunque piattaforme proprietarie e ci sia un profitto, sono
dei meccanismi diversi. E con le categorie della sociologia e dell'economia politica 'vecchie' non le
riesci a interpretare.

Parte 2

Nel corso delle attività della fase di preparazione, ci siamo dovuti rendere conto, fare una mini
mappatura della realtà sul territorio cittadino in particolare, che si occupano delle stesse cose.
Abbiamo cercato di capire quali attività erano presenti, da quanto tempo sono attive, e di che
tipologia di attività stiamo parlando, in quanto ogni fablab, ogni esperienza ha le sue caratteristiche.
L'idea che ci siamo fatti, rispetto al mondo dei makers in generale, è che le applicazioni, rispetto al
tessuto economico, sono infinite. Non c'è un settore in particolare più importante o più attenzionato
degli altri. Sicuramente il ragionamento che un'istituzione pubblica dovrebbe fare, rispetto al
finanziamento di queste realtà, è rispetto alla valorizzazione delle attività produttive già esistenti sul
territorio. Ad esempio (uno dei tanti): a Napoli c'è un'importante tradizione di artigianato nel campo
dell'oreficeria. Questo settore di mercato potrebbe avere grossi benefici dall'applicazione di una
serie di tecnologie che utilizzano la stampa 3D. Ad esempio sulla creazione di prototipi, la stampa
3D permette di abbattere i costi e sviluppare più velocemente ed autonomamente rispetto a soggetti
terzi che fondono il materiale, e rispetto ad una procedura che ha dei costi. Loro devono fare degli
studi di mercato, e investire su una linea piuttosto che su un'altra, e questo limita la
sperimentazione, sono costretti ad immaginare prima che impatto può avere sul mercato una certa
linea di prodotti. Utilizzando la stampa 3D, possono sperimentare perchè il costo della produzione
unitaria viene abbattuto, per cui loro potrebbero fare dieci oggetti, vedere quale tira, senza doverlo
immaginare o fare degli studi.

Ma come si può far capire il potenziale di queste tecnologie, non soltanto alle istituzioni, ma agli
stessi artigiani interessati, che a volte sono restii nell'aprirsi alla 'novità'?
Infatti c'è un gap informativo, riguardo i vantaggi che potrebbe avere, le tecnologie che potrebbe
avere a disposizione. Ma se ci va chi ha già sperimentato, gli prospetta i vantaggi più
specificamente. Questo contatto di introduzione dovrebbero farlo gli enti pubblici, se interessati a
valorizzare il tessuto economico, con la mediazione di questa nuova realtà, di fablab e makerspaces
che conoscono soggetti che hanno già abbracciato l'uso di queste nuove tecnologie e ne conoscono i
vantaggi, e potrebbero mettere in contatto gli uni con gli altri. I costi per l'acquisto di una macchina
a controllo numerico si ammortizzano mettendosi insieme e facendo dei mini consorzi, rompendo
quella dinamica di ipercompetitività che da un lato è il sale di chi lavora nel campo dell'artigianato,
ma dall'altro c'è la necessità di collaborare su certe cose. Se c'è un centro che mette a disposizione
delle macchine, e un gruppo di artigiani le utilizza, magari facendo squadra, questo presuppone un
cambio di mentalità. Si tratta di un investimento di medio periodo. Offrire un servizio di
consulenza pubblico regionale che dia delle informazioni e fa accedere a dei canali a cui altrimenti
non si ha accesso.

Innovazione. Cosa vuol dire per voi questa parola?

E' un termine che si usa oggi per tutto e niente. Nell'ambito dei makerspaces, la caratteristica
innovativa è quella della multidisciplinarità, il fatto che persone che vengono anche da percorsi
formativi diversi possano collaborare, mettere assieme un economista, un ingegnere, un architetto,
un ingegnere elettronico, e un artista, creare dei gruppi di lavoro che siano interdisciplinari. Questo
secondo me è quello che fa fare il salto di qualità. Io posso avere un'idea, ma uno studioso di
economia o un tecnico del settore mi può dare delle informazioni che fanno misurare la mia idea
con una situazione concreta, e così vengono fuori le soluzioni. Altrimenti io posso pensare una cosa,
ma poi quella cosa non funziona. Secondo me quindi l'innovazione si sviluppa quando hai questo
feedback, l'idea va giocata in qualche modo facendo i conti con le condizioni concrete in cui si
sviluppa, e anche con una serie di saperi che tu non hai a disposizione. Questo l'ho visto in piccolo
al FabLab del Corso Umberto, dove è arrivato un ragazzo che non sa niente di stampa 3D ma è
molto bravo con la programmazione delle schede elettroniche, gli ha fatto un corso di robotica;
l'altro ragazzo, il coordinatore del FabLab, ha imparato a fare in maniera molto veloce delle cose, e
oggi la domotica è uno dei loro fiori all'occhiello, lo sviluppo di software per la programmazione
delle schede, è una cosa che riescono oggi a fare, pur partendo lui da tutt'altro. Sembra una cosa
banale, me il problema è trovare gli strumenti per farla funzionare, non lasciata alla casualità,
mettere in rete. Si potrebbe fare una mappatura dei centri di ricerca, o anche tra gli studenti
universitari, buttare un'esca.

Il livello di inclusione e di apertura del vostro laboratorio?

Il nostro progetto l'abbiamo pensato per le scuole. Il progetto è diviso in due macromoduli: uno
riguarda la formazione 3D e l'altro la dispersione scolastica, quindi anche con una finalità che non
riguarda direttamente la progettazione di un FabLab o makerspace, ma che ha anche una ricaduta
rispetto agli standard qualitativi della scuola. Per questo motivo la scuola Casanova da settembre ha
deciso, contro il nostro parere, di mandarci altri studenti, e siccome speriamo di continuare questo
rapporto di collaborazione, oltre che con altre scuole... Noi abbiamo avuto loro come partner
principale, però loro hanno capito che siamo alla ricerca anche di altri partner. Se le scuole
facessero questo lavoro di messa in rete di istituti professionali, questo permetterebbe loro di
abbassare i costi. E poi c'è la questione della composizione sociale dei partecipanti al nostro
laboratorio. Hai bisogno di qualche dato più preciso su questo?

Si, è interessante vedere in queste scuole qual è la composizione sociale, di genere ad esempio.

Anche per gli standard del progetto, noi siamo costretti innanzitutto, ovviamente, a non fare nessun
tipo di discriminazione, e quindi ad accettare tutti. Poi a tenere un equilibrio nel numero tra maschi
e femmine, intorno al 50%, non oltre il rapporto 60-40%, perchè questo è richiesto nei requisiti del
progetto, e i criteri sono abbastanza rigidi. Ma non abbiamo dovuto riequilibrare noi, quindi questo
significa che già di partenza, almeno tra quelli che hanno voluto aderire al progetto, c'era questo
rapporto. Su etnia e nazionalità, ovviamente, come in molte scuole di questa zona, c'è una quota
anche non trascurabile di immigrati di seconda e terza generazione. Essendo una scuola del centro
storico di Napoli, che raccoglie un bacino di studenti dei quartieri del centro storico ma anche di
altre zone della città, almeno un terzo degli alunni vengono da quartieri della periferia, Soccavo,
Ponticelli, Secondigliano, Scampia, Fuorigrotta. Davvero una composizione molto varia, almeno un
terzo viene da quartieri di periferia. Per quanto riguarda l'età, si tratta di seconde classi l'anno scorso
e terze quest'anno, quindi siamo tra i quindici e i diciassette anni per la maggior parte. Poi ci sono
anche dei ripetenti, quindi arriviamo fino ai diciannove anni. Occupazione: ovviamente molti di
questi ragazzi lavorano, e infatti abbiamo avuto una difficoltà a svolgere le attività in orario
pomeridiano, perchè molti di loro dopo la scuola pranzano e poi vanno a lavorare, e noi abbiamo
cercato di venire incontro anche alle loro esigenze, ed è il motivo per cui, finchè abbiamo potuto,
abbiamo svolto una parte delle attività a scuola in orario mattutino, curricolare. Quelle che
cominciano dalla settimana prossima saranno in orario extracurricolare, e quindi probabilmente ne
perderemo una parte. Ma noi cercheremo di venirgli incontro per tirarli dentro. Noi stiamo avendo
una difficoltà molto forte ad utilizzare la sede che ci ha assegnato la municipalità, per questioni di
carattere logistico, poichè c'è una discarica abusiva a fianco alla sede, ed è quasi a rischio sanitario.
Questo è molto importante, in quanto se avessimo avuto meno problemi di questo tipo, oggi la sede
la useremmo anche per attività che non riguardano strettamente il progetto. Se hai le macchine, il
computer, il knowhow, e un piccolo patrimonio di relazioni che si incrociano, gente che viene a
trovarti, a curiosare, a vedere cosa stai facendo, magari ti propone qualcosa... Abbiamo avuto molti
problemi persino per allacciare Internet. Allora le scuole, e anche le università da questo punto di
vista, il settore della formazione pubblica, potrebbe in qualche modo contribuire, le scuole
potrebbero mettere a disposizione i loro spazi, anche in orario pomeridiano o addirittura serale, per
fungere proprio da fucina, laboratorio di sperimentazione. Questo potrebbe essere uno degli aspetti
positivi della buona scuola, realizzare in un certo modo l'alternanza scuola-lavoro. Oppure creare
delle sinergie, dei partenariati, per accedere a dei canali di finanziamento, anche europei, che a volte
non vengono utilizzati, in quanto le scuole spesso non hanno un progettista. Se magari un ufficio di
progettazione, anche centralizzato, riuscisse a seguire tre o quattro scuole, questo potrebbe
permettere di aprire sedi e fare nuovi progetti. Questo è quello che noi stiamo provando a fare.

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