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Universale

Paolo Bertinetti

Jl rom
inglese
Universale Laterza
954
Paolo Bertinetti

Il
romanzo
inglese

Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli

www.laterza.it

Prima edizione marzo

2017

Edizione
1 24 5 3
Anno
2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa,
Bari-Roma
Questo libro è stampato
su carta amica delle foreste
Stampato da
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-581-2749-0

È vietata la riproduzione,
anche parziale, con qualsiasi
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un furto e opera
ai danni della cultura.
a Elisabetta, Letizia e
Riccardo
Premessa

Il romanzo inglese, con la sua varietà di forme e di


lin guaggi, di generi e di sottogeneri, costituisce una
del le principali ricchezze – e forse la più variegata –
del patrimonio letterario europeo. In questo «oceano
di racconti», per dirla con Somadeva, proprio per la
sua vastità può essere difficile orientarsi e navigare
con si curezza. Questo libro vuole essere una guida e
un invito alla lettura di quelli che sono gli autori
maggiori e le opere più interessanti di tale
amplissima produzione, dai suoi «fondatori» del
Settecento fino agli autori con temporanei.
Si è preferito non fornire un’informazione di tipo
enciclopedico; e neppure simile a quella delle storie
della letteratura, in cui compaiono anche autori mino ri
e opere minori degli autori maggiori. Si è fatta una
scelta che, almeno per quanto riguarda il Settecento,
l’Ottocento e il primo Novecento, ha il conforto della
prova del tempo; per quanto riguarda la seconda metà
del Novecento e il presente, la scelta è invece tutto
som mato soggettiva.
In questo rapido profilo del romanzo inglese le
esclusioni e le inclusioni sono inevitabilmente discuti
vii
bili. E discutibile può essere anche l’importanza data ai
singoli autori, che emerge dallo spazio ad essi dedicato.
Si è cercato infatti di mantenere una proporzione tra
qualità e quantità (di righe); ma tale proporzione un
po’ viene meno quando si arriva agli autori degli ultimi
decenni, che talvolta hanno uno spazio maggiore, a pa
rità di importanza, di quelli del primo Novecento e dei
secoli precedenti. Qui le esclusioni e le inclusioni
saran no ancora più discutibili. Soprattutto per
l’inclusione di autori che anche soltanto tra vent’anni
risulteranno forse sopravvalutati.
E tuttavia c’è la speranza che questa possa essere
una guida affidabile per navigare nell’oceano di una
così va sta produzione romanzesca e, al tempo stesso,
sappia essere un invito alla lettura delle sue gemme più
belle.
Il romanzo inglese
I
Gli inizi

Nella sua Prefazione a Incognita (1682) William


Con greve scriveva che i romances – cioè i poemi
cavalle reschi e la narrativa in prosa che ne
condivideva le caratteristiche – «sono costituiti in
genere dagli amo ri costanti e dal coraggio
invincibile di eroi, eroine, re, regine, persone d’alto
rango e così via; e in essi il linguaggio elevato, gli
eventi miracolosi e le imprese impossibili
sorprendono il lettore e lo sollevano a ver tiginose
altezze di delizia». Tuttavia, chiuso il libro, lo fanno
precipitare al suolo; ragion per cui il lettore «è
costretto a convincersi» di essersi divertito o di
essersi addolorato al racconto di vicende che altro
non sono che menzogne. Invece i novels, cioè i
romanzi – prose guiva Congreve –, «sono di natura
più familiare, stanno vicino a noi e ci mostrano
vicende concrete, ci dilettano con casi e avvenimenti
singolari ma non del tutto inso liti o senza precedenti
[...] e non essendo molto lontani da quanto crediamo
sia vero, rendono il piacere della lettura più vicino a
noi».
Questo nuovo genere letterario, il romanzo, intrat
teneva dunque i lettori con il racconto di vicende
3
che, per quanto straordinarie, appartenevano al
mondo rea

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le, quello in cui vivevano, e che riguardavano perso
naggi grosso modo come loro, comuni mortali,
magari eccezionali per certi loro aspetti, ma non
lontani dalle persone che si potevano incontrare nel
mondo reale. È curioso che a definire la natura del
romanzo e a scriver ne uno (così nel frontespizio lo
definisce il sottotitolo di Incognita, che tuttavia
proprio romanzo non è, ma che è piuttosto una
novella «esotica», ambientata a Firen ze), sia stato
William Congreve (16701729), e cioè un
drammaturgo.
Più curioso ancora è il fatto che il primo romanzo di
lingua inglese, Oroonoko, sia stato scritto da
un’autrice teatrale, Aphra Behn (16401689). Suo padre
era stato nominato governatore del Suriname, all’epoca
possedi mento inglese nel Sudamerica tropicale, terra di
pian tagioni di canna da zucchero e inferno in terra per
gli schiavi che in esse lavoravano; ed Effray Johnson –
que sto il nome originario di Aphra – là lo aveva
seguito. Ma alla morte del padre tornò in Inghilterra,
sposò il signor Behn, restò vedova, fece la spia di Sua
Maestà con il nome di Astrea e si mise a scrivere testi
teatrali. Di buon successo: fu la prima donna, ricordava
Virginia Woolf, che riuscì a mantenersi con la sua
attività di scrittrice.
E scrisse – come si è detto – anche un romanzo,
Oro- onoko, pubblicato nel 1688, in cui fece
confluire i suoi ricordi del Suriname, dei
maltrattamenti feroci subiti dagli schiavi e
dell’ipocrisia dei loro cristianissimi pa droni. Il
romanzo si presenta come la «vera storia» di
Oroonoko, principe africano catturato e deportato in
America, dove già era stata deportata la sua
innamorata (che sposerà). A raccontare le sue
vicende, di per sé così affascinanti che per divertire il
lettore non c’era nessun bisogno di «aggiungere
alcunché di inventato», è un’a nonima giovane donna
inglese che lo aveva conosciuto
e ne aveva apprezzato la nobiltà (un’anticipazione del
Buon Selvaggio) e che ne illustra le imprese coraggiose
e la rivolta degli schiavi da lui promossa. Con
l’inganno, Oroonoko verrà catturato, e poi giustiziato
ferocemen te e sadicamente per il diletto della folla. Se
Incognita più che un romanzo è una lunga novella,
Oroonoko è già un romanzo (breve), nonostante le
caratteristiche della sua forma narrativa, che spesso sa
di «memoriale», di diligente rapporto su fatti accaduti.
Che in realtà non sono accaduti, ma che, come è proprio
del romanzo, sono presentati come se lo fossero.
Quei fatti sono racchiusi in un racconto di avveni
menti che – per quanto straordinari per ambientazione,
protagonista e vicende stesse – appartengono al mondo
reale. Ancora esotico, come sarà trent’anni dopo per il
primo grande romanzo inglese, Robinson Crusoe, ma
entrambi legati alla nuova realtà della potenza britanni
ca, alle sue colonie, ai suoi commerci sugli oceani, alle
sue nuove ricchezze e alle sue nuove imprese econo
miche. Imprese di cui era protagonista la borghesia, la
classe sociale che nel corso del Seicento, e poi in modo
istituzionale con la Gloriosa Rivoluzione del 1688, ave
va assunto un ruolo centrale nella società inglese.
In Inghilterra la nascita del romanzo e l’ascesa
della borghesia sono due fenomeni fortemente legati
tra loro. Si può essere più o meno d’accordo con la
definizione di Hegel del romanzo come «moderna
epopea borghe se», si può avere più di una riserva
sulla tendenza a far nascere il romanzo con il
romanzo inglese (cosa che se condo me non è). Si
può sottolineare il fatto che forme di narrazione i cui
protagonisti non avevano le carat teristiche di quelli
del romanzo, ma che tuttavia rac contavano una
dimensione vicina a quella della realtà quotidiana,
già esistevano da tempo, addirittura dall’età
classica. Ma non può esserci dubbio sul fatto che i
va lori espressi dai romanzieri inglesi del Settecento
erano i valori propri della classe borghese e che il
realismo dei loro romanzi ben si accordava con le
aspettative di un pubblico di lettori che volentieri
accettava di essere intrattenuto con storie che fossero
radicate nella real tà del proprio mondo, che avessero
come protagonisti personaggi vicini alla loro
esperienza, che raccontassero vicende la cui
«morale» corrispondesse ai propri prin cipi morali.
Anche nella letteratura inglese dei secoli precedenti
c’erano state forme di narrazione che facevano capo
alla quotidianità, come ad esempio i rogue pamphlets
(sto rie di malavita) pubblicati sul finire del
Cinquecento e nel primo Seicento, dei veri e propri best
seller con cui autori di romances e testi teatrali, come
il raffinato Ro bert Green o il prolifico drammaturgo
Thomas Dekker, riuscivano a fare cassa. Ma è difficile
considerarli dei veri precedenti. Così come è difficile
immaginare che le teorie francesi sulla
«verosimiglianza» a cui Congreve era debitore, o la
formidabile incursione nei linguaggi popolareschi del
Gargantua e Pantagruel di Rabelais, o la riflessione
psicologica offerta dalla Principessa di Clèves,
costituissero un punto di riferimento per i romanzieri
inglesi. Lo era invece, e lo dichiaravano esplicitamente,
il Don Chisciotte di Cervantes. Vuoi perché costituiva
un modello formidabile del modo in cui una storia
poteva essere raccontata (per il taglio generale, ma
anche per come inseriva altre storie nella storia
principale), vuoi perché dimostrava che il mondo del
romance – e cioè le illusioni e gli autoinganni
cavallereschi di don Chisciotte
– era in pieno contrasto con il mondo reale.
Il romanzo inglese, dunque, non parlerà di re e regi
ne, ma della vita di tutti i giorni; non userà un
linguaggio
raffinato, ma sfrutterà la ricchezza del linguaggio
quoti diano; non narrerà storie stupefacenti collocate
nei cieli della fantasia cavalleresca ma racconterà,
come spesso si legge nel sottotitolo dei primi
romanzi, delle «storie vere»: spesso straordinarie,
capaci di suscitare interesse e fascino, ma storie
«davvero accadute». Il romanziere catturerà
l’attenzione del lettore parlandogli del mon do di cui
fa parte e che ben conosce, proponendogli vicende
ed esperienze che non gli appartengono ma che
potrebbero essere state vissute da uomini e donne del
suo tempo e della società a lui contemporanea.
Come sostiene Bachtin, il romanzo è il genere
lette rario contemporaneo per sua natura, che
costantemente muta e si rinnova con il mutare del
tempo storico. È un genere letterario in divenire e
ancora incompiuto: non ha un «canone» come gli
altri generi letterari, perché di volta in volta si
reinventa, si dà nuove caratteristiche e nuove
soluzioni e sempre si àncora alla realtà contem
poranea per darsi nuove forme che ad essa corrispon
dano e che sappiano ritrarla.
II
Il romanzo del primo
Settecento: Defoe, Richardson
e Fielding (per non parlare di
Swift)

I primi romanzieri inglesi narrano dunque «la vita e


le avventure» di un personaggio del mondo reale e
del mondo contemporaneo e raccontano una storia
«ve ra». Per sottolineare ed esaltare questo senso di
verità, il narratore di Defoe dice «io»: io Robinson,
io Moll Flanders, io Capitano Singleton, io
Colonnello Jack. Mentre Richardson, l’autore di
Pamela, si presenta co me il «curatore» delle lettere
e di pagine del diario scrit te dalla cameriera Pamela
e poi delle lettere scritte dai protagonisti della
vicenda raccontata in Clarissa, il ca polavoro del
romanzo epistolare inglese. Il tutto, come si diceva,
presentato come vero, realmente accaduto nel mondo
reale. Romanzo e realismo, romanzo e scrittura
realistica, si presentano come termini inscindibili.
Ma è davvero così?
Sin dalla metà del Settecento, giù giù fino a
Woolf e Joyce (per non parlare dei postmoderni), la
forma ro manzesca si è fatta sempre più ricca e
articolata. Ma anche la realtà si è fatta sempre meno
unitaria e più complessa, e i mezzi per rappresentarla
sono diventati via via più problematici. E questo –
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come vedremo – ha spinto molti scrittori, dal primo
Novecento in poi, a

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percorrere nuove strade romanzesche. Già prima, però,
non sempre romanzo e realismo erano termini coinci
denti. Tutti i primi romanzi si presentavano come
histo- ries – di fatti veri – e non stories – di fatti
inventati. E tuttavia il problema della loro veridicità
suscitava qual che imbarazzo già allo stesso
Richardson. Se racconto una storia vera, allora faccio
del giornalismo; se invece suggerisco al lettore che ho
scritto un’opera di fantasia, allora vacilla l’idea stessa
di romanzo come racconto di fatti realmente accaduti.
Per noi, tre secoli dopo, il problema non si pone più.
Il romanzo è fiction, parola inglese che in letteratura ha
perso il significato originario di finzione/falsità per as
sumere quello di creazione letteraria (l’ambiguità, a ben
vedere, sta già nel termine stesso): ebbene, attraverso
l’invenzione romanzesca, a cui il lettore crede anche se
non vi crede, l’autore gli racconta che così è la vita, che
così gioiamo e soffriamo, che così ci affanniamo inu
tilmente o lottiamo con successo. Non è vero che così
è accaduto. Ma ciò non rileva, perché è vero che così
potrebbe accadere; e a partire dalle vicende narrate e
dalle esperienze di vita che il romanzo propone, il let
tore, se vorrà, potrà riflettere sulla propria vita. Oppure
limitarsi a fantasticare.
Ma torniamo agli inizi, al primo Settecento, per pro
vare a rispondere alla domanda: «Chi erano i lettori?».
È difficile stabilire quale fosse il livello di alfabetismo
nell’Inghilterra del Settecento, ma il prezzo
decisamente elevato dei libri fa capire che solo una
parte ristretta del la popolazione alfabetizzata poteva
comprarli. In quanto ai romanzi, ad acquistarli e a
leggerli erano soprattutto le donne dell’upper middle-
class, la dama e la sua cameriera personale, mentre il
marito, in genere, era impegnato a leggere i libri
contabili, a bere o ad andare a caccia con
gli amici; o comunque a intrattenersi fuori casa
piuttosto che nel suo studio davanti a un buon
romanzo.
Il quale romanzo presentava, non solo per la
came riera ma anche per la dama, un altro motivo di
interesse per il fatto di parlare del presente: proprio
in quanto ambientato nel mondo reale per vicenda e
personaggi, non richiedeva – per essere apprezzato –
quella cono scenza della cultura classica (negata alle
donne) che in vece la lettura dei romances
presupponeva.

Il primo novel, il primo romanzo inglese che si


impo se come alfiere del nuovo genere letterario, fu
Robinson Crusoe di Daniel Defoe (16601731).
Defoe, oltre che scrittore e romanziere, fu un
personaggio straordinario, l’incarnazione, per molti
versi, dello spirito borghese nella sua originaria
versione rivoluzionaria. Era a favore dell’idea di
sovranità popolare (nel senso ad essa dato da Locke
nel suo Due trattati sul governo). Diceva che uomini
e donne sono uguali e che le differenze tra loro sono
soltanto la conseguenza di imposizioni di natura
culturale, senza alcun fondamento oggettivo o «natura
le». Sosteneva che le proteste contro gli immigrati
erano miopi e meschine, perché gli immigrati
costituivano sia la forza lavoro, sia il patrimonio di
conoscenze tecniche e pratiche di cui l’Inghilterra
aveva bisogno. Spiegava che i poveri delinquono non
perché «malvagi», ma per ché vi sono indotti dal
bisogno: l’uomo non è ricco per ché è onesto, diceva,
ma è onesto perché è ricco. Diceva anche che
l’istruzione ha un’importanza fondamentale, a
differenza di quanti lo negavano per giustificare la di
sparità sociale in base alla «naturale» inferiorità di chi,
a causa del censo, l’istruzione non aveva potuto
riceverla.
Era inoltre un dissenter (nome dato a chi dissentiva
in materia teologica e liturgica dalla Chiesa anglicana)
e
quindi, come tale, gli erano negati buona parte dei
diritti civili. Essendo dotato di grande ironia, aveva
scritto un opuscolo, The Shortest Way with
Dissenters, in cui pro poneva la soppressione di
dissenso e dissenzienti, ragion per cui (troppa ironia,
persino per il metro inglese) fu messo letteralmente alla
gogna, accusato dai dissenters, che non avevano
capito l’ironico paradosso, e dalle au torità anglicane,
che l’avevano capito benissimo.
Defoe era un uomo dalle mille risorse. Londinese,
figlio di un macellaio, per un certo tempo aveva fatto il
commerciante, aveva viaggiato molto in Europa (proba
bilmente anche in Italia) e tra il 1703 e il 1714 aveva
viag giato molto in Gran Bretagna allo scopo di
raccogliere informazioni politiche per conto del potente
statista e di fatto primo ministro Robert Harley (che lo
utilizzò anche come vero e proprio agente segreto). E
mentre faceva tutto ciò trovò il tempo di scrivere
migliaia di pagine su gli argomenti più diversi, saggi
politici e ideologici sia in prosa che in versi, trattati di
argomento storico, opuscoli di tipo giornalistico e,
soprattutto, una miriade di articoli pubblicati sui
periodici a cui collaborava (e che spesso erano dovuti
quasi esclusivamente alla sua penna).
Il filo rosso che percorre la sua immensa
produzione è quello della promozione dei valori
borghesi: Defoe, anche se i suoi contemporanei non
lo capirono, era l’a postolo dell’ethos capitalista e
del suo necessario co rollario, cioè quello di
abbattere il privilegio di classe e di premiare il
merito per creare così un nuovo ordine sociale alla
cui base stavano i principi morali e la figu ra del
merchant (che un po’ impropriamente possiamo
tradurre con «borghese»).
Questo suo convincimento si ritrova non solo nei
suoi scritti politici, ma anche nei suoi romanzi, a parti
re dal primo, Robinson Crusoe (1719). Robinson,
unico
sopravvissuto al naufragio della sua nave, trascinato
dal le onde sulle rive di un’isola deserta, è la
quintessenza dell’homo oeconomicus, che è definito,
in sostanza, dalle sue proprietà, da ciò che possiede.
Prima che la nave, arenatasi presso la riva, affondi del
tutto, Robinson porta via tutto ciò che gli è possibile,
comprese le 36 sterline che trova nella cassaforte del
capitano: sa bene che sull’isola deserta non potrebbero
servirgli, ma lo fa egualmente (per farci sapere che la
cosa più importante al mondo è il denaro). Fa un elenco
dettagliato di tutti gli oggetti che ha recuperato, così
come in seguito farà un inventario pignolo di tutti i suoi
beni, delle sue «ric chezze»: lo fa perché lui è ciò che
possiede.
Il romanzo racconta le «strane e sorprendenti avven
ture» di Robinson, quelle che nella versione di «libro
per ragazzi» hanno affascinato generazioni di giova ni
lettori: rischia di annegare, è catturato dai pirati, è
tenuto in schiavitù per due anni, sopravvive tra mille
avversità su un’isola deserta, combatte vittoriosamente
contro i cannibali e contro i marinai ammutinati della
nave inglese approdata sull’isola e sulla quale tornerà in
Inghilterra, per diventare infine un ricco proprietario di
piantagioni (e di schiavi) nel Nuovo Mondo.
Naturalmente le sorprendenti avventure sono scritte
da Robinson di suo pugno. Sin dall’inizio Defoe vuole
che il lettore sappia che tutto ciò che viene raccontato
è assolutamente vero, che è una «storia di fatti reali»
(history, scrive, non story). Ed è un fatto che qualcosa
di simile era davvero accaduto qualche anno prima a
un tal Alexander Selkirk, le cui avventure erano sta te
raccontate in diversi libri. Ma quello fu soltanto il
punto di partenza. Il resto è tutto frutto dell’invenzione
di Defoe, che nel creare la supposta autobiografia di
Robinson aveva inoltre ben presente la vasta letteratura
protestante, che attraverso il racconto biografico mira
va ad offrire al lettore avvertimenti e insegnamenti.
Una delle principali ragioni del successo di
Robinson Crusoe e degli altri romanzi di Defoe sta
nella novità del linguaggio. Era il linguaggio dei
predicatori, dei gior nalisti, di chi si rivolgeva a un
pubblico di artigiani e commercianti. Nel linguaggio di
Defoe possiamo intui re quello popolaresco (intuire,
perché gli fa ovviamente soltanto da sfondo: non lo usa
ma vi allude) e possiamo cogliere la vivacità
dell’inglese parlato, la concretezza di una narrazione
affidata a parole che il comune lettore poteva subito
riconoscere e capire.
Il fascino del racconto sta nel fatto che Robinson
per dodici anni è solo sull’isola deserta e che
sopravvive creando delle condizioni di vita che il
lettore riconosce come civiltà (e, per il lettore del
tempo, di quella civiltà probabilmente faceva parte
anche il fatto che l’indigeno di un’isola vicina, che
Robinson salva dai cannibali, di ventasse, più che un
suo servitore, il suo schiavo: senza schiavi l’impero
non poteva prosperare).
La solitudine di Robinson è alleviata dai forti
convin cimenti religiosi che matura dopo essere
sopravvissuto a una grave malattia. Nella morale del
romanzo Defoe offre una versione benevola del
rigore quasi calvinista dei dissenters: Robinson si è
ribellato all’autorità pater na, sancita dalla legge
divina, e quindi merita di essere punito. Ma la Divina
Provvidenza, proprio attraverso la punizione, gli
offre la possibilità di salvarsi: Robinson affronta con
coraggio, disciplina, determinazione e, so prattutto,
fede nella misericordia divina, le prove a cui è
sottoposto. Non solo sopravvivrà, ma diventerà un
uomo ricco e rispettato da tutti.
Robinson dimostra che cosa può fare di buono e
di giusto un bravo borghese naufragato su un’isola
deser
ta. Ma che cosa può fare una povera fanciulla in una
metropoli come Londra, nel nuovo mondo borghese in
cui la povertà è vista come un peccato e in cui il
denaro, come dice la protagonista di Moll Flanders
(1722), è ciò da cui dipende la salvezza o la
dannazione di un uomo?
La madre di Moll era stata condannata a morte per
il furto di tre pezze di stoffa. Poiché era incinta, la
pena era stata sospesa; in seguito la donna era stata
deporta ta in America, a lavorare nelle piantagioni, e
costretta perciò a lasciare a Londra la sua bimba di
appena sei mesi. Dopo varie vicissitudini, Moll viene
affidata a una
«brava donna» che educa le ragazze a diventare brave
domestiche. Ma lei non vuole diventare una cameriera.
«Cosa vorresti diventare, una gentildonna?», le
chiede ironicamente la sua «educatrice». «Sì!», è la
risposta di Moll. Vent’anni dopo Richardson avrebbe
pubblicato Pamela, la storia di una cameriera che
sposa un genti luomo e diventa una gentildonna. A
quel punto, almeno nella finzione romanzesca, era
possibile immaginare un simile estremo esempio di
mobilità sociale.
Defoe non arriva a immaginare tanto. Era troppo
presto? O comunque, memore del successo dei
racconti di malavita, preferì raccontare la storia di
una donna che, costretta dalla necessità («la genitrice
del crimine»), di venta una ladra e una prostituta e ha
cinque mariti, uno dei quali è suo fratello? Moll
affascina il lettore come affascina gli uomini che
circuisce: probabilmente l’inge nuità con cui narra le
sue «fortune e sfortune» gioca a suo favore, così
come, almeno per il lettore dell’epoca, il suo
pentimento. Resta il fatto che una vita di crimine e di
peccato si conclude con il premio della libertà e del
benessere. La stessa Moll si chiede come mai la
Provvi denza sia stata così generosa; ma non sapendo
darsi una risposta, invita il lettore a trovarne una.
Anche Robinson si era posto la stessa domanda e
aveva concluso che le vie della Provvidenza sono
im perscrutabili. Dietro questo interrogativo non è
difficile scorgere la teoria della predestinazione e
della grazia che in parte i dissenters ereditavano da
Calvino. Ma nel caso di Moll agli occhi di Defoe c’è
forse una ragione in più. Moll usa tutto ciò che ha, la
sua bellezza e il suo corpo, per poter sopravvivere.
Usa il suo corpo come un operaio usa le proprie
braccia e, soprattutto, lo usa per non diventare
proprietà di un uomo.
Questo vale anche per la protagonista di Roxana,
the Fortunate Mistress («Lady Roxana», 1724), che
tuttavia non parte dalle miserabili condizioni di Moll.
Roxana sposa un uomo ricco, che però sperpera la
sua fortu na e l’abbandona. Spinta dalla necessità,
diventa una prostituta. Ma, raggiunta la sicurezza
economica, non rinuncia alle sue «arti». Il fatto è che
ha imparato a non fidarsi della correttezza e della
generosità degli uomini e ha concluso che deve
essere lei a provvedere genero samente a se stessa.
Tant’è vero che rifiuta di sposare un ricco
aristocratico per non perdere la propria indipen
denza economica: anche Roxana non vuole diventare
proprietà di un uomo. Alla fine, ci assicura Defoe, la
donna si pentirà dei suoi peccati. La morale è salva.
Degli altri romanzi di Defoe meritano una citazione
almeno Colonel Jack (1722) e Captain Singleton
(1720), la cui morale potrebbe essere addirittura «il
delitto pa ga». E soprattutto The Journal of the
Plague Year («Dia rio dell’anno della peste», 1722), il
«vero» resoconto di un londinese sulla spaventosa
epidemia di peste di sessant’anni prima, un mirabile
esempio di come Defoe sapesse cancellare i confini tra
ciò che era vero e ciò che era finzione.
Un’abilità che gli valse l’accusa di giornalista da par
te di molti studiosi. Defoe, indubbiamente grande
gior nalista, in campo letterario fu un pioniere. E in
quanto tale si devono riconoscere i suoi meriti di
«artefice» del nuovo genere letterario; fermo
restando che i suoi ro manzi non possono ancora
avere in sé, né prefigurano, le future conquiste del
genere romanzesco. Dato che i suoi personaggi
raccontano storie di avventure desti nate ad
affascinare il lettore, la sua preoccupazione è quella
di riempirle di avvenimenti, incontri, incidenti,
disavventure e sorprese che tengano vivo l’interesse
del lettore per il destino dei suoi protagonisti. I quali
spesso (questo è il limite di Defoe) piangono e si
disperano sen za tuttavia che il lettore possa vedere
quali siano i senti menti profondi che davvero
albergano nel loro animo. La psicologia del
personaggio, in Defoe, non c’è ancora. Ma ciò non
toglie che i suoi Robinson, Moll e Roxana siano tra i
personaggi più vivi, più veri, più radicati nel nostro
immaginario, di tutti quelli usciti dalle pagine del
romanzo inglese.

Defoe fa sì che per scelta, o per costrizione, i suoi


protagonisti varchino i mari e gli oceani nella finzione
romanzesca. I viaggi che avvenivano nella realtà spesso
diventavano anch’essi oggetto di affascinanti resoconti:
affascinanti per la loro avventurosità, o per la descrizio
ne di uomini, luoghi e animali del tutto insoliti, esotici
e sorprendenti. Qualche volta il racconto della realtà era
molto più ‘inventato’ di quello della finzione, e purtut
tavia creduto vero. E non sorprende quindi che, almeno
entro certi limiti, anche i viaggi di Gulliver narrati da
Jonathan Swift (16671745) potessero essere letti come
qualcosa di vero; o almeno di vero in forma
romanzesca. Per la verità Gulliver’s Travels («I viaggi
di Gulliver», 1726) non è un romanzo vero e proprio; è
piuttosto
la rivisitazione, alla luce di Robinson e dei resoconti
di viaggio (dei quali può anche essere letto come una
parodia), della Storia vera di Luciano di Samosata, lo
scrittore greco del II secolo che (dichiarando però di
mentire) in quel suo libro raccontava viaggi mirabolanti
in luoghi ancora più mirabolanti.
Gulliver’s Travels deve la sua fama al fatto di
esse re stato abbreviato, censurato e ridotto alle
prime due delle sue quattro parti per offrire un
istruttivo libro di avventure ai giovani lettori; ma se
lo leggiamo nella sua interezza non possiamo non
accorgerci della sua natura di satira feroce, amara e
violenta della società britannica contemporanea – e
dell’umanità stessa.
Il protagonista, Gulliver, chirurgo di bordo, è un
uomo onesto, sincero e non particolarmente perspica ce
(il verbo to gull significa ingannare, fare fesso qual
cuno). Nella prima parte egli naufraga a Lilliput, dove
è un gigante in mezzo a uomini alti una quindicina di
centimetri (un dodicesimo della sua statura), ma che
si vedono grandi per importanza – la satira è diretta
alla corte e ai cortigiani di re Giorgio I. Nella seconda
parte finisce a Brobdingnag, i cui abitanti sono alti do
dici volte più di lui: sono all’antica, tradizionalisti, per
nulla moderni – e quindi non dispiacciono a Swift, che
odiava il progresso. Come emerge molto chiaramente
nella terza parte, quando, dopo essere stato gettato in
mare dai pirati, Gulliver si ritrova sull’isola volante di
Laputa, dove gli uomini si dedicano alla speculazione
scientifica, astratta, fine a se stessa e inutile. Donde una
critica più che legittima; ma il fatto è che Swift non ap
provava la scienza in generale, perché la riteneva poco
necessaria e, soprattutto, contraria alla religione.
Nella terza parte incontra anche gli Struldbrugs,
che sono immortali ma umani, e quindi invecchiano
diven
tando sempre più decrepiti, costretti a patire non solo nel
corpo ma anche nello spirito, perché non possono morire
e por fine alle loro sofferenze. Nella quarta parte Gulli
ver raggiunge la terra degli Houyhnhnm (che nella pro
nuncia corrisponde al suono di un nitrito), che sono dei
cavalli, saggi, razionali, e governano su una popolazione
umana poco più che scimmiesca, sporca e puzzolente,
gli Yahoo. Non hanno né istituzioni, né letteratura, né
tecnologia e sono dei conservatori, come piaceva a Swift.
Quando torna a casa, Gulliver si rifugia il più possibile
nella stalla, con i suoi cavalli, perché l’odore di sua
moglie e dei suoi figli, simile a quello degli Yahoo, gli fa
venire in mente quanto sia disgustosa la natura umana.
Nell’ultimo capitolo, dopo aver dichiarato che
tutto quanto ha scritto corrisponde alla pura verità,
Swift si lancia in un durissimo atto d’accusa contro
l’impresa coloniale, mostruosa causa di ingiustizie e
di massacri. Questo riguarda gli altri paesi, non
l’Inghilterra, dichia ra poi. Ma la frase è del tutto
ironica: Swift era irlande se. Era vissuto per diversi
anni in Inghilterra al servizio di un importante
aristocratico, sperando di ottenere un incarico
governativo di qualche rilevanza. Speranza va na.
Ciò che gli fu dato, dopo aver ottenuto un dottorato
in Teologia ed essere diventato un sacerdote della
Chie sa irlandese protestante (il reverendo dottor
Swift), fu l’incarico di decano della cattedrale di San
Patrizio di Dublino. Nella capitale irlandese, dove si
sentiva come
«un topo in un buco», ebbe modo di rendersi perfet
tamente conto di come l’Inghilterra gestiva il potere su
quella che a tutti gli effetti fu la sua prima colonia (e
come gestiva il potere in genere lo aveva già capito nel
corso dei suoi infruttuosi contatti con la corte inglese).
Conservatore in politica, Swift lo era anche in campo
religioso. Da queste sue posizioni, tuttavia, come pure
nella denuncia dell’imperialismo, traeva una ferocia
ancor maggiore per scatenare la sua satira contro la
società inglese, contro la politica del primo ministro
Walpole, contro le diatribe tra cattolici e protestanti,
contro la grottesca amministrazione della giustizia,
contro la compiaciuta indifferenza nei confronti del la
povertà e della miseria più nera della popolazione
irlandese cattolica (scrisse infatti una «Modesta pro
posta» in cui suggeriva ai cattolici irlandesi di dar da
mangiare i loro bambini ai ricchi: così guadagnavano
qualche soldo e avevano meno bocche da sfamare). Era
però soprattutto un critico feroce della presunzione,
dell’arroganza, della meschinità che affligge l’umanità,
il tipo di verme più nocivo, diceva il re di Brobdingnag,
«che striscia sulla faccia della terra». Era un misantro
po? Forse. Ma sicuramente era un filosofo morale che
odiava i falsi ideali, la menzogna e l’ipocrisia.

Se gli esordi del romanzo inglese furono affidati


alla penna di un’avventurosa commediografa
(nonché agente segreto), se il suo consolidamento fu
affidato a quella di un altrettanto avventuroso
giornalista e com merciante (pure lui agente segreto),
la sua affermazione internazionale fu invece dovuta a
quella di un modesto tipografo per nulla avventuroso,
l’accorto e riservato Samuel Richardson (16891761).
Le sue opere, presto tradotte in francese e in tedesco,
incontrarono all’estero un successo non inferiore a
quello, enorme, ottenuto in Inghilterra. Un successo
di pubblico ma anche di criti ca, come testimonia
l’appassionato Elogio di Richardson dovuto a Denis
Diderot: «Richardson è un autore che vi riconduce
continuamente alle cose importanti della vita. Più lo
si legge, più ci si compiace di leggerlo. [...] Pittori,
poeti, persone di gusto e di sentimento, leggete
Richardson, leggetelo senza sosta». Per la bellezza delle
sue pagine, proclamava Diderot, e perché «Richardson
spande nel cuore dell’uomo dei semi di virtù». Virtù è
la parola chiave, che campeggia nel titolo del suo primo
romanzo, Pamela, or Virtue Rewarded («Pamela, o
la Virtù premiata», 1740).
Richardson, scrittore dal piglio didattico e moralista,
fu un efficace propagandista dei valori della borghesia,
della quale contribuì a forgiare con grande maestria l’i
dentità culturale. Il suo primo libro, scritto nel 1733,
fu, significativamente, un manuale di buona condotta
destinato agli apprendisti affinché si accostassero al lo
ro lavoro guidati da serie regole di comportamento e
provvisti di sani principi morali (prima ancora, da ra
gazzo, aveva fatto pratica scrivendo lettere per giovani
innamorate). Più tardi, con l’accortezza professionale
del tipografo/editore, passò alla scrittura creativa.
Pamela è un romanzo epistolare, fatto di lettere e
di pagine di diario per la maggior parte scritte da Pa
mela (i corrispondenti sono sei in tutto), una giovane
cameriera in teoria facile preda del suo
«padroncino», Mr B. Invece la ragazza resiste ai suoi
pesanti tentativi di seduzione, anche quando viene da
lui reclusa in una sua remota dimora; e rifiuta la sua
«generosa» offerta di diventare la sua amante. Alla
fine Mr B. la sposa e le pagine conclusive del
romanzo ci mostrano Pamela diventata un esemplare
modello di virtù, stimata e am mirata da tutti, persino
dall’altezzosa sorella di Mr B.
Per i toni marcatamente moralistici, la parte fina
le è la più debole del libro, come riconoscono anche
molti dei più convinti ammiratori di Richardson (ma
non Diderot). Per la verità in tutto il corso del
romanzo Richardson fa il moralista: è un convinto
protestante, che vuole raccontare una storia che abbia
un serio va
lore didattico e che metta in luce i principi morali della
classe sociale a cui appartiene; tra tutti, in particolare,
quelli del lavoro e dell’amore coniugale contrapposti
all’oziosità e alla dissolutezza dell’aristocrazia.
Richardson, tuttavia, non interviene soltanto sul piano
morale, proponendo una vicenda sorretta da una visione
ideologica in piena armonia con i principi di quella
middle class, formatasi sulla lettura della Bibbia, che
per la prima volta si accostava in massa alla lettura di
testi non religiosi. Al tempo stesso fa qualcosa di molto
più importante – e di straordinario. Interviene sul piano
sociale, facendosi apo stolo di un principio fondante della
rivoluzionaria classe borghese, cioè quello della mobilità
sociale. Racconta la vicenda di una persona che
appartiene al mondo che po tremmo definire piccolo-
borghese e che sale nientemeno che al livello della
gentry. Sebbene soltanto nella finzione romanzesca,
trova la sua realizzazione la rivoluzionaria pretesa della
borghesia di decretare la fine della dottri na medievale
secondo la quale ognuno doveva restare per tutta la vita
all’interno della classe sociale in cui era nato (nel posto,
cioè, che Dio gli aveva assegnato). E la borghesia
felicemente si riconobbe nei principi morali e sociali
promossi da Richardson, accettando quindi con
entusiasmo come vera la «vera storia» di Pamela. Que sto
atteggiamento fu particolarmente diffuso tra le don ne,
che, come si diceva, costituivano la parte largamente
maggioritaria del pubblico dei lettori. A questo proposito
è interessante notare come nel Settecento inglese si affer
mò un nuovo genere letterario (novel!) spesso diretto a
un pubblico femminile, che aveva come personaggi
principa li delle donne e che presto ebbe delle donne
come autrici. Nell’Ottocento quest’ultimo aspetto divenne
ancora più evidente, e nel Novecento fu decisivo per
l’affermazione del punto di vista femminista.
La storia di Pamela è per Richardson un chiaro
esem pio di virtù premiata. Secondo Fielding, come
vedremo, è un chiaro esempio di ipocrisia. Pamela,
tuttavia, non è un’ipocrita. Non c’è dubbio che il modo
in cui difende la sua verginità dimostra chiaramente che
è consapevole del valore che essa ha; ma se fosse stata
un campione di ingenuità e candore avrebbe
inevitabilmente ceduto a Mr B. Di più: è consapevole
di respingere, lei che è una semplice cameriera, le
avances di un padrone per cui prova attrazione e
tenerezza. Le respinge perché indecenti o perché spera,
inconsapevolmente, di poter diventare qualcosa di più
della sua amante? Le respinge perché è «moderna»: la
sua resistenza, la sua «sfaccia taggine», è la risposta
moderna a quelle arroganti prete se che l’aristocrazia e
le classi elevate per secoli avevano considerato come
loro prerogativa.
Il linguaggio usato da Pamela per esprimere la sua
«sfacciataggine» e i suoi problemi è il linguaggio della
gente comune. Per la verità, non pochi sono i casi in
cui le frasi che usa, e talvolta intere lettere, non potreb
bero mai essere state scritte da una cameriera. Ma la
giustificazione sta nel fatto che Richardson, che ne è il
«curatore», ha avvertito il lettore di essere intervenuto
per correggere gli errori e le imprecisioni grammaticali
e sintattiche del linguaggio di tutti i giorni (introdu
cendo al loro posto espressioni appartenenti ad un lin
guaggio formale, come quello che verosimilmente
aveva usato nella sua attività giovanile di scrittore di
lettere d’amore). Con Richardson, comunque, dopo il
lavoro pionieristico di Defoe, il linguaggio quotidiano
entra definitivamente nel mondo della letteratura.
Il linguaggio del capolavoro di Richardson,
Clarissa (un romanzo epistolare pubblicato in otto
volumi tra il 1747 e il 1749), è invece, dato il
livello sociale dei
personaggi, più «verosimilmente» colto, meno
rivolu zionario. Rivoluzionario, ancora una volta, è
invece il senso della storia narrata, che rappresenta
un duro atto di accusa contro l’aristocrazia. Un terzo
del romanzo è costituito dalle lettere tra la giovane
gentildonna Cla rissa e il suo
corteggiatore/persecutore Lovelace; gli altri due terzi
sono occupati da quelle di una ventina di
corrispondenti.
L’aristocratico Lovelace, dopo avere a più riprese
cercato di sedurre Clarissa (non una servetta, dunque,
ma una dama), la sequestra, la droga e la violenta. Cla
rissa impazzisce, ma riacquista poi la ragione. Non però
la volontà di vivere: la giovane donna, peraltro lasciata
sola dalla sua famiglia, si avvia lentamente (per quasi
un terzo del libro: questo ne costituisce il punto debole)
verso la morte. La sua è una morte «necessaria», perché
solo così può imporsi la denuncia della società patriar
cale e maschilista a cui Clarissa appartiene, ma contro
la quale, pur rispettandola, si è ribellata. Lovelace, che
poi, finalmente, si era pentito, dopo la morte di Claris
sa viene ucciso da un cugino di lei. La sua uccisione è
una sentenza di morte nei confronti di un intero sistema
sociale, contro il «vecchio ordine» contro il quale aveva
combattuto – e continuava a combattere – la middle
class.
Il legame tra Lovelace e Clarissa è un legame
profon do; e decisamente moderno nel ritratto che
Richardson ne offre. La giovane donna subisce il
fascino del suo corteggiatore, ma sa di non potersi
fidare di lui e quindi gli resiste, non piegandosi alle sue
lusinghe. Lovelace è consapevole di questi sentimenti
contrastanti, che di fatto accrescono il suo desiderio; e
quando il rifiuto da parte di Clarissa diventa totale,
assoluto, la sua osses sione si traduce in una feroce
violenza. Il rapporto tra
i due, con il contrasto tra ammirazione e necessità di
rifiuto da parte di lei, con quello tra ammirazione e pro
tervia da parte di lui, con le sfumature masochistiche da
parte di Clarissa e il rimorso di Lovelace per la
violenza a lei inflitta, è delineato con una modernità
sorpren dente. Anche per questo aspetto, come per il
modo in cui affronta gli aspetti legati alla questione dei
rapporti sociali, Richardson precorre i tempi.
Il romanzo epistolare è una forma di supposta au
tobiografia, in cui le lettere, come si diceva, sono la
«testimonianza» della verità della storia raccontata. In
Clarissa Richardson accentua tale aspetto facendo sì
che i suoi personaggi mettano per iscritto ciò che
accade (e ciò che provano) nel «momento stesso» in cui
avviene. Non hanno nemmeno il tempo di rifletterci:
registrano subito, a caldo, le loro sensazioni, i loro
sentimenti, di modo che le parole scritte corrispondano
esattamente alla verità profonda del loro sentire. Non
c’è un’elabo razione dell’accaduto; e neppure una
morale da trarre. Questo spetterà al lettore farlo.

Defoe convinceva il lettore della verità dei fatti


di cendo «Io»: non finzione ma autobiografia.
Richardson lo convinceva dicendo «sono il curatore
di ciò che vera mente hanno scritto queste persone»:
non finzione ma documentazione. Fielding non si
poneva il problema, anzi, si rivolgeva al lettore come
un gentleman, ironico, colto, esperto delle cose del
mondo, che gli racconta va una bella storia,
dichiarando l’artificio retorico della fiction.
Figlio di un militare morto in prigione per debiti,
orfano di madre, Henry Fielding (17071754) fu alleva
to dalla nonna e a dodici anni fu mandato nell’esclusiva
public school di Eton, dove rimase per cinque anni.
Più
tardi, dopo un’avventurosa parentesi londinese durante
la quale cercò anche di rapire una sua ricca cugina, si
iscrisse all’Università di Leida, dove si immerse (ma
so lo per un anno e mezzo) negli studi classici. Questa
sua formazione fu decisiva rispetto alle caratteristiche
della sua attività di scrittore. Che tuttavia, in una prima
fase, fu dedicata al teatro: si affermò come autore di
testi satirici, dettati da un esuberante gusto parodico,
che avevano però il difetto di attaccare la corte e il
primo ministro Walpole. Nel 1737 il Licensing Act, la
legge voluta da Walpole che istituiva la censura, mise
fine al la sua carriera in teatro – e alla sua fonte di
reddito. Già male in salute (per via della gotta) studiò
legge al Middle Temple e nel 1740 divenne avvocato.
In quello stesso anno fu pubblicato Pamela e Fiel
ding trovò subito nell’intento morale del romanzo un
nuovo motivo per esercitare la sua vena parodica: nel
1741 uscì un suo beffardo libretto, Shamela, che oltre
ad essere una satira diretta contro quella che lui
riteneva fosse l’ipocrisia di Richardson e della sua
eroina, è an che una satira contro la tecnica del
«momento stesso». L’intento parodico e la sua
aristocratica avversione nei confronti di Richardson (e
di ciò che propugnava) gli dettarono poi la stesura di un
vero e proprio romanzo, Joseph Andrews (1742).
L’inizio del libro è dettato dall’intento parodico.
Joseph Andrews, fratello di Pamela, è un servitore di
Lady Booby, la zia di Mr B (che qui è chiamato Squire
Booby). Nella sua casa londinese Lady Booby fa delle
esplicite avances a Joseph, che, essendo casto e
amando Fanny, la sua «fidanzatina», le respinge.
Ragion per cui viene licenziato e cacciato via: il lettore
comunque non si indigna, perché, a torto o a ragione, è
difficile non considerare la difesa della castità da parte
di un giova
notto come qualcosa di comico. Joseph decide così di
tornare a piedi nel suo paese: torna a casa, come Ulisse
dopo la fine della guerra di Troia. E come nel caso di
Ulisse il ritorno si rivela assai più lungo e pieno di peri
coli di quanto si potesse immaginare. Dopo le prime di
savventure, Joseph si imbatte nel parroco del suo paese,
Adams, e insieme i due si avviano verso casa.
Da quel momento il romanzo spicca il volo, dimen
tica la parodia e si trasforma in una gustosa versione in
glese delle avventure di don Chisciotte e Sancho Panza.
A un certo punto Adams salva una fanciulla in pericolo:
è niente meno che Fanny. E i tre, insieme, tra ulteriori
incidenti e incontri, proseguono il viaggio (cruciale è
l’incontro con un certo Mr Wilson, che racconta loro
del rapimento del suo bambino da parte degli zinga ri).
Finalmente i tre giungono al paese, dove trovano
Pamela, diventata la moglie di Booby. E, se Dio vuole,
superata l’ostilità di Lady Booby, Fanny e Joseph (che
si scopre essere il figlio di Mr Wilson) possono
sposarsi. Se Dio vuole: perché in fondo, come in Defoe,
anche in Fielding c’è una Divina Provvidenza che
premia le nostre eroine e i nostri eroi (ma non in
Clarissa, perché in quel caso la morte dell’eroina,
come si diceva, è indi spensabile per la morale del
libro, cioè per la condanna del vecchio ordine
aristocratico).
Joseph Andrews è un romanzo letterariamente
raffi nato e divertente, pieno di episodi comici e
sostenuto dalla costante vena ironica con cui sono
definiti perso naggi e vicende, scritto in terza
persona. Fielding di chiara la sua presenza di
narratore, cioè di creatore di un’opera di finzione,
fin dall’inizio; e per tutta la nar razione ricorda al
lettore/lettrice che sta leggendo un romanzo (a partire
dagli ammiccanti e ironici titoli dei vari capitoli). I
fatti e i personaggi sono «veri» nel senso
che sono basati su quelli che incontriamo nella vita rea
le, ma al tempo stesso appartengono chiaramente alla
provincia dell’invenzione romanzesca.
Nella Prefazione Fielding, che voleva sottolineare
il valore letterario della sua opera, colloca il suo
romanzo («un genere mai prima sperimentato») a
fianco dei ge neri canonici della letteratura classica,
definendolo un
«poema eroicomico in prosa». Un genere diverso dal
romance, spiega, in quanto «leggero»; e, soprattutto,
un genere in cui i personaggi sono «di rango inferiore».
È per legittimarne la presenza in un’opera letteraria che
Fielding aggancia il romanzo ai generi classici, legitti
mando così al tempo stesso il genere romanzesco.
I suoi personaggi, è vero, sono simili a quelli che si
incontrano nella vita di tutti i giorni; ma lui li osserva
con occhio acutissimo (e aristocratico) cogliendone gli
aspetti ridicoli, per cui ne emerge un ritratto realistico
e divertente al tempo stesso. Il lieto fine, come Fielding
ben sapeva, cosa realistica non è; ma la fiction, con
l’aiu to della Provvidenza, lo reclama. Ciò non
autorizza, tut tavia, a credere che la virtù porti alla
felicità. Questa, di ceva Fielding, è una teoria nobile e
consolante alla quale si può muovere una sola
obiezione: «che non è vera».
Questa perla di saggezza la troviamo in Tom Jones
(1749), il suo capolavoro, la storia di un trovatello che,
verso la fine del romanzo, scopre di essere il nipote del
ricco e generoso Squire Allworthy, che l’aveva adottato
quando era in fasce. Grazie a ciò Tom potrà sposare So
phia, la donna che ama, perché, almeno in parte, è pure
lui di buona famiglia. Fielding è del tutto estraneo all’i
dea di mobilità sociale che consentiva a Richardson di
immaginare il matrimonio di una cameriera con un gen
tiluomo: per lui è infatti necessaria un’origine almeno
in parte altolocata. (Quando Goldoni adattò Pamela
per il
palcoscenico inventò una simile soluzione. Ma nel suo
caso la variante era obbligatoria: si rivolgeva al
pubblico di un paese dove la borghesia non esisteva
ancora.)
Le avventure e le disgrazie di Tom e di Sophia si
susseguono per decine e decine di pagine senza segni di
stanchezza da parte del narratore, che trova sempre il
modo di avvincere il lettore con l’ingegnosità degli
inci denti e delle sorprese e di intrattenerlo con la sua
ironia mentre con il distacco di un vero gentiluomo
dialoga con lui. Tant’è vero che Fielding, nel Libro
Secondo di Tom Jones, si descrive come il fondatore
di una nuova regione della letteratura, una regione di
cui è lui stesso a stabilire le leggi che la regolano. E
invita il lettore ad aggirarvisi liberamente, trovando nel
suo cammino non esattamente una storia «vera», ma la
versione di una storia che potrebbe essere vera.
In quanto a Tom, c’è da sottolineare che il prota
gonista del romanzo è un giovane molto esuberante,
sempre vitalissimo e a volte sfacciato. Anche più che
sfacciato: è, diciamo così, un furfantello, un simpatico
mascalzone, un rogue, come si dice in inglese (e lo
stesso Fielding, a un certo punto, così definisce il suo
eroe). È interessante notare come molti dei protagonisti
dei pri mi romanzi inglesi siano dei simpatici rogues, a
partire da Moll e Roxana. Il rogue non solo è
simpatico, ma alla fine la spunta e trionfa con
l’approvazione del lettore. D’altronde il buono, il
virtuoso, non soltanto meno si presta ad essere
personaggio trascinante (la bontà non suscita
entusiasmo), ma molto spesso è destinato alla sconfitta.
I romanzieri inglesi, che non dimenticavano di essere
in debito con Cervantes (si pensi che il sot totitolo di
Joseph Andrews recita: «scritto alla maniera di
Cervantes») probabilmente ben ricordavano quella frase
del Don Chisciotte in cui si dice che quando la
virtù si manifesta nella sua massima grandezza «merita
tamente» viene perseguitata e schiacciata.
Tom, esemplare furfantello, che virtuoso non è,
vie ne dunque premiato. E tuttavia è pur vero che è
buono, che, come volevano la sensibility e certa
filosofia sette centesca, è un giovane caratterizzato
da quel dono di natura che consente di simpatizzare
con i dolori degli altri e di gioire della loro felicità.
Dono posseduto da pochi, precisava Fielding; ma tra
quei pochi c’è il nostro eroe.
Di Tom si potrebbe anche dire che è una specie di
picaro, il protagonista del genere narrativo che
apparve in Spagna nel XVI secolo (il romanzo
picaresco) e che raccontava avventure e sventure di
un giovane di bas sa condizione sociale che dopo
mille peripezie, poiché intrinsecamente buono,
veniva premiato dal successo (preferibilmente anche
perché si scopriva che non era affatto di umili natali).
Nel Settecento l’esempio più bello, e di grandissima
risonanza, di questo genere di romanzo fu offerto da
AlainRené Lesage con il suo Gil Blas de
Santillana, che fu tradotto dal francese in in glese
nel 1749 da Tobias Smollett (17211771). Mentre
procedeva con la traduzione, sull’esempio di Lesage,
Smollett scrisse un suo romanzo picaresco,
Roderick Random (1748), un racconto in prima
persona in cui si mescolavano tipiche vicende del
genere picaresco con il ricordo delle sue avventure
(Smollett era chirurgo su una nave da guerra) durante
il fallito attacco della ma rina inglese alla città
colombiana di Cartagena.
Poco dopo Smollett diede alle stampe un secondo
romanzo picaresco, Peregrine Pickle (1751), scritto in
terza persona da un narratore onnisciente. Dopo una
lunga pausa si cimentò poi nel genere epistolare con
Humphrey Clinker (1771), che è il suo capolavoro.
Le
lettere sono scritte da cinque corrispondenti, in viaggio
attraverso l’Inghilterra, il Galles e la Scozia; ciascuno
di loro offre un diverso punto di vista su ogni singolo
aspetto del viaggio, ma Smollett organizza
brillantemen te le diversità di vedute, che finiscono per
annullarsi producendo un effetto di sottile comicità.
Sono cinque diversi «viaggi sentimentali» (il basilare
omonimo libro di Sterne era stato pubblicato tre anni
prima) attraverso però la Gran Bretagna, non l’Europa
del Grand Tour oggetto di satira in Peregrine Pickle; e
che si svolgono nelle campagne, in un mondo rurale
visto come la sana contrapposizione a quello frenetico
di Londra. La sa tira lascia il posto allo humour, ma
l’anticonformismo resta anche qui il segno della
scrittura di Smollett (come d’altronde lo fu per molti
aspetti della sua vita). Si sarà sicuramente notato come i
suoi tre lavori siano redatti nelle tre diverse forme
romanzesche in precedenza usa te da Defoe, Fielding e
Richardson. Ma nel frattempo già era apparso un
romanzo che le scavalcava tutte e tre: era il Tristram
Shandy di Sterne, di cui si parlerà nel prossimo
capitolo.
III
Nuove strade romanzesche:
Sterne, il «gotico», il romanzo
storico

Il reverendo Laurence Sterne (17131768), nato in Ir


landa da madre irlandese e padre inglese, e vissuto a
Tipperary fino all’età di dieci anni, fu poi mandato in
collegio in Inghilterra e in Inghilterra visse per il
resto della sua vita. E tuttavia molta irlandesità, uno
humour in cui la comicità si accompagna alla
malinconia, un for te gusto per i giochi verbali,
un’esuberanza affabulato ria straripante, una minore
attenzione al realismo in no me del fantastico, è
sotterraneamente presente nel suo capolavoro, The
Life and Opinions of Tristram Shandy («La vita e le
opinioni di Tristram Shandy», 176067).
Sin dal titolo Sterne stabilisce una rottura con la
convenzione romanzesca appena consolidata: non le
avventure, ma le opinioni del protagonista narratore.
L’autore si rivolge costantemente al lettore con un
tono simile a quello di Fielding, da conversatore
spiritoso, affabile, cortese, mai predicatorio, in modo
da farne un confidente a cui chiedere consenso e
complicità. Ma pur sempre dall’alto del fatto di

3
essere lui l’autore (cioè l’autorità rispetto alla
materia narrata): e, in fondo, in parte lo mena per il
naso, trascinandolo nella miriade

3
di dettagli, digressioni, aneddoti «gratuiti» e andirivie
ni temporali che si susseguono per i dodici volumi del
romanzo.
Tristram, l’eroe/narratore, si propone di
raccontare la storia della sua vita, decidendo
ovviamente di inizia re, con ordine, dalla nascita. Ma
presto si rende conto che per spiegare ciò che è
diventato occorre tornare indietro, a prima del suo
battesimo (con quel nome sfortunato che gli fu dato
per errore), a prima della sua nascita, addirittura al
momento del suo concepimento: concepimento che è
occasione di una delle pagine più divertenti del
romanzo, con quel padre maniacale e de terminista
che pensa di poter stabilire a priori come sarà suo
figlio – naturalmente sbagliando tutto.
Tristram scrive, ma mentre scrive segue il filo dei
suoi pensieri e interrompe di continuo l’ordine cro
nologico della narrazione con le continue digressioni
e con il racconto della vita delle persone a lui vicine,
dai suoi genitori al simpatico parroco Yorick, dallo
zio Toby, fissato con la ricostruzione dell’assedio di
Namur in cui combatté e fu ferito, al suo servitore, il
caporale Trim (altra versione inglese della coppia
don Chisciotte e Sancho). Per non parlare della
vedova Wadman, con le sue trame per farsi sposare
dallo zio Toby, e di una vera e propria galleria di
deliziosi personaggi minori.
Ma mentre scrive il tempo passa; e Tristram si trova
sempre più lontano dal momento in cui la narrazione
potrà «raggiungere» il presente. È una «missione im
possibile» come dice lui stesso quando, finalmente,
nel terzo volume, giunge a parlare del giorno della sua
nascita: dato che ci ha messo un anno per arrivare fin
lì, adesso avrà 364 giorni in più da raccontare. Il suo
problema è quello di trovare un equilibrio tra il tempo
della scrittura, il tempo degli avvenimenti narrati e, non
ultimo, come lui stesso fa notare, il tempo della lettu ra.
Quest’ultima difficoltà rimanda però alla soluzione: nel
senso che soluzione non c’è, ma che il racconto
procederà comunque, intrattenendo il lettore con una
«conversazione» che giocherà sull’impossibilità stessa
e che lo divertirà con nuove sorprese, nuove digressioni,
nuove storie nella storia.
L’impresa letteraria compiuta da Sterne è davvero
rivoluzionaria, sia per ciò che riguarda la forma, sia per
ciò che riguarda il linguaggio. Ogni tipo di figura reto
rica, ogni specie di artificio grammaticale o sintattico,
ogni categoria di linguaggio e gergo professionale, ogni
modo in cui avviene la comunicazione scritta, viene
rivisitato e smontato, alla ricerca e alla sottolineatura
dei limiti della parola nella sua capacità di comunicare
i significati che vuole trasmettere. È anche per questa
ragione che Sterne utilizza una serie di espedienti non
verbali – asterischi, spazi bianchi, ghirigori, pagine
marmorizzate – che con la loro «oggettività» pongono
rimedio all’ambiguità della parola. Ragion per cui, ad
esempio, una pagina nera sarà la forma di comunicazio
ne più corretta quando Yorick chiuderà gli occhi «per
non aprirli mai più».
Le trovate grafiche sono poi un modo ulteriore at
traverso il quale Sterne pone il lettore di fronte al fatto
di avere davanti agli occhi un’opera di finzione: non
l’autobiografia di Tristram Shandy, ma il prodotto della
fantasia di un romanziere. D’altronde, a dispetto del
titolo, Tristram Shandy non è neppure una biografia:
della vita di Tristram sappiamo ben poco, delle sue opi
nioni poco di più. Semmai ne sappiamo di più delle
opinioni di suo padre e della vita dello zio Toby. Nel
procedere della narrazione l’autobiografia si perde: nel
suo voler essere preciso, nel suo voler raccontare tutto
nei minimi particolari, Tristram accumula migliaia di
informazioni; e annega la sua personale esperienza in
un mare di parole che appena ce la lasciano scorgere.
Questo modo di procedere da un lato sembra di
chiarare l’impossibilità della forma romanzesca, in par
ticolare di quella che si presenta come (auto)biografica,
perché essa presuppone un percorso cronologico linea
re, mentre la realtà non lo è. Ma dall’altro lato dimostra
la vitalità del nuovo genere e la sua straordinaria dut
tilità, che, a differenza dei generi classici, gli consente
di trovare nuove strade e nuove forme a cui affidare
l’invenzione letteraria. A questo merito bisogna poi
aggiungerne uno ulteriore: Tristram Shandy inventa
un nuovo tipo di humour, meno feroce di quello di Swift
(che per Sterne era un punto di riferimento decisivo) e
meno aristocratico di quello di Fielding, sebbene non
meno sottile nella sua divertita bonomia – il cosiddetto
Shandean humour.
Sterne pensava che il buonumore fosse una virtù e
che, di fronte alle miserie della realtà, fosse la dote che
meglio permetteva di superarle; senza farsi illusioni
sul la possibilità di un qualche disegno provvidenziale,
ma contando su ciò che di positivo può albergare
nell’animo umano. Nel 1768, poco dopo la sua morte,
fu pubbli cato il suo romanzo di viaggio intitolato A
Sentimental Journey through France and Italy (il
«Viaggio sentimen tale» tradotto da Ugo Foscolo).
Sterne lo presentava come un libro il cui scopo era
quello di insegnarci ad amare il mondo e il nostro
prossimo, grazie al fatto che il narratore, il parroco
Yorick, in nome della sensibility, indugiava su piccoli
episodi, sui dettagli, sui particolari, per proporne una
lettura «sentimentale».
Sensibility è il termine chiave per capire la cultura
della seconda metà del Settecento inglese. Il filosofo
David Hume, nel suo fondamentale Trattato sulla
natu- ra umana, spiegava che l’uomo ha una naturale
inclina zione a cercare anche la felicità e il benessere
dei propri simili. Da questa idea di una naturale
«simpatia socia le», su cui Hume fondava tutta la
vita morale, discende che la benevolenza è una virtù
di cruciale importanza, quella che consente di
provare sintonia e vicinanza con gli altri, di «provare
sentimento». La sensibility consiste in questa capacità
di «sentire»; e chi la possiede è un esemplare man
of feeling, un uomo in cui risplende la virtù del
sentimento.
Nel Sentimental Journey sentimento e
sensibility sono al centro della narrazione; e questo
spiega il suo enorme successo nel Settecento e nel
primo Ottocento. Tuttavia non possiamo escludere il
sospetto che i let tori settecenteschi (e in seguito i
romantici) siano stati ingannati da Sterne, che in
realtà si sarebbe divertito a prendere in giro gli
aspetti di estrema sensibilità mani festati dal parroco
Yorick. Per cui, accanto alla paro dia della
popolarissima letteratura di viaggio, il libro
nasconderebbe un atteggiamento di satira parodica
nei confronti dell’altrettanto popolare filosofia
dell’epoca. Se però così non è, allora dobbiamo
pensare che in que sto libro, scritto poco prima di
morire e con la consape volezza dell’imminenza
della morte, si siano fusi, come sosteneva De Quincey,
humour e pathos. La sua tesi non è affatto peregrina:
in fondo sono proprio queste due componenti che
caratterizzano, contraddittoriamente, buona parte
della cultura inglese del Settecento.

Appena il romanzo aveva visto delinearsi il suo


ca none, Sterne lo aveva infranto. Appena si era
finito di dichiarare che novel vuol dire storia vera,
realismo, mondo inglese contemporaneo, si affermò
un genere,
il romanzo gotico, che si muoveva in una dimensione
magica, sovrannaturale, fantastica.
Horace Walpole (17171797), figlio del dittatoria le
primo ministro Sir Robert, deputato al Parlamento,
fondatore di una casa editrice che pubblicò le odi pre
romantiche di Thomas Gray, era un appassionato cul
tore di antiquariato. E trasferì il gusto per la ricerca di
oggetti (e documenti) antichi e misteriosi nel romanzo
che diede alle stampe nel 1764, The Castle of Otranto
(«Il castello di Otranto»), che presentò come la tradu
zione di un antico testo italiano. Con questo romanzo
Walpole diede vita al nuovo genere del gothic novel,
che coniugava il gusto per il pittoresco e il Sublime
(catego ria chiave della sensibilità preromantica) con
una forte predilezione per il mistero e l’irrazionalità.
Protagonista dei gothic novels è in genere una
giova ne donna che rischia di cadere nelle grinfie di
uomini ferocemente malvagi e che nella sua fuga
deve affronta re ogni sorta di minacce e di pericoli,
veri o immaginari
– fantasmi e apparizioni sovrannaturali le si presentano
con costante sistematicità. Poi, nel finale, che è quasi
sempre un lieto fine, spesso si scoprirà che i fenomeni
sovrannaturali tali non erano, ma che c’era una spiega
zione «naturale» per il loro manifestarsi. Il lettore è così
soddisfatto su due fronti. Su quello fantastico, perché
l’eroina si salva dopo essere stata in pericolo di vita per
tutto il corso della vicenda e annientata dall’emozione
«sublime» per eccellenza, il terrore. Su quello
realistico perché tutto sommato il romanzo gli
propone circo stanze e fatti irreali che trovano una
loro spiegazione nella realtà (così come si addice al
romanzo). E tuttavia, in sintonia con quel tipo di
sensibilità preromantica che trovava la sua voce nella
grave poetry, la poesia cimite riale, con la sua
riflessione sulla morte, il romanzo goti
co spesso propone un aspetto che scavalca la realtà nel
suo suggerire una dimensione in cui il confine tra vita
e morte risulta tutt’altro che definito, in cui la morte è
una presenza nella vita stessa.
Nel romanzo di Walpole la vicenda si svolge in
un’I talia «esotica», dagli edifici antichi e misteriosi, a
partire dal castello del titolo, dotati di opportuni
sotterranei e anfratti nascosti in cui appaiono fantasmi e
fenomeni inspiegabili e paurosi, in cui la fuga e gli
inseguimenti si caricano di terrore; anche se poi
improbabili coinci denze e altrettanto improbabili
rivelazioni garantiscono quel lieto fine che, come si
diceva, conforta il lettore. Per Walpole gotico voleva
dire medievale; ma non sem pre questo era il periodo
storico preferito dagli autori di gothic novels.
I due casi più lontani sono offerti da due piccoli ca
polavori ora, ingiustamente, poco frequentati. Il primo
è Vathek, di William Beckford (17591844), scritto in
francese nel 1782 e tradotto in inglese qualche anno
dopo, che propone un viaggio nel proibito e che costi
tuisce una sfida radicale ai diritti della ragione, con una
vicenda ambientata in una dimensione mentale visiona
ria e allucinata. Il secondo è The Monk («Il monaco»,
1796), di M.G. Lewis (17751818), un romanzo am
bientato nella Spagna della Santa Inquisizione, vicino al
Romanticismo tedesco nella sua versione più macabra:
una storia in cui assassinio, stupro e incesto sono affi
dati a un taglio apertamente sadico. È possibile tuttavia,
forse al di là delle intenzioni di Lewis, interpretare i
suoi toni trasgressivi come il frutto di un violento
disprezzo nei confronti dell’ipocrisia che spesso
domina nei rap porti sociali delle classi elevate: e così
infatti venne letto oltre un secolo dopo dai surrealisti
francesi, che molto lo apprezzarono.
La ‘star’ del romanzo gotico fu Ann Radcliffe
(1764 1823), una donna di salute cagionevole, schiva,
riservata, che scrisse i racconti del terrore più
fantasiosi, e più am mirati e imitati, della sua epoca.
Molti dei suoi romanzi, come quello del suo
precursore Walpole, sono ambientati in Italia.
Un’Italia piena di luoghi pittoreschi (in sintonia con
l’idea dominante del Sublime), di sinistri e misteriosi
conventi, o di castelli dalle altrettanto misteriose
segrete, in cui si sviluppano drammatiche vicende che
offrono le più diverse variazioni sul tema del terrore.
La vittima è in genere una fanciulla emblema di
innocenza e di purezza, mentre il suo persecutore è un
uomo malvagio, spietato e lussurioso. Come tipico del
genere, si pensi al suo roman zo più noto, The
Italian («Il confessionale dei penitenti neri», 1797):
nel finale il terrore cederà il passo al lieto fine
matrimoniale – e alla spiegazione in termini razionali
degli avvenimenti che erano apparsi come
sovrannaturali. Il romanzo gotico, per certi versi,
rappresenta la fac cia nascosta della razionalità
illuministica, capace di mo strare la faccia altrettanto
accuratamente nascosta di una società piena (è il caso
di dire) di scheletri nell’armadio. Per questa ragione,
al di là del fascino che ha esercitato e che esercita
sugli amanti del genere, possiamo consi derare il
gothic novel come una componente importante della
narrativa settecentesca, capace di fornire una testi
monianza indiretta degli aspetti inconfessabili della
so cietà britannica. Senza contare la sua importanza
come fornitore di spunti decisivi per il romanzo
ottocentesco (si pensi ai lavori delle sorelle Brontë o
di Stevenson); o addirittura come modello (si pensi al
Dracula di Bram
Stoker o al Dorian Gray di Oscar Wilde).

Walter Scott (17711832), nel romanzo che gli diede


la fama, Waverley (1814), lascia cadere alcune
osserva
zioni critiche nei confronti del gothic novel, o almeno
di alcuni dei suoi aspetti più strambi. Però anche Scott
era in qualche modo debitore di quel gusto antiquario
che aveva avuto un ruolo importante per Walpole. Nel
caso di Scott, che era nato a Edimburgo, contavano
soprat tutto i racconti popolari e le leggende dell’antica
Scozia su cui la poesia romantica non poco aveva
ricamato. La vicenda di Waverley non era però
collocata in un tempo così remoto, bensì nella Scozia di
settant’anni prima, durante l’insurrezione giacobita del
1745, quando il principe Carlo Edoardo, detto Bonnie
Prince Charlie, nel suo tentativo di reinsediare sul trono
la sua casa ta degli Stuart, riuscì a mobilitare diversi
capi dei clan delle Highlands scozzesi. Con cinquemila
uomini mar ciò da Edimburgo fino a Derby; ma non
proseguì verso l’ormai vicina Londra e tornò indietro.
L’anno succes sivo, nella battaglia di Culloden, il suo
piccolo esercito subì una disastrosa sconfitta, che segnò
la fine del sogno della restaurazione stuartiana; e che
segnò anche la fi ne della relativa indipendenza dei clan
e l’affermazione del controllo della corona su tutta la
Scozia, Highlands comprese.
Questi brevi cenni storici sono indispensabili per
cogliere il senso dell’operazione di Scott. I suoi roman
zi «scozzesi» spesso ci presentano dei prodi guerrieri
delle Highlands, sostenitori della casata degli Stuart,
che combattono valorosamente contro le truppe di re
Giorgio: uomini pieni di coraggio e di nobiltà d’animo
che lottano per una causa destinata alla sconfitta – come
ben sapevano i lettori di Scott. Per questa ragione essi
potevano pertanto apprezzare le virtù di questi uomini
generosi senza che ciò entrasse in contraddizione con
la loro posizione di fedeli sudditi di una nazione che,
dopo la sconfitta di Bonnie Prince Charlie, aveva potu
to consolidare la sua unità e che aveva appena sconfitto
la Francia napoleonica, affermando definitivamente il
suo ruolo di grande potenza. Gli avvenimenti narrati
nei romanzi di Scott appartenevano a un passato eroico
scomparso per sempre; e quindi era possibile non solo
ammirarne i protagonisti, ma addirittura, ora che non
costituivano più un pericolo, apprezzare le differenze,
soprattutto culturali, di cui essi erano portatori.
Bisogna inoltre tenere conto del fatto che nel pe
riodo romantico, in generale, erano molto apprezzati
l’omaggio a un nobile passato, la scoperta e la valoriz
zazione delle sue radici, il rispetto con cui l’attenzione
veniva rivolta a uomini umili e semplici ma portatori di
un’identità nobile e «naturale»: e tutto questo, condi
to da continui riferimenti a ballate, canti gaelici (come
quello che la sorella di MacIvor traduce «imperfetta
mente» a Waverley), proverbi, forme dialettali, elemen
ti folklorici, il lettore lo ritrovava nei romanzi di Scott.
Romanzi «realistici», in quanto la loro fonte era la
storia. Scott partiva dal dato storico, inconfutabile,
«vero», per poi lanciarsi in un’invenzione narrativa che
mescolava realismo e topoi romantici: nobili gesta,
dolci fanciulle, coraggiosi ribelli che combattevano per
una grande causa. I suoi eroi, tuttavia, come faceva
nota re Lukács nel suo Romanzo storico, non sono
figure di eccezionale statura, ma corrispondono invece
al tipo medio di gentleman inglese: un «eroe» che è un
uomo di indubbia fermezza e dignità morale, ma non
roman ticamente eroico. Mentre sono i personaggi con
cui loro entrano in contatto ad apparire più veri e
convincenti. Il fatto è che i personaggi dei romanzi
storici di Scott trag gono la loro vitalità e verità
dall’essere membri di un gruppo sociale che esercita un
ruolo importante (non importa se vittorioso oppure no)
nella società del pro
prio tempo, di far parte di una categoria che
costituisce una delle forze determinanti del corso
della storia. Per questo motivo, diceva Lukács, sono
«tipici»; e per que sta ragione il lettore ottocentesco
poteva riconoscerli come figure reali e realistiche,
perché appartenendo alla storia appartenevano alla
realtà.
È invece difficile per il lettore di oggi avere questa
stessa sensazione; anzi, l’impressione può essere quella
di trovarsi di fronte personaggi da romance, perché la
distanza temporale ha trasformato quei momenti storici
nel vago periodo di un indeterminato passato. Un pas
sato così sfumato da non presentare neppure un qual
che legame con il presente. Per di più i lunghi romanzi
di Scott sono stati ampiamente tagliati e trasformati in
agili volumetti di letture per ragazzi, rafforzando l’idea
che parlino di mitici eroi e di leggendarie avventure. E
tuttavia il lettore adulto disposto ad immergersi nella
lettura dei romanzi scozzesi e cioè, dopo Waverley,
Guy Mannering (1815), Rob Roy (1817), Heart of
Midlothian (1818), potrà non solo godere del piacere
di una lettura coinvolgente, ma anche della possibilità
di agganciare le storie narrate ai mutamenti e alle
trasformazioni di cui è fatta la storia.
Ancora un romanzo di Walter Scott, uno dei più
popolari e più travisati dall’editoria per ragazzi e dal
cinema, non uno dei romanzi scozzesi, ma uno di quelli
ambientati nel Medio Evo, merita di essere citato. È
Ivanhoe (1819), la cui vicenda ripropone, nella
contrap posizione tra Sassoni e Normanni, il tema
affrontato in Waverley; e cioè quello del superamento
del contrasto tra due etnie diverse, di lingue diverse, di
culture diver se, per dare vita a un’unica nazione – che
in questo caso è la nazione inglese. La vicenda è
collocata verso la fine del XII secolo, al tempo di
Riccardo I, il re normanno
che Ivanhoe, di etnia sassone, aveva seguito nella sua
Terza Crociata disobbedendo al padre, che sognava
una riscossa contro gli «invasori» normanni. Il
romanzo è del tutto inattendibile dal punto di vista
dell’accura tezza storica, ma è affascinante per la sua
capacità di creare un’immagine fantastica del mondo
medievale; ed è responsabile della mitizzazione di
Riccardo I, un re d’Inghilterra fondamentalmente
francese, che entrò nella leggenda come
l’inglesissimo Riccardo Cuor di Leone campione
della cristianità.
I romanzi di Scott, con la loro capacità di fondere
rovine che parlavano di un glorioso passato, lande
sel vagge che ponevano l’uomo di fronte allo
spettacolo
«sublime» della natura, personaggi ed eventi
collocati nei momenti di svolta della storia, ottennero
un succes so straordinario, e non solo di pubblico. La
sua opera, infatti, fonda il romanzo come genere
letterario nazio nale, ed ebbe una decisiva
importanza per Alessandro Manzoni e per tutto il
Romanticismo europeo.
IV
Una stanza tutta per lei

Per lungo tempo Jane Austen fu considerata una buona


scrittrice, ma niente di più. C’era stata una prima forte
presa di posizione di Virginia Woolf, consapevole del
fatto che una donna, una scrittrice, dovesse avere una
stanza tutta per sé e che Jane Austen era una grande
scrittrice che quella stanza, a suo maggior merito,
aveva potuto averla solo in parte. Comunque tutto
cambiò a partire dall’autorevolissimo saggio sulla
«grande tradi zione del romanzo inglese» di F.R.
Leavis, che nell’im mediato secondo dopoguerra fu la
voce più ascoltata e rispettata degli studi letterari
inglesi. In pratica Leavis faceva partire la «grande
tradizione» proprio da Jane Austen, collocando le sue
opere al vertice del romanzo inglese.
Un’ulteriore spinta alla sua canonizzazione venne
dalla critica femminista, anche se Jane Austen, nella
sua visione della condizione della donna, era lontanis
sima dalle posizioni da essa espresse. «Chi sposerà la
nostra eroina?» Questa è la domanda che sta alla base
dei suoi romanzi. (Jane Austen non si sposò mai: rifiutò
una proposta di matrimonio quando aveva ventisette
anni – ma non si sa perché – e morì zitella, la condizio

4
ne che nella sua opera narrativa è indicata come
quella assolutamente da evitare.) Le sue eroine sono
giovani donne intelligenti, graziose, modestamente
eleganti, ri spettosissime dello statu quo in ogni
ambito, sociale e privato. E quando Emma, la
protagonista del romanzo eponimo, che è
decisamente ricca, sposa Mr Knightley, tutto il suo
denaro diventa proprietà del marito: perché è così
che prevedono le leggi e il costume. E quindi è così
che è giusto che sia.
Spesso si fa notare come «piccole» siano le vicende
narrate nei romanzi di Jane Austen. Piccole, ma rac
contate con l’eleganza linguistica, la padronanza com
positiva, la capacità di creare personaggi di affascinante
verità che sono proprie del grande romanziere. La sua
vita e la limitatezza delle sue esperienze non ci dicono
molto sulle ragioni della sua grandezza, ma può comun
que essere utile accennarne brevemente. Jane Austen
(17751817) era la figlia di un reverendo anglicano, che
fu anche il suo «precettore». L’ambiente famigliare in
cui crebbe era sereno, gradevole, favorevole alla lettura
e agli svaghi «innocenti». La giovanissima Jane, che
ave va un rapporto molto affettuoso con fratelli e
sorelle, si dedicava con entusiasmo alla scrittura; ma
nascondeva il manoscritto a cui stava lavorando
affinché nessuno lo vedesse fino a quando, una volta
completato il raccon to, veniva poi letto ai famigliari.
Quando la famiglia si spostò a Bath, luogo termale di
consolidata mondani tà, Austen non si trovò
particolarmente a proprio agio; come ancor meno si
sarebbe trovata a proprio agio a Londra, dove si recò
fuggevolmente in poche occa sioni. L’ambiente che le si
confaceva era quello della campagna inglese, dello
Hampshire soprattutto, dove i rapporti sociali, le
occasioni di incontro, gli inviti e i balli, il ritmo della
vita quotidiana, erano quelli dettati
dalle convenzioni e dai valori del settore sociale in essa
dominante, quello della gentry, la classe dei grandi
pro prietari terrieri.
Nel Settecento il ruolo politico e sociale di questa
classe era stato di grandissimo rilievo. Tuttavia verso
la fine del secolo, quando Austen incominciò a
scrivere i suoi romanzi, la rivoluzione industriale,
con la creazio ne di nuove grandi ricchezze collocate
nelle città e non nelle campagne, aveva indebolito il
peso specifico della gentry grazie all’emergere di un
settore sociale legato all’industria e ai commerci
altrettanto ricco e altrettan to influente. In molti casi
la gentry si accinse perciò ad accogliere codici di
comportamento e valori propri del ricco ceto urbano
nel momento stesso in cui ne acco glieva le ricchezze
tramite il matrimonio.
Austen coglie con prontezza questa trasformazione
e si fa promotrice dei valori «rurali» di una classe
socia le il cui modo di vivere era considerato
l’incarnazione dell’essenza stessa della società inglese.
E invita la gen- try a continuare ad essere «ciò che era
sempre stata» e di attenersi saldamente ai propri
principi e alle proprie convenzioni sociali. Tanto più
che quelle convenzioni, quell’insieme di norme non
scritte che ne regolavano i
«costumi», erano uno strumento di grande importanza
per assicurare alla gentry il rispetto e il consenso di
tutta la società inglese, in particolare di quei settori
sociali che le erano inferiori. I suoi romanzi parlano di
corteg giamenti e di matrimoni; ma questo è il tema che
sta alla base di tutto.
Jane Austen era guidata da un profondo senso
mo rale e da un senso del dovere (da etica
protestante) che, in certi casi, voleva dire
confrontarsi con la propria co scienza senza alcuna
indulgenza verso di sé. Le sue con vinzioni etiche
non sono affidate alla voce del narratore,
ma al comportamento e alle riflessioni dei
personaggi, al modo in cui affrontano le difficoltà
che si trovano di fronte e al modo in cui lasciano
cadere i loro commenti sui piccoli contrattempi, sulle
grane di poco conto, sulla vita quotidiana dei loro
parenti e conoscenti.
Al centro dei romanzi di Jane Austen c’è il matrimo
nio. L’eroina, in genere, ha un corteggiatore «giusto» e
un corteggiatore «sbagliato», uno cioè che decisamente
non fa per lei. La Elizabeth Bennett di Pride and
Preju- dice deve decidere se accettare la proposta
dell’insignifi cante Collins (sistemando se stessa e
l’intero patrimonio famigliare), o dimenticare le prime
impressioni negative e accettare la corte
dell’affascinante Darcy. Emma deve scegliere tra il
brillante Frank Churchill e il non più gio vanissimo (e
un po’ opaco) Mr Knightley. La Marianne di Sense
and Sensibility deve decidere se lasciarsi in cantare
dal travolgente Willoughby o se invece abban donarsi
alla sicurezza che le offre il posato Colonnello Brandon
(anche lui privo del fascino della gioventù).
L’amore, che pure è condizione necessaria e indi
spensabile, deve fare i conti con la realtà. Il romantico
trasporto amoroso non può essere il fattore decisivo,
perché il futuro sposo deve meritare la stima della fan
ciulla e deve essere in grado di garantirle la sicurezza
economica. Due cuori e una capanna è un modo di dire
che Jane Austen avrebbe ritenuto infondato e perico
losamente ingannevole. Le era chiarissimo quale fosse
la condizione della donna nella società dell’epoca, e in
particolare nell’ambiente sociale in cui sono ambientati
i suoi romanzi. Per esperienza personale sapeva bene
che una buona dote era indispensabile per contrarre un
buon matrimonio; e che al di fuori del matrimonio una
donna aveva pochissime possibilità di realizzarsi. An
che la possibilità di diventare una scrittrice, ad esempio
nel suo caso, era comunque stata resa percorribile
solo grazie ai solidi rapporti famigliari, in particolare
con il fratello, che le avevano offerto le condizioni
materiali per potersi dedicare alla scrittura.
I due romanzi in cui Jane Austen espone in modo
più evidente la sua ricetta su come giungere a un feli ce
matrimonio (perché, sia chiaro, è solo il suono delle
campane nuziali che può sancire lo happy ending
della storia narrata) sono Sense and Sensibility
(«Ragione e sentimento», 1812) e Pride and
Prejudice («Orgoglio e pregiudizio»), scritto in una
prima versione nel 1796 e pubblicato nel 1813.
Il primo contiene la dimostrazione di come non ci si
debba abbandonare al romanticismo dei sentimenti e
si debba invece esaminarli alla luce della ragione.
Pride and Prejudice (il cui titolo nella prima versione
era First Impressions) spiega come non si debba
giudicare in base alle apparenze e non si debbano far
prevalere emozioni e sentimenti come il pregiudizio e
l’orgoglio (di cui sono in effetti colpevoli entrambi i
protagonisti, sia Elizabeth, sia Darcy), se si vuole
evitare di commettere clamorosi errori di valutazione.
La cosa è ancora più grave quando, come nel caso in
questione, sensazioni e sentimenti di quel genere vanno
a intralciare, se non a soffocare, il più prezioso dei
sentimenti, è cioè l’amore. Felicemente, alla fine
l’amore trionferà e i due giovani si uniranno in un
matrimonio basato non solo sull’amore, ma sul rispetto
reciproco che si è andato affermando man mano che le
circostanze – e la ragione – eliminavano il paraocchi
del pregiudizio che impediva loro di vedersi per ciò che
essi erano e non per ciò che erano apparsi l’uno all’altra
in base alle loro «prime impressioni».
Darcy è molto ricco, come Elizabeth ben sa e come
l’autrice, dati alla mano, sottolinea: ma senza alcuna
ironia, perché la sicurezza economica è di fondamenta
le importanza per il matrimonio. E tuttavia, proprio a
questo proposito, c’è uno splendido esempio di ironia
nella prima frase del romanzo: «È una verità univer
salmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di
un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie».
L’ironia non è diretta all’affermazione in sé, ma al
modo in cui la madre di Elizabeth, che ha ben cinque
figlie con una dote modesta da sistemare, trasforma le
sue attese e le sue speranze in un dato di fatto di
indiscuti bile verità. L’ironia di Jane Austen, che è una
delle doti maggiori della sua prosa (e che spesso
sparisce negli adattamenti cinematografici e nelle
versioni abbreviate dei libri per ragazze), corrisponde al
tipo di ironia che verosimilmente veniva coltivato dai
membri più bril lanti della gentry, quelli che le
facevano da punto di riferimento. È l’ironia di chi
critica gli eccessi, la man canza di misura,
l’approssimazione, la superficialità di persone che
comunque condividono gli stessi valori e principi.
L’ironia di Jane Austen, a differenza di quella di un
Fielding, è non solo più sommessa, ma, per co sì dire,
più nascosta nella narrazione che non esibita in primo
piano. Soprattutto è accuratamente mostrata come il
frutto di un atteggiamento critico che riguarda i
singoli personaggi, ma assolutamente non l’ambiente
sociale a cui essi appartengono.
Almeno altri due suoi romanzi meritano di essere
ricordati. Il primo è Mansfield Park (1814), che ci
rivela come le ricchezze della gentry non solo
discendessero dal reddito fornito dalle terre ereditate
dai lontani an tenati, ma, talvolta, anche dalle
piantagioni caraibiche coltivate dagli schiavi (nessun
commento da parte di Jane Austen: la schiavitù non era
ancora stata aboli ta). E che costituisce inoltre una
sorta di «manifesto»
dell’autrice: l’eroina, Fanny Price, è convinta, e vuo
le convincere gli altri, della necessità di tenere fermi
i comportamenti (e cioè i valori da cui discendono)
che caratterizzano la classe sociale a cui appartiene –
sebbene in posizione periferica, data la sua
condizione di parente povera. Molto ricca, oltre ad
essere bella e intelligente, è invece l’eponima eroina
di Emma, un personaggio complesso, ricco di
sfaccettature, ritratto da Austen quasi con una sorta
di partecipazione affet tuosa. Nel ritrarla, Austen
ottiene il risultato più ma turo sia per quanto riguarda
la sottigliezza con cui le contraddizioni del
personaggio giungono a soluzione, sia per come la
tecnica del libero discorso indiretto a cui esse sono
affidate si coniuga perfettamente con il ruolo
registico del narratore onnisciente.
Le eroine di Jane Austen, attraverso le «piccole»
vicende che le coinvolgono, seguono un evidente per
corso di crescita e di sviluppo della loro personalità
(fermo restando che deve sempre essere così per il pro
tagonista del romanzo moderno: al contrario di quanto
accade nel cosiddetto romanzo di prova ellenistico, o
in quello «rosa», o in quello western, o in quello fan
tasy, in cui l’eroe è uguale a se stesso dall’inizio alla
fine delle sue avventure, non modificato da esse perché
è dato sin da subito e una volta per sempre – e infatti
questi non sono romanzi). È uno sviluppo che scatu
risce dall’analisi, spesso difficile, a volte dolorosa, dei
loro sentimenti, del modo in cui essi stanno in rapporto
con i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro speranze
e le loro delusioni.
I sentimenti, in genere, hanno a che fare con
l’amore; le aspirazioni con il matrimonio. Il tutto in un
ambiente ristretto e molto lontano da noi, in un periodo
storico cruciale per la storia dell’Inghilterra, alle
prese con la
Rivoluzione francese prima e le guerre napoleoniche
poi – di cui nulla traspare nei romanzi. I lettori (in par
ticolare le lettrici) di oggi continuano però a trovare
nelle riflessioni delle eroine di Jane Austen, e nelle loro
considerazioni sull’amore per l’uomo che sposeranno
e sugli errori commessi nel valutare i suoi sentimenti,
qualcosa che tuttora parla alla loro esperienza.
In quanto all’assenza della storia, possiamo dire che
in effetti alle donne che appartenevano al mondo dei
suoi romanzi quei grandiosi eventi storici poco o nulla
erano presenti e non toccavano quindi la loro esperien
za e quel loro esame di sé che «parla» al lettore di oggi.
Riguardo alla limitatezza dell’ambiente, c’è da dire che
Jane Austen, radicando le sue storie nella realtà che co
nosceva così bene, compie con maestria l’operazione
che solo i grandi scrittori sanno realizzare: l’ambienta
zione nella sua epoca scavalca il passare del tempo e
ciò che è locale assume un valore universale.
«Con maestria». Ma in che cosa consiste la maestria
di Jane Austen? Innanzitutto, vale la pena ripeterlo, nel
la sua sottile e delicata ironia e nella limpidezza delle
sue convinzioni morali, che le consentono, attraverso le
riflessioni delle sue eroine, di suggerire come la vita
do vrebbe essere vissuta. E poi nella purezza e nella
preci sione della sua prosa: nell’accuratezza, ad
esempio, con cui la scelta di un vocabolo meno ovvio
di quello che ci si poteva aspettare non corrisponde a
una raffinatezza lin guistica, ma contiene
un’indicazione di giudizio. E, in fine, la sua maestria
sta nella fenomenale sicurezza della sua tecnica
narrativa, nella capacità di tessere il racconto delle
vicende dei suoi personaggi in una tela di mirabile
equilibrio, con i colori più accesi e quelli più tenui, con
gli arabeschi più ampi e quelli più minuti, tutti insieme
coordinati a offrire un’immagine di solare armonia.
L’eroina di Northanger Abbey, il romanzo di
Jane Austen scritto nel 1803 ma pubblicato postumo
nel 1818, è una giovinetta che vive (e fantastica)
sotto la pericolosa influenza delle letture di romanzi
gotici, un genere che Austen riteneva letterariamente
scadente.
E tuttavia fu una donna (di nuovo una donna scrit
trice, come spesso accadrà nell’Ottocento inglese, co sa
tanto notevole quanto poco comune altrove), Ma ry
Shelley (17971851), a pubblicare in quello stesso 1818
il romanzo gotico che possiamo considerare il
capolavoro del genere, Frankenstein, or the Modern
Prometheus. La storia raccontata nel libro di Mary
Shelley è stata a più riprese rivisitata dal cinema e dalla
letteratura ed è diventata, a suo modo, uno dei punti
fermi dell’eredità culturale dell’Occidente. Franken
stein, contrariamente a quanto pensano molti che non
hanno letto il libro ma ne conoscono l’argomento, non
è il mostro, bensì lo scienziato che, sfidando le leggi
della natura e di Dio (per questa ragione moderno
Pro- meteo), dà vita a una grottesca creatura, dotata di
una forza sovrumana.
La svolta decisiva ha luogo quando Frankenstein ac
cetta, seppure a malincuore, di fornire una compagna al
mostro, il quale vorrebbe poter amare ed essere amato.
Ma subito si pente e la elimina, suscitando così l’odio
della «creatura», che poi ucciderà la sposa di Franken
stein la notte stessa delle nozze. Il creatore, sconvolto
dal dolore fino alla pazzia, decide di uccidere la sua
pericolosissima creatura. La caccia al mostro si conclu
de nelle regioni artiche, dove Frankenstein troverà la
morte, mentre la creatura sparirà tra i ghiacci.
Quando scrisse questa storia «sovrannaturale» (ma
se vogliamo anche fantascientifica) Mary Shelley aveva
diciotto anni: si trovava in una bella villa sul lago di
Ginevra, insieme al poeta Percy Bysshe Shelley – che
aveva abbandonato la moglie incinta per fuggire con
lei – e a Lord Byron. Fu quest’ultimo, visto che il tem
po piovosissimo li costringeva a stare chiusi in casa, a
proporre una gara tra loro e il loro amico John Polidori:
per passare il tempo avrebbero dovuto cimentarsi nel la
scrittura di un racconto gotico. Polidori scrisse una
prima versione della storia di Dracula. La diciottenne
Mary (in una stanza per l’occasione tutta per sé) scrisse
il suo capolavoro, che probabilmente deve
all’atmosfera romantica in cui viveva la sua
caratteristica di sfida alle leggi divine. Ma l’invenzione
è tutta sua: un lampo di genialità letteraria che tuttora
continua a risplendere di fulgida luce.
V
Il romanzo vittoriano, parte prima:
Dickens, Thackeray e le sorelle
Brontë

«Vittoriano» è una parola chiave negli studi inglesi.


Vit toriano, innanzitutto, è il periodo legato al regno
della regina Vittoria, che salì al trono nel 1837 e vi
restò fino al 1901, anno della sua morte.
Vittoriano, inoltre, è il periodo della fase di massima
espansione coloniale britannica e di grandioso sviluppo
dell’industria pesante. Carbone, ferro e acciaio a fare
più ricca l’Inghilterra. E più tumultuosa l’urbanizzazio
ne, più selvaggia la devastazione del territorio nelle zo
ne minerarie, più disumane le condizioni di lavoro delle
masse operaie, che soltanto a partire dal 1871 trovarono
nelle Trade Unions, i sindacati di categoria uniti in un
unico organismo, finalmente riconosciuto sul piano le
gale, lo strumento capace di fare introdurre una serie
di leggi riformatrici che eliminassero almeno gli aspetti
più feroci dei rapporti di lavoro.
Vittoriano è poi il periodo coincidente con il trion fo
della borghesia, che però vide anche la concessione
dell’allargamento del diritto di voto, una prima volta
nel 1867, una seconda nel 1884. Alle donne tuttavia
il diritto di voto era negato: una donna poteva regna re,
ma votare no. A nulla valsero le lotte, i sacrifici, le
5
umiliazioni subite da parte delle donne organizzate
nel movimento delle Suffragette: il voto fu loro
concesso soltanto dopo la fine della prima guerra
mondiale. La donna, decretava la società borghese
vittoriana, doveva essere «l’angelo del focolare», in
sintonia con un’idea di correttezza morale e
comportamentale che escludeva ogni riferimento alla
sessualità. D’altronde, se si dice ironicamente che i
tavoli dovevano essere coperti da grandi tovaglie che
scendevano fino al pavimento affin ché non se ne
vedessero le gambe, si capisce che il rife rimento,
l’immagine, l’allusione al sesso, agli occhi della classe
dominante doveva essere rigorosamente bandito.
Vittoriano, infine, è il romanzo prodotto nel lungo
periodo coincidente con il regno della regina
Vittoria. Il romanzo vittoriano può essere definito
come la voce critica della società britannica
dell’Ottocento. I roman zieri di maggior rilievo e
valore non sono dei fedeli can tori dell’esistente e del
potere, ma danno voce alle forze del cambiamento.
L’autore, in dialogo diretto con il let tore – e in
dialogo indiretto con le istituzioni – assume il ruolo
sociale che corrisponde alla funzione morale che il
romanzo si propone di avere. La logica conseguenza
sul piano narrativo è che quindi ci si trova di fronte
a un narratore onnisciente, che fa agire e guida nella
vicenda i suoi personaggi come se fosse Dio (in
effetti è lui che li ha creati), li giudica, li premia, li
punisce, en tra nella loro mente e nel loro cuore. E
poi si rivolge al lettore interrompendo la narrazione
per presentargli le sue osservazioni e le sue
riflessioni, talvolta complesse,
talvolta sofisticate, talvolta di semplice buon senso.
I romanzieri si rivolgevano a un pubblico che man
mano divenne sempre più vasto, in parte perché le
inno vazioni tecniche riguardanti la produzione della
carta e le macchine tipografiche abbassarono il costo
dei libri;
in parte perché si sviluppò il sistema delle
circulating libraries. Queste erano delle biblioteche
private che ga rantivano all’editore l’acquisto di un
certo numero di copie, che venivano poi date in
prestito ai lettori dietro pagamento di una modesta
somma. Il costo da pagare era quello della censura
implicita: le biblioteche chiede vano agli editori di
pubblicare libri che la sera il capo famiglia potesse
leggere ad alta voce in salotto alle figlie senza
incappare in frasi che potessero turbarle.
Una novità altrettanto importante fu quella della
pubblicazione a puntate sui periodici, in genere con
cadenza mensile e in venti puntate. Il romanziere
aveva così il vantaggio di poter modificare in parte la
storia, o almeno certi suoi aspetti, in base alle
eventuali reazioni negative o comunque incerte dei
lettori; e anche quello di organizzare la vicenda in
modo da concludere ogni puntata con una situazione
di relativa suspense, solleci tando la curiosità del
lettore su quanto sarebbe accadu to dopo, nella
successiva puntata. Se, come dice anche un raffinato
teorico come Bachtin, sta nella natura stes sa del
romanzo che il lettore venga mosso dal desiderio di
sapere «come andrà a finire», nel nostro caso questo
desiderio veniva creato e soddisfatto venti volte.
Questo meccanismo poteva determinare una certa ar
tificiosità nella costruzione della vicenda romanzesca. Ma
i grandi romanzieri, come Dickens (che spesso pubblicò i
suoi romanzi con cadenza settimanale), sapevano invece
come sfruttare lo schema adattandolo allo sviluppo della
storia che avevano immaginato. I romanzi pubblicati a
puntate potevano poi essere riproposti in volume; spesso
nei tre volumi canonici che costituivano il formato più
frequente, in un’epoca in cui, senza radio, senza cinema,
senza televisione, senza l’immersione nella realtà virtuale
dei cellulari, il tempo da dedicare alla lettura era enor
memente maggiore di quello attuale. E molto maggiore,
soprattutto, era la forza della parola scritta, che non do
veva competere con la forza dell’immagine.

Charles Dickens (18121870), il romanziere inglese


in cui la forza della parola seppe dispiegarsi con
maggio re potenza, scrisse i suoi romanzi nella
convinzione che le storie che raccontava potessero
illuminare il lettore e fargli capire quali erano i mali
presenti nella società a cui apparteneva; e che potessero
contenere la richiesta del cambiamento e giungere
all’attenzione dei gover nanti affinché intervenissero a
sanare le situazioni più inaccettabili (e spesso ci riuscì).
La città di Londra fa da sfondo – e a un certo punto
diventa quasi coprotagonista
– di quasi tutti i suoi romanzi. In quegli anni la capitale
inglese continuò a crescere smisuratamente, affollando
si di decine di migliaia di disperati costretti a vivere in
condizioni disumane: come bestie, per l’appunto, che
percorrevano le strade della capitale ridotte, al di fuori
dei quartieri eleganti, a fogne a cielo aperto. I bambini
morivano non solo per denutrizione, ma per la diffusio
ne micidiale delle malattie favorita dall’assenza
assoluta di igiene – e di fogne. Non è azzardato pensare
che la co struzione del sistema fognario di Londra, che
ebbe ini zio nel 1858, sia stato in qualche misura
promosso dalle parole con cui Dickens nei suoi
romanzi denunciava la gravità e le conseguenze, in
particolare per i bambini, della situazione esistente, con
la quantità di immondizie, sterco e feci umane che
ricoprivano le strade.
Molte furono le battaglie di cui Charles Dickens si
fece promotore, basandosi sulla sua esperienza diretta
e sulla sua capacità di «vedere» la realtà del suo tempo.
Figlio di un impiegato finito in prigione per debiti, a
undici anni andò a lavorare in una fabbrica infestata dai
topi dove incollava etichette su vasetti di lucido, per
una paga di sei scellini la settimana. Non poté andare
rego larmente a scuola; e in ogni caso smise del tutto
di an darvi a quindici anni. Alla vergogna per la
condanna del padre (una ferita mai del tutto
rimarginata), si aggiun geva la vergogna per
l’assenza di una buona formazione scolastica. Cosa,
quest’ultima, che gli fu spesso rimpro verata.
Dickens, prodigiosamente, si istruì da sé. Trovò
lavoro in un ufficio di avvocati, imparò
perfettamente a stenografare e divenne
corrispondente parlamentare del Morning Chronicle.
A quel punto, ancora giovanis simo, incominciò a
scrivere brevi raccontini per diversi giornali, che
furono poi raccolti in volume, con il titolo Sketches
by Boz, nel 1836. In quello stesso anno Dickens sposò
Catherine Hogarth, la primogenita del suo edi tore, e
incominciò a scrivere i primi episodi di quello che
diventò The Pickwick Papers («Il Circolo Pickwick»,
marzo 1836ottobre 1837), pubblicato a puntate con
le illustrazioni (questa era la cosa più importante per
l’e ditore) del disegnatore Robert Seymour. La svolta
ebbe luogo con la comparsa nel capitolo X, verso la
fine della quarta puntata, del personaggio di Sam
Weller, il servi tore di Pickwick, efficiente, astuto e
spiritoso, che incon trò uno strepitoso favore di
pubblico con le sue battute brillanti e la sua parlata
cockney. Da quel momento le avventure di Pickwick
e dei tre soci del suo Circolo si muovono nella
direzione della forma romanzesca. E dal momento in
cui la padrona di casa di Pickwick lo denun cia per
non aver mantenuto la sua formale promessa di
matrimonio (cosa del tutto inventata dalla donna)
The Pickwick Papers assume infine il carattere di
romanzo.
La vicenda si svolge in un recente passato, in un’In
ghilterra che però è ancora quella delle diligenze e delle
locande, di una campagna non ancora colpita dalle radi
cali trasformazioni della seconda rivoluzione industria
le, con le «strade ferrate» e i treni che ne mutarono il
volto (come Dickens mostrerà poi in un successivo ro
manzo, Dombey and Son, pubblicato nel 1848).
Londra, invece, è già la metropoli feroce che Dickens
ritrarrà nei successivi romanzi, con il contrasto tra i
viali e i palazzi dei quartieri borghesi e le stradine degli
slums dove i poveri vivevano in condizioni miserande.
Per il momen to c’è soltanto un’anticipazione (e
tuttavia significativa) del ritratto indignato che Dickens
offrirà in seguito. Il tono dei Pickwick Papers è dato
dallo humour spensie rato e dall’atteggiamento ironico
con cui Dickens ritrae i suoi personaggi, dallo sguardo
divertito con cui ven gono osservate le debolezze delle
figure positive e dal taglio satirico riservato a quelle
negative.
Uno dei motivi fondamentali del successo di
Dickens stava nel fatto che «faceva ridere». E
tuttavia, grazie alla genialità della sua invenzione
narrativa, subito dopo, in vece di proseguire su
quella strada, si lanciò nella crea zione di una storia
che «faceva piangere». Oliver Twist, pubblicato a
puntate dal febbraio 1837 all’aprile 1839, fece
registrare un successo altrettanto grande. La storia di
Oliver, il giovane eroe del romanzo, che nel
Novecen to il cinema, la televisione, il musical
hanno reso ancora più popolare di quanto già non
fosse nell’Ottocento, è caratterizzata da una serie di
clamorose coincidenze e colpi di scena che
costituiranno la formula narrati va usata da Dickens
in tutte le opere successive. Oliver Twist è anche il
romanzo in cui più forte e radicale è la critica alla
società inglese e alle sue istituzioni. Le avven ture e
sventure di Oliver, soprattutto da quando viene
reclutato a forza nella banda di giovanissimi
ladruncoli istruita e controllata dal cinico e
spregevole vecchio Fa gin, da un lato
commuovevano i lettori fino alle lacrime;
dall’altro consentivano a Dickens di sferrare un durissi
mo attacco alla legge (la Poor Law del 1834) con cui
si era «provveduto» ad affrontare le condizioni di
povertà (le sventure di Oliver hanno inizio e
proseguono per un bel tratto a causa dei soprusi dei
responsabili dell’ospi zio in cui era stato sistemato).
Graham Greene definì Oliver Twist un romanzo
manicheo: in cui però, come leggiamo nella Prefazione,
è la bontà che sopravvive ad ogni circostanza avversa e
che alla fine trionfa.
Nei romanzi successivi la formula rimase quella, ma
la sua geniale capacità di invenzione narrativa gli
sugge rì un nuovo cambiamento di forma romanzesca.
David Copperfield (184950) e Great Expectations
(«Grandi speranze», 186061) sono due esempi di
Bildungsro- man in cui Dickens rinuncia al narratore
onnisciente per passare al racconto in prima persona:
sono due «ro manzi autobiografici» in cui il
protagonista molto deve all’esperienza di vita
dell’autore – e grazie ai quali il let tore può conoscerlo
davvero, meglio di quanto possano consentirgli le tante
biografie a lui dedicate.
La formula, si diceva, resta la stessa, ma Dickens
lega più saldamente i singoli episodi e le digressioni
stesse al nucleo centrale della storia, affidandone il
«messaggio» al succedersi degli avvenimenti e alle
riflessioni dell’io narrante. Sarà poi il lettore, se vorrà, a
trarre le sue con clusioni in base alle vicissitudini di
David Copperfield o del Pip di Great Expectations.
Per molti aspetti Cop perfield è davvero Dickens: per
l’infanzia difficile, per le caratteristiche della sua
educazione sentimentale, per la sua scelta di diventare
uno scrittore. Ma il fascino del romanzo sta soprattutto
nel rapporto tra David e i riuscitissimi e
melodrammatici personaggi del roman zo, su tutti
quello dell’irresistibile Wilkins Micawber, in parte
modellato sulla figura del padre di Dickens, la cui
esuberanza verbale ne fa una figura da solare
commedia pur all’interno di un contesto in fondo
drammatico.
Il Pip di Great Expectations è un anomalo «nostro
eroe», il cui destino è forgiato da circostanze
melodram matiche e da casualità del tutto impreviste, a
volte non lontane da quelle tipiche del romanzo gotico.
D’altron de il realista Dickens sapeva muoversi con
formidabile maestria anche nell’ambito del mistero e
del sovranna turale – come dimostra The Signalman
(«Il segnalatore», 1866), uno dei racconti più belli di
tutta la letteratura inglese. L’aspetto comico, cosa che in
parte gli veniva rimproverata dai suoi lettori, desiderosi
di immergersi in altre pagine alla Pickwick Papers, in
questi romanzi è meno presente. Non è un caso che in
un primo tempo Dickens pensasse a non concludere
Great Expectations con il tradizionale happy
ending. Poi, ascoltando il pare re del romanziere
BulwerLytton, che gli consigliava di non deludere i suoi
lettori, ripiegò sul lieto fine. Forse non li avrebbe delusi
comunque, tanto erano affascinati dalla sua «macchina
narrativa». La cosa straordinaria è che Dickens si
rivolgeva a un pubblico di bravi borghe si, preoccupati
dai continui cambiamenti che potevano minacciare la
loro posizione sociale ed economica, sicu ramente
sospettosi, se non contrari, rispetto alle richie ste di
riforma che discendevano dalle vicende narrate. Eppure
il ritmo travolgente con cui venivano raccontate le
vicissitudini dei personaggi e l’esuberanza narrativa di
Dickens trascinavano con sé il lettore, al punto da
indurlo a seguirlo nelle sue implicite rivendicazioni.
L’elemento autobiografico è presente anche in Little
Dorrit («La piccola Dorrit», 185557), dove a fare da
coprotagonista è il carcere londinese di Marshalsea de
stinato ai debitori in cui era stato imprigionato il padre
di Dickens. Questo è uno dei romanzi in cui il mec
canismo della pubblicazione a puntate è sfruttato con
maggiore efficacia per tenere sulla corda il lettore.
Ma è anche uno di quelli più determinati nel
denunciare la crudeltà dei rapporti economici che
schiacciavano gli abitanti meno fortunati della
capitale. Così come duro ed esplicito nella denuncia
del sistema legale britannico era stato il precedente
Bleak House («Casa desolata», 185253), il romanzo
che – altra geniale invenzione nar rativa di Dickens,
come fa notare John Sutherland – ospita inoltre il
primo detective della letteratura inglese. In questi
romanzi le miserabili condizioni di vita degli abitanti
degli slums londinesi hanno un rilievo decisivo. Forse
ancora di più in Our Mutual Friend («Il nostro co
mune amico», 186465), dove Londra è davvero la
città in cui «Dio è assente». O meglio, dove Dio è il
denaro, l’unico valore riconosciuto in una società
permeata dai principi di un materialismo totalizzante.
Londra diventa un luogo di ombre, di inganni, di
tenebra. Il linguaggio stesso con cui Dickens la
descrive, al di là della precisio ne dei dettagli
topografici, presenta un tono di mistero e di irrealtà.
Per ritrarre nella sua essenza la vita reale, il
linguaggio del realismo non gli appare più
sufficiente. Nei suoi ultimi romanzi Dickens si affida
sempre più alla forza dei simboli: in Our Mutual
Friend il Tamigi, ad esempio, è il simbolo
dominante, con quelle sue acque che durante la bassa
marea trascinano via le sporcizie e i rifiuti della città
(i suoi misfatti) e che consentono una
«nuova nascita» al protagonista del romanzo.
L’attenzione ai mali della società e l’amarezza della
visione non impedirono tuttavia a Dickens di esercitare
il suo talento comico, tant’è vero che in Little Dorrit
troviamo alcune delle sue invenzioni umoristiche più
brillanti. La coesistenza dei due registri è decisiva nel
romanzo da cui mosse la rivalutazione critica di Di
ckens nel secondo Novecento, Hard Times («Tempi
difficili», 1854), un industrial novel che denuncia la
fe roce organizzazione del lavoro e l’avidità dei
capitalisti, trovando invece parole di simpatia e di
compassione per i lavoratori (ma non per i sindacati).
Il «cattivo» del romanzo è l’industriale Bounderby,
che tratta i suoi operai in modo disumano e che si è
costruito una falsa identità di self-made man per
meglio esercitare la sua autorità. Il commerciante
Gradgrind, che ha educato i suoi figli senza dare il
minimo spazio alla fantasia («fatti, fatti, fatti» è il suo
motto), in pra tica costringe la figlia Louisa a sposare
l’arido e odioso Bounderby. Naturalmente ne deriva un
matrimonio in felice, che consente a Dickens di
collegare il tema so ciale a quello ideologico. I «fatti»
esaltati da Gradgrind erano per lui il sinonimo di quella
sterile visione della vita che associava sul piano
filosofico all’Utilitarismo e sul piano sociale all’aridità
spietata dei rapporti umani. Non c’è spazio per la
fantasia e per l’immaginazione nel mondo della
fabbrica e dello sfruttamento. E così Dickens trova loro
uno spazio nel mondo del circo e dei suoi abitanti, tra
cui spicca la piccola Cissy Jupe che Gradgrind aveva
adottato.
Sarà poi Cissy a «salvare» i due figli di Gradgrind,
sia Louisa, sia Tom, con un finale consolatorio non lon
tano da quello delle fiabe, ma a cui Dickens «doveva»
tuttavia ricorrere a sostegno della sua tesi. Il lieto fine,
però, giungeva dopo l’accusa, durissima e comica al
tempo stesso, sia contro i metodi di insegnamento, che
non davano spazio alla fantasia, sia contro la spietatez
za dei rapporti sociali e lavorativi, che dei diritti della
fantasia erano la negazione: denuncia e comicità per
meglio parlare a tutti, come Chaplin in Tempi
moderni. Quello di Dickens era un messaggio di
speranza, anche
perché era convinto della bontà, in fondo in fondo, de
gli esseri umani. È per questa ragione che in
Christmas Carol («Canto di Natale», 1843),
l’avarissimo Scrooge, vecchio senza cuore, alla fine si
trasforma e diventa un uomo buono e generoso. Nel suo
caso perché siamo a Natale; ma una simile
«illuminazione» la troviamo spes so nell’opera di
Dickens, quando costruisce la storia in modo che una
qualche circostanza tocchi il cuore del suo personaggio.
Così come si proponeva di toccare il cuore dei lettori –
e magari anche delle istituzioni.
Moltissimi sono gli scrittori che hanno riconosciuto
il loro debito nei confronti di Dickens, in particolare
per la sua capacità di creare un grandioso affresco della
società del suo tempo, pieno di personaggi e di figu re
di affascinante vitalità. Non si tratta soltanto di una
questione di tecnica narrativa. Quando leggiamo i suoi
romanzi ci troviamo di fronte alle mille sfaccettature
della vita, alle sue (poche) gioie e alle sue sofferenze.
Ci troviamo di fronte alla complessità dell’esistenza,
con i suoi aspetti nascosti, i suoi desideri inespressi, le
sue rinunce segrete; e con l’eterno problema di
riconciliare ciò che siamo con ciò che desidereremmo
essere.

A un certo punto sembrò che un altro romanziere,


William Makepeace Thackeray (18111863), potesse
superare Dickens per vendite e popolarità. Un roman
ziere dal taglio molto diverso, che definiva i suoi testi
come una conversazione confidenziale tra scrittore e
lettore, alla maniera di autori come Fielding e Ster ne.
E in effetti il suo romanzo storico The History of
Henry Esmond (1852) sembra scritto da un autore del
Settecento che parla del recente passato; così come è
«settecentesco» il romanzo picaresco The Luck of
Barry Lindon («Le memorie di Barry Lindon»,
1844). Il suo
tratto distintivo era uno humour sferzante e beffardo,
come evidenziano i suoi «pezzi» pubblicati sulla rivista
Punch nel 1846 e 1847 e poi raccolti nel delizioso
Book of Snobs, che dispiegano una satira pungente del
classi smo dominante nella società inglese.
Questa caratteristica sta alla base del suo
capolavoro, Vanity Fair («La fiera delle vanità»,
184748). Al centro del romanzo stanno i destini
incrociati di due donne, la dolce e mite Amelia e la sua
amica Becky Sharp, orfana, povera, spregiudicata e
socialmente ambiziosa. Becky, accolta in casa da
Amelia, cerca di farsi sposare da Jos, il fratello di lei.
Non ci riesce; ma poi, diventata una governante nella
casa dei ricchi Crawley, seduce prima il capofamiglia,
Sir Pitt, e dopo suo figlio Rawdon, che la sposa.
Tuttavia la di lui zia, sua fonte di reddito, per
l’indignazione gli taglia i viveri. Nel frattempo Amelia
si è sposata con il vanesio ed egoista ufficiale George
Osborne. Siamo nell’ultima fase delle guerre napoleo
niche: l’azione si sposta a Bruxelles, dove George cor
teggia un’assai disponibile Becky. Alla fine del capitolo
XXIII leggiamo che Amelia prega per lui, non sapendo
che il marito è morto sul campo di battaglia di
Waterloo, non prima di aver proposto a Becky di
fuggire con lui.
Dopo molte difficoltà, psicologiche ed economiche,
Amelia, che ovviamente nulla sa della tresca, riesce a
risollevarsi grazie all’aiuto di William Dobbin, che è
in namorato di lei. Intanto Becky passa da un’avventura
sessualfinanziaria all’altra con alterni successi, ma alla
fine, per sfuggire ai creditori, deve lasciare l’Inghilter
ra. Ad aiutarla sarà Amelia e Becky, per ricompensarla,
le svela la verità, liberandola dal ricordo idealizzato di
George e consentendole così di sposare Dobbin. Becky,
infine, dopo la morte del marito, riceve dal loro figlio
(a condizione che non si faccia mai più vedere da lui)
una sorta di pensione che le consentirà di vivere
agia tamente.
È questo stesso riassunto a chiarire perché l’eroina
del romanzo è lei, versione femminile del picaro del
romanzo settecentesco, e non la buona e dolce Amelia.
(Sul fatto che l’eroina fosse lei non avevano il
minimo dubbio gli spettatori del più famoso dei
diversi adattamenti cinema tografici del romanzo, il
primo film in Technicolor, girato nel 1935, che infatti
era intitolato Becky Sharp – assai più
«coraggioso» di quello girato da Mira Nair nel 2004.)
Lo splendido affresco della società inglese offerto
da
Thackeray è caratterizzato dall’ironia e dallo scoramen
to per lo stato di cose presente, accompagnati però dalla
constatazione che il cinismo di quel mondo si traduce
in un’indiscutibile vitalità, in un grandioso seppur
prepo tente progresso. L’ironia è lo strumento
fondamentale di Thackeray, ed è con essa che vengono
delineati i limi ti e le debolezze di Amelia e Becky. Il
lettore di oggi può vedere le due donne come le due
facce complementari dell’immaginario maschile
vittoriano, moglie e madre la prima, femmina dalla
sessualità prorompente e do minante la seconda. Nei
loro confronti Thackeray non prende posizione, come
invece fa nei confronti dei per sonaggi dell’alta società,
con i loro riti e i loro ridicoli valori dettati dalla vanità.
Il narratore onnisciente, in particolare, non esprime
un giudizio a proposito di Becky. Ma, senza che lui se
ne renda conto, è la storia stessa che prende posizione
al suo posto, in quanto la «premia», poiché Becky
godrà i frutti della sua vita sessualmente spregiudicata. I
fatti narrati, che centomila lettori seguivano avidamente
di puntata in puntata, premiano il demone della
sessualità: il capolavoro di Thackeray, che
esplicitamente critica i materialistici valori della
società vittoriana, implicita
mente approva la negazione di uno dei valori su cui era
basata la sua ipocrita «moralità».

A Thackeray Charlotte Brontë (18161855) dedicò il


suo capolavoro, Jane Eyre, un romanzo che nelle inten
zioni dell’autrice forse prendeva esempio dal modo ma
gistrale con cui «l’architetto» Thackeray aveva costruito
l’edificio della vicenda di Vanity Fair; ma che
sicuramen te non poco doveva alla tradizione del
romanzo gotico. Charlotte era una delle tre sorelle
Brontë, che nel giro di pochi anni regalarono alla
letteratura inglese alcuni dei suoi romanzi più belli. Tutte
le tre sorelle, figlie di un pastore anglicano di non molti
mezzi ma di molti libri, diventarono governanti, uno dei
pochi lavori dignitosi per una donna: è vero che la
governante faceva parte della servitù, ma per via della
sua istruzione poteva es sere trattata con un minimo di
rispetto dai suoi padroni. Non sempre, tuttavia; mentre
invece erano comunque frequenti le umiliazioni che una
governante poteva tro varsi a subire. Sulla propria
esperienza di lavoro Anne Brontë (18201849) basò il suo
primo romanzo, Agnes Grey (1847), la cui protagonista
è una governante che dal suo punto di osservazione
guarda con occhio dura mente critico le convenzioni
della borghesia vittoriana, presentata in tutto il suo
egoismo, la sua ipocrisia e la sua meschina superficialità.
È una governante pure l’eroina di Jane Eyre
(roman zo pubblicato anch’esso nel 1847), che trova
lavoro nella sinistra magione di Thornfield Hall. Si
deve occupare della piccola Adèle Varens, che è la
figlia illegittima di Edward Rochester, il padrone del
maniero, una figura per certi versi altrettanto sinistra,
che ha rinchiuso la mo glie completamente pazza
nell’ultimo piano dell’edificio (non in una soffitta,
come a volte capita di leggere). Jane
non è bella, ma ha un suo fascino, e ad esso
Rochester non è insensibile. Ma è lei, contro ogni
convenzione, a dichiarargli il suo amore. Alla vigilia
delle nozze, quando viene a sapere che Rochester ha
tuttora una moglie, Jane rifiuta di sposarlo, lascia
precipitosamente Thornfield Hall e quasi muore
nella fuga. Viene soccorsa dal reve rendo St John
Rivers, che l’accoglie in casa (dove abita con le
sorelle) e che dopo qualche tempo le propone di
sposarlo. Jane, dopo i molti dinieghi e le molte
insistenze di lui, alla fine quasi sta per acconsentire;
ma in quel frangente è come attraversata da una
scarica elettrica e sente la voce di Rochester che la
invoca.
Diversi sono i momenti in cui in Jane Eyre sono
re cepiti i topoi del romanzo gotico. In questo caso,
però, il sovrannaturale non genera terrore, ma porta alla
ri conciliazione. Jane, che nel frattempo ha ereditato
dallo zio ed è economicamente indipendente, decide
infatti di recarsi a Thornfield Hall ascoltando
l’invocazione di Rochester. E lì scopre che nel
tentativo di spegne re l’incendio appiccato dalla
moglie (che si è suicidata) Rochester, gravemente
ustionato, ha perso la vista e una mano. A quel punto
Jane dichiara il suo amore per Ro chester e lo sposa
(«Lettore, lo sposai»).
Il finale della storia è coerente con la figura di Jane,
donna indipendente, padrona dei propri sentimenti e
decisa nel rivelarli. Si potrebbe obiettare che sposa un
uomo in quelle condizioni perché sa che non correrà
alcun rischio di perderlo e che non potrà mai essere
soggetta alla sua volontà, perché è lui che dipende da
lei. L’obiezione, dato che siamo a metà Ottocento,
lascia il tempo che trova. A Jane non sarebbe mai stato
possi bile, se quelle non fossero state le circostanze,
mantene re la propria piena indipendenza una volta che
si fosse sposata, tanto più a un uomo come Rochester.
Per il lettore dell’epoca l’aspetto più straordina rio
– e controcorrente – del romanzo consisteva sen za
dubbio nella coraggiosa affermazione di identità e di
indipendenza femminile, quasi al limite della sfida,
incarnata nel personaggio di Jane. Ma anche il lettore
di oggi, se non si fa accecare dalla tendenza a leggere
vicende e personaggi di secoli fa come se appartenesse
ro al presente, può facilmente cogliere la modernità di
Jane nella sua rivendicazione di dignità professionale e
di autonomia personale.
Nel suo terzo e ultimo romanzo, Villette (1853), am
bientato a Bruxelles, Charlotte Brontë ci presenta una
figura di donna in cui tali caratteristiche sono ancora più
evidenti: la distanza dall’immagine dell’angelo del foco
lare non potrebbe essere più grande. Anche in questo
caso è d’importanza decisiva l’elemento autobiografico.
Charlotte ed Emily, nel 1842, erano andate a Bruxelles a
lavorare in un esclusivo collegio femminile per imparare
il francese, cosa che, speravano, avrebbe facilitato il loro
progetto di organizzare poi una loro scuola, in cui le tre
sorelle sarebbero state le insegnanti. Una scuola moder
na, agli antipodi di quella specie di carcere dove per un
certo periodo avevano studiato (e dove erano morte le
loro due sorelle maggiori), che divenne poi nella finzione
la sadica scuola dove viene educata Jane Eyre. Presto,
tuttavia, Emily tornò a casa. Charlotte restò a Bruxelles
ancora un anno e si innamorò perdutamente del diretto re
della scuola. Fu un amore infelice, che divenne poi il
materiale narrativo di Villette, un romanzo di indiscuti
bile valore letterario, per costruzione e per complessità di
ritratto psicologico, che è colpevolmente sottovalutato.
A proposito della condizione femminile Charlotte
Brontë va decisamente controcorrente. Ma anche per
quanto riguarda le condizioni del lavoro le sue
posizio
ni sono, seppur moderatamente, avanzate. Potremmo
definirle riformatrici, come emerge dal suo secondo
romanzo, Shirley (1848), ambientato nel periodo delle
rivolte luddiste all’inizio dell’Ottocento. D’altronde le
sorelle Brontë, che vivevano nel villaggio di Haworth,
sui primi rilievi del territorio «selvaggio» dei Moors,
la brughiera del North Yorkshire, sapevano bene che
nelle vallate sottostanti c’erano le fabbriche i cui operai
erano stati tra i più accesi sostenitori del radicale movi
mento cartista. Lo sapevano grazie ai discorsi del
padre, che (anche lui campione di anticonformismo)
parlava alle figlie di problemi politici e sociali.
Le tre giovani donne, i cui tre capolavori, Agnes
Grey, Jane Eyre, Wuthering Heights, furono tutti
pubblicati nel 1847 con lo pseudonimo maschile
rispettivamente di Acton, Currer e Ellis Bell, sapevano
benissimo che per una donna era difficile farsi accettare
come scritto re (e furono comunque truffate da un
delinquente di editore); ma con un nome maschile,
grazie al loro co raggioso anticonformismo, nei loro
romanzi offrirono ai lettori figure di donne che
sbugiardavano il pregiudi zio e promuovevano una
moderna idea di indipenden za femminile. In modo
diretto, con le loro governanti, Anne e Charlotte. In
modo indiretto, ma forse ancora più moderno per come
rappresenta il rapporto tra uo mo e donna, la Emily
Brontë (18181848) di Wuthering Heights («Cime
tempestose»).
Il romanzo, seppur fitto di echi romantici e di
spunti legati alla tradizione gotica, è poi altrettanto
moderno per tecnica narrativa. I romanzi di Anne e
Charlotte utilizzavano l’io narrante. Wuthering
Heights presenta invece una costruzione a più voci
della vicenda, con diversi flashback e frequenti
cambiamenti temporali. I narratori principali sono
Mr Lockwood, un gentiluomo
da poco trasferitosi nel North Yorkshire, non lontano
dalla casa chiamata Wuthering Heights, un tempo pro
prietà degli Earnshaw, e Mrs Dean, che degli Earnshaw
era stata una domestica. Quando Lockwood, dopo ave
re visto il fantasma di Cathy Earnshaw, si propone di
ricostruirne la vicenda, sarà la donna a raccontargli i
fatti di cui era stata testimone.
Mr Earnshaw aveva adottato un orfanello di sei
an ni, Heathcliff, che aveva trovato nelle strade di
Liver pool. È più probabile che fosse un suo figlio
illegittimo; oppure, data la pelle scura, il figlio di una
zingara che l’aveva abbandonato. Su questo, nel
romanzo niente ci viene detto. Molto ci viene
raccontato, invece, del forte legame che si stabilisce
nel corso degli anni tra Cathy Earnshaw e quel
ragazzo irrequieto, vitalissimo, «sel vaggio» come la
natura dei Moors. Giunta però all’età del
matrimonio, Cathy gli aveva preferito il ricco e ras
sicurante Mr Linton, proprietario di una bella casa
nella vallata sottostante, dove la natura era dolce e
benigna
– e addomesticata dall’uomo, contrariamente a quella
selvaggia di Wuthering Heights.
Heathcliff, una sorta di eroe byroniano, furibondo
per la scelta di Cathy, era scomparso; ma era tornato
tre anni dopo, ricco e trasformato in un gentleman.
Dove era stato, cosa aveva fatto, cosa lo aveva
trasformato, non ci viene detto. Forse perché il
silenzio, grazie al mistero, accresceva il fascino del
personaggio; ma an che (soprattutto?) perché Emily
Brontë, come suggeri sce Terry Eagleton, non aveva
nessuna idea del mondo in cui Heathcliff avrebbe
dovuto muoversi per tornare a Wuthering Heights
così profondamente cambiato. Emily conosceva bene
soltanto la realtà dei Moors e nella narrazione non si
avventurava al di fuori di essa.
Il proposito totalizzante di Heathcliff è quello di
di
struggere i Linton e gli Earnshaw, e la sua vendetta è
diretta soprattutto contro Cathy, da lui accusata di tra
dimento e costretta a passare i suoi giorni nell’angoscia
per la sua scelta. Per la verità Linton si era rivelato un
buon marito, mentre Heathcliff probabilmente sarebbe
stato un marito autoritario. Questa considerazione na
sce però dal ritratto che ne fa Mrs Dean, animata da un
odio profondo nei confronti del «selvaggio» trovatello
e incapace di capire l’intensità del legame che univa lui
e Cathy.
La passione di Heathcliff trova distorta espressione
nella durezza con cui persegue la vendetta, sebbene il
suo amore per Cathy rimanga fortissimo, anche dopo
la morte di lei (a tal punto che Buñuel nella sua versio
ne cinematografica del romanzo gli attribuisce caratte ri
esplicitamente necrofili). Di fatto l’unico desiderio di
Heathcliff è di unirsi a Cathy almeno nella morte; e non
deve quindi sorprendere che alla fine del libro si legga
che un ragazzo aveva visto insieme i fantasmi di
Heathcliff e di una donna (che non poteva essere che
Cathy) non lontano da Wuthering Heights.
Se è vero che lui è l’incarnazione delle forze degli
istinti «selvaggi» che albergano dentro di noi, è anche
vero che la stessa Cathy in qualche misura ha condiviso
la parte «selvaggia» di lui, al punto da esclamare, poco
prima di morire, «Io sono Heathcliff». Il senso di
libertà da convenzioni e obblighi e la forza della
passione da lui incarnati erano stati condivisi da lei; e la
loro soppres sione con il matrimonio era poi stata
sentita da lei stessa, di fronte alle sue accuse feroci,
come un tradimento. Di lui e di sé. In quella figura di
donna Emily Brontë, in questo suo unico romanzo che è
tra i maggiori di tutta la letteratura inglese, ha saputo
concepire ciò che nel mondo vittoriano era
inconcepibile.
VI
Il romanzo vittoriano, parte
seconda: Eliot, Trollope, Stevenson
e Hardy

Le sorelle Brontë fecero ricorso a uno pseudonimo ma


schile. Elizabeth Gaskell (18101865), amica di Char
lotte Brontë, moglie di un sacerdote unitariano impe
gnato socialmente, in un primo tempo pubblicò i suoi
libri in modo anonimo. Prudenza quasi dovuta, dato
che la denuncia delle condizioni di lavoro degli operai
e delle condizioni di vita negli slums sorti intorno alle
fabbriche era l’argomento di Mary Barton (1848) e di
North and South (185455), i romanzi a cui è legata la
sua fama di autrice di industrial novels. Tra l’uno e
l’al tro, tuttavia, Gaskell aveva pubblicato sul periodico
di Dickens «Household Words» le otto puntate del quasi
idilliaco Cranford («Il paese delle nobili signore»,
1851 53). Molti dei racconti e delle novelle che ne
seguirono, con i loro personaggi di donne alle prese con
le con venzioni e i pregiudizi dell’età vittoriana, la
resero così protagonista di un’altra battaglia altrettanto
meritevole di essere combattuta.

Dopo Jane Austen, dunque, Elizabeth Gaskell e le


sorelle Brontë: il romanzo inglese parlava al femminile.
E continuò a farlo anche in seguito, soprattutto grazie
a Mary Ann Evans (18191880), che alla
pubblicazione del suo primo romanzo, Adam Bede
(1859), adottò lo pseudonimo di George Eliot.
Anch’essa in larga misura autodidatta, in precedenza
aveva imparato il tedesco, era diventata traduttrice di
testi filosofici (tra cui L’es- senza del cristianesimo
di Feuerbach), aveva collaborato alla radicale
«Westminster Review» e, cosa per l’epoca davvero
scandalosa, nel 1853 era andata a vivere con un
uomo sposato, il critico George Henry Lewes.
Su Dickens esprimeva un giudizio negativo, eppu re
come lui affollava i propri romanzi di una grande
varietà di tipi, di figure, di episodi, di avvenimenti: la
differenza stava nell’attenzione dedicata alla psicologia
dei personaggi e alla loro interiorità. Il maggior pre gio,
la maggiore conquista narrativa della sua opera, sta
nella capacità di indagare le spinte emotive, i pensieri
nascosti, le ansie segrete e le motivazioni inespresse dei
personaggi, presentandoli ai lettori in tutta la loro verità
psicologica.
Il romanzo di George Eliot che più ha appassio
nato i lettori è The Mill on the Floss («Il mulino
sulla Floss», 1860). Ne è protagonista Maggie
Tulliver, la cui vivacità, intelligenza, spirito di
indipendenza vengono sentiti, nel piccolo mondo
provinciale in cui vive, co me colpe gravissime.
Maggie è uno spirito ribelle e la condanna sociale nei
suoi confronti diventa durissima e senza attenuanti
quando accetta le proposte amorose del fidanzato
della cugina e fugge con lui. La loro fuga è
«innocente», ma la sua reputazione è compromessa
senza rimedio, al punto che la giovane viene
ripudiata dal suo amato fratello Tom. Nel corso di
una devastan te inondazione Maggie corre al mulino
per salvarlo. Il tentativo fallisce e i due vengono
trascinati via insieme dalla corrente; ma prima di
essere travolti dalle acque
riescono almeno a ritrovare il senso di rispetto
recipro co e il sentimento d’amore che un tempo li
aveva pro fondamente legati.
The Mill on the Floss, come quasi tutti i suoi
roman zi, è ambientato nella provincia, in quella
campagna inglese che George Eliot ritrae
magistralmente esaltan done la bellezza del
paesaggio; e con altrettanta par tecipazione vengono
descritti i paesi e i piccoli centri rurali ancora legati a
un’economia fondamentalmente agricola, sebbene
già minati dagli effetti della rivolu zione industriale.
Degli uomini e delle donne di quel piccolo mondo
antico Eliot si fa rispettosa interprete, senza cadere
mai in una loro idealizzazione e senza mai lasciarsi
andare, come invece capitava a diversi scrittori
vittoriani, ad atteggiamenti paternalistici.
Nella provincia è ambientato anche il romanzo
che è considerato il suo capolavoro, Middlemarch
(187172), la cui vicenda si svolge negli anni della
riforma elettora le del 1832. È importante tenere
presente che il roman zo fu scritto subito dopo la
successiva riforma elettorale del 1867: i personaggi e
le caratteristiche dei loro rap porti sociali
appartengono al passato, al mondo della generazione
precedente. Certi aspetti di quel mondo non sono
però cambiati ed Eliot può quindi stabilire un
rapporto di continuità tra il passato e il presente,
lasciando però capire che nel frattempo molte cose si
sono evolute in senso democratico, come la riforma
del 1867 aveva sancito sul piano istituzionale.
La sua posizione era quella di un prudente liberali
smo, che le faceva valutare positivamente i
cambiamenti avvenuti (pur guardando con ironia agli
entusiasmi ri formatori). George Eliot pensava che,
sebbene si fosse ro dovuti pagare dei costi non piccoli,
c’erano stati dei promettenti miglioramenti nella vita
della popolazione
inglese. Amelioration è una sua parola chiave; e
poiché c’era speranza di un futuro migliore, i suoi
romanzi, per quanto negativa fosse la situazione di
partenza, per quanto tormentati potessero essere gli
sviluppi della vi cenda, si chiudevano con un lieto fine
(paradossalmente, in fondo, lo è anche quello di The
Mill on the Floss).
Middlemarch segue le vicende di diverse coppie,
lun go quattro percorsi narrativi diversi, ricondotti a
unità dalla figura della protagonista, Dorothea, donna
intel ligente, ricca e di forti principi puritani, che
sposa il re verendo Causobon. Solo dopo il
matrimonio, ma ormai è troppo tardi, si rende conto
dell’aridità spirituale e della meschinità del marito,
da cui solo la morte la potrà separare. L’altro
personaggio centrale è l’idealista dot tor Lydgate,
apostolo del progresso scientifico e marito della
sciocca e ambiziosa Rosamund.
A partire dal ritratto di questi due matrimoni infeli
ci, Eliot sottolinea l’importanza del dialogo tra coniugi
e della necessità di capire le aspirazioni e i bisogni
l’uno dell’altra; ma soprattutto, per quanto riguarda la
don na, la necessità di evitare di essere relegata nel
ruolo di angelo del focolare. Cosa peraltro molto
difficile, non soltanto per via delle convenzioni sociali,
ma a causa delle leggi stesse. Dopo la morte del marito
Dorothea si innamora di un suo cugino, ma per poterlo
sposare deve rinunciare ad ogni diritto sulle proprietà
del de funto marito. Soltanto grazie al sacrificio – in
questo caso economico, ma nel caso di Maggie quello
della vita stessa – una donna poteva averla vinta sulle
consuetu dini, sui pregiudizi e sulle leggi che la
relegavano in un ruolo subalterno.
George Eliot, pervasa dalla stessa ferrea forza mo
rale che attribuiva ai suoi narratori onniscienti, non si
faceva promotrice di soluzioni radicali, ma contava sul
fatto che la rappresentazione dell’esistente da lei
offerta indicasse di per sé la necessità del
cambiamento. Nei suoi romanzi la vita sociale ed
economica dell’Inghil terra vittoriana è vista con
sguardo severo, fortemente critico, e lo sfondo
idilliaco della campagna inglese del la sua infanzia si
contrappone alla mediocrità della vita provinciale,
sia quella del passato più o meno lontano, sia quella
del presente. Eliot non solo è stata una gran de
scrittrice; è stata anche una solidissima intellettuale,
animata al tempo stesso dalla consapevolezza dei
difetti e delle colpe della società a cui apparteneva e
dalla con vinzione che il progresso, sociale e civile,
sarebbe stato in grado di porvi rimedio.

Il romanziere che più di ogni altro ci appare


legato al mondo vittoriano è Anthony Trollope
(18151882). Scrittore di grandissimo successo,
Trollope aveva un’i dea tutto sommato positiva della
società del suo tempo: ne criticava le colpe e i difetti,
ma riteneva che fosse pos sibile porre loro rimedio (e
infatti si presentò candidato alle elezioni del 1869 tra
le fila dei Liberali). Alla vita politica dedicò una
serie di romanzi, i cosiddetti Palliser Novels,
pubblicati tra il 1864 e il 1880, in cui l’ironia
ammorbidisce la critica e la denuncia si accompagna
a un sorta di assoluzione finale. Alla vita nelle
comunità di provincia dedicò un’altra serie di
romanzi, in genere indicati come Chronicles of
Barsetshire, in cui ironizzava sulla mediocrità del
mondo provinciale apprezzandone però la serena
tranquillità. Il successo di Trollope era in gran parte
dovuto all’immagine che offriva di quel pla cido
mondo in cui i piccoli drammi non si tramutavano in
tragedie, in cui i personaggi negativi non erano mai
dei veri «cattivi», in cui la English way of life
sembrava possedere una solidità che nulla poteva
minacciare, in
cui uomini senza qualità avevano però la qualità della
moderazione.
Il primo romanzo di questa serie è The Warden
(«L’amministratore», 1855), che presenta in modo
esemplare tali caratteristiche attraverso le vicende del
protagonista, il reverendo Harding, che rinuncia ai suoi
privilegi economici (di cui non aveva piena consapevo
lezza) in nome del suo senso di correttezza e giustizia
morale. Questa scelta spiana ovviamente la strada allo
sposalizio tra il suo accusatore e l’amata figliola Eleo
nor, che era il finale tanto scontato quanto atteso. Un
buon matrimonio con implicita promessa di futura fe
licità non poteva che piacere moltissimo ai suoi lettori,
come ben sapeva Trollope, il quale, interrogato su quali
fossero i meriti dei suoi romanzi, rispose che servivano
ad insegnare alle fanciulle come ricevere le proposte di
matrimonio da parte degli uomini che le amavano.
Tuttavia anche il prudente e moderato Trollope al
meno in un caso si lanciò nella denuncia contro quello
che indicò come uno dei mali peggiori della società del
suo tempo. L’eccezione è il romanzo The Way We
Live Now («La vita oggi», 187475), il male contro cui
si scaglia è la corruzione e la disonestà che regnavano
nel mondo della finanza e dintorni. Quando il
protagoni sta, il finanziere Melmotte, si suicida, il
lettore non è affatto invitato a provare una seppur
minima pena per lui. Questo è il romanzo di Trollope
che di recente ha ricevuto i maggiori consensi.
Probabilmente perché lo scoppio della «bolla»
americana di qualche anno fa, con le conseguenze
nefaste che ha avuto in Europa, rende quella denuncia e
quel ritratto del mondo finan ziario decisamente attuali;
ma anche perché in questo romanzo il talento narrativo
di Trollope, la sua capa cità di confezionare la vicenda
ricollegandone sapien
temente i molti fili, offrono una prova di affascinante
maestria.

Se però si dovesse indicare il romanzo vittoriano che


più di ogni altro incarna lo spirito del tempo, la scelta
cadrebbe senza esitazioni su Three Man in a Boat
(«Tre uomini in barca», 1889) di Jerome K. Jerome
(1859 1927), uno dei libri più letti e più famosi di tutta
la letteratura inglese. Il libro racconta le avventure di
tre giovanotti (per non parlare del cane) durante il loro
viaggio in barca lungo il Tamigi. Le avventure sono
comiche disavventure precedute o seguite (questa è la
chiave narrativa) da digressioni su episodi consimili o
legati all’argomento in questione accaduti in passato.
La risalita del fiume da fuori Londra verso Oxford si
svolge in una specie di Arcadia moderna, che fa da
sfondo alla celebrazione delle cosiddette virtù inglesi.
Di queste una almeno, come già si è detto, è una vera
virtù, sicuramente la più preziosa, e cioè lo humour
– di cui Jerome ha saputo dare uno degli esempi più
trascinanti. Il taglio del romanzo è spensieratamente
umoristico (e doverosamente maschilista), anche se,
come alcuni hanno osservato, quello humour è la ri
sposta della piccola borghesia emergente al disagio
derivante dalla propria collocazione nel contesto for
temente classista del mondo britannico. È vero che a
volte l’opera letteraria, al di là delle intenzioni dell’au
tore, anche quando offre un ritratto pienamente posi
tivo della realtà ne lascia trasparire aspetti negativi e
sa comunicare, almeno al lettore non contemporaneo,
molte scomode verità. Tuttavia è difficile pensare che,
perfino tra i lettori di oggi, siano molti quelli che leg
gendo Three Men in a Boat non si limitino ad apprez
zarne l’irresistibile humour.
E veniamo ad Alice in Wonderland («Alice nel
paese delle meraviglie», 1865), il libro del matematico
dell’U niversità di Oxford Lewis Carroll (18321898).
La sto ria, scritta per divertire le figlie di un collega,
racconta le avventure di una bambina che, inseguendo
un coniglio, finisce in un buco sottoterra ed entra in un
mondo fan tastico, in cui incontra altrettanto fantastici
personaggi con i quali intavola bizzarri dialoghi fitti di
giochi di parole e ragionamenti di assoluta illogicità
(molti dei quali erano a beneficio dei suoi colleghi di
università: c’è persino una parodica presa in giro di
Robert Sou they, poeta laureato fino a vent’anni prima).
Il libro è lontanissimo da quelli destinati ai bambini
in età vittoriana, didattici e moraleggianti, e promuove
invece il libero gioco della fantasia e il piacere di fanta
sticare. Il mondo fantastico in cui entra Alice è tuttavia
al tempo stesso molto vicino al mondo reale dell’epoca.
La piccola eroina si comporta infatti sistematicamente
in base alle regole dell’etichetta che una famiglia bor
ghese come la sua l’aveva costretta ad assorbire. Tali
regole (e le istituzioni, le convenzioni sociali e i
principi pedagogici da cui esse derivavano) erano però
sotto poste a una divertita ironia, lasciando intravedere
una critica sotterranea – è il caso di dirlo – alla società
vit toriana. Alice è una splendida favola, in parte
snaturata dal film di Disney che ha incantato (e in
qualche caso spaventato) milioni di bambini, senza
saper cogliere l’i ronia dell’originale. E senza lasciar
capire che il libro è una fiaba sulle prove e le difficoltà
che i bambini affron tano per «diventare grandi».

Anche Treasure Island («L’isola del tesoro», 1883)


di Robert Stevenson (18501894) nacque come un libro
per ragazzi, pensato dall’autore come una lettura per il
figliastro Lloyd, con tutte le caratteristiche del genere
avventuroso ma con in più un’invenzione decisiva: la
storia è raccontata da un ragazzo, Jim, figlio della pro
prietaria di una locanda vicino al mare. Nelle sue parole
c’è il fascino per il pericoloso mondo degli adulti,
incar nato dal vecchio pirata Billy Bones e dai suoi
compari che l’hanno fregato. C’è il brivido del mistero,
l’oscuro passato dei pirati, il contenuto segreto del loro
baule, la mappa dell’isola del tesoro. E ci sono gli
incidenti, le sorprese, gli indizi sparsi nel racconto con
cui Steven son mantiene sempre alto il livello di
suspense, prima sul suolo inglese, poi sull’isola del
tesoro raggiunta da Jim a bordo dell’Hispaniola.
Il viaggio è un’esperienza davvero formativa: a bor
do ci sono i pirati, capeggiati dal cuoco della nave,
Long John Silver, e il legame che si sviluppa tra
l’innocente Jim e il maligno e feroce Silver riveste un
ruolo decisivo nella crescita del ragazzo. Il cuoco è una
figura carisma tica, a volte prepotente, a volte
conciliante, sempre però padrona della situazione. Il
rapporto tra lui e Jim fa sì che Treasure Island sia non
soltanto un libro per ragaz zi, ma un romanzo che,
come suggerisce Leslie Fiedler, illustra quel rapporto tra
la giovinezza e il male che è una componente
fondamentale della formazione dell’a dulto.
Soprattutto, è un romanzo che contiene tutti i valori
archetipici dell’infanzia: l’entusiasmo, il deside rio di
avventura, l’amore inconscio per il pericolo e il bisogno
di sfidare le norme e le regole del mondo degli adulti,
magari per capire poi, come succede a Jim, quale ne è il
valore.
La fama di Stevenson ebbe una sanzione definitiva,
subito in Inghilterra e negli Stati Uniti, e poi in tutto il
mondo, con The Strange Case of Dr Jekyll and Mr
Hyde («Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor
Hyde»,
1886), un romanzo che quasi tutti conoscono, anche
coloro che non l’hanno mai letto. Come il dottor Fran
kenstein, il dottor Jekyll supera i confini di ciò che è
permesso, di ciò che la natura stessa non consente. Nel
suo laboratorio ha creato una sostanza che concentra le
sue componenti negative e il suo «abbietto desiderio»
e che una volta assunta lo trasforma nel malvagio Mr
Hyde. In una prima fase riesce senza difficoltà a tornare
ad essere il dottor Jekyll. Ma con il passare del tempo la
cosa diventa sempre meno facile e quando ha esaurito
il «farmaco» che gli consente tale trasformazione, non
riuscendo più a prepararlo di nuovo, il dottor Jekyll si
uccide, uccidendo così anche Mr Hyde.
La vicenda, una variante del motivo del
Doppelgän- ger, ovvero del doppio, può essere letta
in chiave psicoa nalitica, in quanto Jekyll incarnerebbe i
due volti dell’Io nell’individuo alienato sul piano
sociale e represso su quello personale. Ma è anche
un’allegoria dei due volti della borghesia vittoriana, in
pubblico ipocritamente attentissima alle forme, in
privato tutt’altro che rigo rosa (a Londra il numero dei
bordelli e delle prostitute aumentò fortemente
nell’ultimo scorcio di secolo). Nel romanzo nulla si
dice a proposito dei comportamenti
«abbietti» di Mr Hyde e Stevenson smentì che
fossero di natura sessuale. È però difficile
immaginare di quale diversa natura potessero essere:
non certo efferati delitti alla Jack lo Squartatore,
visto che non vengono qualifi cati come colpe
particolarmente gravi. È comunque in discutibile il
fatto che il romanzo ci presenta una clamo rosa
dicotomia tra apparenza e realtà, tra la maschera di
rispettabilità e il volto depravato che essa nasconde.
Molti ritengono che il capolavoro di Stevenson sia
The Master of Ballantrae («Il signore di Ballantrae»,
1889), un romanzo che attraverso più voci – in
partico
lare quella di un narratore poco attendibile –
racconta la storia della rivalità tra due fratelli, Henry
e il crudele, astuto e perfido James (il signore del
titolo), prima in Scozia e poi in America, dove
entrambi moriranno, per essere poi sepolti nella
stessa tomba. Il romanzo, che nella parte finale fa
ricorso a quella dimensione del so vrannaturale in
cui Stevenson era maestro, è stato par ticolarmente
lodato per la complessità e la sottigliezza con cui
affronta diversi temi di grande rilievo psicolo gico
attraverso il contrasto tra il mite Henry e il feroce
James. Tuttavia è bene sottolineare come i due
roman zi che non nutrivano alcuna ambizione del
genere, Dr Jekyll and Mr Hyde e Treasure Island,
offrano al lettore più attento un’occasione affascinante
di riflessione ri spettivamente su aspetti cruciali della
società vittoriana e sul processo di maturazione
dall’infanzia all’età adul ta. Due romanzi di squisita
fattura letteraria, che hanno inoltre offerto a milioni
di lettori il piacere di farsi tra sportare in un mondo
fantastico che tuttavia al tempo stesso parla di loro e
del loro mondo.
Anche se qui si parla di romanzo, è comunque bene
ricordare che Stevenson è stato un maestro della short
story. I suoi ultimi racconti sono ambientati nelle isole
del Pacifico, dove si era trasferito alla ricerca di un clima
amico. Lo sguardo incantato che il narratore rivolge a
quelle terre e a quei mari lontani non deve però trarre in
inganno sul suo atteggiamento nei confronti di quei luo
ghi di conquista: Stevenson, così come in Dr Jekyll
aveva svelato la falsità della facciata vittoriana, in questi
raccon ti lasciava trasparire la falsità della retorica (la
«missione civilizzatrice») che mascherava l’impresa
coloniale.
La dicotomia tra apparenza e realtà è al centro anche
del capolavoro di Oscar Wilde (18541900), The
Picture
of Dorian Gray («Il ritratto di Dorian Gray», 1890).
Non possiamo qui soffermarci sulla scintillante
produzione teatrale di Wilde; e neppure sui suoi
racconti e sui suoi testi poetici, coronati dalla splendida
Ballad of Reading Gaol. Dobbiamo però sottolineare
che la brillantezza degli aforismi presenti nei suoi
lavori, con cui deliziava i lettori e gli spettatori (e di
persona i frequentatori dei salotti londinesi), spesso
costituiva una sfida alla «cor rettezza» della società
vittoriana, che, implicitamente, criticava senza riserve –
come avviene in Dorian Gray. Il romanzo narra la
vicenda faustiana del protagonista, che vende l’anima
per ottenere in cambio il permanere della sua gioventù
e della sua bellezza. Mentre Dorian continua ad essere
giovane e bello, il suo ritratto muta magicamente,
registrando non soltanto il passare del tempo, ma anche
i segni della sua malvagità e della sua depravazione.
Dorian Gray è stato considerato il ritratto del
decadentismo, il mezzo con cui Wilde illustra la sua
idea del rapporto tra vita e arte e la separazione tra mo
rale e letteratura, così come viene enunciata nella prefa
zione al romanzo: «Un libro non è né morale né immo
rale. Ci sono dei libri scritti bene e dei libri scritti male.
Questo è tutto». Come si accennava prima, Dorian
Gray è però soprattutto un romanzo inquietante, che
rive la, come Dr Jekyll, il volto nascosto della
rispettabilità vittoriana e l’abisso che separava gli
atteggiamenti e le parole che tenevano in piedi la
facciata del perbenismo da una realtà del tutto diversa:
cinica, crudele e, quando necessario, criminale.

L’ultimo grande romanziere dell’età vittoriana e


di quel mondo diviso tra apparenza e realtà è stato
Tho mas Hardy (18401928), l’ultimo campione di
un’idea di romanzo capace di rappresentare la
società contem
poranea nella sua complessità con l’idea che il
roman ziere potesse capirla pienamente e giudicarla
in base a solide certezze morali da tutti condivise.
Verso la fi ne della sua carriera di romanziere (e
dell’Ottocento) il tacito patto tra autore e lettore che
sta alla base del romanzo vittoriano gli apparve come
qualcosa che non era più in grado di gestire. Dopo la
pubblicazione di Jude the Obscure, nel 1895,
decise di non scrivere più romanzi e di dedicarsi
esclusivamente alla poesia.
Negli anni dell’infanzia di Hardy l’atteggiamento
dominante era quello d’illimitata fiducia nel progresso
e nel miglioramento generale delle condizioni di vita.
Tuttavia il progresso, la modernità, come ad esempio
la liberalizzazione del commercio dei cereali nel 1846,
poteva avere effetti micidiali. Il suo Dorset natio e le
regioni sudoccidentali che erano state il granaio della
Gran Bretagna, non potendo competere con i prezzi
consentiti dal libero mercato, entrarono in una crisi
drammatica: una depressione economica di cui Hardy
fu testimone diretto e che gli suggerì il pessimismo che
caratterizza le sue pagine.
Nella finzione romanzesca il Dorset fu ribattezza
to Wessex, il nome del regno di Alfredo il Grande, il
re vissuto nel IX secolo, e presentato come una terra
sospesa tra mito e folklore che la modernità andava
uc cidendo. Nel primo dei grandi romanzi, Far
from the Madding Crowd («Via dalla pazza folla»,
1874), la citta dina di Weatherbury, con il suo enorme
edificio simile a una chiesa dove ha luogo la tosatura
delle pecore, è un luogo di armonia tra uomo e
natura, all’opposto della città industriale, i cui ritmi
sono dettati dalla fabbrica. Il romanzo racconta la
storia di Bathsheba, una giova ne donna dallo spirito
troppo indipendente per quei tempi, che è amata da
tre uomini molto diversi tra loro,
il pastore Gabriel Oak, il ricco agricoltore Boldwood e
il sergente Troy. Le svolte decisive della vicenda sono
di sapore decisamente melodrammatico, ma, come poi
sarà sempre nei romanzi di Hardy, la forzatura insita
nell’episodio melodrammatico è riscattata dalla visione
tragica che sottende il modo in cui i fatti vengono rac
contati. Il romanzo si chiude con un lieto fine. Bathshe
ba sposerà Gabriel, l’uomo che incarna il legame con
la natura.
Leslie Stephen, redattore di «The Cornhill», la
rivi sta su cui il romanzo fu pubblicato a puntate,
aveva sug gerito a Hardy di escogitare un finale più
«lieto» (che fu per l’appunto il matrimonio con
Gabriel) di quello a cui lui aveva in un primo tempo
pensato. E anche The Return of the Native («La
brughiera»), pubblicato sulla rivista «Belgravia» nel
1878, un romanzo la cui protagonista è una donna
molto passionale e per nulla vittoriana, fu in parte
riscritto in seguito alle forti pres sioni del direttore
della rivista. Ci furono sicuramente meno pressioni,
invece, per quanto riguarda The Mayor of
Casterbridge («Il sindaco di Casterbridge», 1886). Il
protagonista del romanzo, il cui destino è segnato dal
gesto sciagurato compiuto in gioventù, quando,
ubria co fradicio, in una fiera aveva venduto la
moglie e la bambina a un marinaio, dopo una vita di
non pochi successi va incontro a una morte
miseranda e amarissi ma. Tuttavia la sua carriera
sociale dimostra la sua su periorità rispetto
all’ambiente ipocrita che lo circonda: il sindaco,
come dice il sottotitolo, è «un uomo di carat tere» in
un mondo in cui la norma è rappresentata da uomini
senza carattere che navigano nel compromesso e
nell’inganno.
La tragica visione dell’umana esistenza che anima
Thomas Hardy si rivela appieno in Tess of the
d’Urber-
villes («Tess dei d’Urbervilles», 1891). Tess, che
pos siamo vedere come la simbolica
rappresentazione della gente della profonda
campagna inglese, è sedotta da Alec, figlio di un
parvenu che ha adottato il nome di quelli che un
tempo erano i signori del luogo. La gio vane rimane
incinta e il suo bimbo muore poco dopo la nascita. Il
matrimonio con Angel, un uomo buono e generoso,
potrebbe segnare l’inizio di una vita serena, ma il
giorno delle nozze Tess confessa la sua «colpa» al
marito, che l’abbandona. Quando più tardi Alec si
rifà vivo, la giovane donna, in cambio dell’aiuto che
lui darà alla sua famiglia, accetta di diventarne
l’amante. Angel tuttavia, pentitosi del suo rifiuto,
decide di tornare con lei e Tess, non vedendo come
poter altrimenti uscire dalla situazione, uccide Alec
per fuggire con il marito. Dopo pochi giorni di
relativa serenità, trascorsi in un casolare disabitato, i
due vengono scoperti e nella loro fuga giungono a
Stonehenge. Tess si addormenta sopra una pietra di
altare e lì viene catturata dai poliziotti: incarcerata e
processata, viene condannata a morte. In Tess, ancor
più che in altri romanzi, la descrizione del paesaggio,
dei luoghi, degli ambienti naturali, rimanda a un
significato simbolico che trasporta i fatti narrati,
anche quelli di minore rilievo, in una dimensione
me tafisica e tragica.
La dimensione tragica trova il suo vertice
nell’ultimo romanzo di Hardy, Jude the Obscure
(«Jude l’oscuro», 1895). Jude è un giovane di
umilissime condizioni socia li, con grande interesse per
la cultura classica e grandi doti per lo studio, che sfida
per amore le leggi e i valori tradizionali dell’epoca.
Jude sposa Arabella, ma quan do la moglie lo lascia va
a vivere con sua cugina Sue, che a sua volta aveva
lasciato il marito. Dopo qualche tempo (intanto lui ha
dovuto rinunciare al suo sogno
di andare all’università e lavora come muratore) Jude
e Sue hanno due figli e prendono con sé anche il fi glio
di Jude e Arabella, soprannominato Little Father Time.
Le loro condizioni di vita, osteggiati come sono per la
loro «immoralità» (Jude viene licenziato), sono
difficilissime e alla povertà, con il passare del tempo,
si aggiunge l’infelicità. Il romanzo affronta una serie di
problemi di cruciale importanza: l’istruzione delle
classi lavoratrici, il divorzio, il controllo delle nascite, il
ruolo della religione.
Jude the Obscure non offre delle soluzioni (è un
ro manzo), ma pone i problemi in modo esplicito e
inequi voco. Quando Sue dice a Father Time di essere
incinta, il ragazzo uccide i due bambini e si uccide:
«L’ho fatto perché siamo troppi», lascia scritto come
agghiacciante spiegazione del suo gesto. Hardy aveva
posto i proble mi nel modo giusto. Tuttavia le reazioni
suscitate dal romanzo (la critica lo considerò osceno, un
vescovo lo diede pubblicamente alle fiamme) lo
convinsero che non soltanto la soluzione dei problemi,
ma la possibili tà stessa di porli nei loro termini più veri
e drammatici, non era concessa al romanziere. E decise
di non scrivere più romanzi.
VII
Fine secolo e bella (?) «époque»

La fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento videro


l’affermazione di due generi che per lungo tempo non
hanno trovato spazio nelle storie della letteratura, la de-
tective story e l’espionage novel. In effetti, il
romanzo di spionaggio (il tema era in genere la
minaccia di in vasione che il Nemico, prima la Francia,
poi la Germa nia, stava organizzando ai danni della
Gran Bretagna) nella sua prima fase non offrì testi di
valore letterario. Fa eccezione soltanto – escludendo
L’agente segreto di Conrad e Kim di Kipling, che
tuttavia sono due casi a parte – The Riddle of the
Sands («L’enigma delle du ne», 1903) di Erskine
Childers, che ebbe tra l’altro il merito di capire in
anticipo che il Nemico non era la Francia, ma la
Germania del Kaiser imparentato con Sua Maestà.
Il giallo – dopo la prima comparsa letteraria di un
in vestigatore, l’ispettore Bucket di Bleak House, e
quella del sergente Cuff nella prima detective story,
The Moon- stone («La pietra di Luna», 1868),
eccellente romanzo di Wilkie Collins (18241889),
grande amico di Dickens
– si era andato affermando come genere a partire
dagli anni Settanta dell’Ottocento. Il primo giallo è
88
proba

89
bilmente The Notting Hill Mistery di Charles Adams,
pubblicato in otto puntate tra il 1862 e il 1863. E quasi
subito era comparso un detective donna: The Female
Detective, di Andrew Forrester, è del 1864.
La svolta decisiva, però, si deve alla fantasia di
Arthur Conan Doyle (18591930), il «padre» di
Sherlock Hol mes. Conan Doyle si era laureato in
medicina all’univer sità di Edimburgo (la città in cui era
nato): un uomo di scienza, quindi, non un letterato. La
figura di Holmes non può prescindere dalla fiducia
nella scienza e nella mentalità positivista caratteristiche
dell’Inghilterra di fine Ottocento: Holmes indaga e
risolve i suoi casi uti lizzando gli strumenti offerti dalle
più recenti scoperte scientifiche ed è scientifico (più
che psicologico) anche il suo metodo deduttivo. Gli
elementi di volta in volta forniti dal racconto, con un
alternarsi di dati utili alla soluzione e di altri fuorvianti,
costituiscono il materiale con cui viene creata la
suspense che si scioglierà nella rivelazione finale. Ma
il modo in cui Holmes riflette su tali elementi
costituisce altresì una sfida rivolta al lettore (oltre ad
essere un mezzo ulteriore per rafforzarne l’at tenzione)
affinché sia altrettanto scientifico nel cercare di trovare
lui stesso la soluzione del caso.
È questo il meccanismo che sta alla base della
detecti- ve story inglese e che, con un maggior rilievo
dell’aspet to psicologico, registrerà un nuovo trionfo
con i gialli di Agatha Christie (18901976) e i suoi
investigatori Poirot e Miss Marple. È importante notare
come in tempi più recenti il genere abbia continuato ad
avere come punta di diamante scrittrici donne, P.D.
James (19202014) e Ruth Rendell (19302015): la più
apprezzata, quest’ulti ma, per felicità di scrittura e per
sottigliezza psicologica. Molti gialli sono libri
avvincenti per gli appassionati, ma privi di valore
letterario, come d’altronde una parte
non piccola dei libri che vengono spacciati per romanzi.
Altri, a partire da Moonstone e The Sign of Four
(1890) di Conan Doyle, stanno benissimo a fianco dei
romanzi canonici.
La scienza con le sue scoperte, e il pensiero scien
tifico con il suo peso culturale, favorirono lo sviluppo
di un altro genere letterario di grande interesse, quello
votato ad immaginare le nuove prospettive (in campo
tecnologico e in campo sociale) che l’umanità si
sarebbe trovata di fronte nel futuro. Il primo grande
scrittore di tale genere, che nel Novecento venne
chiamato fanta scienza, fu H.G. Wells (18661946).
Figlio di una do mestica, Wells trascorse l’infanzia
nella magione in cui la madre era a servizio, imparando
assai bene quanto fe roce e sprezzante per gli uni (i
ricchi) e quanto umiliante per gli altri (i disagiati) fosse
il classismo della società bri tannica. Grazie a una borsa
di studio poté studiare alla School of Science di Londra
(l’attuale Imperial College) e familiarizzarsi con le più
recenti (e al tempo stupefa centi) scoperte scientifiche.
Dopo varie collaborazioni giornalistiche, Wells si
impose come scrittore grazie a The Time Machine
(«La macchina del tempo», 1895), un romanzo in cui lo
scienziato viaggiatore nel tempo scopre che il futuro
vedrà il fallimento delle speranze di progresso. Ancora
più fosco è il ritratto proposto nel romanzo successivo,
The Island of Dr Moreau («L’isola del dottor
Moreau», 1896), che segna la tendenza, come poi
accadrà in Huxley, Orwell e Ballard, a voltare l’uto pia
in negativo – cioè in una distopia –, non tanto per
profetizzare sviluppi catastrofici in un futuro più o
meno lontano, quanto per mettere in guardia su quegli
aspetti negativi del presente che potrebbero esserne il
germe.
A questi due testi si affianca The War of the Worlds
(«La guerra dei mondi», 1898), l’archetipica narrazio
ne di un’invasione della Terra da parte degli alieni, che
Wells utilizza per muovere la sua critica agli aspetti più
deleteri della società inglese. Questo, infatti, è il com
pito che Wells si assegna, sia quando immagina inva
sioni marziane, o stupefacenti (e minacciosi) sviluppi
tecnologici e guerre tra i mondi, sia quando ambienta i
suoi romanzi nel presente – come gli autobiografici Mr
Lewisham, Kipps, Ann Veronica (tutti pubblicati all’ini
zio del Novecento) e Tono-Bungay (1909), in cui
offre il ritratto più fortemente critico del mondo
britannico, lanciando i suoi strali in particolare contro
la categoria dei «nuovi ricchi», a cui attribuisce
caratteri distintivi quali la disonestà e il cinismo. Ma
soprattutto è da ri cordare The History of Mr Polly
(1910), un romanzo dal taglio comico, praticamente
sconosciuto in Italia, in cui la critica sociale è relegata
in alcuni brevi passaggi, ma non per questo è meno
puntuale.
Wells, socialista e libero pensatore, aveva una visio
ne totalmente negativa dei destini dell’umanità, che gli
appariva incapace di capire quali sono gli errori mador
nali e i catastrofici pericoli da evitare. «Ve l’avevo
detto, maledetti imbecilli!», è l’epitaffio che avrebbe
potuto essere inciso sulla sua tomba.
Questi ultimi romanzi di Wells, almeno in parte,
si possono collocare nella corrente letteraria debitri ce
del Naturalismo francese, che ebbe il suo maggior
esponente in Arnold Bennett (18671931). Bennett fu
vittima di uno sprezzante giudizio da parte di Virginia
Woolf, ma è invece giusto riconoscere che almeno in un
paio di casi seppe essere scrittore di vaglia. Della sua
amplissima produzione bisogna infatti salvare Anna of
the Five Towns («Anna delle cinque città», 1902), che
per la storia si rifà alla lezione di Balzac e per il taglio
stilistico a quella di Turgenev, che Bennett considerava
il maggior romanziere moderno; e The Old Wives
Tale («La vita è fatta così», 1909), un romanzo che
attraverso il racconto dei diversi destini di due sorelle
comunica magistralmente il senso del passare del
tempo.
Per la verità già prima, con Liza of Lambeth
(«Liza di Lambeth», 1897), il romanzo inglese aveva
potuto annoverare una prima piccola perla
naturalistica. Ne era autore W. Somerset Maugham,
che per nascita e prima formazione era più francese
che inglese, e che nella storia di Liza seppe
presentare un quadro quasi alla Zola delle condizioni
di vita e dell’esistenza precaria delle classi lavoratrici
londinesi. Ma di Maugham, che era anche
drammaturgo di successo, si dirà più avanti.
Romanziere e drammaturgo era anche John Gals
worthy (18671933), che deve la sua fama ai romanzi
che, a partire da The Man of Property («Il possiden
te», 1906), raccontano la saga della famiglia Forsyte. Il
primo romanzo della serie segue le vicende di Soames
Forsyte e di altri membri della sua famiglia, visti come
i rappresentanti di una borghesia votata a trasformare
ogni cosa in merce, in oggetto di proprietà e di
possesso. L’idea alla base del romanzo è quella di usare
le circo stanze e gli avvenimenti riguardanti una
singola famiglia per rappresentare la crisi di un’intera
classe sociale e dei suoi valori, come Thomas Mann
aveva fatto pochi anni prima in quel capolavoro
assoluto che è I Buddenbrook. Il successo di The
Man of Property suggerì a Gals worthy di dare un
seguito alle vicende dei Forsyte in due successivi
romanzi, usciti nel 1920 e 1921 (e altri tre seguirono
negli anni successivi, a ingigantire la saga). A quel
punto, però, la critica sociale si era abbondan temente
annacquata e non è difficile scorgere in questi romanzi
una sommessa ammirazione per i «possidenti». Forse
anche per questa ragione, le ultime puntate della
saga, uscite in tempi drammatici (lo sciopero generale
del 1926, il crollo di Wall Street e la crisi economica),
ebbero un grande successo: meglio fantasticare che
guardare in faccia la realtà. Chissà se è anche per que
sto che nel 1932 a Galsworthy fu conferito il Nobel per
la letteratura.

A questo punto è necessario fare un piccolo passo


indietro per illustrare la produzione di uno scrittore,
Rudyard Kipling (18651936), che per caratteristiche
ideologiche e per comodità (la sua produzione di
mag gior interesse si colloca negli ultimi anni del
regno della regina Vittoria) possiamo definire
vittoriano. Kipling nacque a Bombay, dove trascorse
l’infanzia; poi fre quentò le scuole in Inghilterra, dal
1871 al 1882, quindi tornò in India, per andare a
lavorare come giornalista a Lahore. Nel giro di pochi
anni pubblicò un’ampia serie di liriche e racconti,
accolti con grande favore dalla co munità inglese in
India, che in essi trovava la rappresen tazione degli
aspetti più interessanti del «suo» mondo indiano; e
tale favore lo accompagnò al suo ritorno in
Inghilterra.
L’India era l’argomento principale dei suoi testi, di
cui erano protagonisti gli inglesi che là vivevano. L’In
dia, la punta di diamante della corona imperiale, dove
battaglioni di impiegati e funzionari svolgevano i com
piti loro assegnati con serietà e severità,
orgogliosamen te pronti, se necessario, a sacrificare
anche la vita «per il re e per la patria». Molti dei
racconti di Kipling sono dei gioielli narrativi percorsi
da un solido realismo che consente all’autore di
tracciare un preciso disegno delle contraddizioni insite
nell’esperienza coloniale: da un la to, il timore degli
inglesi di lasciarsi sedurre dal mondo indiano
dimenticando la loro patria, accompagnato dal
disagio suscitato dagli aspetti surreali e magici dei riti e
dei costumi locali che li affascinavano e li
spaventavano al tempo stesso; dall’altro, il
cameratismo, la disciplina, il senso di essere i fedeli
servitori di una giusta causa.
E tuttavia per il lettore di oggi è facile notare come
Kipling descriva una realtà in cui è il mondo indiano
a emergere con forza: un mondo che l’uomo bianco
non riesce mai a conoscere davvero, che domina con
la forza ma che non capisce, che vorrebbe ingabbiare
nei suoi schemi culturali ma che invece costantemente
riafferma la propria differenza e alterità. Forse anche
questo aspetto faceva parte di quel «fardello dell’uomo
bianco» di cui una volta aveva detto Kipling e che, al di
là delle sue intenzioni, divenne una sorta di manifesto
dell’imperialismo. Da qui a considerarlo un bieco impe
rialista – questa è l’accusa che a partire dagli anni
Trenta spesso gli fu mossa – molto ce ne passa. Di
sicuro era un acceso patriota, come dimostrano i suoi
furibondi attacchi contro la Germania allo scoppio della
prima guerra mondiale. Fu lui a insistere perché il
figlio di ciassettenne si arruolasse. Il ragazzo morì
quasi subito in una delle battaglie più sanguinose (e
insensate) del conflitto. «Se i caduti», scrisse poi in una
commossa lirica, «chiederanno perché sono morti,
rispondete loro che è perché i loro padri hanno
mentito».
Buona parte della fama postuma di Kipling è
paradossalmente dovuta a Walt Disney, il quale portò
sullo schermo i due «libri della giungla», pubblicati
nel 1894 e 1895, che sfruttano il tema romantico del
bambino che, solo e abbandonato, cresce nei boschi
e lontano dalla civiltà. In questo caso il fanciullo,
Mowgli, non cresce nel bosco, ma nella giungla.
L’aspetto più interessante della storia è che
l’espressione «legge della giungla», che in genere sta
ad indicare l’opposto della
convivenza civile, qui invece è presentata come più no
bile e moralmente più alta delle leggi degli uomini (o,
almeno, della loro applicazione).
Il capolavoro di Kipling è Kim (1901), affascinan te
ritratto del mondo indiano visto con gli occhi di un
ragazzo. Kim è un viaggio nel ricordo dell’adolescenza
indiana del suo autore, ma anche un viaggio nell’India
«gemma dell’impero». Le sue strade polverose, i suoi
fiumi, le sue sconfinate pianure e i suoi monti grandiosi,
la sua natura prorompente e sovrana, ancora incontami
nata, sono lo sfondo realistico e fiabesco delle avventure
di Kim, figlio di un sergente irlandese e di una inglese,
rimasto orfano nella prima infanzia e cresciuto come un
indiano, buono e scaltro, vitalissimo e riflessivo, «amico
di tutti» e «amico delle stelle». La svolta della sua vita è
determinata dall’incontro con un prete buddista, giunto
dalle montagne himalayane alla ricerca del fiume sacro
in cui purificarsi. Kim ne diventa la guida, lo segue nella
sua ricerca, ne ascolta gli insegnamenti e ne apprezza la
visione religiosa; e infine lo riaccompagna nella sua ter
ra, sui monti dove, pensa Kim, «di certo vivono gli dèi».
È un viaggio nella spiritualità e nella materialità del
mondo indiano, con un protagonista che si trova sem pre
in una posizione anomala, un inglese tra gli indiani, un
ragazzo tra gli adulti, un cristiano che si accompagna a
un monaco buddista. Ma è anche un viaggio nell’av
ventura, nel Grande Gioco dello spionaggio (la defi
nizione usata da Kipling non è una sua invenzione, si
diceva proprio così): al punto che si può affermare che
in questo anomalo Bildungsroman una parte importan
te della formazione del protagonista discende proprio
dalla sua attività di agente segreto. Per lungo tempo il
libro fu considerato promotore dell’immagine che l’im
perialismo voleva dare di sé. Adesso, dopo che da un
bel pezzo l’impero è stato liquidato, Kim può essere
considerato, piuttosto, un omaggio al fascino e alla
ric chezza culturale del mondo indiano: un mondo,
come ha dichiarato Salman Rushdie, che nessun
europeo ha saputo descrivere così bene.
Un’ultima considerazione. Come si poneva Kipling
nei confronti della scuola naturalista? Non si poneva:
andava per la sua strada, quella del naturalismo magico.

Il gigante del romanzo inglese di fine Ottocento e


primo Novecento è Joseph Conrad (18571924), che era
nato nell’attuale Ucraina da genitori polacchi e che a di
ciassette anni se n’era andato a Marsiglia, dove era stato
assunto nella Marina mercantile francese. Nel 1878 en trò
a far parte di quella inglese, senza però abbandonare
l’ambizione giovanile di fare lo scrittore. I suoi punti di
riferimento erano Maupassant e Flaubert; e poi Henry
James. La scuola naturalista gli era nota, ma altri erano
i suoi maestri. Senza dimenticare che il suo maestro più
grande fu il mare, grazie alle sue lunghe esperienze nelle
acque più lontane e ricche di mistero. Esso da un lato gli
fornì il materiale avventuroso da rielaborare nella sua nar
rativa; dall’altro gli offrì una visione del mondo, della vita
concepita come confronto con le avversità e della forza
del senso di comunità che univa i marinai nell’affrontare
tali avversità. Ognuno aveva però una sua responsabilità
individuale, ma graduata rispetto ai compiti gerarchica
mente assegnati (la responsabilità maggiore, ovviamente,
era quella del capitano). Quello della nave era un esem
plare microcosmo: ciò che valeva per l’equipaggio, nella
visione di Conrad, valeva per la società nel suo insieme.
Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo,
Al- mayer’s Folly («La follia di Almayer», 1895),
ambienta to tra Borneo e mari del Sud, Conrad lasciò
la marina
e, diventato cittadino britannico, si stabilì in Inghilter
ra, dedicandosi a tempo pieno alla scrittura. Molti dei
suoi romanzi sono ambientati nelle colonie e nei mari
che le collegano; ma il suo atteggiamento nei confronti
dell’impresa coloniale, con buona pace dei suoi detrat
tori (che negli ultimi decenni si sono mossi sull’onda
dell’accusa rivoltagli dallo scrittore nigeriano Chinua
Achebe), non è affatto apologetico.
Ne è prova evidente proprio quello splendido ro
manzo breve che Achebe attaccò, Heart of Darkness
(«Cuore di tenebra», 1899). La vicenda si svolge quasi
interamente nel Congo e ha al suo centro l’ambigua fi
gura di Kurtz, un uomo il cui albero genealogico ne fa
un simbolo dell’intera Europa. Kurtz è stato mandato
in Africa come abile manager e «portatore di civiltà».
Fallirà su entrambi i fronti. Il cuore di tenebra è quello
dell’uomo europeo, del campione di civiltà che, rimasto
solo in quel mondo primitivo e primordiale, si abban
dona alla parte più remotamente ancestrale di sé, istinti
va e selvaggia. La sua sorte ci induce a considerare
come tenebra l’impresa coloniale stessa (di cui è
l’incarnazio ne); o più semplicemente ci dice che Kurtz
«si perde» perché non dovrebbe essere là, in quel luogo
altro dove non ha alcun diritto di trovarsi. Una volta
rimasto solo, lontano dagli altri europei e dall’Europa,
non ha la forza di resistere e di evitare di essere
trascinato nell’abisso.
Pochi anni dopo Conrad scrisse il romanzo breve
Typhoon («Tifone», 1902), la storia di una tremenda
tempesta sul mare che il modesto e quasi insignificante
capitano MacWhirr riesce ad affrontare con esempla re
perizia, salvando la sua nave e i suoi uomini. Non
riceve nessun premio, nessun riconoscimento, perché,
seppure in circostanze particolarmente drammatiche,
semplicemente ha fatto ciò che doveva essere fatto.
Questo è un tema ricorrente nei romanzi di Conrad,
che colloca i suoi protagonisti in una situazione estre
ma, ponendoli di fronte a una scelta radicale, una «pro
va» senza appello. Se non la si supera, la conseguenza è
la morte. Il capitano di Typhoon, come quello dell’au
tobiografico The Shadow Line («La linea d’ombra»,
1917), supera la prova, si salva ed è salvato. Non così,
invece, il protagonista di Lord Jim (1900), un uomo
giu sto che in circostanze traumatiche, dopo che il
capitano e i macchinisti hanno abbandonato la nave che
sembra condannata a naufragare, li segue anche lui,
quasi in trance, lasciando i passeggeri in balia del
mare. Dopo es sere stato condannato, vaga per anni da
un luogo all’al tro del lontano Oriente alla ricerca di
una «prova» che possa redimerlo. Alla fine il riscatto,
forse, lo troverà: ma attraverso la morte.
Il cattolico Conrad era guidato da un rigore morale
e da un senso religioso che potremmo definire calvi
nisti. Nei confronti dei suoi personaggi è come il Dio
della Bibbia che condanna e punisce. Conrad, che ne è
il «creatore», non ha pietà per le loro debolezze: se sba
gliano, devono pagare. Alla base dei suoi romanzi c’è
una certezza morale totalizzante, che investe i protago
nisti e le loro vicende e che ne soppesa i destini. Anche
Nostromo (1904) e The End of the Tether («Al
limite estremo», 1902) mettono il protagonista di fronte
a una scelta che può voler dire la sua dannazione. Il
capitano di quest’ultimo breve romanzo, seppure spinto
dalla più pietosa delle intenzioni, si colloca in una
posizione indifendibile e non gli resta che pagare con la
vita la propria scelta. Il protagonista di Nostromo
cederà alla tentazione e verrà (casualmente) ucciso,
avendo tradito se stesso, la sua comprovata onestà. Ma
l’intero roman zo, ambientato in un immaginario
Stato dell’America
Latina, propone una serie di tradimenti di sé, di cedi
menti di fronte alla potenza del denaro e dell’argento,
il vero centro ideologico del libro, che di alcuni scatena
la rapacità e di altri sbriciola la dignità.
Con The Secret Agent («L’agente segreto», 1907) e
Under Western Eyes («Con gli occhi dell’Occidente»,
1911) Conrad sposta la sua attenzione sull’Europa, rac
contandoci due storie di spie e di anarchici impegnati
a destabilizzare la placida tranquillità e la compiaciuta
sicurezza proprie del periodo che va sotto il nome di
«belle époque» (e di età edoardiana in Inghilterra:
alla morte di Vittoria nel 1901 era diventato re suo
figlio Edoardo VII).
All’inizio di The Secret Agent Verloc, il
protagonista, viene sollecitato dal primo segretario
dell’ambasciata del paese che lo foraggia a mettere in
atto un attenta to dinamitardo all’Osservatorio di
Greenwich. Conrad non fa scattare la suspense sui
preparativi dell’attentato, ma dopo il suo fallimento,
quando l’attentatore viene fatto a pezzi dalla bomba.
C’è l’indagine poliziesca, e la scoperta che quei miseri
resti dilaniati dalla dinamite appartengono a Stevie, il
cognato di Verloc; c’è la ri velazione che l’ispettore
capo indirettamente fornisce a Winnie, la moglie di
Verloc, sull’identità dell’atten tatore; c’è la decisione di
Verloc, una volta scoperto, di vendicarsi informando
«tutto il mondo» dell’operato dell’ambasciata. Non avrà
modo e tempo di farlo: Win nie lo ucciderà.
Verloc non è malvagio. È indifferente, tradisce gli
uni e inganna gli altri; e si preoccupa del suo placido
ménage, della moglie che lo ha sposato perché facesse
da padre al fratello minorato, delle angosce di
quest’ultimo (nel cui ritratto, forse, c’è un’eco
dell’idiota dostoev skjano). Insieme a lui,
protagonista del romanzo è la
città di Londra. Una città «mostruosa», la cui facciata
di civile convivenza maschera l’esistenza di una realtà
del tutto diversa: è la sua stessa vastità, con la miriade
di individui che la percorrono, ciascuno isolato nella
propria indifferenza per gli altri e nell’indifferenza
degli altri, che favorisce e nutre la segretezza e la
cospirazio ne. In questa Londra si muove un mondo
sinistro, che Conrad osserva e ritrae con inquietudine e
al tempo stesso con sprezzante distacco. Un mondo
sinistro che non ha certo i caratteri di una «belle
époque».
I rivoluzionari di Under Western Eyes, esuli dalla
Russia zarista, come gli anarchici di The Secret Agent
vanno incontro a un inevitabile fallimento. Il romanzo,
che presenta un acuto quadro psicologico dei personag
gi dei rivoluzionari, propone un’interessante contrap
posizione tra l’anima impetuosa e «barbara» dell’Euro
pa orientale e quella composta e inerte dell’Occidente:
ma, attraverso i suoi occhi, è dal punto di vista della
civiltà occidentale che la vicenda viene raccontata.
Con i suoi romanzi Conrad esplorò al tempo stesso
la natura della condizione umana e la realtà storica di
un’epoca contrassegnata dall’illusione di onnipotenza e
di «eternità». Lo fece da un punto di vista solido e fer
mo e con un tipo di invenzione romanzesca non lontana
da quella degli autori vittoriani. Spesso, tuttavia – e
que sto è un aspetto lontanissimo dalla posizione dei
roman zieri dell’Ottocento –, lo fece affidando il
racconto a un
«secondo narratore», o a un personaggio/narratore
non in grado di afferrare appieno il senso della
vicenda nar rata, oppure, come accade in Chance
(«Destino», 1913), ai differenti punti di vista di
diversi narratori. In questo modo, seppure
indirettamente, Conrad giunse vicino alla
conclusione che poco dopo i modernisti avrebbero
proclamato apertamente, e cioè che la tradizionale
for
ma romanzesca non era più in grado di rappresentare
la complessità (e l’assenza di centro) della realtà
moderna.

Un ritratto decisamente diverso del mondo edoar


diano è offerto dall’opera romanzesca di Edward Mor
gan Forster (18791970), quasi tutta racchiusa nel pri
mo decennio del Novecento. «Only connect», leggiamo
nell’epigrafe di Howards End («Casa Howard»,
1910): nel corso del romanzo Margaret, che ne è il
personag gio chiave, esprime spesso la speranza che un
giorno sia possibile riconciliare i due mondi che
campeggiano nella vicenda, il mondo borghese degli
affari e del po tere, conformista e materialista, e il
mondo borghese della cultura liberal, illuminato,
tollerante, aperto agli
«altri» e alle «ragioni del cuore». In Where Angels
Fear to Tread («Monteriano», 1905) e nella prima
parte di A Room with a View («Camera con vista»,
1908), i suoi primi due romanzi, il contrasto è tra la
rigidità vitto riana, la freddezza, l’autorepressione da
un lato, e la vitalità mediterranea, generosa e passionale
dall’altro. In Howards End il contrasto è tra due
aspetti diversi del mondo borghese, quello
dell’industria e dei commerci, aggressivo e prepotente,
e quello della cultura, umani stico e «democratico».
Howards End può essere considerato un
romanzo sullo «stato della nazione». Le vicende
famigliari in esso narrate consentono a Forster di
indagare con grande sottigliezza sulle caratteristiche
degli uomini (prepoten ti e ottusi) e delle donne
(sensibili e intelligenti) della borghesia inglese. Ma
ancora più originale e persuasivo è il ritratto della
piccola borghesia che emerge attraver so il
personaggio del patetico impiegatuccio Leonard Bast
(il quale mette incinta Helen, la sorella di Marga ret),
che Forster cesella con straordinario acume psico
logico e sociologico, facendone uno dei personaggi più
«veri» di tutto il romanzo inglese del Novecento. Il
tito lo del romanzo fa riferimento alla bella casa di
famiglia nella campagna inglese, solida testimonianza
dell’antica Inghilterra, ma che ormai rischia di essere
fagocitata dalla nuova Inghilterra industriale. Forse
sarà il figlio di Helen ad ereditarla, dopo un finale
contrassegnato da clamorose coincidenze che
portano all’uccisione del povero Leonard.
A proposito di finali. L’idea di Forster era che il ro
manzo (quel genere che, diceva con efficace semplicità,
«tells a story» e deve quindi procedere verso una con
clusione che la coroni) non dovesse terminare con una
chiusura, bensì con un’apertura ai possibili sviluppi che
le circostanze del finale autorizzavano. Dopo non
poche esitazioni si era rassegnato a concludere A
Room with a View in modo tradizionale.
Relativamente più aperto è invece il finale di
Howards End. E ancor di più quello di A Passage to
India, il cui titolo italiano dovrebbe essere
«Viaggio in India»: l’anziana signora e Adela, la
giovane donna che si reca in India dove è di stanza
l’ufficiale britannico che deve sposare, hanno infatti
preso un tran satlantico per compiere il viaggio
(passage) dall’Inghil terra al subcontinente indiano.
È un breve viaggio di Adela alle grotte di Marabar a
segnare la svolta della storia. L’accompagna un
giovane medico locale, Aziz, il quale, dopo che Adela è
uscita dalla grotta frastornata e sconvolta, è accusato di
averla toccata. Dopo una quasi sommossa, il processo e
l’assoluzione di Aziz, il viaggio in India della giovane
si conclude in un vero disastro; e il matrimonio con
l’ufficiale, ovviamente, non si farà più. Forster aveva
incominciato a scrivere il romanzo nel 1914; poi lo
aveva accantonato, soprattutto perché il finale gli si
presentava come un problema di difficile
soluzione. Aziz stabilisce un forte rapporto di
amicizia con l’inglese Fielding, che, «colpevole» di
averlo difeso, viene messo al bando dalla comunità
britannica locale. Dopo quanto è accaduto, tuttavia,
non è più possibile ritrovare l’intensa amicizia che
prima li aveva legati (di recente alcuni critici hanno
letto in chiave omosessuale il rapporto tra i due
personaggi: interpretazione sen za fondamento
testuale e forse suggerita dal fatto che Forster era
omosessuale – ma restò vergine fino a qua rant’anni,
per legarsi poi negli ultimi decenni della sua vita a
un poliziotto, sposato e tutore di quella legge che, tra
l’altro, considerava l’omosessualità un crimine). Nel
finale del romanzo, che fu pubblicato nel 1924,
Forster immagina i due personaggi che, anni dopo,
cavalcano nella piana indiana intrisa dalla pioggia:
gli edifici, gli uccelli, le rocce, con le loro cento voci,
sembrano dire ai due uomini che non possono
ancora essere amici. Non ancora: potranno esserlo
quando i colonialisti inglesi se ne saranno andati per
sempre.
I primi volumi della Recherche di Proust erano
sta ti pubblicati prima che Forster riprendesse in
mano il romanzo e ne trovasse la conclusione. Di
Proust lo ave va affascinato il modo in cui
sottolineava l’importanza del subconscio («the
modern subconscious way»), e il taglio con cui viene
presentato l’episodio della grotta dimostra come
Forster avesse fatto tesoro della lezione proustiana.
Tuttavia il modo moderno con cui parlare del mondo
moderno, le teorie e le pratiche dei moder nisti, di cui
riconosceva l’importanza e la validità, non erano in
sintonia con la sua sensibilità di scrittore. Dopo A
Passage to India Forster non scrisse più romanzi.
Prima di occuparci dei modernisti dobbiamo par
lare di un romanziere, Ford Madox Ford (18731939),
che modernista non è, ma che promosse nelle riviste
che creò e diresse molti scrittori appartenenti a tale
movi mento. Negli anni «edoardiani» pubblicò una
trilogia di romanzi storici ormai confinati negli scaffali
delle biblioteche universitarie; poco più tardi, nel
secondo anno di guerra, nel 1915, uscì il suo
capolavoro, The Good Soldier («Il buon soldato»), che
racconta gli in trighi di due coppie altoborghesi tra il
1904 e il 1913, affidandoli alla ricostruzione del marito
tradito, l’ame ricano John Dowell.
Tecnicamente The Good Soldier è un romanzo
pre modernista: la narrazione di Dowell, spesso
incapace di comprendere i fatti al limite della
stupidità, e anche per questo «inattendibile», procede
non secondo una linea cronologica, bensì come
sull’onda dei ricordi, confida ti oralmente a un
«ascoltatore silenzioso»; ma l’ascol tatore è un
lettore, che cerca di orientarsi – con non poca fatica –
tra episodi riferiti da un loro testimone che scrive. E
che scrive riportando le impressioni che aveva sul
momento, procedendo avanti e indietro negli anni,
come guidato dalla memoria. Questa è la scelta di
poetica di Madox Ford, che nel racconto procede per
associazioni e per molteplicità di sensazioni,
applicando alla narrazione il contributo degli studi
psicologici del rivoluzionario primo Novecento.
Tematicamente The Good Soldier è un romanzo
sulla società borghese della «belle époque», con i
suoi riti mondani, i suoi lussi sfrenati, la sua rete di
ipocrite convenzioni e di ferrei divieti e la sua
preoccupazio ne di rispettabilità in campo sessuale,
tra repressione e pratiche nascoste. A proposito di
quest’ultimo aspetto, molto è affidato alla figura del
capitano Ashburnham, il buon soldato del titolo, che
un buon soldato non è stato mai. È stato un
impenitente dongiovanni, sedut
tore delle mogli dei suoi colleghi ufficiali quando era
di stanza in India; è stato un «pollo» che per
comprare i favori di un’affascinante cortigiana ha
dilapidato una fortuna; è stato il violentatore di una
giovane cameriera nello scompartimento di un treno;
e per nove anni è stato amante di Florence, la moglie
del suo amico John Dowell (che non si è accorto mai
di nulla).
Quando le sue attenzioni si rivolgono verso
Nancy, pupilla della moglie, Florence si uccide. La
convivenza sotto lo stesso tetto di Ashburnham, di
Nancy e di sua moglie Leonora (che sa) offre il
contesto e l’occasione alla realizzazione della
grottesca tortura psicologica nei confronti del buon
soldato (ma in parte anche di Nancy) che Leonora
conduce con grande sottigliezza ed effica cia. Nancy
parte per l’India e Ashburnham si uccide, tagliandosi
la gola con un coltellino. La trama, ridotta al suo
sviluppo lineare, non brillerebbe più di tanto per
originalità. Ma è il modo sapiente con cui Ford
Madox Ford frantuma la linearità del racconto in
nome della ricostruzione «a memoria» di Dowell, è
la sottigliezza con cui esplora la psicologia di
Leonora e di Nancy, è l’acutezza con cui entra
nell’animo di Ashburnham che fanno di The Good
Soldier un’opera di valore letterario assoluto e di
assoluta modernità. E, come scrisse Gra ham Greene,
che ne fanno il primo romanzo «adulto» della
letteratura inglese in materia di matrimonio.
Relativamente più tradizionali sono i quattro roman
zi di Parade’s End, pubblicati tra il 1924 e il 1928, che
costituiscono una sorta di saga costruita intorno alla
figura di Christopher Tietjens, alto funzionario statale
esperto di statistica, ricco gentiluomo che incarna le vir
tù tipiche della vecchia Inghilterra (e i suoi pregiudizi
classisti e razzisti) e marito infelice di una moglie che
lo tradisce apertamente, ma che, per comodità, lo tiene
accanto a sé. Questo lo scopriamo nel primo romanzo
della tetralogia: nella prima parte siamo nel 1912, nella
seconda nel 1917, nella fase più difficile della guerra.
Nello stesso periodo si svolge anche il secondo roman
zo, con Tietjens, che è «soltanto» un capitano, alle
prese con la protervia e l’imbecillità degli alti ufficiali e
gli in trighi della moglie. Al fronte Tietjens assiste con
orrore ai massacri che falcidiano i soldati a decine di
migliaia alla volta e nel suo comportamento tra le
trincee sembra quasi cercare la morte; ma sopravvivrà.
E alla fine della guerra (lo leggiamo nel quarto
romanzo, il più debole e il più modernista) si dedicherà
all’antiquariato e andrà a vivere con Valentine, la
giovane donna conosciuta an ni prima, una suffragetta
(lontanissima quindi dalle sue idee) con cui, dopo molti
incontri platonici, aveva fatto l’amore prima di tornare
al fronte.
In Parade’s End Ford Madox Ford si fece «storico
del proprio tempo», ricostruendo con grande efficacia
il processo di epocale cambiamento nei valori, nei com
portamenti personali e sessuali, nei rapporti sociali e di
classe che travolsero la società inglese. E seppe offri re
alla letteratura inglese una delle testimonianze più
drammatiche e alcune delle pagine più nobili e potenti
sui disastri della cosiddetta Grande Guerra.
VIII
Il Modernismo

In quel primo Novecento, edoardiano per l’Inghilter


ra, «belle époque» per la Francia, l’opulenta
borghesia europea poteva pensarsi come eterna,
classe dominante di un mondo che una volta per
sempre aveva trovato i suoi perfetti equilibri.
Un’illusione che la prima guerra mondiale distrusse
per sempre.
Le ragioni e le cause di quel crollo erano già tutte
presenti all’inizio del secolo. Ma, anche ignorandole,
agli intellettuali e agli artisti più acuti era comunque
chiaro che il vecchio mondo ottocentesco, con i suoi
soffocanti e discutibili valori, doveva lasciare il
posto al nuovo, alla modernità. E Modernismo fu il
nome del vivacissimo movimento culturale che già
negli anni precedenti allo scoppio della guerra
«distrusse» ciò che impediva la creazione del nuovo
– la creazione, cioè, di quanto venne poi realizzato
nel dopoguerra.
Dopo la fine del conflitto, come scrisse in un
lontano ma fondamentale saggio Erich Auerbach,
alcuni scrit tori (inglesi, francesi, tedeschi) si resero
conto che gli epocali cambiamenti avvenuti dalla fine
dell’Ottocento in poi, e culminati con gli orrori della
10
guerra, avevano fatto crollare quella «comunanza di
pensiero e di senti

10
mento» che prima consentiva allo scrittore di ritrarre la
realtà «avendo in mano dei criteri sicuri per ordinarla».
Ciò da un lato implicava la rinuncia a voler rappresenta
re la vita nella sua completezza, con la scelta di limitare
il tempo della narrazione a poche ore o giorni, nella
convinzione che meglio era indagare il singolo fatto; e
nella persuasione che esso, attraverso il collegamento
con altre vicende nel passato appena intuite potesse fare
scorgere il senso di una vita.
Dall’altro lato ciò comportava la scelta di
«dissolvere la realtà, che passando per il prisma della
coscienza», veniva così frantumata in aspetti e
significati molteplici. Nella narrativa questo,
tecnicamente, comportava il ri corso al rivoluzionario
stream of consciousness di Joyce, al flusso di
coscienza, al trasferimento sulla pagina del processo
inconsapevole di pensieri, associazioni e sen sazioni
che attraversano la mente. Oppure, esemplar mente in
Virginia Woolf, alla rinuncia del punto di vista del
narratore per l’adozione di una molteplicità di punti di
vista. L’intento, diceva ancora Auerbach, era quello di
«avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di
molte impressioni soggettive avute da molte persone (e
in momenti diversi)».
È significativo che, già prima, sia Conrad, sia
Ford Madox Ford, pur senza adottare tali tecniche,
avessero elaborato scelte narrative (il secondo
narratore, il narra tore inattendibile) che registravano
la difficoltà di rac contare nella maniera tradizionale.
Furono poi i moder nisti, i testimoni della «perdita
del centro», a denunciare l’impossibilità di
raccontare una storia con la linearità che veniva da
un’ordinata visione del mondo ora che il mondo non
era più conoscibile nella sua totalità.
La mancanza di punti di riferimento sicuri,
l’incer tezza e la confusione determinate dal venir
meno di un
«centro», ma al tempo stesso la convinzione della pos
sibilità di rappresentare dimensioni inesplorate e nuove
dimensioni della realtà, si tradusse nella straordinaria
fioritura letteraria degli anni Venti. È importante ricor
dare che a prepararne il terreno non poco contribui
rono le posizioni espresse dal cosiddetto Bloomsbury
Group, formato dal saggista e biografo Lytton Stra
chey, dal critico d’arte Roger Fry, dall’economista John
Maynard Keynes e infine da Leonard Woolf e dallo sto
rico dell’arte Clive Bell, che sposarono rispettivamente
Virginia e Vanessa, le figlie dell’influente critico lette
rario, storico e filosofo Leslie Stephen. A partire dai
primi anni del Novecento, soprattutto nelle abitazioni
di Vanessa e Virginia, a Gordon Square e dintorni (la
zona di Bloomsbury), avvenivano gli incontri del grup
po, a cui si unirono poi Forster, Eliot e Bertrand
Russell. Le posizioni del Group erano coraggiosamente
li berali e in campo sessuale addirittura rivoluzionarie
rispetto alle ipocrite convenzioni vittoriane. E (quasi)
rivoluzionaria era la rivendicazione della piena digni
tà e assoluta autonomia della scrittura femminile. Fu
proprio tale posizione e la determinazione con cui fu
promossa che consentirono la valorizzazione e, ancor
prima, la paritaria possibilità di espressione delle scrit
trici del primo Novecento.

James Joyce (18821941), dublinese e cattolico – stu


diò infatti allo University College, l’università cattolica
di Dublino –, dopo essersi laureato lasciò l’Irlanda, pri
ma per Parigi e poi per Trieste, dove visse dal 1904 al
1915, anno in cui, a causa della guerra, si trasferì a Zu
rigo; e infine, nel 1920, si stabilì a Parigi, dove terminò
e pubblicò il romanzo più citato e discusso di tutto il
Novecento, Ulysses («Ulisse», 1922).
Il testo che rivelò il talento di Joyce è Dubliners
(«Gente di Dublino», 1914), una raccolta di racconti
disposti in modo da presentare la vita di Dublino nei
quattro aspetti dell’infanzia, dell’adolescenza, della ma
turità e della vita pubblica. Il taglio della narrazione
si presenta come del tutto naturalistico, ma in realtà è
l’epifania, «l’improvvisa rivelazione dell’essenza di
una cosa», che detta il senso del racconto: il singolo
momen to rivela (questo è il verbo imprescindibile) il
significato generale di un ambiente, di una vita, di un
intero mon do. Quest’idea dell’epifania, che è centrale
nell’opera di Joyce, costituirà un punto di riferimento
cruciale per tutta la cultura modernista.
La decisione di lasciare l’Irlanda (con il suo squal
lido provincialismo, con quella Dublino che era «il
centro della paralisi» della realtà irlandese), e la scelta
dell’esilio furono per Joyce una scelta di libertà. Per la
verità nel suo primo romanzo, Portrait of the Artist
as a Young Man («Ritratto dell’artista da giovane»,
1916), l’esilio è quasi sinonimo della condizione di
artista. Gli aspetti autobiografici sono indubbiamente
decisivi, ma il romanzo deve essere visto come
l’illustrazione, de scritta con toni che si presentano
come ispirati all’og gettività e all’impersonalità, di un
percorso generale di maturazione del «giovane artista».
Il giovane artista Stephen Dedalus, non più così
gio vane, è la figura centrale della prima parte di
Ulysses, la
«Telemachiade». Rispetto al poema omerico, Stephen
è il figlio Telemaco, mentre il padre Ulisse compare
più tardi sotto le spoglie di Leopold Bloom,
piccolo
«ebreo errante» (a dire il vero ebreo solo a metà),
che lavora come procacciatore di pubblicità per un
giorna le cattolico; al posto della fedelissima
Penelope c’è la consorte di Bloom, Molly, cantante
lirica e moglie infe
dele. Bloom, che non ha figli, assume il ruolo di figura
paterna di Stephen nel corso delle vicende raccontate
nel romanzo, che occupano un solo giorno, quello del
16 giugno 1904, a differenza degli anni trascorsi da
Ulisse per mari e terre lontane. Da un lato c’è quindi
il taglio parodico ed eroicomico, che contrappone alla
grandezza del mondo antico la piccolezza e la meschi
nità del presente; ma dall’altro c’è anche l’idea che il
modesto materiale offerto dal presente possa essere
elaborato in una dimensione epica.
T.S. Eliot recensì con ammirazione il romanzo,
esal tandone il «metodo mitico», per cui, nel
procedere del racconto, alla scrittura realistica si
sovrappongono i pa ralleli con l’Odissea. Joyce, che
definì il romanzo come
«un’Odissea moderna», scrisse che Ulysses era
«l’epo pea di due razze (IsraeleIrlanda)». Aggiunse che
era anche una specie di epica del corpo umano: e fu a
causa dell’esplicita presentazione delle funzioni
«vergognose» del corpo, la defecazione, la minzione, le
mestruazioni (oltre a quelle sessuali, compreso un
anilingus immagi nato da Molly), che il libro venne
bloccato dalla censu ra, in Usa fino al 1933 e in Gran
Bretagna fino al 1937 (in Irlanda, ça va sans dire,
addirittura fino al 1966).
Da un lato Ulysses è un romanzo dagli accenti
tipi camente realistici, che, ad esempio, descrive con
accu rata precisione le strade e le case di Dublino (al
punto, disse Joyce, che se la città fosse stata
distrutta, sarebbe stato possibile, in base al libro,
ricostruirla esattamente com’era nel 1904). Dall’altro
è un romanzo che aspira ad essere una summa di
tutto l’universo attraverso un fitto intreccio di temi
sussidiari, di riferimenti letterari, di contenuti
simbolici che avvolgono il tema centrale del libro: la
ricerca del figlio da parte di Bloom (il cui unico
figlio era morto quando era bambino) congiunta
a quella del padre da parte di Stephen (che aveva
rifiu tato il suo).
Soprattutto, quasi a oscurare la scrittura realistica, in
Ulysses trionfa l’invenzione linguistica più
dirompente: i giochi di parole, le acrobazie verbali, gli
echi letterari, i prestiti da altre lingue, gli accostamenti
più impreve dibili percorrono come fuochi d’artificio le
pagine del romanzo. Il vertice dell’invenzione
linguistica, al tempo stesso innovazione tecnica e
soluzione narrativa rivolu zionaria, è dato dal ricorso
allo stream of consciousness, che, in particolare,
occupa l’ultimo capitolo del libro, fatto di otto
lunghissime frasi senza punteggiatura per un totale di
circa quaranta grandi pagine (nell’accurata edizione
Bodley Head). Il mescolarsi dei pensieri, dei ricordi, dei
desideri, delle immagini che affollano la mente di
Molly danno vita a quel flusso di coscienza (che a un
certo punto scivola nell’inconscio) che co stituisce uno
dei più rivoluzionari segni distintivi della scrittura
modernista.
L’invenzione linguistica appare come la quasi esclu
siva ragion d’essere di Finnegans Wake («La veglia
di Finnegan», 1939), a cui Joyce lavorò per quasi
vent’an ni, dal 1923 al 1938. Il romanzo non «racconta
una sto ria». Quindi, se accettiamo il motto di Forster,
romanzo non è. Il tutto si svolge come all’interno del
sogno e dei pensieri del gestore di un pub fuori
Dublino, e del suo rapporto con la moglie e i figli, ma le
loro piccole vi cende vengono dilatate a raffigurare
l’intera avventura umana. La combinazione delle parole
inglesi con quelle di altre lingue, le allusioni tratte dalle
fonti più diverse, la deformazione dei vocaboli, le
bizzarrie verbali, han no una loro giustificazione nella
dimensione onirica e nella volontà che la singola
esperienza descritta assuma valore di universalità.
L’influenza di Freud è verosimil
mente cruciale; ma altrettanto importanti sono i riferi
menti filosofici a Vico e a Giordano Bruno, in un testo
di immensa dottrina e originalità.
Critici e scrittori si sono espressi in modo diversis
simo su quest’opera, da alcuni considerata come uno
dei maggiori capolavori del Novecento, da altri (D.H.
Lawrence, ad esempio) come un fallimento totale. È
tuttavia evidente che nel suo portare agli estremi la spe
rimentazione linguistica, la narrazione stessa finisce
con l’essere oscurata. Finnegans Wake è la
testimonianza let teraria più audace, pur nella sua
oscurità, dell’autore più geniale e del narratore più
stupefacente del Nove cento modernista.

Virginia Woolf (18821941), attivissima componente


del Bloomsbury Group e brillante protagonista del di
battito culturale nell’Inghilterra di inizio Novecento, fu,
con Joyce, la punta di diamante del romanzo modernista.
Dopo i due romanzi d’esordio, caratterizzati da un taglio
non molto lontano dalla scrittura tradizionale, con Mrs
Dalloway (1925) Woolf riuscì a scoprire la forma narra
tiva che poteva corrispondere a ciò che Lytton Strachey
definiva il punto di vista moderno e a superare positi
vamente le forme del realismo dei vari Bennet, Wells e
Galsworthy (che Virginia Woolf aveva condannato senza
appello). Il mondo interiore di Clarissa Dalloway è tra
sferito nel romanzo attraverso il discorso indiretto libero,
che, oltre a proporre i pensieri e le riflessioni della pro
tagonista, moltiplica il numero dei punti di vista attra
verso i quali procede la storia. Mrs Dalloway e il marito
Richard, deputato Tory, appartengono alla upper class
e sono decisamente conservatori, al contrario dei coniugi
Woolf, progressisti e vicini al movimento fabiano. Ma tra
Mrs Dalloway e Virginia Woolf c’è una vicinanza emo
tiva: il personaggio e l’autrice nel momento della stesu ra
del romanzo sono reduci da una seria malattia e con
qualche fatica cercano di ritrovare la normalità. Per Mrs
Dalloway un buon modo per riuscirci è organizzare un
party nella sua elegante casa londinese.
Mrs Dalloway, come Ulysses, rispetta l’unità di
tem po e di luogo, svolgendosi in un solo giorno e in
una sola città, questa volta Londra, con una puntuale
descrizio ne delle strade, delle piazze, delle case e dei
parchi della capitale inglese (anche se i tempi della
lunga camminata di Peter Walsh dalla casa di Clarissa a
Regent’s Park so no sbagliati). Nel corso della giornata
gli spostamenti, i momenti di riflessione, la
conversazione nel finale, sfio rano e si alternano con la
vicenda di Septimus, un gio vane che è stato
mentalmente distrutto dall’esperienza della guerra, in
preda a incubi e allucinazioni, che verso la fine del
libro si ucciderà. La cosa che colpisce è che Mrs
Dalloway, alla notizia della morte di Septimus, che non
aveva mai conosciuto (a riferire la notizia è il me dico,
ospite del suo party, che lo aveva visitato), si sente
molto più vicina a lui che non al marito, o a Peter
Walsh, il suo antico innamorato, o alla sua vecchia
amica di gioventù, Sally Seton (il cui bacio era stato la
cosa più deliziosa della sua vita).
Il ritratto psicologico che Woolf ci offre dei suoi
personaggi è guidato da una delicata sensibilità che
le consente di consegnare ai lettori il senso profondo
del loro sentire. Non solo di Mrs Dalloway, non solo
di Septimus e della sua mente sconvolta, ma anche di
Peter Walsh, con i suoi slanci sentimentali e i suoi con
traddittori entusiasmi patriottici misti al disincanto per
l’impresa coloniale; e anche di Richard Dalloway, che a
un certo punto si scopre determinato a dire alla moglie
«in chiare parole» che l’ama. Non glielo dirà.
Mrs Dalloway dichiara l’impossibilità del
romanzo realistico, perché la realtà non è oggettiva,
ma è quella che soggettivamente viene percepita dai
personaggi: il romanziere, mettendosi da parte, coglie
i momenti di rivelazione che la illuminano, i
meccanismi associativi della mente che vagano nello
spazio e nel tempo e che accompagnano il procedere
del racconto. Tale scelta nar rativa non è solo di natura
tecnica, ma risponde all’inten to di valorizzare
l’esperienza interiore, come, in misura ancora più
marcata, avviene in To the Lighthouse («Gita al
faro», 1927). L’esperienza narrata nella prima parte
del romanzo è quella di Mrs Ramsay (intrecciata a
quella dei suoi famigliari, in un’atmosfera ancora
vittoriana); nella seconda parte è quella della pittrice
Lilly Briscoe (e del suo travaglio creativo, che trova
finalmente una sua felice conclusione). Tra le due
parti, che coprono ciascuna lo spazio di poche ore, è
collocato un breve in termezzo, che copre invece i dieci
anni che le separano. I grandi avvenimenti (quei dieci
anni comprendo no la prima guerra mondiale, la
morte di Mrs Ramsay e quella al fronte del figlio
maggiore) non hanno un ruolo decisivo. Contano di
più le improvvise illumina zioni e i momenti di
visione che Woolf spesso affida al monologo interiore,
in uno scorrere di sensazioni e di associazioni mentali
proposte attraverso una narrazione che, rispetto alla
radicalità dello stream of consciousness di Joyce,
mantiene un accurato ordine di esposizione e che
spesso si caratterizza per un suo soffuso lirismo. Più
vicino allo stream joyciano sarà il successivo The
Waves («Le onde», 1931), in cui, più che raccontare
una storia, il narratore si preoccupa di trasferire sulla
pagina il fluire delle voci, delle sensazioni, dei pensieri
dei per sonaggi: di evocare le «isole di luce» che
spiccano nella
corrente della vita.
Oltre a Orlando (1928), una biografia fantastica
dell’amica Victoria SackvilleWest raccontata attraver
so un personaggio uomo e donna la cui vita si sviluppa
lungo quattro secoli di storia, di Virginia Woolf biso
gna ancora ricordare Between the Acts («Tra un atto
e l’altro», 1941), pubblicato poco dopo la morte della
scrittrice. Di nuovo, il tutto si svolge in un solo giorno,
nella casa di campagna degli Oliver. Ma è l’estate del
1939, poco prima dello scoppio della guerra, e le allu
sioni sparse nel romanzo registrano il fatidico intervallo
tra guerra e pace. La zitella Miss La Trobe (in cui
Woolf ironicamente ritrae se stessa) ha scritto il testo di
un tradizionale spettacolo in costume che in tre atti
illustra, ma anche qui ironicamente, tre momenti della
storia d’Inghilterra. Tra un atto e l’altro emergono i
piccoli problemi e le tensioni dei componenti della
famiglia, in particolare di Ida, la moglie insoddisfatta e
«poetica» dell’inquieto e noioso Giles Oliver. Una sorta
di Mada me Bovary. Ma alla fine della giornata,
essendo inglese, Ida andrà a letto con il marito.
Colpisce il taglio ironico del romanzo, alla luce di
quanto sarebbe successo alla fine della sua stesura.
Virginia Woolf, cedendo alla depressione che l’aveva
tormentata per tutta la vita, si suicidò annegandosi:
una morte meno «scientifica» di quella con la dose di
cianuro che il marito (Leonard Woolf era ebreo) aveva
predisposto in caso di invasione dell’Inghilterra da par
te della Germania nazista.
L’opera di Virginia Woolf si colloca ai vertici della
narrativa modernista; ma il posto di primo piano che
occupa nel canone della letteratura inglese del Nove
cento è soprattutto dovuto alla sua fondante riflessione
sull’universo femminile e sulla scrittura al femminile.
Negli anni in cui Joyce, a Parigi, lavorava alla
stesura di Finnegans Wake, tra i suoi ammiratori si
distingueva un giovane irlandese, come lui di Dublino,
ma prote stante, e come lui in volontario esilio per
sfuggire al soffocante provincialismo della loro
(rinnegata) madre patria. Si chiamava Samuel Beckett
(19061989), si era laureato al Trinity College, dove
aveva studiato francese e italiano, e si era stabilito a
Parigi dopo avere rinun ciato alla carriera universitaria
al Trinity: vuoi perché agli studenti (come scrisse più
tardi in una lettera) «non poteva fregargliene di meno»
della letteratura, vuoi per ché gli studi accademici gli
sembravano vacui (al Trinity aveva tenuto una dotta
conferenza su un poeta e un movimento letterario del
tutto inesistenti), vuoi, soprat tutto, perché aveva deciso
di fare lo scrittore.
La sua ammirazione per Joyce era sconfinata; così
come grandissima era l’influenza che Joyce esercitava
sulla sua scrittura. Dopo una raccolta di racconti in
titolata More Pricks than Kicks («Più pene che pane»,
1934), che può essere considerata come una sotterranea
e rispettosa parodia di Dubliners, Beckett, con qualche
difficoltà, riuscì a fare pubblicare Murphy (1938), un
romanzo di deliziosa intelligenza che prende a prestito
le tecniche e le forme della scrittura realistica per farne
una beffarda parodia. L’idea era quella di rivelarne in
questo modo l’improponibilità; ma un aspetto di non
minore interesse del romanzo – cha narra la storia di un
giovane il cui scopo nella vita è riuscire «a non fare as
solutamente niente», ma che per amore della prostituta
con cui è andato a convivere accetta di lavorare e va a
fare l’infermiere in un manicomio – è l’atteggiamento
di Beckett nei confronti della malattia mentale, con
un’an ticipazione di ciò che trent’anni dopo avrebbe
dichiara to l’antipsichiatria.
Dopo la guerra Beckett, che aveva collaborato
con la Resistenza sfuggendo per poco all’arresto da
parte della Gestapo, decise di adottare come lingua
letteraria il francese, sottraendosi così al virtuosismo
linguistico (e all’influenza joyciana) che aveva
caratterizzato i suoi lavori. A partire dal francese
Beckett elaborò uno stile nitido, astratto, estraneo a
ogni tentazione retorica. E nella lingua adottata, tra il
1947 e il 1950, scrisse la trilo gia romanzesca che
costituisce uno dei momenti più alti della ricerca
letteraria del Novecento. Dei tre romanzi, quello
centrale, Malone meurt, è uno dei capolavori as soluti
del secolo scorso. Beckett lo tradusse lui stesso in
inglese, con il titolo di Malone Dies, così come
tradusse gli altri due romanzi e i racconti scritti in
francese. E tuttavia sempre di traduzione si tratta, per
cui sarebbe una forzatura considerare questa sua
opera romanzesca come appartenente al corpus del
romanzo inglese.
Anche se la ricerca letteraria di Beckett si muove
in un ambito del tutto autonomo, non è invece una
forza tura considerarla come il frutto di un’adesione
(trami te Joyce) non tanto alla teoria quanto alla
pratica della scrittura modernista. In un certo senso
la trilogia ne è il frutto tardivo, ma non per questo
meno prezioso.

La stessa considerazione vale per Under the


Volca- no («Sotto il vulcano», 1947) di Malcom
Lowry (1909 1957), che buttò alle ortiche la sua
appartenenza al la buona borghesia britannica per
condurre una vita avventurosa e vagabonda, per lunga
parte trascorsa in Canada, dove scrisse (e faticosamente
riscrisse) il suo capolavoro. Under the Volcano
racconta la storia di Geoffrey Firmin, alcolizzato,
console britannico nella città messicana di Cuernavaca,
che viene ucciso da un gruppo di poliziotti razzisti
(«ebreo di merda» è l’in
sulto ricorrente) e fascisti. Tutto il racconto, a parte il
primo dei dodici capitoli, che ha luogo il giorno dei
morti del 1939, si svolge esattamente un anno prima,
il 2 novembre 1938: una vita e un mondo in un solo
giorno, come in Ulysses. E quasi nello stesso
numero di ore: dalle sette del mattino alle sette di
sera.
Tre grandi icone sottendono il romanzo: la danna
zione faustiana, la Commedia di Dante (il cui attacco
compare nel capitolo VIII) e la cacciata dal Paradiso
terrestre, come dichiarò l’autore stesso. La scrittura di
Lowry riprende molti aspetti propri del Modernismo, la
molteplicità dei punti di vista, il monologo interiore, il
flusso di coscienza. Ma, come osservò Stephen
Spender, con una differenza basilare. Mentre Eliot e
Joyce mira vano a un’espressione letteraria «oggettiva»,
Lowry uti lizza stilemi e pilastri simbolici e mitici
secondo la loro lezione per giungere invece a una
scrittura soggettiva, personale, autobiografica (senza
contare che altri punti di riferimento sono Conrad, per
quanto riguarda certe modalità di narrazione, e
Melville, per quanto riguarda il tono di grandiosità che
al romanzo Lowry vuole at tribuire).
L’ultimo giorno della vita del console si svolge
po co dopo l’occupazione dell’Austria da parte di
Hitler e mentre le truppe di Franco si apprestano a
conquistare la Catalogna (il fratellastro del console
sta per imbar carsi su una nave che deve portare armi
e munizioni alle forze repubblicane): la fine del
protagonista è una possente allegoria storica del suo
tempo, di quegli anni Trenta in cui maturarono le
premesse dei disastri della seconda guerra mondiale.
Under the Volcano non è un romanzo «politico»;
semmai è un romanzo modernista, fitto di rimandi eru
diti, di riferimenti alla tradizione e al mito e,
soprattutto,
di soluzioni narrative che seguono la lezione di autori
come Joyce e Woolf. È un romanzo che si risolve nel
suo protagonista, nella sua solitudine, nella sua
autodistru zione alcolica, nella sua incapacità di amare.
Eppure, al tempo stesso, è una delle raffigurazioni più
suggestive e puntuali di quel periodo fatidico del
Novecento, con i suoi entusiasmi, la sua
sottovalutazione della minaccia nazista, la sua ebbra
incoscienza («se il mondo restasse sobrio per due giorni
di fila», dice il console, «il terzo giorno morirebbe di
rimorso»), la sua corsa cieca verso l’abisso.
IX
Al di fuori del Modernismo

David Herbert Lawrence (18851930) era il figlio di


una (quasi) maestra e di un minatore; e fu anche la
sua estra zione sociale, oltre all’originalità dei suoi
primi scritti, a indurre Ford Madox Ford a fargli
pubblicare il suo pri mo romanzo, The White
Peacock («Il pavone bianco», 1911). L’aspetto
sociale, tuttavia, assunse rilievo solo a partire da
Sons and Lovers («Figli e amanti», 1913), dove la
vita del proletariato, con le sue miserie e le sue
soffe renze, balza in primo piano. Il romanzo non è
però sol tanto un’opera di solido realismo, ma è
anche un lavoro modernissimo nell’indagine del
rapporto tra coniugi e tra genitori e figli. In
particolare di quello edipico tra madre e figlio: tutti i
figli maschi amano la madre e odia no il padre,
scrisse Lawrence, elevando a caratteristica generale
il suo caso specifico. Il romanzo è chiaramen te
autobiografico, con il protagonista Paul Morel che
cerca di liberarsi dal soffocante legame con la madre
attraverso il rapporto con la riservata e timida
Miriam e con la molto più disinvolta e carnale Clara.
Alla fine del romanzo, alla morte della madre, Paul è
un uomo distrutto (come lo fu Lawrence alla morte
12
di sua madre, che descrisse come la più grande
tragedia della sua vita).

12
Tuttavia le ultime righe del libro registrano un’improv
visa impennata della volontà, la determinazione a non
arrendersi e a vivere la propria vita – come d’altronde,
seppur non così improvvisamente, accadde a Lawrence.
In Sons and Lovers sono già presenti i temi cruciali
dell’opera di Lawrence: le tensioni nei rapporti socia li e
nei rapporti sessuali, il conflitto tra convenzioni e
passione, il contrasto tra natura e civiltà industriale.
Quest’ultimo aspetto è fondamentale in The Rainbow
(«L’arcobaleno», 1915), il romanzo letterariamente più
raffinato di Lawrence, che, raccontando la saga di tre
generazioni della famiglia Brangwen, da metà Ottocen
to ai primi anni del Novecento, denuncia la distruzione
della civiltà contadina «naturale» operata dall’avanzare
della civiltà industriale. (Le tracce lasciate sul territorio
dagli insediamenti industriali erano ai suoi occhi le ci
catrici che avevano deturpato il volto dell’Inghilterra.)
In Lawrence c’è un’idealizzazione della vita vera ormai
scomparsa dal suolo inglese, di uomini «veri» in una
natura «vera»; ma ad essa si accompagna un ritratto di
grande interesse sociologico delle trasformazioni sociali
dell’Inghilterra del secondo Ottocento, disegnato con
avvincente forza e grazia narrativa. Subito dopo la sua
pubblicazione, The Rainbow subì un processo per
osce nità e nei successivi undici anni ne fu vietata la
vendita. Il romanzo fa tutt’uno con il successivo
Women in Love («Donne innamorate», 1921), in cui
viene ribadita e rafforzata l’idea che il recupero
dell’integrità vitale perduta possa passare attraverso
l’eros, attraverso un’e sperienza sessuale che Lawrence
(nonostante le accuse di oscenità che anche a questo
romanzo furono rivolte) vede come qualcosa di sacrale,
di strettamente legato a un rispetto quasi religioso del
corpo e della sua forza
vitale.
Women in Love per architettura e stile narrativo si
stacca fortemente dalla produzione precedente. Il lin
guaggio accentua quella sotterranea sensualità che già
appariva sin dai primi lavori e le valenze simboliche
vengono a occupare un ruolo centrale rispetto alle espe
rienze narrate; soprattutto, non sono tanto le vicende
dei personaggi a dettare lo sviluppo della narrazione,
quanto i singoli episodi, i singoli momenti di scoperta
di una verità profonda attraverso il trasporto dell’istinto
e dell’emozione. È anche vero, tuttavia, che in certe pa
gine la speculazione, la riflessione «filosofica» dei per
sonaggi, un po’ appesantisce lo scorrere del racconto.
Nel romanzo è facile scorgere un duro attacco all’in
tellettualità inglese (Bloomsbury Group incluso), che
agli occhi di Lawrence appariva malata di estetismo e
incapace di affrontare la tragicità del presente: il dopo
guerra, dopo i disastri e lo sconvolgimento causati dalla
guerra, è un tempo apocalittico, che testimonia la de
cadenza dell’anima inglese e, più in generale, il declino
dell’Occidente.
Il romanzo a cui Lawrence affida la sua ultima sfida
alla sterilità del mondo borghese è Lady Chatterley’s
Lo- ver («L’amante di Lady Chatterley»), pubblicato in
Italia nel 1928 e bloccato dalla censura inglese e
americana per oltre trent’anni. Il marito di Lady
Chatterley, relegato su una sedia a rotelle a causa delle
ferite riportate in guer ra, è paralizzato e impotente
(anche Lawrence in quegli ultimi anni era diventato
impotente). L’amante è Mel lors, il guardiacaccia, figlio
di un minatore, «naturale» per estrazione sociale e per
mestiere, non contaminato dalla civiltà industriale. Il suo
intervento è fisico, vitale, dettato dall’eros. Alla sessualità
è affidata la possibilità del riscatto, della realizzazione di
sé, e alle parole dirette (esplicite e popolaresche) con cui
essa si esprime è affida
ta la tenerezza della fisicità dell’amore. Il finale è aperto,
tra realistico pessimismo e speranza. La speranza sembra
però riguardare soltanto quei pochi capaci di liberarsi dai
vincoli soffocanti di una classe dominante non solo re
pressiva e prevaricatrice, ma anche incapace di affrontare
e superare il cataclisma prodotto dalla guerra.
Come si diceva più sopra, alcune delle caratteri
stiche della scrittura di Lawrence rappresentano una
rottura indubbia rispetto ai modi tradizionali della nar
razione; mentre fortemente innovativa è la profondità
dell’analisi psicologica che arricchisce i suoi
personaggi (già prima di conoscere l’opera di Freud,
Lawrence in dagò la dimensione dell’inconscio, a cui
dedicò due sag gi all’inizio degli anni Venti). È quindi
certamente vero che Lawrence fu uno scrittore
modernissimo; ma è assai meno vero che possa essere
annoverato tra gli scrittori modernisti – che infatti, a
parte i buoni rapporti degli inizi, egli non amò. E da cui
non fu amato.

Se non c’è dubbio, infatti, che il Modernismo fu il


fenomeno letterario che qualificò il primo Novecento, è
anche vero che nell’ambito della narrativa molti furono
gli scrittori di indiscutibile valore che si mossero in una
direzione ad esso del tutto estranea. Il primo, in ordine di
tempo, è William Somerset Maugham (18741965), l’au
tore del naturalistico Liza of Lambeth – di cui già si è
det to – e di Of Human Bondage («Schiavo d’amore»,
1915), un Bildungsroman alla David Copperfield,
romanzo che Maugham apprezzava moltissimo. Ma, a
differenza di David, il suo protagonista non trova una
realizzazione artistica (farà il medico) e la sua esperienza
formativa (e distruttiva) passa non attraverso l’amore
bensì attraverso il sesso: il suo «riscatto» giungerà
soltanto quando riusci rà a liberarsi della donna frivola e
volgare che per anni
lo ha sfruttato, disprezzato, umiliato e tradito. Maugham
fu soprattutto autore di splendidi racconti, che quindi
non possono qui avere spazio, ma di cui è doveroso dire
che ancor più dei romanzi rivelano le virtù di Maugham
come limpidissimo prosatore e come acuto ritrattista del
mondo inglese, in particolare di quella sua parte impe
gnata nell’impresa coloniale. La sua scrittura, splendida
per correttezza linguistica e purezza stilistica, si accom
pagnava a un’attenta, penetrante, a volte cinica osser
vazione della realtà: sapeva, o comunque era convinto
di sapere, come sono fatti gli uomini, cosa desiderano
e cosa temono, cosa guida le loro scelte e quali sono le
circostanze sociali che ne governano i rapporti reciproci.
Questo atteggiamento di scrittore «realista», che sta
alla base di tutta la sua opera narrativa, si ritrova anche
nel suo delizioso libro di spionaggio Ashenden. Or
the British Agent (1928), tradotto in italiano con il
titolo Ashenden. L’agente inglese, e che potremmo
definire un romanzo «a episodi», legati tra loro dalla
figura del protagonista. Maugham agente dei servizi
segreti lo era stato davvero, essendo stato reclutato
durante la prima guerra mondiale e avendo operato
come agente segreto
– piuttosto sui generis – prima in Svizzera e poi in
Russia nei mesi precedenti la Rivoluzione d’ottobre.
A differenza dei primi scrittori di romanzi di spio
naggio, quindi, Maugham conosceva bene gli
argomen ti di cui parlava. Anche nel racconto delle
missioni asse gnate ad Ashenden ci sono segreti,
telegrammi in codice e morti ammazzati, ma
Ashenden non ha nulla di eroico o di misterioso. Né
sono particolarmente misteriose le sue imprese.
Soprattutto, non è dotata di particolare fascino la
macchina spionistica di cui è entrato a fare parte.
Leggendo il libro, qualche dubbio sull’intelligen za
dei responsabili dei servizi segreti è impossibile non
averlo; e ancor più su certi loro collaboratori. In
quanto agli agenti segreti (al di là del fatto che rischi
ne corrono davvero), nessuna aura li circonda: fanno
il loro lavo ro, più o meno sporco, più o meno
delittuoso, a volte inutile, mai riconosciuto.
Ashenden è il primo agente segreto che possiamo
definire un antieroe; e Maugham è il primo scrittore
a ritrarre il mondo dello spionaggio in modo
realistico. È senza dubbio questo il libro da cui nasce
il moderno romanzo di spionaggio, antiretorico,
scettico, consapevole del cinismo del potere.

Evelyn Waugh è stato uno dei più eleganti scrittori


inglesi del Novecento, dotato di un’accuratezza e di una
fluidità di scrittura quasi senza pari. Ne era consape
vole, e riteneva che al suo livello ci fosse quasi soltanto
Graham Greene, a cui lo legava il fatto di essere come
lui un convertito al cattolicesimo. D’altronde, cambiare
ciò che con la nascita aveva avuto fu un aspetto non
secondario della sua personalità. Cambiò religione e
cambiò nome. Era stato battezzato Arthur St John, ma
decise di farsi chiamare Evelyn, un nome di donna (che
tuttavia in qualche caso è usato anche per i maschi).
Waugh aveva un atteggiamento di totalizzante no
stalgia per la «vecchia Inghilterra» e di disprezzo per
l’Inghilterra contemporanea, colpevole di
dimenticare il rispetto dovuto ai superiori, di porre il
denaro al di sopra di ogni altro valore, di tollerare
distrattamente le licenziosità più manifeste. La sua
rabbia nei confronti della banalità del presente e del
trionfo del denaro gli dettò le pagine di A Handful
of Dust («Una manciata di polvere», 1934), un
delizioso romanzo che ripercorre le vicende di Tony
Last, un gentleman perduto nelle sue fantasticherie
di un mondo scomparso (e forse mai esistito),
incapace di muoversi nella realtà moderna: il
taglio è ironico e grottesco – e feroci sono i toni usati
per il personaggio della moglie del protagonista.
Waugh si era sposato nel 1928 con l’aristocratica
Evelyn Gardner, ma dopo un paio d’anni, e i nume
rosi tradimenti di lei, i due avevano divorziato. Il fal
limentare matrimonio spiega quel forte
atteggiamento misogino che spesso compare nei suoi
romanzi e che a più riprese emerge in The Loved
One («Il caro estinto», 1948), romanzo che
costituisce un atto di accusa al ve triolo contro il
consumismo della società americana. Un romanzo
dai toni grotteschi, sprezzante nei confronti degli
yankees, ma con la capacità di partire da un settore
ristretto e non rappresentativo del mondo americano
(una ditta di pompe funebri) per indicare le
debolezze di un intero sistema di vita.
Nel 1939, alla notizia del patto HitlerStalin, Waugh si
era prontamente arruolato: era chiarissimo, scrisse, quan
to mostruoso fosse il nemico, adesso che i due anticristo
si erano alleati. La sua vita di ufficiale (a causa del suo
ec cessivo rigore) fu fatta di continui cambiamenti: di
com pagnie, di compiti e di luoghi. Nel 1943 era a Creta,
dove assistette alla ritirata «ingloriosa» dell’esercito
britanni co. Tornato in Inghilterra, si mise a scrivere il
romanzo in cui aveva deciso di ripercorrere le
trasformazioni so ciali dell’Inghilterra tra le due guerre,
Brideshead Revisi- ted («Ritorno a Brideshead»,
1945). Il libro racconta la storia sentimentale di un
giovane medioborghese (che, socialmente, è Waugh) nei
suoi rapporti con i membri di un’antica e aristocratica
famiglia cattolica, proprietaria della sontuosa magione di
Brideshead. Tutto viene tra volto, dal tempo e dalla
guerra: ma l’immagine finale, quella di una fiammella
che continua ad ardere «tra le antiche pietre» della
cappella, sta ad indicare che sol tanto negli antichi valori
risiede la possibilità di salvezza.
Tali valori, pensava Waugh, sono quelli di cui l’e-
stablishment si riempie la bocca guardandosi bene dal
praticarli: ciò che rimane è solo spocchia, presunzione
e imbecille senso di superiorità. Per averne conferma
basta leggere la trilogia Sword of Honour («Spada e
onore», 195261), che con molti tocchi autobiografici
ripercorre gli anni della guerra e che rivela una straor
dinaria capacità di cogliere aspetti di comicità persino
all’interno della tragedia. È una satira sferzante, di go
dibilissima lettura, dell’alta borghesia inglese vista con
occhi ultraconservatori. Ma forse è proprio per questo
che la satira di Waugh riesce così bene nel suo intento.

Sul versante ideologico opposto a quello di Waugh


si colloca la figura di Christopher Isherwood (1904-
1986). Marcatamente autobiografica è la sua
produzione ro manzesca, sia nei romanzi ambientati
nella Germania dei primi anni Trenta, sia in quelli
scritti nel dopoguerra in America, dove si era esiliato
nel 1939. L’esperienza giovanile, negli anni vissuti a
Berlino dal 1929 al 1933, coincise con il periodo
dell’affermazione del partito nazista e della salita al
potere di Hitler. La Berlino do ve l’omosessuale
Isherwood era andato a vivere era un luogo di
tolleranza rispetto all’Inghilterra omofoba, ma era
tuttavia lo stesso luogo dove di lì a poco l’intolle ranza
più feroce avrebbe visto il suo trionfo. Dal suo
osservatorio privato Isherwood registrava il procedere
verso la catastrofe: l’esperienza autobiografica che con
fluisce nei cosiddetti romanzi berlinesi fa tutt’uno con
la Storia. È questa combinazione che sta alla base della
forza e del fascino narrativo di Mr Norris Changes
Train («Mr Norris se ne va», 1935) e dei sei pezzi di
roman zo raccolti in volume con il titolo di Goodbye
to Berlin («Addio a Berlino», 1939).
«Sono una macchina fotografica», dice il narratore
delle storie berlinesi, «del tutto passiva, che registra,
e che non pensa». La scrittura di Isherwood ha il di
stacco, l’oggettività, il nitore dell’immagine fotografica.
E da grande fotografo, della tragedia che si avvicina
Isherwood sceglie di comunicarci i particolari illumi
nanti: i personaggi, le situazioni quotidiane, le vicende
che stanno ai margini della Storia, ma che concorrono
a costruire il quadro di una società lanciata verso il to
talitarismo.
Il narratore è un altrettanto attento registratore di
parole. Il racconto, appena possibile, è lasciato alla
voce dei personaggi, al loro vivace scambio di
battute, alle loro disinibite confidenze, alla loro
ricostruzione degli eventi. Isherwood mette da parte
il narratore per da re loro la parola; e quindi anche la
responsabilità della
«morale» della storia raccontata, come faceva Conrad
con il suo «personaggio narratore».
Dei romanzi del dopoguerra i più belli sono Prater
Violet («La violetta del Prater»), pubblicato nel 1945
ma anch’esso ambientato nel fatidico 1933 (a Londra
però, dove un regista ebreo viennese deve dirigere una
sorta di operetta cinematografica e profetizza i disa stri
del nazismo), e A Single Man («Un uomo solo»),
pubblicato nel 1964 e ambientato nel 1962. In questo
romanzo non c’è uno sfondo tragico dietro i personag
gi che Isherwood «fotografa» con il distacco praticato
nelle storie berlinesi. E tuttavia, per rapidi cenni, per
osservazioni casuali, c’è il ritratto del mondo che verrà
(Kennedy sarà ucciso da lì a poco e sta per scatenarsi la
guerra in Vietnam). Anche in questo romanzo, dietro le
nitide immagini che fissano sulla pagina gli
smarrimenti e la intermittente assertività di un uomo
solo, appare epifanicamente sullo sfondo il profilo di
un’epoca.
In quei cruciali anni Trenta George Orwell (1903
1950) non solo si schierò, come molti intellettuali
ingle si, a favore delle forze repubblicane spagnole, ma
andò in Spagna a combattere. Da quell’esperienza,
interrotta dalla fucilata alla gola di un cecchino, nacque
Homage to Catalonia («Omaggio alla Catalogna»,
1938), il più bel libro sulla guerra civile spagnola
pubblicato in In ghilterra. Nel corso di quel decennio
diede anche alle stampe due penetranti romanzi, Keep
the Aspidistra Flying («Fiorirà l’aspidistra», 1936) e
Coming Up For Air («Una boccata d’aria», 1939),
che registravano la condizione di impotenza della
piccola e anche media borghesia inglese di fronte allo
strapotere del denaro; e Burmese Days («Giorni in
Birmania», 1934), un roman zo suggerito dai cinque
anni trascorsi in Birmania come ufficiale della polizia
imperiale britannica a difesa de gli interessi
dell’impero (che non gli sembravano mol to
difendibili). Questi suoi libri, che sono ormai quasi
dimenticati, offrono invece un’occasione di lettura per
molti versi illuminante. Come anche The Road to
Wigan Pier («La strada di Wigan Pier», 1937), il libro
inchiesta sui minatori dell’Inghilterra del Nord che
costituisce uno degli esempi più alti di reportage
giornalistico, un testo che trova posto di diritto nella
grande letteratura. La fama e la reputazione di Orwell
sono soprattutto legate alla favola distopica Animal
Farm («La fattoria degli animali»), scritta dopo il
1943, rifiutata da molti editori perché l’Urss era
ancora un alleato prezioso e pubblicata nell’agosto
del 1945, a guerra finita e poco prima dell’inizio della
guerra fredda (un’espressione co niata proprio da
Orwell). Aldous Huxley aveva definito una «favola» il
suo Brave New World («Il mondo nuo vo», 1932),
uno dei romanzi più intriganti del genere anti-
utopistico. In realtà quello di Huxley è un testo so
fisticato, che non ha l’immediatezza di lettura della nar
razione favolistica, mentre Animal Farm è davvero
una fiaba, con il taglio del racconto per bambini. La
vicenda è una satira dello stalinismo ineccepibile nella
sostanza e magistralmente ironica nella forma (il
riferimento di Orwell era Swift, di cui, almeno in parte,
condivideva i furori nei confronti delle imbecillità e
delle «porcate» di cui è capace il genere umano). Come
tutti sanno, nel la fattoria gli animali si ribellano,
cacciano il padrone e stabiliscono uno Stato (dal
«socialismo in un paese solo» al socialismo in una sola
fattoria) in cui tutti sono uguali. Poi però ne prendono il
controllo i maiali, bravissimi sul piano organizzativo,
fino a portare, essendo dei porci, alla dittatura e al
dominio assoluto del loro capo. Con la caduta dei
regimi dell’Europa orientale Animal Farm ha perduto
parte del suo impatto ideologico, ma è rimasta intatta la
forza della sua frase simbolo: «Tutti gli animali sono
uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri».
Non è invece diminuito, ma di recente è addirittura
aumentato, almeno a giudicare dalla vendite, l’impatto
dell’altra distopia di Orwell, 1984, pubblicata nel 1950,
scritta febbrilmente prima della sua morte (un quasi
suicidio, causato dal suo accanimento di fumatore e
dal rifiuto di sottoporsi alle cure per la tubercolosi).
Per alcuni versi il romanzo, come Brave New World,
risponde al timore di un progresso tecnologico nemico
anziché amico dell’uomo; ma in 1984 è centrale la
visio ne politica di un Occidente dominato dal
totalitarismo. Quando Orwell, durante la guerra, aveva
incominciato a pensare al romanzo, forti erano i timori
di una vittoria del nazismo; quando lo scrisse,
nell’Europa orientale e in Urss dominava lo stalinismo.
La sua «profezia» non si è avverata. Ma molti timori, in
particolare quelli riguar danti la capacità di
manipolazione dei media, sono sini
stramente attuali; come pure la preoccupata
attenzione alle caratteristiche del linguaggio politico,
concepito
«per fare apparire menzogna la verità». E,
soprattutto, il libro resta come monito di un uomo
libero a difesa di una libertà costantemente
minacciata dalle astuzie e dalle prepotenze dei
detentori del potere.

Quei fatidici anni Trenta furono anche il periodo


in cui si sviluppò enormemente la produzione (e il
succes so) della detective story, la cui regina fu
Agatha Christie (18901976), autrice di decine di gialli
di cui almeno uno, Murder on the Orient Express
(«Assassinio sull’O rient Express», 1934), è un
gioiellino anche da un pun to di vista narrativo;
senza dimenticare il giallo teatrale The Mousetrap
(«Trappola per topi»), che a Londra va in scena
ininterrottamente dal 1952, avendo già supe rato le
26.000 repliche. Il meccanismo del giallo entrò
indirettamente nelle opere degli autori più diversi, da
Priestley a T.S. Eliot; e direttamente nelle case di
milioni di lettori, invitati a fantasticare su delitti e
misteri che oltre tutto aiutavano, forse, a dimenticare
le preoccupa zioni del presente.
Una simile funzione anestetizzante, ma non attraverso
il mistero, bensì attraverso la maggiore virtù inglese, lo
humour, fu svolta dai romanzi di P.G. Wodehouse (1881
1975), che trasformò il mondo del cinico esercizio del
potere e dello sfruttamento delle colonie da parte della
Gran Bretagna in un mondo idilliaco, popolato da per
sonaggi che corrispondevano all’immagine che gli
inglesi volevano dare di sé al mondo – e prima ancora a
se stessi. Quello descritto da Wodehouse era un mondo
governato da una classe dominante di comica
inefficienza (meno male che c’è il maggiordomo Jeeves
a provvedere), che veniva descritto con un linguaggio il
cui fascino ipnotico
discendeva da un umorismo lieve, quasi infantile, e la cui
britannicità era portata al quadrato dall’elevazione dei
modi di dire più scontati a improbabili perle di saggezza.
La realtà del mondo inglese non era mai stata così
clamo rosamente trasformata e travisata dai tempi della
leggen da di Robin Hood: il maggiordomo Jeeves sta a
Robin come la placida routine dei ricchi borghesi
nullafacenti sta alla lotta per il trono – e per la
sopravvivenza – di no bili e popolani dell’Inghilterra
medievale. In entrambi i casi il divertimento del lettore
era garantito; e per quanto riguarda Jeeves è garantito
tuttora.

All’opposto di questo mondo di fantasia c’era il


mondo descritto nelle pagine di Eric Ambler (1909
1998), un autore che si muoveva in un ambito vicino
a quello del giallo e che negli anni Trenta aveva ulte
riormente accresciuto la sua popolarità: il romanzo di
spionaggio. Una produzione vastissima, che però igno
rava la lezione di Maugham e che (anche nel caso dei
romanzi dell’autore più originale, John Buchan, il cui
Thirty-nine Steps è comunque un piccolo capolavoro)
continuava a proporre eroici cacciatori di spie prota
gonisti di avventurose vicende avvolte da un alone «ro
mantico». I protagonisti delle storie di Ambler sono
uomini senza particolari virtù: a volte, se professionisti,
quasi rassegnati a fare il loro «lavoro sporco» (cosa che
non li esalta affatto e che spesso li segna amaramente),
a volte animati da una «privata» volontà di sapere che
tuttavia non implica mai una dimensione eroica.
La conclusione della vicenda, per quanto positiva,
non si risolveva in un qualche clamoroso successo,
per il singolo e/o per la patria. Il protagonista, aiutato
dal caso, oppure da un qualche imprevisto in genere
riusciva a portare a termine il suo lavoro in modo, per
così dire,
anonimo; ed era già un successo che riuscisse a salvare
la pelle. Nei romanzi di Ambler degli anni Trenta il tema
ideale non è tanto quello del salvataggio della nazione
dalla minaccia nemica, quanto quello della lotta contro
gli agenti della reazione: mercanti di armi, emissari
dell’I talia fascista, artefici di tentati (o riusciti) colpi di
Stato.
Su questo punto la vicenda del capolavoro di Am
bler, The Mask of Dimitrios («La maschera di
Dimi trios», 1939), non lascia alcun dubbio. Il
protagonista è uno scrittore di thriller che si mette
alla ricerca del mi sterioso criminale Dimitrios. Le
sue delittuose imprese svelano una rete di complicità
tra delinquenti, golpisti e banchieri che delinea il
ritratto di un mondo: dell’Eu ropa malata in corsa
verso la guerra. Lo spionaggio è al centro dell’azione
narrativa, ma non è qualcosa di romantico. Come
spiega al protagonista una superspia ritiratasi a
lussuosa vita privata in Svizzera, lo spionag gio è
una necessità per tutti gli Stati europei, è una cosa
seria, un lavoro rischioso e per nulla fascinoso.
Come tale, per Ambler, deve essere rappresentato: sta
all’auto re renderlo sulla pagina con la dovuta
suspense.
Il pregio dei romanzi di Ambler, che anche nel
dopoguerra continuò a raccontare affascinanti storie
di spionaggio (per non parlare di Topkapi), sta nell’a
ver saputo raccontare in uno stile sobrio ed elegante
mente accurato storie di personaggi veri – veri anche
psicologicamente – che si muovono nel mondo reale
dovendo affrontare le trappole, gli inganni, i pericoli
della vicenda che li coinvolge: una vicenda spionisti ca,
naturalmente, ma collocata sul terreno di una ben poco
pirotecnica quotidianità. Questo già aveva fatto e
continuava a fare Graham Greene nei romanzi in cui
è presente la dimensione spionistica. Ma dell’opera di
Greene si parlerà più avanti.
X
Il romanzo del secondo Novecento

Alla fine della guerra i laburisti vinsero le elezioni e


attuarono una rivoluzionaria politica di riforme, in
materia di sanità pubblica, di istruzione superiore, di
assistenza sociale. Uno degli effetti più eclatanti fu che
una generazione di giovani che mai avrebbero potuto
accedere agli studi universitari ne ebbe invece la pos
sibilità: vuoi nelle antiche e gloriose università, vuoi,
soprattutto, in quelle nuove.
Questa nuova realtà, con le sue contraddizioni, e
lo spostamento dell’attenzione sulle province, lontano
dalla centralità politica, letteraria e mondana della ca
pitale, fa da sfondo agli autori che si affermarono negli
anni Cinquanta; e che scelsero come ambiente della lo
ro narrativa quello proletario e piccoloborghese della
provincia, quello dei giovani dei ceti più modesti, incer
ti tra insoddisfazione e desiderio di ascesa, cogliendo
in essi e nei loro atteggiamenti la vera realtà del dopo
guerra. Non ne uscì nessun capolavoro assoluto, ma ne
emerse una produzione che nel suo insieme, con l’aiuto
dei grandi registi del Free Cinema inglese che spesso
ad essi attinsero, portò una ventata di aria nuova nella
cultura britannica.
Quei romanzi, con i loro giovani protagonisti
ribelli, ma alla fine domati, presentano ormai un
interesse più sociologico che letterario. Uno di essi,
tuttavia, continua ad essere letto con interesse. È
Saturday Night and Sun- day Morning («Sabato
sera, domenica mattina», 1958) di Alan Sillitoe (1928-
2010), di cui anche si continua a leggere il bellissimo
racconto lungo The Loneliness of the Long
Distance Runner («La solitudine del marato neta»,
1959). Il protagonista del romanzo è un giovane
operaio che lavora sodo e che vuole godersi la vita
(che per lui vuol dire birra e donne). Il lungo
monologo in teriore in cui consiste il romanzo traccia
la sua parabola, da grande amatore e da ribelle
anarchicamente ostile al potere in ogni sua forma, a
marito ravveduto e cittadino rassegnato.
L’antieroe per eccellenza del romanzo inglese del
dopoguerra è però Jim Dixon, il Lucky Jim (1954) di
Kingsley Amis (19221998), uno scrittore dotato di in
discutibile talento letterario e capace di un’ampia
varietà di registri (a lui fu commissionato il primo
James Bond
«postumo» in seguito alla morte di Ian Fleming), che
pe rò è ricordato fondamentalmente per questo suo
diver tente e tuttora godibilissimo gioiello narrativo.
Jim è un giovane ricercatore di un’università di
provincia (un ex manicomio trasformato in campus),
antropologicamen te incompatibile con i valori delle
classi alte e della cul tura alta (tant’è che Mozart gli
fa schifo e non legge mai un libro se non per lavoro).
È invece portatore dei valori delle classi meno
abbienti del mondo provinciale, cosa che lo porta a
svelare con comica immediatezza la vanità e la
falsità di molti «gloriosi» principi delle upper clas-
ses. Beve smodatamente (la descrizione del suo
risveglio dopo una sbronza è un piccolo capolavoro)
e, proprio a causa del troppo alcol ingurgitato, in
un’occasione ac
cademica spiega ai cattedratici cosa pensa di loro. È la
fine della sua carriera universitaria ed è l’inizio della
sua fortuna («lucky Jim»!). L’artefice della sua sbronza
gli offre un posto importante nella City: fine della
ribellione contro l’establishment. Adesso ne fa parte.
Lo spirito satirico del romanzo investe non solo la
pomposità del mondo accademico, ma un intero mo do
di essere della società inglese. Alla luce dei principi,
dei desideri e degli atteggiamenti dei ceti popolari Jim
passa al vaglio i «nobili» valori a cui gli si chiede di in
chinarsi. L’effetto è di una deliziosa comicità, realizzata
da un lato grazie al modo in cui Jim rivela che «il re è
nudo», dall’altro grazie a una vena irridente che, si
par- va licet, ricorda l’ironia beffarda di un Fielding.

Una scelta opposta a quella di Amis & Co fu


quel la di Graham Greene (19041990). Nei romanzi
degli anni Trenta Greene aveva offerto la «cronaca»
di una Gran Bretagna ancora grande potenza, con lo
sfondo di un contesto economico durissimo (la
Depressione) e di un contesto politico che con
l’avvento dei fascismi e del nazismo preparava la
catastrofe. Senza contare che a collaborare a tale
percorso di distruzione operavano grandi interessi,
tra cui l’industria degli armamenti, co me raccontò in
A Gun for Sale («Una pistola in vendi ta», 1936).
Nel dopoguerra Greene si fece «cronista» del
mon do, di un mondo caratterizzato dalla
contrapposizione tra le due superpotenze, Usa e
Urss, che dettava il con testo delle vicende dei suoi
romanzi: da quello dell’In docina francese (il futuro
Vietnam), a quello delle dit tature del Sudamerica, o
a quello del Sudafrica che con l’apartheid elevava il
razzismo a principio costituziona le con la tacita
connivenza dell’Occidente.
Greene da giovane aveva lavorato come giornalista;
nel dopoguerra lavorò come inviato speciale. Sapeva
dove andare per scoprire gli avvenimenti che cambiava
no il mondo; e sapeva usare le sue scoperte di reporter
come materia prima per l’invenzione romanzesca. Non
deve quindi sorprendere che la sua tecnica narrativa
utilizzi uno sguardo giornalistico nella descrizione dei
fatti. Così come attinge ai meccanismi del thriller per
costruire formidabili trame percorse da una forte su-
spense; così come attinge al linguaggio
cinematografico per trasferire sulla pagina la tecnica del
primo piano e della carrellata per descrivere la scena
come se il narra tore fosse dietro alla macchina da
presa.
Vi è in Greene la consapevolezza, che spesso lo ha
fatto paragonare a Bernanos, dell’ineluttabilità della
presenza di Dio nell’uomo. Sia che questi lo accolga
o lo ripudi. Basilare è per lui la convinzione dell’infi
nità della misericordia divina, che nessuno, neppure la
Chiesa, può conoscere. Essa – dice padre Rank alla fine
di The Heart of the Matter – conosce tutte le regole,
ma non ciò che avviene nel cuore dell’uomo. Solo Dio
può leggervi, e perdonare: ed è questo il mistero che per
Greene può salvarci dalla disperazione.
Perché l’uomo è peccatore: i suoi romanzi ci pre
sentano dei personaggi capaci soprattutto di peccare,
che spesso vivono nella lacerante consapevolezza della
colpa, ma che non possono fare a meno di errare, per
ché fragile e fallibile è la natura umana. Essi rivelano
una straordinaria efficacia proprio nella loro debolezza,
nel loro essere incerti, a volte ambigui, animati da senti
menti e passioni contrastanti. Sono spesso degli uomini
comuni, dimessi, incapaci di grandi slanci. Ma questi
uomini, così simili a noi nella loro ordinarietà, vengono
a trovarsi di fronte a scelte decisive, che non
consentono
scappatoie: anche se ambigui, anche se deboli e
incerti, essi finiscono con l’agire secondo quello che
riconosco no come un principio irrinunciabile, di cui
forse non hanno neppure coscienza; e in ultimo
sanno pagare con il proprio sacrificio il rispetto di
quello che ai loro occhi rappresenta ciò che resta
della loro dignità umana.
I suoi antieroi vanno a formare una galleria di per
sonaggi tra i più convincenti del romanzo inglese del
Novecento: dal whisky priest di The Power and the
Glory («Il potere e la gloria», 1940) al poliziotto di
The Heart of the Matter («Il nocciolo della
questione», 1948), dal giornalista inglese a Saigon di
The Quiet American («L’americano tranquillo»,
1955) all’alber gatore nell’Haiti del dittatore Duvalier
di The Come- dians («I commedianti», 1966), dalla
comica spia di Our Man in Havana («Il nostro
agente all’Avana», 1958) alla figura drammatica
dell’agente segreto di The Human Factor («Il fattore
umano», 1978), dallo smemorato di The Ministry of
Fear («Quinta colonna», 1943) al medico di The
Honorary Consul («Il console onorario», 1973). Non
a caso essi sono i protagonisti dei romanzi maggiori di
Greene – a cui bisogna ag giungere l’ironico e
autoironico Travels with My Aunt («In viaggio con la
zia», 1969).
Contrariamente a quanto si legge nelle pagine
pre cedenti, qui c’è un elenco relativamente lungo di
ro manzi (i più belli) e non un commento su di essi.
Un breve cenno lo si dedicherà soltanto a uno di
questi, The Human Factor, non perché sia
superiore agli altri, ma perché è un romanzo di
spionaggio ed è grande lettera tura. Greene, che era
stato un agente dei servizi segreti durante la guerra (e
probabilmente un loro informatore almeno fino al
1965) ha scritto diversi romanzi in cui la dimensione
dello spionaggio ha un ruolo centrale e
in cui l’avventura spionistica è improntata a un solido
realismo, nel solco dell’Ashenden di Maugham. In un
primo tempo Greene aveva collocato questi romanzi
nella categoria dei suoi entertainments, contrapposta
a quella dei suoi novels. Poi, giustamente, lasciò cadere
la distinzione. Il protagonista di The Human Factor è
un agente segreto inglese che diventa un double agent
al servizio dei russi. Non lo fa per ideologia, né per de
naro, ma perché i servizi segreti sovietici avevano fatto
in modo che la donna che amava, sudafricana di colore,
potesse fuggire in Inghilterra. Erano stati loro ad agire
in aiuto di una vittima della più grottesca forma di po
tere liberticida dell’Occidente.
Greene diceva che sin da giovanissimo sapeva di
essere «dalla parte delle vittime». Per tutta la vita fu
animato da un’appassionata tensione morale, dalla par
te degli oppressi e contro gli oppressori, con i deboli e
contro i potenti, con i popoli e, se del caso, contro i loro
governanti. Per molti lettori il suo tratto distintivo sta
nella qualità della prosa, capace di creare quel territo
rio (Greeneland, è stato definito) e quel clima
letterario che costituiscono per lui – e per molta parte
della cri tica – un affascinante punto di riferimento. Ma
ciò che qualifica il romanzo di Greene non è
l’atmosfera, bensì il fatto di usare le forme popolari
tipiche della moder nità (il cinema e il thriller) e con
esse affrontare i temi cruciali dell’età moderna. Il
romanzo inglese si è spesso concentrato sull’analisi
delle forme dei rapporti sociali, cosa comprensibile in
un paese in cui le distinzioni di classe hanno avuto (e
hanno) una decisiva importanza
– ma a rischio, negli autori minori, di una certa provin
ciale insularità. Greene, invece, ha scelto di affrontare
le grandi questioni del suo tempo: prima quelle che
attana gliavano l’Inghilterra e la vecchia Europa,
quando essa
poteva ancora ritenersi il centro del mondo; poi quelle
che segnarono il dopoguerra, con la liquidazione dell’e
redità coloniale e le tensioni della guerra fredda. È stato
il nostro agente nel mondo che cambiava intorno a noi.

A Greene il Nobel non lo vollero mai dare,


soprattut to, forse, per la sua denuncia
dell’imperialismo america no. Lo diedero invece a
William Golding (19111993), uno degli scrittori inglesi
del dopoguerra nella cui opera è centrale la dimensione
etica, la riflessione morale sui dilemmi dell’età
contemporanea. Il suo romanzo mo ralmente più
potente e letterariamente più avvincente è Lord of the
Flies («Il signore delle mosche», 1954), che è uno dei
nomi del diavolo. Il libro è la versione post seconda
guerra mondiale degli ottocenteschi libri per ragazzi di
avventure sui mari. In questo romanzo alcuni
giovanissimi naufraghi si trasformano in una selvaggia
tribù primitiva: Simon, il ragazzo che si rifiuta di ado
rare la testa di porco, come fanno gli altri, viene ucci
so. Anche Ralph farebbe la stessa fine, se non venisse
salvato dall’arrivo dei marinai della nave che riporterà
i naufraghi nel mondo civile. Il bagno nell’animalità e
nel Male, che per Golding è inseparabile dalla natu ra
umana, è stato però esemplarmente compiuto, per
consegnarci la più efficace favola morale del secondo
Novecento.
Il sacrificio di Simon, l’Innocente, può essere
visto come un’allusione al massacro degli ebrei nei
campi di concentramento; così come la
degenerazione dei gio vani naufraghi può alludere a
quella della civilissima Germania che si abbandonò
alla brutalità feroce del na zismo. È più che
probabile – la guerra era finita da po chi anni – che
Golding pensasse agli orrori della storia recente; ma
l’idea portante del romanzo va al di là della
storia nel suo ritrarre il trionfo del Male, visto come una
componente imprescindibile dell’animo umano.
In un romanzo successivo, Darkness Visible («L’o
scuro visibile», 1979), Golding esplorò invece la pre
senza del male, in un contesto storico definito e deter
minato, la Londra del dopoguerra, utilizzando un tipo
di scrittura piuttosto lontano da quello tradizionale in
cui prima si era esercitato. Una scrittura dai tratti a
volte visionaria e di grande pregio stilistico; e di quasi
intimi dente nobiltà. Quattro anni dopo l’uscita del
romanzo gli fu conferito il Nobel per la letteratura.

Molto ampia e di grande rilievo è la presenza delle


scrittrici nella narrativa inglese del secondo Novecento.
La maggiore di esse è Doris Lessing (19192013) a cui
il Nobel fu conferito nel 2007. Nata in Persia, vissuta in
Africa fino a trent’anni, e giunta a Londra nel 1949 ani
mata da forti convinzioni politiche di sinistra, nei primi
lavori si mosse nell’ambito della tradizione realistica,
con risultati di grande fascino narrativo – soprattutto,
forse, per la felicità evocativa con cui trasferiva sulla
pagina il paesaggio e il mondo africano.
Lessing raggiunse il suo risultato più alto in un ro
manzo che però si muove in un ambito del tutto
diverso, The Golden Notebook («Il taccuino d’oro»,
1962), uno dei testi fondamentali della letteratura
inglese moderna. È un’opera di grande complessità, che
ripensa e mette in discussione la forma romanzesca e le
sue possibilità espressive e scava nella profonda crisi
psicologica della sua protagonista: una crisi personale,
che corrisponde a quella delle donne del suo tempo
(ma Lessing rifiutò categoricamente di essere accostata
al movimento fem minista). La protagonista è una
scrittrice che lavora a un romanzo che s’incrocia con
le osservazioni – su di
sé, sulla sua vita in Africa, sulle sue idee politiche, sul
suo ruolo di scrittrice e sul suo crollo mentale – che nel
frattempo annota su diversi taccuini.
Abbandonato il realismo, il metaromanzo in cui
The Golden Notebook consiste cerca di scoprire
quali sono le possibili forme che la narrativa può
darsi per rende re conto della realtà confusa,
contraddittoria e lacerata (come la mente della
protagonista) che caratterizza il mondo moderno. La
risposta sta nel romanzo stesso, che è lì a dimostrare
la capacità (e la volontà) dello scrit tore
contemporaneo di parlare dell’oggi con le forme che
meglio gli consentono di farlo.
The Golden Notebook fu scritto dopo i primi tre
ro manzi, vagamente autobiografici, che formano il
ciclo intitolato The Children of Violence (195269). Il
quar to romanzo, scritto dopo il Notebook, è
ambientato in Africa come i precedenti (è l’Africa che
dà i primi segni della fine ineluttabile del colonialismo)
e non riprende le soluzioni appena prima sperimentate.
Ma nel quinto, quello che conclude il ciclo, la scrittura
di Doris Lessing si sposta su un terreno tra il fantastico
e il fantascientifi co: è un romanzo distopico, come di
nuovo lo sarà Me- moirs of a Survivor («Memorie di
una sopravvissuta», 1974); e per qualche anno la sua
produzione si orienterà verso una narrativa di
fantascienza ibridata dagli inse gnamenti del sufismo.
Lessing tornerà alla scrittura realistica con The
Dia- ries of Jane Somers («Il diario di Jane Somers»,
1985). Qui, e spesso anche in seguito, il suo sguardo
si posa prevalentemente sulle figure femminili,
donne di mez za età o anziane, sulla solidarietà che si
stabilisce tra loro, sull’impegno che la solidarietà
comunque richiede (Lessing non scivola mai nella
retorica). Questa sua at tenzione non tanto alla
«condizione» femminile, quan
to alla realtà femminile, rimane una costante dei suoi
lavori più tardi. E anche in The Fifth Child («Il quinto
figlio», 1988), almeno per quanto riguarda la figura di
Harriet, la protagonista. In questo caso il tema centrale
è però un altro. Siamo negli anni Sessanta. Harriet e
David si innamorano e si sposano, con l’idea di avere
tanti figli. In poco tempo ne nascono quattro. La quinta
gravidanza è «orripilante». Finalmente il quinto figlio
viene alla luce: è brutto, massiccio, forte e violento –
ancora piccolissimo strozza il cane di casa. Viene
messo in un ospizio specializzato, dove, scopre poi
Harriet, i soggetti «difficili» vengono di fatto eliminati
sommini strando loro dei farmaci. La madre si riporta a
casa il figlio, che però mantiene le sue caratteristiche
presso ché mostruose, quasi incarnando la parte
animalesca e selvaggia della natura umana. Alla fine il
ragazzo se ne andrà di casa, dopo avere distrutto
emotivamente la sua famiglia. In The Fifth Child, un
romanzo che naviga tra realismo e allegoria, Lessing ha
voluto confrontarsi con la fallacia del sogno ottimistico
di famiglia felice incar nato da Harriet e David. Il libro,
che è ormai considera to un piccolo classico, offre una
convincente conferma dell’originalità di prospettiva e
del coraggio intellettua le di una dei maggiori
romanzieri del Novecento.

Delle molte altre interessanti scrittici nate nel


perio do tra le due guerre almeno due, Muriel Spark
e Beryl Bainbridge, meritano si essere ricordate per
il romanzo in cui meglio si è espresso il loro talento.
Muriel Spark (19192008), nata a Edimburgo, dopo le
nozze si trasfe rì con il marito in Rhodesia, l’attuale
Zimbabwe. Fu un matrimonio disastroso. Nel 1944
tornò in Gran Breta gna (e lavorò per i servizi
segreti), trovando poi una sua strada nell’attività
letteraria. In un primo tempo scrisse
poesie e articoli di critica; poi, dopo essersi convertita
al cattolicesimo (nel 1954), «scoprì» di poter scrivere
romanzi. Il suo capolavoro è The Prime of Miss
Brodie («Gli anni fulgenti della signorina Brodie»,
1961). Miss Brodie, insegnante di una scuola per
ragazze di Edim burgo, si distingue per i suoi metodi
didattici, per nulla ortodossi ma affascinanti. Con le
scolare che individua come la crème de la crème
stabilisce un intenso rapporto formativo, ricco di
sorprendenti proposte culturali e di spiazzanti
insegnamenti di vita. Siamo a metà degli anni Trenta:
Miss Brodie, una «guida» assertiva e prepoten temente
affascinante (il Duce è un suo modello), è vista con
sospetto dalla direttrice, che vorrebbe sbarazzarse ne.
L’occasione potrebbe essere data dalla sua relazione
con il maestro di musica; ma le ragazze, che sanno, non
la tradiscono. Il tradimento avverrà più tardi, da parte
di Sandy, una delle sei ragazzine del gruppo, che anni
dopo si farà suora. La narrazione non solo procede per
salti avanti e indietro nel tempo, ma nel corso dello
stes so paragrafo sovrappone passato e presente, di
modo che il lettore viene così a sapere nel presente ciò
che accadrà in futuro alle ragazze.
Le prime scoperte del sesso hanno uno spazio non
piccolo nella loro autoformazione. E anche a questo
proposito l’educazione di Miss Brodie lascia il segno,
in particolare per quanto riguarda Sandy, che più tardi
diventerà l’amante dell’insegnante di disegno, l’amore
impossibile di Miss Brodie. Come si è detto, sarà pro
prio lei a tradirla, svelando che aveva convinto un’allie
va a unirsi alle truppe franchiste (la ragazza era morta
quando il treno su cui viaggiava per raggiungerle era
stato attaccato). Con il ritratto dell’insegnante, del suo
fascino di educatrice, della sua vita sentimentale e ses
suale indipendente, realizzato non tanto attraverso la
voce del narratore quanto attraverso la stessa voce di
Miss Brodie, Spark ci ha offerto una delle figure fem
minili più affascinanti della narrativa inglese
novecente sca. Ma lo è altrettanto quello delle sei
ragazzine, quasi fanciulle in fiore in versione scozzese,
colte nei riti di passaggio della pubertà.

Beryl Bainbridge (19322010) fu per cinque volte fi


nalista del prestigioso Booker Prize. Non lo vinse mai,
forse perché troppo poco glamour, con le sue storie di
donne e di uomini della piccolissima borghesia e della
classe operaia inglese. The Dressmaker (1973) fu il
suo primo romanzo finalista a non vincere il Booker.
«Black humour» è l’etichetta più spesso usata a
proposito dei romanzi di Bainbridge. L’etichetta è
giusta; ma bisogna aggiungere che l’ironia è nera
perché è l’unica adatta a commentare la drammaticità e
le fatiche dell’esistenza delle sue donne, senza la
minima concessione al senti mentalismo e con una
robusta consapevolezza popo laresca di come va il
mondo. Le donne che occupano una modesta casa di
Liverpool nell’anno di guerra 1944 sono tre: Nellie, la
sarta, severa e tradizionalista, che lavora in casa dopo
che la fabbrica è stata bombardata; Margo, sua sorella,
vedova, che è sulla cinquantina e lavora in una fabbrica
di munizioni; Rita, una timida ragazza di diciassette
anni, che è la figlia di una sorella defunta e di Jack, un
macellaio. La prima parola del libro è «dopo». Rita si
innamora di un soldato ame ricano, ma respinge le sue
avances. Per cui lo yankee rivolge le sue attenzioni
alla più che disponibile Margo. Un giorno, quando non
c’è nessuno in casa, i due si appartano al piano di sopra.
Arriva Nellie, dai rumori crede che ci sia un topo, sale
armata di coltello, li sco pre e, furibonda per il fatto
che il soldato ha graffiato
«il preziosissimo tavolino della mamma», gli taglia la
gola. Viene chiamato Jack per provvedere a sistemare il
cadavere. Ne farà salsicce? In ogni caso, «dopo», le tre
donne vanno a dormire.
La magia del racconto e del ritratto di queste tre
fi gure di donne (tre diversissime versioni della
realtà fem minile) sta nel tono: diretto, fattuale,
distaccato, quasi chirurgico, e accompagnato da un
dialogo superbo. È questa la caratteristica di molti
dei romanzi di Bainbrid ge, ma è qui, in The
Dressmaker, che l’esercizio dell’u mor nero
raggiunge il suo risultato più travolgente.

Angela Carter (19401992) è invece autrice dalla


scrittura fantasiosa ed esuberante. La sua fonte di ispi
razione (e di confronto) furono le fiabe, Kafka e Poe, la
narrativa popolare. Le fiabe le riscrisse, individuando
il non detto che nascondono (compresa, lei femmini sta,
l’accettazione complice da parte delle donne delle
prepotenze dei maschi) o esasperandone i tratti inquie
tanti; mescolò la cultura alta con la cosiddetta cultu ra
bassa (ma in Inghilterra la distinzione è comunque
enormemente meno netta che da noi), e la realtà con
la fantasia – donde la tendenza dei critici a collocarla
nella regione del realismo magico, cosa indubbiamente
legittima nel caso del distopico The Passion of New
Eve («La passione della nuova Eva», 1977).
Per molti il suo romanzo più bello è Nights at
the Circus («Notti al circo», 1984), la cui
protagonista è Fevvers, una donna con le ali, che
esegue il triplo salto mortale senza rete, una
popolana londinese il cui nome è la pronuncia
cockney di «feathers». C’è una tournée del circo in
Russia con tentato omicidio dell’eroina, un viaggio
in Transiberiana, un rapimento da parte dei banditi, e
un gran finale in cui Fevvers e il giornalista
che l’ha accompagnata nelle sue peripezie capiscono
di amarsi e si accingono a fare all’amore, con lei
sopra di lui, per via delle ali. Siamo nel 1899.
Fevvers è il simbolo della «Donna Nuova», come si
diceva a fine Ottocento, non più succube dell’uomo
– tant’è vero che sta sopra di lui. Angela Carter
spiegò che il romanzo è una sorta di pronunciamento
sulla natura della fiction, a partire dalla natura stessa
della narrazione di Fevvers: lei stessa, le cose che
racconta, sono fatti o finzione?
Nights at the Circus è certamente un romanzo
affa scinante; ma Wise Children («Figlie sagge»,
1991) gli è ancora superiore. Il romanzo incomincia in
un giorno di aprile, lo stesso in cui è nato Shakespeare
– che è anche il giorno del compleanno delle due
gemelle Dora e No ra, un tempo ballerine di music
hall (il glorioso teatro di varietà inglese). Sono le figlie
illegittime di un famoso attore shakespeariano, che non
le ha mai riconosciute e che con le figlie legittime ha
condotto, a parte, la sua vita di grande istrione. Le due
figlie abbandonate (e allevate dalla padrona di casa
della madre defunta) si sono comunque assicurate una
brillante carriera nell’al tro teatro, quello popolare, che
adesso ricordano con trasporto: «Che gioia ballare e
cantare!».
Wise Children è il romanzo della vita delle due
gemel le raccontata dalla voce di Dora. Una voce
irriverente, spregiudicata, brillante, che mescola il
linguaggio colto e i riferimenti alla cultura alta con
quello popolaresco, e che ci diverte con le sue
aforistiche perle di saggezza («la commedia è la
tragedia che capita agli altri»). Ed è, tra l’altro, il
romanzo del teatro inglese del Novecento, della sua
vitalità travolgente e della sua inesauribile vi vacità:
non a caso il libro è diviso in cinque capitoli, al
ludendo ai cinque atti di un testo teatrale classico. È un
libro che con incantevole ironia chiama in causa i gran
di della letteratura inglese, a partire da Shakespeare,
per farsene gioco, ma dichiarandone al tempo stesso
la grandezza. È anche un libro dallo spirito fiabesco,
pie no di quasi miracolose sorprese, costruito per
garantire un lieto fine che faccia dimenticare le
difficoltà (in un certo momento la disperazione) che
le due eroine han no dovuto superare.
Wise Children fu scritto nell’ultimo anno di vita di
Angela Carter, malata terminale di cancro. È sorpren
dente come questa straordinaria scrittrice abbia saputo
avvicinarsi alla fine con un romanzo così pieno di vita e
di divertito distacco dagli affanni dell’esistenza.

Della generazione successiva, la scrittrice che al suo


esordio colse, giustamente, i maggiori consensi è
Jeanet te Winterson (1959), al centro della cui narrativa
sta il tema della sessualità e dell’omosessualità
femminile. La sua opera più bella resta il suo primo
romanzo, in larga parte autobiografico, Oranges Are
Not the Only Fruits («Non ci sono solo le arance»,
1984), in cui la scoperta dell’identità lesbica di una
ragazzina è raccontata con un taglio ironico di squisita
intelligenza che si svilup pa in una realtà molto
tradizionale e bigotta. Di gran de intelligenza narrativa
è anche Written on the Body («Scritto sul corpo»,
1992), che colpisce soprattutto per il virtuosismo
linguistico con cui la storia d’amore viene raccontata in
prima persona da un narratore che riesce a non svelare
mai la sua identità sessuale.
Tra i romanzi successivi ha ricevuto convinti
plausi critici The Stone Gods («Gli dei di pietra»,
2007), una distopia postmodernista. Ma il suo lavoro
recente più interessante è il romanzo breve (o
meglio, il racconto lungo) intitolato The Daylight
Gate (2012), che rico struisce uno dei più infami
processi alle streghe della
storia d’Inghilterra, quello di Pendle, nel 1612. Il
tono è secco, freddo, fatto di brevi frasi di forte
efficacia. An che se si sa come finì la storia, la
suspense, nella succes sione di uccisioni, torture,
stupri, violenze, non viene comunque mai meno.
The Daylight Gate è un racconto gotico che è
anche documento storico. O viceversa. È una
magistrale prova d’autrice che, pur restando fedele al
suo tema centrale, ha saputo trovare altre strade per
illustrarlo.

Sarah Waters (1966) scrisse la sua tesi di dottora to


sulla narrativa vittoriana. Non stupisce quindi che i suoi
primi lavori siano stati una sorta di «reinvenzione» del
romanzo vittoriano, fenomeno comunque già por tato al
successo da Possession («Possessione», 1990) di
A.S. Byatt, un romanzo in cui la conoscenza
profonda della letteratura dell’Ottocento si combina
con un’in venzione romanzesca e una felicità
narrativa che fanno del libro una delizia per il lettore
– anche per chi dei vittoriani, da Browning a
Charlotte Brontë e a Gabriele Rossetti, sa poco o
nulla.
Il primo «romanzo neovittoriano» di Sarah Waters
è stato Tipping the Velvet («Carezze di velluto»,
1998). Centrale è il tema della passione tra donne,
cosa che nel romanzo vittoriano sarebbe stata poco
probabile; ma qui siamo in una logica di
rivisitazione, per cui cer te cose restano e altre si
inventano. Lo stesso discorso vale per Fingersmith
(«Ladra», 2002). Waters reinventa tenendo conto dei
diversi stili narrativi che si affermaro no nei vari
periodi dell’Ottocento. In questo caso, dato che la
vicenda si svolge negli anni Sessanta del secolo
lungo, il riferimento è al sensationalism, carattere
tipico del romanzo a forti tinte che in quel decennio
andava per la maggiore. Alla base della storia, con
una giovane
protagonista che è cresciuta insieme a un gruppo di la
druncoli, come i borseggiatori di Oliver Twist, c’è
The Woman in White di Wilkie Collins. Waters ne
riprende i personaggi, giocando sul «come sarebbe
andata, invece, se...». In Fingersmith le cose
succedono infatti altrimen ti (compresa una relazione
lesbica che per la verità il testo di Collins, seppur
vaghissimamente, non esclude); e succedono con una
serie di sorprese che rendono il li bro di Waters
sensational nel senso buono della parola. Dopo la
fase neovittoriana, con The Night Watch («Turno di
notte», 2006) Waters, con la stessa cura per la
ricostruzione di ambiente, si è aggirata negli anni del la
seconda guerra mondiale. Poi, in The Paying Guests
(«Ospiti paganti», 2014), si è spostata nella Londra de
gli anni Venti del Novecento, quando la crisi economica
aveva indotto alcune famiglie della buona borghesia a
dare in affitto parte della casa in cui abitavano (ipo
critamente, gli affittuari erano chiamati ospiti paganti).
The Paying Guests è tre libri in uno. È il ritratto dello
sconvolgimento del vecchio mondo dopo la fine della
guerra; è la storia d’amore e di passione tra due donne
vista con gli occhi e le parole di oggi; ed è infine la rivi
sitazione del romanzo «criminale» vittoriano, con tanto
di delitto, indagini e processo. C’è qualche concessione
all’effetto e all’uso di qualche trovata retorica di ma
niera. Ma il romanzo procede con grande fluidità verso
una fine che, come Waters «ideologicamente» vuole,
certifica che a vincere è l’amore tra le donne.

Diversi autori che nel secondo Novecento


godettero di grandissimi consensi, ma che
attualmente sembra no poco considerati e che forse
tra una ventina d’an ni saranno quasi del tutto
dimenticati (o riscoperti), si mossero non sul terreno
del realismo, ma su quello
dell’innovazione formale e linguistica. Il primo in or
dine di tempo è Lawrence Durrell (19121990), che
decisamente innovativo già lo era stato con lo «scan
daloso» Black Book del 1938, un’opera che più che ai
modernisti guardava a Tropic of Cancer di Henry
Miller; e che negli anni Sessanta conquistò enorme
notorietà letteraria con i quattro romanzi che formano il
cosid detto Alexandria Quartet. Dagli anni trascorsi
in Egitto durante la guerra (come funzionario
dell’ufficio stampa dell’esercito) scaturì il materiale che
venne elaborato prima in Justine (1957), poi in
Balthazar e Mountolive (1958) e infine in Clea
(1960). Quattro narratori diversi, ma con una stessa
scrittura di grandissimo fascino (che ricorda Huysmans
e Louÿs), raccontano un’unica storia che vuole essere
una riflessione sulla figura dell’artista e sulla sessualità.
Durrell, nato in India, vissuto qua si sempre lontano
dall’Inghilterra (oggetto della sua sprezzante ironia),
quasi per nulla inglese dal punto di vista delle
coordinate letterarie, fu salutato dalla critica come un
gigante della letteratura contemporanea; poi
l’entusiasmo si affievolì. Forse sono però da rivalutare i
libri che scrisse su Rodi, Cipro e Corfù, seducente mi
tizzazione, questa sì molto inglese, di un ormai perduto
incanto mediterraneo.

Anthony Burgess (19171993) aveva esordito come


scrittore realista con i tre romanzi che compongono la
sua «Trilogia malese», un’ironica e acuta testimonianza
sulla fine dell’età coloniale (da lui osservata negli anni
che trascorse come insegnante in Malesia). Poi, coeren
temente con la sua ammirazione per Joyce, si spostò
sul terreno della sperimentazione strutturale e lingui
stica, a partire dal romanzo che gli diede la fama, A
Clockwork Orange («Arancia meccanica», 1962). La
vicenda è ambientata in un prossimo futuro, in cui lo
stato esercita sui cittadini un potere liberticida. Chi
ne è vittima, tuttavia, è un teppista, Alex, che raccon ta
la propria storia in un linguaggio di sua invenzione, il
Nadsat (che è naturalmente il frutto dell’esuberanza
joyciana della scrittura di Burgess). All’inizio c’è l’e
sercizio dell’«ultraviolenza» da parte di Alex e la sua
banda, che culmina con la tortura di un mite letterato
e lo stupro della moglie; e prosegue poi con la sua in
carcerazione in una prigione in cui viene sottoposto a
una «rieducazione» realizzata con una sorta di tortura
psicologica. L’episodio della violenza e dello stupro è
basato su un’esperienza drammatica vissuta da Burgess
durante la guerra, quando, a Londra, lui e la moglie
furono assaliti da un gruppo di soldati americani (forse
disertori): la moglie, incinta, fu violentata, abortì e non
poté più avere figli.
La visione (negativa) del mondo di Burgess e la vi
sione religiosa, oscillante tra tolleranza e durezza poco
cattolica (d’altronde, anche Conrad era cattolico ma
quasi spietato), trova la sua espressione più compiu ta
in Earthly Powers («Gli strumenti delle tenebre»,
1980). Il romanzo offre un panorama letterario e socia
le dell’intero Novecento visto attraverso gli occhi di un
vecchio omosessuale (per la cui figura Burgess si ispirò
a Maugham): il suo messaggio è che se dalla vita si
toglie la religione non resta molto che la renda
significativa.
Negli ultimi anni Burgess si cimentò in una narrati
va di tipo sempre più sperimentale, dai risultati incerti.
Ma si congedò con un romanzo che invece riprende
alcuni dei filoni di scrittura da lui utilizzati nel corso
del tempo per confezionare A Dead Man in Deptford
(«Un cadavere a Deptford», 1993), il brillante pastiche
dedi cato alla vita di Christopher Marlowe –
drammaturgo,
omosessuale e agente segreto (questi i tre punti chiave
della «biografia»). Burgess è stato un intellettuale tan to
scomodo quanto originale; e soprattutto un audace
esploratore della forma romanzesca. Ma è probabile
che il suo posto nel romanzo inglese resti affidato a un
solo romanzo, a quel Clockwork Orange che nel
libro, a differenza del film, non aveva affatto un finale
con solatorio.

John Fowles (19262005) si era laureato a Oxford in


francese, aveva fatto l’insegnante, prima in Grecia e
poi in patria, aveva riempito centinaia di pagine di
diari, ma, pur sentendosi «scrittore», non aveva pubbli
cato nulla fino al 1963, quando uscì The Collector («Il
collezionista»), che è un esercizio da giocoliere sull’uso
della narrazione in prima persona. Il romanzo contiene
anche le pagine del diario di Miranda, una ragazza che
è stata sequestrata dal protagonista, lo psicopatico
Frede rick Clegg, collezionista di farfalle e voyeur.
L’atteggia mento che ha Clegg nei confronti della sua
prigioniera è identico a quello che ha nei confronti delle
farfalle, che cattura e uccide, infilzandole con cura, per
collocarle nelle sue bacheche. A differenza del film
tratto del ro manzo, nel libro il lieto fine non c’è
affatto.
Circa tre anni dopo uscì la prima versione di un ro
manzo a cui Fowles aveva lavorato per quindici anni,
The Magus («Il mago»), in cui egli rielabora la sua
espe rienza di insegnante nell’isola greca di Spetses;
ma la rielaborazione non lo convinceva, per cui ne fece
una seconda versione, pubblicata nel 1977. Per i fan di
Fo wels si tratta di un’opera di grande valore letterario
e finezza linguistica.
Nel frattempo, grazie ai guadagni procuratigli
dall’adattamento cinematografico del primo romanzo,
Fowles si era comprato una casa a Lyme Regis, vicino
al mare. Quella zona è lo sfondo del suo libro più noto,
The French Lieutenant’s Woman («La donna del
tenen te francese», 1969), un romanzo «vittoriano» di
am bientazione, che qualcosa deve a The Return of
the Na- tive di Hardy per quanto riguarda la figura
ribelle della protagonista. Fowles realizza una
pirotecnica opera di decostruzione del romanzo
ottocentesco e propone tre possibili finali alternativi. La
vicenda è condotta a con clusione a metà libro (con
tradizionale finale «vittoria no»); ma a quel punto il
narratore entra nella finzione, la svela esplicitando il
suo ruolo di autore e prosegue nella ricerca del destino
dei personaggi da lui creati, offrendo ai lettori altri due
finali che consentono lo ro di liberarsi
dell’onnisciente narratore vittoriano e di scegliere il
proprio finale. Il romanzo ebbe un successo
internazionale enorme, aiutato dalla versione cinemato
grafica, con Pinter come sceneggiatore e Meryl Streep
come protagonista. Il fatto che sulla copertina del libro
campeggi l’immagine della star ha aiutato non poco a
mantenere alte per oltre quarant’anni le vendite di un
romanzo che, in effetti, è di indubbia originalità. Ma
The Collector gli è superiore.

Altrettanto sperimentale fu J.G. Ballard (1930


2009), che dalla fantascienza americana e dalle arti
figurative, soprattutto dalla mostra This Is Tomorrow,
atto di nascita della pop art in Inghilterra, ricavò la con
vinzione che la fantascienza fosse la forma più adatta
per parlare del presente, che fosse più vicina alla realtà
del romanzo realista. Ma non la vecchia fantascienza,
che immaginava un futuro con le navicelle spaziali (che
già c’erano), bensì una nuova fantascienza, che doveva
tendere verso lo spazio psicologico, verso uno «spazio
interno» simile a quello che si ritrova nei racconti di
Kafka e nei migliori film noir.
I primi romanzi erano caratterizzati da una visione
di segno apocalittico, in qualche modo legata alla mi
naccia di catastrofe nucleare autorizzata dal clima della
guerra fredda. Poi Ballard individuò la (quasi) apocalis
se nei possibili sviluppi demenziali della realtà
quotidia na. In Crash (1973) costruì un’inquietante e
allucinata allegoria della «società dell’automobile», in
cui l’auto è oggetto di amore e di morte e in cui le
superstrade sono un campo di battaglia di auto lanciate
a folle velocità. In seguito il suo sguardo si posò su
un’altra icona del la modernità, i grattacieli destinati a
civile abitazione. Tutto tranne che civile. In High Rise
(«Il condomino», 1975), assistiamo a come in un
complesso di un miglia io di alloggi la convivenza in
quelle circostanze porti a un ritorno alla stato selvaggio,
a comportamenti spesso violenti che trasformano la
casa ideale pensata dagli ar chitetti in un deposito di
immondizie – e di cadaveri.
Ballard ritornò sull’argomento in Super-Cannes
(2000), in cui il racconto ruota intorno all’uccisione di
sette persone all’interno del parco di EdenOlympia, un
enorme complesso abitativo basato sulla realissima
SophiaAntipolis che si trova vicino a Nizza. Siamo alla
vigilia del 2000 e la violenza gratuita potrebbe essere
la vera espressione poetica del nuovo millennio, dice
uno degli abitanti di questo Eden per nulla olimpico.
Potrebbe davvero essere così, lascia intendere
Kingdom Come («Regno a venire», 2006), esemplare
distopia am bientata nel presente, in cui il protagonista
del romanzo è il gigantesco centro commerciale di una
cittadina vici no all’aeroporto di Londra. Questo tempio
del consu mo, in cui si professa la religione
dell’acquisto coatto, diventa una specie di piccolo
regno autonomo, quasi
uno Stato nello Stato, che solo un banale imprevisto
riesce a distruggere. Anche se Kingdom Come è un
atto di accusa lucido e violento contro la miseria dei
valori dominanti, Ballard non avanza proposte, né
accenna a possibili vie d’uscita. In fondo è un autore
che affida alla negatività (come sarebbe piaciuto ad
Adorno) il so gno di un mondo in cui le cose stiano
altrimenti. Ma in Ballard c’è poi una diffidenza
prudente nei confronti del genere umano, che nella
seconda guerra mondia le, come nelle più recenti
guerre balcaniche, africane e medioorientali, si è
esibito in massacri di massa di inaudita ferocia e che
anche nella quotidianità privata è stata ed è capace dei
misfatti più orrendi.
Forse però, paradossalmente, il romanzo più bello
di Ballard è Empire of the Sun («L’impero del sole»,
1984), scritto, a parte la visione dell’atomica su
Nagasaki, con taglio pienamente realistico e che
ricostruisce l’espe rienza della sua infanzia in un
campo di concentramento nella Shangai occupata
dalle truppe giapponesi durante la guerra. In quella
specie di prigione, ricorda Ballard,
«trovai la libertà». Molta di più di quanto non ce ne sia
nei grappoli di condomini a 30 piani e nei giganteschi
shopping centres.
XI
I romanzieri di oggi

Quando ci si avvicina al presente, all’opera degli scrit


tori tuttora in piena attività, la possibilità di sopravvalu
tazione del loro valore è tutt’altro che improbabile. Per
cui, con beneficio d’inventario, si darà qui conto di quei
romanzieri, in particolare di quei romanzi, che più pro
babilmente riusciranno a superare la prova del tempo.
Partiamo dal più anziano, John le Carré (1931), che è
uno dei maggiori romanzieri inglesi della secon da metà
del Novecento e di questo inizio di millennio.
Affermazione difficile da accettare, soprattutto in Italia,
dove ancora assai forte è la messa al bando dei «generi».
Per la verità le Carré aveva come punti di riferimento
non gli autori del genere spionistico, ma i due grandi
narratori che incorporarono nella letteratura gli schemi
e le forme di tale genere: Maugham e Greene.
Da Maugham apprese la necessità di imporre un
fermo ordine al racconto e l’idea di presentare i fatti
dal punto di vista di un protagonista che ha e offre
una visione parziale, al di là di quanto richiede la
natura del genere spionistico, degli aspetti «tecnici»
della sua indagine – ma anche, ben più di Ashenden,
della natura delle persone e delle cose.

15
L’altro suo fondamentale punto di riferimento fu
Greene. Come nei romanzi di Greene, i suoi protago
nisti sono uomini ordinari, antieroi. E come in
Greene hanno un ruolo decisivo i sentimenti che
guidano le scelte: in particolare l’amore, che è la
causa del loro di sastro, come nel caso di Leamas, il
protagonista di The Spy Who Came in from the
Cold («La spia che venne dal freddo», 1963).
In questo romanzo, attraverso i modi del thriller
emerge il ritratto della Gran Bretagna, della dimidia
ta potenza britannica nel mondo spaccato in due
della guerra fredda. Già qui, come nei romanzi
successivi, il mondo contemporaneo è ritratto da un
punto di vista improntato a un pessimismo profondo,
che si accompa gna all’idea di un patetico declino
del mondo britannico in corrispondenza alla perdita
del suo ruolo di grande potenza. Gli agenti segreti
ricevono gli ordini dai capi di un apparato che si
comporta come se ancora ci fosse un impero
britannico, mentre l’impero, semmai, è quello
sovietico, a cui l’Occidente, sotto la guida degli Usa,
in nome della democrazia deve opporsi. Il libro ebbe
un enorme successo. Non poteva essere «vero»,
spiegò le Carré, altrimenti non sarebbe stato
possibile pubblicar lo. Ma era credibile: non solo
come vicenda, ma anche come presentazione di un
dilemma che toccava e tocca l’essenza della nostra
civiltà occidentale, con i suoi prin cipi di democrazia
e di libertà.
Nel 1986 uscì il romanzo A Perfect Spy («La spia
perfetta»), che riproponeva quel tema cruciale all’in
terno di una vicenda, in parte autobiografica, che co
stituisce al tempo stesso la radiografia dello «stato della
nazione britannica». La spia perfetta è Magnus Pym,
un agente dei servizi segreti alla fine della carriera. A
un certo punto scompare e si nasconde in una
pensioncina
a scrivere le sue memorie, la sua storia di agente e di
traditore: Pym era stato per anni un double agent, una
spia per conto dei servizi segreti cecoslovacchi.
Magnus Pym scrive la storia della sua vita; ma il
nar ratore di A Perfect Spy scrive la storia di Pym che
scrive la sua storia, gli affianca la sua narrazione, ne
«correg ge» le informazioni imprecise, ne interpreta i
parziali silenzi, la integra attraverso le pagine in cui il
racconto è affidato al punto di vista della moglie Mary.
Di fatto le Carré scrive una sorta di metaromanzo, in
cui la sto ria procede andando avanti e indietro nel
tempo, dal presente al passato recente e al passato
lontano, sovrap ponendo un racconto all’altro,
intrecciando le ricostru zioni (non sempre affidabili) dei
momenti cruciali della carriera di Pym.
A Perfect Spy è una bella storia sullo spionaggio; e
sul rapporto tra padri e figli. Ma è anche una storia
straordi naria sulla società inglese a partire dagli anni
Trenta fino alla fine degli anni Settanta del
Novecento, un acutissi mo ritratto dei valori, dei
pregiudizi, della supponenza con cui la classe
dominante britannica, pur attraverso i cambiamenti
epocali di quel mezzo secolo, ha continuato a porsi
con imperturbabile sicurezza nei confronti dei propri
membri e di quelli delle classi ad essa inferiori. Il
ritratto è particolarmente efficace perché nasce soprat
tutto dalle sfumature del linguaggio, dai sottintesi, dai
riferimenti allusivi, dai gesti e dagli sguardi con cui
viene stabilito un sistema di riconoscimento tra i
privilegiati dell’alta borghesia e di esclusione nei
confronti degli al tri. Che Magnus Pym, con quel suo
retroterra ambiguo, sapesse appropriarsene per
diventare una spia perfetta (e in fondo vendicarsene)
non sembra poi una grave colpa. Dopo la caduta del
muro e la fine dell’Urss molti pensarono che le
Carré non avrebbe più saputo che co
sa e di che cosa scrivere, perché la guerra fredda era
stata la fonte e la materia prima dei suoi romanzi.
Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata
sull’Occi dente e sulle sue malefatte: quelle dei
colossi farmaceu tici, delle banche truffaldine, delle
multinazionali (che magari coltivano segreti legami
con la mafia russa). In realtà anche nei romanzi
scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei
valori (del non rispetto dei valori) dell’Occidente.
Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli
alla luce della contrapposizione tra i due blocchi e
attraverso le imprese dei rispettivi agenti se greti,
come liberato dal dovere di stare «dalla nostra
parte», le Carré ha mantenuto schemi e forma del ge
nere spionistico per applicarli a quel tipo di
invenzione narrativa che è propria del grande
romanzo. Ha messo la suspense al servizio della
rappresentazione del mon do di fine Novecento e di
inizio del terzo millennio, cogliendone
trasformazioni e infamie.

Il romanziere più famoso tra quelli della generazione


degli anni Quaranta è lo scozzese Ian McEwan (1948),
che esordì con due raccolte di racconti che si impose ro
all’attenzione critica non solo per la scrittura fredda,
algida, che dilatava il contrasto tra la materia macabra
del racconto e il distacco con cui veniva illustrata, ma
anche per la natura di quella materia: stupro, incesto, pe
dofilia, violenza gratuita. Ad opera di ragazzini. Anche il
suo primo romanzo, The Cement Garden («Il giardino
di cemento», 1978), mantiene alcune di queste
caratteristi che: la critica lo ha spesso collegato a Lord
of the Flies di Golding, con la differenza che i ragazzi,
quattro fratelli, rimasti orfani prima del padre e poi della
madre, per non finire in orfanotrofio ne nascondono la
morte e la seppel liscono in cantina coprendola di
cemento. A quel punto
realizzano un’anomala «comune» hippy e si costruiscono
una vita segreta, in cui trionfa la morbosità dei rapporti.
Una prima svolta si ebbe con The Child in Time
(«Bambini nel tempo», 1987), che da un lato sposta
l’at tenzione dai figli ai padri, dall’altro mette in
discussio ne la nostra visione del tempo come lineare a
favore di una visione che forse deriva da Ouspensky (il
prima e il dopo, in un’altra dimensione, sono
contemporanei). Il romanzo contiene anche un atto di
denuncia contro l’In ghilterra di Mrs Thatcher:
l’aspetto politico diventerà infatti preminente nei
romanzi degli anni Novanta, The Innocent («Lettera a
Berlino», 1990) e Black Dogs («Ca ni neri», 1992),
che affrontano i grandi nodi dell’Europa moderna,
l’Olocausto, la guerra fredda, la caduta dei re gimi
dell’Europa orientale. Anche a proposito di questi
lavori vale la definizione per cui i romanzi di McEwan
sono avventure nei territori dell’inquietudine: quella è
la sua cifra e con essa conduce il lettore tanto nei
meandri
della mente quanto nei meandri della storia.
I romanzi di McEwan offrono spesso degli «attac
chi» formidabili. Insuperabile è l’inizio di Enduring
Love («L’amore fatale», 1997), con un gruppo di uomi
ni che si sono aggrappati alle funi di una mongolfiera
con un bambino a bordo per impedirle di volare via
e schiantarsi. Il romanzo è l’analisi del rapporto che
si stabilisce tra Joe e Jed, due degli uomini del grup po,
e di come Jed venga travolto da un sentimento di
ossessione amorosa nei confronti di Joe, conducendo
quest’ultimo quasi alla follia e, sentendosi giustamente
minacciato, a idee omicide. Alla fine del libro c’è un
dotto saggio scientifico sulla «ossessione omoerotica»,
con tanto di bibliografia, a firma di due psichiatri. La
cosa interessante è che si tratta di un falso, farina del
sacco di McEwan.
Nei romanzi successivi spesso troviamo un aspetto
«scientifico» che si intreccia con le vicende narrate.
Così avviene in Solar (2010) un libro che affronta il te
ma del riscaldamento globale. Così avviene in
Saturday («Sabato», 2005), che parla della guerra in
Irak ma che, avendo un protagonista neurochirurgo,
contiene tan to di osservazioni tecniche sulla chirurgia
del cervello. Ciò avviene anche in The Children Act
(«La ballata di Adam Henry», 2014) per ciò che
riguarda le procedure processuali e il linguaggio
giuridico in un romanzo il cui tema è quello del rifiuto
delle cure per ragioni religiose. Il suo romanzo più
riuscito è Atonement («Espia zione», 2001),
un’affascinante riflessione sulla natura della fiction e
sulle responsabilità dello scrittore, ma so prattutto
un’esemplare considerazione sul pregiudizio di classe
e, nelle pagine della ritirata delle truppe inglesi verso
Dunkerque, sulla banalità dell’orrore della guer ra.
Atonement è il frutto più affascinante del talento di
McEwan, che finora ha continuato a catturare il lettore
incrociando linguaggi specialistici, grandi temi e bril
lante invenzione narrativa.

Quasi coetaneo di McEwan è Graham Swift


(1949), uno scrittore che spesso si è confrontato con
il senso del passato (nei rapporti famigliari e sociali)
e con il biso gno di recuperarlo. È quanto fa il
protagonista del suo capolavoro, Waterland («Il
paese dell’acqua», 1983), l’insegnante di storia Tom
Crick, che per uscire dalla crisi che lo assilla risale al
suo passato: quello suo perso nale (di ragazzo nella
zona paludosa dei Fens) e quello storico, della
regione in cui è nato. Lo «storico» Tom dà comunque
uguale rilievo tanto ai fatti documentati quanto ai
miti e alle storie di fantasia: finzione e storia possono
tranquillamente coesistere. Di Swift, i cui lavo
ri più recenti sono stati accolti dalla critica con
qualche perplessità, in particolare il «modernista»
Tomorrow (2007), si deve anche ricordare Last
Orders («Ultimo giro», 1995), vincitore del Booker
Prize nel 1996. Il ro manzo, ispirato a As I Lay
Dying («Mentre morivo», 1930) di Faulkner per la
forma narrativa adottata, offre una ricostruzione
affascinante della vita popolare in un comune della
cintura londinese, affidandola alla viva cità della
lingua parlata dei protagonisti, che Swift ha saputo
ricreare con brillante maestria.

Molto apprezzato dalla critica è Martin Amis, anche


lui nato nel 1949, figlio di Kingsley Amis, e conside
rato il maggior esponente della narrativa postmoderna
inglese. Dei suoi romanzi quello che all’uscita fece più
scalpore è Time’s Arrow («La freccia del tempo»,
1991), la storia di un medico tedesco complice
dell’Olocausto, che viene narrata andando a ritroso, con
il protagonista che è sempre più giovane con il
procedere della vicenda, e con un racconto affidato a
una sorta di coscienza pa rallela del protagonista. Il
libro che gli diede il successo è Money. A Suicide
Note («Money», 1984), un romanzo senza trama –
come egli stesso lo definì – che registra la voce del
protagonista John Self, un pubblicitario che crede di
essere padrone del proprio destino, brillante, vitale,
spregiudicato. E che poi si trova sull’orlo del ba ratro
(il suicidio di cui leggiamo nel titolo). A questo punto
l’autore stesso entra nel racconto, con tanto di nome e
cognome, Martin Amis, per salvarlo. Un roman zo
postmoderno, quindi. Ma anche un libro che giusta
mente è stato definito come l’epitaffio del decennio del
cieco rampantismo promosso da Mrs Thatcher. Il lavo
ro più convincente di Amis è London Fields
(«Territori londinesi», 1989), in cui presenta con
indubbio talento
una realtà disastrata e sgradevole, osservata con un di
stacco sprezzante che non esclude l’attrazione. Questi
toni così aspri sono stati in seguito proposti in modo
sistematico, ma dettati più dall’intenzione di scioccare
che non dalla «necessità» del racconto.
Amis ha spesso voluto affrontare i grandi temi –
la guerra nucleare, la rivoluzione femminista,
l’Olocausto (di nuovo, di recente, in The Zone of
Interest), lo sta linismo e l’11 settembre – e i suoi
lavori stanno tra il saggio e la fiction. Rispetto a
molti scrittori impegnati a indagare piccole vicende
private, ben venga l’ambizio ne di affidare alla
letteratura la riflessione sulle grandi questioni che
riguardano l’intera umanità. Il problema è non farsi
prendere la mano dal proprio ruolo di nar ratore,
proponendosi come inventore di storie che alla Storia
ambiguamente si richiamano.

Julian Barnes (1946) è il romanziere inglese più


vicino alla cultura francese e uno dei più critici verso
l’insularità della Gran Bretagna. Barnes aveva
studiato francese a Oxford. Come il protagonista del
suo primo romanzo, Metroland (1980), si era
trovato a Parigi nel 1968 e come lui era poi tornato in
Inghilterra, rinun ciando a sogni di vita non insulare.
E per molti anni non aveva «osato» tentare la strada
della scrittura creativa.
Poi, quasi in contemporanea con Metroland (ma
con lo pseudonimo di Dan Kavenagh), aveva
pubblicato un giallo, Duffy (e altri tre ne diede alle
stampe negli anni se guenti). Barnes, data la sua
familiarità con la cultura fran cese, forse era stato
spinto a scrivere un giallo dal fatto che in Francia
negli anni Settanta c’era stato un fiorire di gialli
anomali, di noir che discendevano, per così dire, dal
Maggio francese: era il genere battezzato néo-polar,
duro, spesso violento, ambientato preferibilmente nei
quartieri
periferici della città. Un genere a suo modo di denuncia
sociale, una specie di «noir anticapitalista». Barnes scelse
come luogo Soho (santuario di gangster, locali porno e
traffici di droga) e come detective un ex poliziotto bises
suale: non esattamente un giallo inglese tradizionale.
La critica si accorse del suo talento all’uscita di
Flau- bert’s Parrot («Il pappagallo di Flaubert»,
1984), un ro manzo in cui, incrociando fiction,
saggistica e curiosità letterarie, Barnes realizza un
godibilissimo omaggio a Flaubert che è al tempo stesso
una dichiarazione sulla passione per la letteratura e
sull’inaffidabilità della cri tica. Il narratore, un medico
di una certa età, vedovo, in «missione» letteraria in
Normandia, procede nel rac conto inanellando una serie
di osservazioni (quasi sem pre critiche) apparentemente
slegate, ma che in realtà Barnes confeziona sul modello
dei saggi di Montaigne. Indagando, tra l’altro, sui libri
che Flaubert finì con il non scrivere, il narratore ne
scrive uno che Flaubert avrebbe sicuramente
apprezzato per il modo in cui le banalità del senso
comune e la loro pretesa di saggezza risaltano nella loro
inconsistenza (comprese quelle dei professori
universitari).
Un altro punto di riferimento letterario di Barnes,
seppure non così rilevante, era il Koestler di Darkness
at Noon, come è evidente da The Porcupine («Il
porco spino», 1992), un romanzo che racconta il
processo a un immaginario ex leader di un paese
dell’Est europeo che in realtà è, grosso modo, Todor
Živkov, capo del Par tito comunista bulgaro. Il libro è
caratterizzato da un atteggiamento critico volutamente
oggettivo ed evita di lanciarsi in una scontata
intemerata contro i regimi dit tatoriali dell’Est europeo:
c’è invece un’attenzione, per la verità poco comune, di
capire le ragioni di chi ragione non ha. Barnes, a questo
riguardo, è voltairiano. Lo sarà
di nuovo in un romanzo uscito di recente, The Noise
of Time («Il rumore del tempo», 2016), che ha come
sog getto il compositore russo Šostakovič, prima
celebrato, poi censurato, poi nuovamente accettato dal
regime so vietico. Il narratore si pone quasi sempre dal
punto di vista di Šostakovič. E gli attribuisce un tipo di
ironia, di confortante «black humour», con cui
sopportare sven ture, minacce e umiliazioni. Il rapporto
tra arte e potere è uno dei temi del romanzo, insieme a
quello della quasi impossibilità, in un regime
dittatoriale e sanguinario, di dire la verità senza perdere
la propria libertà, se non ad dirittura la vita. Nel suo
linguaggio misurato ed elegan te Barnes ha scritto un
romanzo sulla coscienza lacerata di un artista travolto
dal totalitarismo, senza andare alla ricerca di
assoluzioni o condanne.
Anche Barnes, al terzo tentativo, vinse il Booker
Prize. Gli fu assegnato per The Sense of an Ending
(«Il senso di una fine», 2011). Il romanzo è diviso in
due parti, con un narratore, Tony, che nella prima parte
ricorda gli anni della sua gioventù, l’amicizia con un
gruppo di compagni di scuola, gli studi all’università,
lui a Bristol e Adrian, il più brillante del gruppo, a
Cam bridge. L’incrocio tra loro due è segnato dal fatto
che Veronica, la ragazza di Tony, dopo la loro
separazione diventa la ragazza di Adrian: è
quest’ultimo a informar lo per lettera della cosa.
Qualche tempo dopo Adrian si suicida, lasciando uno
scritto in cui spiega che ciascuno, avendo valutato il
senso e il significato della propria vita, ha diritto di
privarsene. La seconda parte del libro costituisce il
ripensamento di ciò che è accaduto alla lu ce dei
documenti e di una piccola somma che la madre di
Veronica le ha lasciato come eredità.
The Sense of an Ending è una riflessione di
sommessa intensità sull’invecchiare e sulla dimensione
del rimpianto
e del ricordo. Il titolo del romanzo è lo stesso del
saggio di Frank Kermode sulla teleologia nella
letteratura, in cui il grande anglista diceva che compito
degli scrittori non è quello di dare un senso alla nostra
vita, ma quello di dare un senso ai modi in cui noi
stessi cerchiamo di dare un senso alla nostra vita.
Barnes ha fatto esattamente questo.

Resta ancora da dire brevemente di Jonathan Coe


(1961), che spesso combina la sua abilità di costruzione
del romanzo alla maniera dei grandi vittoriani con le
so luzioni metaromanzesche del postmoderno. Con
modi narrativi di volta in volta diversi, ma sempre
sorretto da una pirotecnica vena satirica, Coe ha
raccontato la realtà scandalosa dell’Inghilterra di Mrs
Thatcher in modo irresistibile con What a Carve Up!
(«La famiglia Winshaw», 1994) e quella incerta del
nuovo millennio con Number 11 («Numero 11»,
2015). In questo che per ora è il suo ultimo romanzo, e
ricollegandosi a What a Carve Up!, Coe traccia il
quadro contraddittorio della realtà culturale e delle
trasformazioni antropologiche del Regno Unito alla
vigilia di Brexit, sempre combi nando brillantemente
comicità e critica sociale.
L’abilità di Coe nel muoversi in una varietà di forme
narrative ha prodotto un brillante romanzo di spionag
gio in versione comica, Expo 58 (2013), con un
protago nista, il tradizionale impacciato Englishman
abroad, che si ritrova in mezzo ad agenti segreti
inglesi, spie russe e belle ragazze durante lo
svolgimento dell’Esposizione Universale a Bruxelles
con sullo sfondo la guerra fred da. Anche qui,
comunque, il pregio del romanzo deriva dal ritratto
sociale, quello della piccola borghesia ingle se (ma in
fondo dell’Inghilterra tutta) nei suoi patetici anni
Cinquanta di incerte speranze dopo la fine delle
illusioni imperiali.
XII
I romanzieri diversamente inglesi

Un discorso a parte meriterebbero gli scrittori «regio


nali», scozzesi e irlandesi (sempre che questi ultimi non
li si voglia includere tra gli autori cosiddetti postcolo
niali). Di almeno uno per «area» sia concesso di dire
qui brevemente, «sacrificando» lo scozzese Alasdair
Gray e l’irlandese Roddy Doyle.
Il primo è James Kelman (1946), che non manca
mai di sottolineare il fatto di non essere inglese e che
spes so scrive in una lingua che include parole,
espressioni, modi di dire che appartengono alla parlata
scozzese. Uno dei suoi romanzi, in effetti il più bello,
How Late It Was, How Late («Troppo tardi,
Sammy», 1994), vinse il Booker Prize. Un membro
della giuria, Julia Neuberger, rabbina di una sinagoga
di Londra ed esponente del Partito liberale, dichiarò che
il libro era una schifezza. Parte della critica disse più o
meno la stessa cosa. Si riferivano alle molte espressioni
oscene presenti nel li bro? O li indignava il flusso di
parole nel caratteristico
«inglese» di Glasgow che confusamente racconta ciò
che è accaduto a Sammy, il protagonista brutto,
sporco ma non cattivo del romanzo?
Dopo due giorni di sbronza Sammy si risveglia in
un vicolo e litiga con dei poliziotti in borghese che lo
picchiano selvaggiamente, al punto da fargli perdere la
vista. Persino ottenere un certificato di disabilità risul ta
problematico; e intanto viene nuovamente arrestato e
sbattuto in cella. La polizia, e il medico chiamato a
visitarlo, rifiutano di considerarlo cieco. A Sammy non
resterà, forse, che andarsene via.
Nella sua apparente casualità (una voce da
ubriaco ne che racconta a pezzi le sventure di un
ubriacone) il romanzo è costruito con sicura
padronanza della nar razione e ci restituisce una
galleria di personaggi (per non parlare del
protagonista) di inquietante verità. E mette
fortemente in crisi l’idea che abbiamo della Gran
Bretagna come di un paese ben più democratico e
civile del nostro.
John Banville (1945), irlandese, è autore di una ven
tina di romanzi (tra cui uno di spionaggio con un dou-
ble agent al servizio dell’Urss e una trilogia su
Keplero, Copernico e Newton), che, a suo titolo di
merito, sono molto diversi tra loro. In comune hanno
però la raffi natezza della sua scrittura, di una ricchezza
linguistica che rimanda a Joyce ma tenuta insieme da
un rigore e da un’economicità beckettiani. Questa
caratteristica raggiunge il suo risultato più alto in The
Sea («Il mare», 2005), anch’esso vincitore del Booker
Prize. Max, un uomo anziano rimasto vedovo da poco,
va a trascorre re alcuni giorni in una località balneare
dove era stato da ragazzo e dove aveva conosciuto i
membri di una ricca famiglia inglese, i Grace,
rimanendo affascinato soprattutto da madre e figlia.
Max, che spiava i Grace con ammirazione, in
un’occasione cruciale aveva inter pretato erroneamente
ciò che era successo. Quello che aveva creduto di
vedere, sbagliando, avrebbe condizio nato la sua vita.
Proprio alla fine del romanzo, come in
un giallo, giunge la rivelazione, a lui e al lettore, di ciò
che era davvero accaduto.
Spesso in Banville c’è l’idea che bisogna guardare
indietro, scavare in profondità nel passato (e dentro di
sé) per capire il senso della propria esistenza: in The
Sea questa idea è «dimostrata» dal ritorno di Max ai
luoghi dell’adolescenza. Ciò che rende facile e
affascinante se guirlo in questo suo viaggio nel passato
è la qualità della sua prosa. La sua fluidità, il suo nitore,
la sua delicata essenzialità, qui in modo particolare, ma
in tutta la sua produzione romanzesca, sono la delizia
del lettore e il segno della sua eccellenza di scrittore.

Per la verità nelle lettere inglesi ci sono dei roman


zieri ancora meno inglesi di Kelman e Banville. Sono
gli autori nati in Inghilterra (o giuntivi da piccoli) che,
come dice il protagonista del romanzo d’esordio di Ha
nif Kureishi (1954), sono quindi «inglesi dalla testa ai
piedi. Quasi». Così leggiamo nella prima frase di The
Buddha of Suburbia («Il budda delle periferie»,
1990). Kureishi, nato in Inghilterra da padre
pakistano, sia in questo suo felicissimo romanzo
d’esordio, sia nelle sceneggiature e nei successivi primi
lavori, ha proposto personaggi e situazioni che nascono
dall’incontro e dal lo scontro tra i modi di vita, i valori,
i pregiudizi della quotidianità londinese e le tradizioni e
la mentalità de gli immigrati del subcontinente indiano
e dei loro figli nati in Inghilterra. Nel post 11 settembre
lo scontro ha finito spesso con il prevalere
sull’incontro. Il lumicino di speranza sta nel fatto che il
sindaco di Londra sia un pakistano (quasi) inglese.
Diverso il caso di Kazuo Ishiguro (1954), cresciuto
in Inghilterra ma nato in Giappone. I suoi due primi
romanzi sono legati alla condizione del Giappone, re
duce dalla sua guerra imperialista e dalla tragedia della
bomba atomica, in cui rimaneva tuttavia invariata la
limpidezza feroce del suo sistema di valori, accettato
dal singolo come fosse un’indiscutibile legge di natu ra.
Forse è anche per questo che in The Remains of the
Day («Quel che resta del giorno», 1989) Ishigu ro ha
saputo cogliere con stupefacente accuratezza e
profondità la presenza nel mondo inglese di un simile
atteggiamento, estremizzato nella figura del protagoni
sta, il maggiordomo Stevens, che sia nei rapporti con
la servitù, sia in quello con il suo padrone (sostenitore
del nazismo), eleva le regole che sovrintendono il suo
lavoro quasi a tavole della legge. E al tempo stesso
rive la come, in generale, in larga parte della società
inglese la manifestazione dei propri sentimenti sia
ingabbiata, se non repressa, dalla necessità di rispettare
quelle che vengono considerate le irrinunciabili regole
della civile convivenza: senza accorgersi che così
facendo non si convive, ma si vive soli.

La scena letteraria inglese registra un numero cre


scente di interpreti «etnici», di scrittori di genitori non
inglesi nati in Inghilterra e portatori di esperienze e
punti di vista di indiscutibile originalità e diversità. È
troppo presto per tracciarne un sia pur rapido profilo,
anche se nulla vieta di indicare in Andrea Levy (1956),
Helen Adu (1959), Monica Ali (1967) e Zadie Smith
(1975) le maggiori esponenti di quella che viene defi
nita la letteraria Black Britain. Per tutt’altre ragioni
non può trovare posto qui il romanzo degli scrittori
delle letterature in inglese (o postcoloniali che dir si
voglia). È una produzione di grandissimo interesse e
valore che merita un libro a parte, accreditata com’è dal
fatto che ben sette sono gli scrittori postcoloniali ad
essere stati
insigniti del Premio Nobel; e che molti altri sono al
cen tro della scena letteraria internazionale.
Di almeno uno di questi, il maggiore tra loro, Salman
Rushdie, è tuttavia doveroso rendere conto. A Rushdie,
nato nel 1947 a Bombay da famiglia musulmana, giunto
in Inghilterra all’età di quattordici anni ed educato nelle
migliori scuole private e università inglesi, il retroterra
indiano ha fornito non soltanto il materiale per la sua
invenzione romanzesca, ma anche una dimensione e una
forma narrativa; che poi lui ha saputo fondere con alcuni
dei risultati più alti raggiunti dalla forma romanzesca
nel la letteratura occidentale. Il maggior pregio di
Rushdie sta nella sua capacità di scardinare i criteri della
verosi miglianza ponendo sullo stesso piano realtà e
sogno, nar razione realistica e racconto favolistico: i dati
oggettivi si mescolano alle irruzioni del fantastico, in un
gioco che costringe il lettore ad accettare i diversi livelli
di realtà presenti nel romanzo senza dover distinguere
tra di essi. Questa è la cifra di Rushdie, riproposta
con inven zione fantastica sempre nuova in tutti i
suoi romanzi, sino al più recente Two Years Eight
Months and Twenty- Eight Nights («Due anni, otto
mesi e ventotto notti», 2015), una distopia che si
conclude in utopia (con ri serva) attraverso una
vicenda che mescola un lontano futuro con un
presente quasi realistico a New York e un presente
extraterreno popolato dai «geni» della tra dizione
favolistica orientale – quei due anni, otto mesi
e ventotto notti fanno mille e una notte.
Rushdie è un funambolo della narrazione che sta
bilisce con il lettore un contatto costante, strizzandogli
l’occhio e rendendolo complice dell’invenzione narra
tiva. È un maestro di suspense, che anticipa particolari
di ciò che verrà raccontato in seguito e semina indizi
dei futuri sviluppi della vicenda riuscendo a produrre,
quando poi si verificano, un atteggiamento di «rico
noscimento» da parte del lettore. Ed è un maestro di
humour, dotato non soltanto di un gusto per il gioco di
parole quasi joyciano, ma anche di un’ironia sferzante,
capace di cogliere nel tragico l’aspetto comicogrotte sco
che costituisce un motivo non secondario del «di
vertimento» del lettore nel momento in cui è chiamato
a testimoniare di una realtà miserabile e crudele.
Un importante aspetto dell’opera di Rushdie è
quello del rapporto con la storia. Midnight’s Children
(«I figli della mezzanotte», 1981), il più bel romanzo
di lingua inglese degli ultimi quarant’anni, copre il
periodo che va dal 1915 al 1977; le vicende del
protagonista di Shame («La vergogna», 1983) sono
fittamente intrecciate con la storia del Pakistan; The
Moor’s Last Sigh («L’ultimo so spiro del Moro»,
1995) spazia dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri;
le travolgenti vicende narrate in Shalimar the Clown
(«Shalimar il clown», 2005) mescolano la se conda
guerra mondiale e la Resistenza con la sanguinosa
storia del Kashmir e il terrorismo islamista.
Ma il rapporto tra la vita dei singoli e la storia avvie
ne al di fuori delle categorie familiari al romanzo occi
dentale. Saleem, il protagonista di Midnight’s
Children, distorce i fatti storici perché scrivendo la
propria vi ta vuole trovarne un significato adattando
ad essa gli avvenimenti, in modo tale che il lettore sia
costretto a riconoscergli un ruolo centrale rispetto a
questi ultimi. Questo però, più che un processo
cosciente, è il frutto della distorsione della memoria. E
tuttavia, afferma Sa leem, è la memoria che ricostruisce
la storia; e l’uomo, che non è in grado di scriverla
oggettivamente, può co glierla soltanto attraverso la
distorsione soggettiva del ricordo, che la mescola
all’illusione, che la ingigantisce nel mito.
Un simile discorso vale anche per Shame, dove di
nuovo fatti storici e accadimenti surreali concorrono a
scrivere la storia del Pakistan. E così per The Moor’s
Last Sigh, dove le vicende private dei personaggi
vengo no fantasiosamente fatti coincidere con i grandi
avveni menti della storia moderna. E nel romanzo
successivo, The Ground Beneath Her Feet («La terra
sotto i suoi piedi», 1999), il terremoto che devasta il
Messico non avviene nel 1985, ma nel 1989, in modo
da coincide re con la condanna a morte pronunciata da
Khomeini, l’anno del terremoto nella vita di Rushdie.
Nei suoi ro manzi la verità, compresa la verità storica,
nasce dalla
«trasfigurazione» di ciò che è accaduto.
La stupefacente capacità di Rushdie di porre sullo
stesso piano narrazione realistica e invenzione fanta
stica sono alla base anche del romanzo che scatenò la
fatwa di Khomeini, The Satanic Verses («I versi
satani ci», 1988). Nel libro c’è materia per almeno tre
romanzi, in un susseguirsi di storie mirabolanti che si
intrecciano con quelle dei due protagonisti; ma c’è
anche la rivisita zione romanzesca di alcuni nodi della
cultura islamica che si possono ricondurre a un unico
tema, quello del rapporto tra laicità e religiosità. E
anche, meno diret tamente, su quel legame tra religione
e potere le cui tragiche conseguenze, come si è visto
poi, insanguinano da anni il mondo musulmano – e
anche il nostro. Nei Sa- tanic Verses c’è una
sottolineatura sottile del valore della tolleranza, un tema
che illumina molte delle pagine più belle di The
Moor’s Last Sigh e di Shalimar the Clown; e che
ritorna a fianco della contrapposizione teologica che
troviamo in Two Years Eight Months and Twenty-
Eight Nights. È una tragica ironia che un libro in cui
si rivendicava tale valore abbia offerto l’occasione per
una condanna che nell’intolleranza ha il suo
fondamento.
A Rushdie siamo tutti debitori non solo per la
bellez za della sua invenzione romanzesca, ma anche
perché, con i suoi libri e con la testimonianza della sua
vita di uomo braccato dalla minaccia fanatista, ci fa
ricorda re che quello della tolleranza è un valore
basilare del la nostra civiltà. Un valore conquistato
relativamente di recente e minacciato dai populismi,
ma a cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare,
perché fa ormai tutt’uno con la nostra idea di umanità.
Per saperne di più

Per orientarsi nei territori del romanzo, due agili volumetti


possono servire da guida: il «classico» saggio di E.M. For
ster, Aspects of the Novel, pubblicato nel 1927 e scaricabile
gratuitamente da www.exordio.qfb.umich.mx, e il manuale
di John Sutherland intitolato How to Read a Novel, Profile
Books, London 2006. Per chi deve scrivere una tesi
magistrale saranno invece ricchi di suggerimenti i cinque
volumi a cura di Franco Moretti, Il romanzo, Einaudi,
Torino 20012003.
Per saperne di più sul romanzo inglese si indicano qui
(uno per ciascun periodo) gli studi e i manuali in inglese di
maggiore interesse e utilità:
J. Richetti (ed.), The Cambridge Companion to the Eighteenth-
Cen- tury Novel, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
G. Kelly, English Fiction of the Romantic Period, 1789-1830,
Long man, London 1989.
J. Sutherland, The Longman Companion to Victorian Fiction, Pear
son Educational Ltd, Harlow 2009.
R. Williams, The English Novel from Dickens to Lawrence, Chatto
& Windus, London 1970.
P. Nicholls, Modernisms. A Literary Guide, Macmillan, London
1995.
M. Bradbury, The Modern British Novel, Sacker & Warburg, Lon
don 1993.
E infine, di Terry Eagleton, The English Novel. An Introduction,
Blackwell, Oxford 2005.
17
7
Indice dei nomi

Ambler, E., 133134.


Conan Doyle, A., 89, 90.
Amis, K., 136137.
Congreve, W., 34, 6.
Amis, M., 164165.
Conrad, J., 96101, 108.
Auerbach, E., 107.
Austen, J., 4351. Defoe, D., 8, 1016.
Dickens, C., 5663.
Bachtin, M., 7, 55.
Diderot, D., 19.
Bainbridge, B., 146147.
Durrell, L., 152.
Ballard, J.G., 155157.
Banville, J., 170171. Eagleton, T., 70.
Barnes, J., 165168. Eliot, G., 7376.
Beckett, S., 117118. Eliot, T.S., 111.
Beckford, W., 37.
Behn, A., 4. Fielding, H., 2429.
Bennett, A., 9192. Fleming, I., 136.
Brontë, A., 66. Ford, F.M., 103106, 108.
Brontë, C., 6669. Forster, E.M., 101103.
Brontë, E., 6971. Fowles, J., 154155.
Buchan, J., 133.
Burgess, A., 152154. Galsworthy, J., 9293.
Gaskell, E., 72.
Carroll, L., 79. Golding, W., 141142.
Carter, A., 147149. Greene, G., 59, 105, 134, 137
Cervantes, M., 6, 28. 141, 159.
Childers, E., 88.
Christie, A., 89, 132. Hardy, T., 8387.
Coe, J., 168.
Collins, W., 88. Isherwood, C., 128129.
Ishiguro, K., 171172.
17
9
Jerome, J.K., 78. Richardson, S., 89, 1924.
Joyce, J., 109113. Rushdie, S., 172176.

Kelman, J., 169170. Scott, W., 3842.


Kipling, R., 9396. Shelley, M., 5152.
Kureishi, H., 171. Sillitoe, A., 136.
Smollett, T., 2930.
Lawrence, D.H., 113, 121124. Spark, M., 144146.
Leavis, F.R., 43. Sterne, L., 3135.
le Carré, J., 158161. Stevenson, R., 7982.
Lessing, D., 142144. Sutherland, J., 61.
Lewis, M.G., 37. Swift, G., 163164.
Lowry, M., 118120. Swift, J., 1619.
Lukács, G., 4041.
Thackeray, W.M., 6366.
Maugham, W.S., 92, 124126, Trollope, A., 7678.
133, 158.
McEwan, I., 161163. Walpole, H., 3637.
Waters, S., 150151.
Orwell, G., 130132. Waugh, E., 126128.
Wells, H.G., 9091.
Polidori, J., 52. Wilde, O., 8283.
Winterson, J., 149150.
Radcliff, A., 38. Wodehouse, P.G., 132133.
Rendell, R., 89. Woolf, V., 4, 43, 108, 113116.
Indice del volume

Premessa vii

I. Gli inizi 3

II. Il romanzo del primo Settecento: Defoe,


Richardson e Fielding (per non parlare
di Swift) 8

III. Nuove strade romanzesche: Sterne,


il «gotico», il romanzo storico 31

IV. Una stanza tutta per lei 43

V. Il romanzo vittoriano, parte prima:


Dickens, Thackeray e le sorelle Brontë 53

VI. Il romanzo vittoriano, parte seconda:


Eliot, Trollope, Stevenson e Hardy 72

VII. Fine secolo e bella (?) «époque» 88

VIII. Il Modernismo 107

1
8
IX. Al di fuori del Modernismo 121

X. Il romanzo del secondo Novecento 135

XI. I romanzieri di oggi 158

XII. I romanzieri diversamente inglesi 169

Per saperne di più 177

Indice dei nomi 179

1
8

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