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Il Romanzo Inglese
Il Romanzo Inglese
Paolo Bertinetti
Jl rom
inglese
Universale Laterza
954
Paolo Bertinetti
Il
romanzo
inglese
Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli
www.laterza.it
2017
Edizione
1 24 5 3
Anno
2017 2018 2019 2020 2021
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un furto e opera
ai danni della cultura.
a Elisabetta, Letizia e
Riccardo
Premessa
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le, quello in cui vivevano, e che riguardavano perso
naggi grosso modo come loro, comuni mortali,
magari eccezionali per certi loro aspetti, ma non
lontani dalle persone che si potevano incontrare nel
mondo reale. È curioso che a definire la natura del
romanzo e a scriver ne uno (così nel frontespizio lo
definisce il sottotitolo di Incognita, che tuttavia
proprio romanzo non è, ma che è piuttosto una
novella «esotica», ambientata a Firen ze), sia stato
William Congreve (16701729), e cioè un
drammaturgo.
Più curioso ancora è il fatto che il primo romanzo di
lingua inglese, Oroonoko, sia stato scritto da
un’autrice teatrale, Aphra Behn (16401689). Suo padre
era stato nominato governatore del Suriname, all’epoca
possedi mento inglese nel Sudamerica tropicale, terra di
pian tagioni di canna da zucchero e inferno in terra per
gli schiavi che in esse lavoravano; ed Effray Johnson –
que sto il nome originario di Aphra – là lo aveva
seguito. Ma alla morte del padre tornò in Inghilterra,
sposò il signor Behn, restò vedova, fece la spia di Sua
Maestà con il nome di Astrea e si mise a scrivere testi
teatrali. Di buon successo: fu la prima donna, ricordava
Virginia Woolf, che riuscì a mantenersi con la sua
attività di scrittrice.
E scrisse – come si è detto – anche un romanzo,
Oro- onoko, pubblicato nel 1688, in cui fece
confluire i suoi ricordi del Suriname, dei
maltrattamenti feroci subiti dagli schiavi e
dell’ipocrisia dei loro cristianissimi pa droni. Il
romanzo si presenta come la «vera storia» di
Oroonoko, principe africano catturato e deportato in
America, dove già era stata deportata la sua
innamorata (che sposerà). A raccontare le sue
vicende, di per sé così affascinanti che per divertire il
lettore non c’era nessun bisogno di «aggiungere
alcunché di inventato», è un’a nonima giovane donna
inglese che lo aveva conosciuto
e ne aveva apprezzato la nobiltà (un’anticipazione del
Buon Selvaggio) e che ne illustra le imprese coraggiose
e la rivolta degli schiavi da lui promossa. Con
l’inganno, Oroonoko verrà catturato, e poi giustiziato
ferocemen te e sadicamente per il diletto della folla. Se
Incognita più che un romanzo è una lunga novella,
Oroonoko è già un romanzo (breve), nonostante le
caratteristiche della sua forma narrativa, che spesso sa
di «memoriale», di diligente rapporto su fatti accaduti.
Che in realtà non sono accaduti, ma che, come è proprio
del romanzo, sono presentati come se lo fossero.
Quei fatti sono racchiusi in un racconto di avveni
menti che – per quanto straordinari per ambientazione,
protagonista e vicende stesse – appartengono al mondo
reale. Ancora esotico, come sarà trent’anni dopo per il
primo grande romanzo inglese, Robinson Crusoe, ma
entrambi legati alla nuova realtà della potenza britanni
ca, alle sue colonie, ai suoi commerci sugli oceani, alle
sue nuove ricchezze e alle sue nuove imprese econo
miche. Imprese di cui era protagonista la borghesia, la
classe sociale che nel corso del Seicento, e poi in modo
istituzionale con la Gloriosa Rivoluzione del 1688, ave
va assunto un ruolo centrale nella società inglese.
In Inghilterra la nascita del romanzo e l’ascesa
della borghesia sono due fenomeni fortemente legati
tra loro. Si può essere più o meno d’accordo con la
definizione di Hegel del romanzo come «moderna
epopea borghe se», si può avere più di una riserva
sulla tendenza a far nascere il romanzo con il
romanzo inglese (cosa che se condo me non è). Si
può sottolineare il fatto che forme di narrazione i cui
protagonisti non avevano le carat teristiche di quelli
del romanzo, ma che tuttavia rac contavano una
dimensione vicina a quella della realtà quotidiana,
già esistevano da tempo, addirittura dall’età
classica. Ma non può esserci dubbio sul fatto che i
va lori espressi dai romanzieri inglesi del Settecento
erano i valori propri della classe borghese e che il
realismo dei loro romanzi ben si accordava con le
aspettative di un pubblico di lettori che volentieri
accettava di essere intrattenuto con storie che fossero
radicate nella real tà del proprio mondo, che avessero
come protagonisti personaggi vicini alla loro
esperienza, che raccontassero vicende la cui
«morale» corrispondesse ai propri prin cipi morali.
Anche nella letteratura inglese dei secoli precedenti
c’erano state forme di narrazione che facevano capo
alla quotidianità, come ad esempio i rogue pamphlets
(sto rie di malavita) pubblicati sul finire del
Cinquecento e nel primo Seicento, dei veri e propri best
seller con cui autori di romances e testi teatrali, come
il raffinato Ro bert Green o il prolifico drammaturgo
Thomas Dekker, riuscivano a fare cassa. Ma è difficile
considerarli dei veri precedenti. Così come è difficile
immaginare che le teorie francesi sulla
«verosimiglianza» a cui Congreve era debitore, o la
formidabile incursione nei linguaggi popolareschi del
Gargantua e Pantagruel di Rabelais, o la riflessione
psicologica offerta dalla Principessa di Clèves,
costituissero un punto di riferimento per i romanzieri
inglesi. Lo era invece, e lo dichiaravano esplicitamente,
il Don Chisciotte di Cervantes. Vuoi perché costituiva
un modello formidabile del modo in cui una storia
poteva essere raccontata (per il taglio generale, ma
anche per come inseriva altre storie nella storia
principale), vuoi perché dimostrava che il mondo del
romance – e cioè le illusioni e gli autoinganni
cavallereschi di don Chisciotte
– era in pieno contrasto con il mondo reale.
Il romanzo inglese, dunque, non parlerà di re e regi
ne, ma della vita di tutti i giorni; non userà un
linguaggio
raffinato, ma sfrutterà la ricchezza del linguaggio
quoti diano; non narrerà storie stupefacenti collocate
nei cieli della fantasia cavalleresca ma racconterà,
come spesso si legge nel sottotitolo dei primi
romanzi, delle «storie vere»: spesso straordinarie,
capaci di suscitare interesse e fascino, ma storie
«davvero accadute». Il romanziere catturerà
l’attenzione del lettore parlandogli del mon do di cui
fa parte e che ben conosce, proponendogli vicende
ed esperienze che non gli appartengono ma che
potrebbero essere state vissute da uomini e donne del
suo tempo e della società a lui contemporanea.
Come sostiene Bachtin, il romanzo è il genere
lette rario contemporaneo per sua natura, che
costantemente muta e si rinnova con il mutare del
tempo storico. È un genere letterario in divenire e
ancora incompiuto: non ha un «canone» come gli
altri generi letterari, perché di volta in volta si
reinventa, si dà nuove caratteristiche e nuove
soluzioni e sempre si àncora alla realtà contem
poranea per darsi nuove forme che ad essa corrispon
dano e che sappiano ritrarla.
II
Il romanzo del primo
Settecento: Defoe, Richardson
e Fielding (per non parlare di
Swift)
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percorrere nuove strade romanzesche. Già prima, però,
non sempre romanzo e realismo erano termini coinci
denti. Tutti i primi romanzi si presentavano come
histo- ries – di fatti veri – e non stories – di fatti
inventati. E tuttavia il problema della loro veridicità
suscitava qual che imbarazzo già allo stesso
Richardson. Se racconto una storia vera, allora faccio
del giornalismo; se invece suggerisco al lettore che ho
scritto un’opera di fantasia, allora vacilla l’idea stessa
di romanzo come racconto di fatti realmente accaduti.
Per noi, tre secoli dopo, il problema non si pone più.
Il romanzo è fiction, parola inglese che in letteratura ha
perso il significato originario di finzione/falsità per as
sumere quello di creazione letteraria (l’ambiguità, a ben
vedere, sta già nel termine stesso): ebbene, attraverso
l’invenzione romanzesca, a cui il lettore crede anche se
non vi crede, l’autore gli racconta che così è la vita, che
così gioiamo e soffriamo, che così ci affanniamo inu
tilmente o lottiamo con successo. Non è vero che così
è accaduto. Ma ciò non rileva, perché è vero che così
potrebbe accadere; e a partire dalle vicende narrate e
dalle esperienze di vita che il romanzo propone, il let
tore, se vorrà, potrà riflettere sulla propria vita. Oppure
limitarsi a fantasticare.
Ma torniamo agli inizi, al primo Settecento, per pro
vare a rispondere alla domanda: «Chi erano i lettori?».
È difficile stabilire quale fosse il livello di alfabetismo
nell’Inghilterra del Settecento, ma il prezzo
decisamente elevato dei libri fa capire che solo una
parte ristretta del la popolazione alfabetizzata poteva
comprarli. In quanto ai romanzi, ad acquistarli e a
leggerli erano soprattutto le donne dell’upper middle-
class, la dama e la sua cameriera personale, mentre il
marito, in genere, era impegnato a leggere i libri
contabili, a bere o ad andare a caccia con
gli amici; o comunque a intrattenersi fuori casa
piuttosto che nel suo studio davanti a un buon
romanzo.
Il quale romanzo presentava, non solo per la
came riera ma anche per la dama, un altro motivo di
interesse per il fatto di parlare del presente: proprio
in quanto ambientato nel mondo reale per vicenda e
personaggi, non richiedeva – per essere apprezzato –
quella cono scenza della cultura classica (negata alle
donne) che in vece la lettura dei romances
presupponeva.
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essere lui l’autore (cioè l’autorità rispetto alla
materia narrata): e, in fondo, in parte lo mena per il
naso, trascinandolo nella miriade
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di dettagli, digressioni, aneddoti «gratuiti» e andirivie
ni temporali che si susseguono per i dodici volumi del
romanzo.
Tristram, l’eroe/narratore, si propone di
raccontare la storia della sua vita, decidendo
ovviamente di inizia re, con ordine, dalla nascita. Ma
presto si rende conto che per spiegare ciò che è
diventato occorre tornare indietro, a prima del suo
battesimo (con quel nome sfortunato che gli fu dato
per errore), a prima della sua nascita, addirittura al
momento del suo concepimento: concepimento che è
occasione di una delle pagine più divertenti del
romanzo, con quel padre maniacale e de terminista
che pensa di poter stabilire a priori come sarà suo
figlio – naturalmente sbagliando tutto.
Tristram scrive, ma mentre scrive segue il filo dei
suoi pensieri e interrompe di continuo l’ordine cro
nologico della narrazione con le continue digressioni
e con il racconto della vita delle persone a lui vicine,
dai suoi genitori al simpatico parroco Yorick, dallo
zio Toby, fissato con la ricostruzione dell’assedio di
Namur in cui combatté e fu ferito, al suo servitore, il
caporale Trim (altra versione inglese della coppia
don Chisciotte e Sancho). Per non parlare della
vedova Wadman, con le sue trame per farsi sposare
dallo zio Toby, e di una vera e propria galleria di
deliziosi personaggi minori.
Ma mentre scrive il tempo passa; e Tristram si trova
sempre più lontano dal momento in cui la narrazione
potrà «raggiungere» il presente. È una «missione im
possibile» come dice lui stesso quando, finalmente,
nel terzo volume, giunge a parlare del giorno della sua
nascita: dato che ci ha messo un anno per arrivare fin
lì, adesso avrà 364 giorni in più da raccontare. Il suo
problema è quello di trovare un equilibrio tra il tempo
della scrittura, il tempo degli avvenimenti narrati e, non
ultimo, come lui stesso fa notare, il tempo della lettu ra.
Quest’ultima difficoltà rimanda però alla soluzione: nel
senso che soluzione non c’è, ma che il racconto
procederà comunque, intrattenendo il lettore con una
«conversazione» che giocherà sull’impossibilità stessa
e che lo divertirà con nuove sorprese, nuove digressioni,
nuove storie nella storia.
L’impresa letteraria compiuta da Sterne è davvero
rivoluzionaria, sia per ciò che riguarda la forma, sia per
ciò che riguarda il linguaggio. Ogni tipo di figura reto
rica, ogni specie di artificio grammaticale o sintattico,
ogni categoria di linguaggio e gergo professionale, ogni
modo in cui avviene la comunicazione scritta, viene
rivisitato e smontato, alla ricerca e alla sottolineatura
dei limiti della parola nella sua capacità di comunicare
i significati che vuole trasmettere. È anche per questa
ragione che Sterne utilizza una serie di espedienti non
verbali – asterischi, spazi bianchi, ghirigori, pagine
marmorizzate – che con la loro «oggettività» pongono
rimedio all’ambiguità della parola. Ragion per cui, ad
esempio, una pagina nera sarà la forma di comunicazio
ne più corretta quando Yorick chiuderà gli occhi «per
non aprirli mai più».
Le trovate grafiche sono poi un modo ulteriore at
traverso il quale Sterne pone il lettore di fronte al fatto
di avere davanti agli occhi un’opera di finzione: non
l’autobiografia di Tristram Shandy, ma il prodotto della
fantasia di un romanziere. D’altronde, a dispetto del
titolo, Tristram Shandy non è neppure una biografia:
della vita di Tristram sappiamo ben poco, delle sue opi
nioni poco di più. Semmai ne sappiamo di più delle
opinioni di suo padre e della vita dello zio Toby. Nel
procedere della narrazione l’autobiografia si perde: nel
suo voler essere preciso, nel suo voler raccontare tutto
nei minimi particolari, Tristram accumula migliaia di
informazioni; e annega la sua personale esperienza in
un mare di parole che appena ce la lasciano scorgere.
Questo modo di procedere da un lato sembra di
chiarare l’impossibilità della forma romanzesca, in par
ticolare di quella che si presenta come (auto)biografica,
perché essa presuppone un percorso cronologico linea
re, mentre la realtà non lo è. Ma dall’altro lato dimostra
la vitalità del nuovo genere e la sua straordinaria dut
tilità, che, a differenza dei generi classici, gli consente
di trovare nuove strade e nuove forme a cui affidare
l’invenzione letteraria. A questo merito bisogna poi
aggiungerne uno ulteriore: Tristram Shandy inventa
un nuovo tipo di humour, meno feroce di quello di Swift
(che per Sterne era un punto di riferimento decisivo) e
meno aristocratico di quello di Fielding, sebbene non
meno sottile nella sua divertita bonomia – il cosiddetto
Shandean humour.
Sterne pensava che il buonumore fosse una virtù e
che, di fronte alle miserie della realtà, fosse la dote che
meglio permetteva di superarle; senza farsi illusioni
sul la possibilità di un qualche disegno provvidenziale,
ma contando su ciò che di positivo può albergare
nell’animo umano. Nel 1768, poco dopo la sua morte,
fu pubbli cato il suo romanzo di viaggio intitolato A
Sentimental Journey through France and Italy (il
«Viaggio sentimen tale» tradotto da Ugo Foscolo).
Sterne lo presentava come un libro il cui scopo era
quello di insegnarci ad amare il mondo e il nostro
prossimo, grazie al fatto che il narratore, il parroco
Yorick, in nome della sensibility, indugiava su piccoli
episodi, sui dettagli, sui particolari, per proporne una
lettura «sentimentale».
Sensibility è il termine chiave per capire la cultura
della seconda metà del Settecento inglese. Il filosofo
David Hume, nel suo fondamentale Trattato sulla
natu- ra umana, spiegava che l’uomo ha una naturale
inclina zione a cercare anche la felicità e il benessere
dei propri simili. Da questa idea di una naturale
«simpatia socia le», su cui Hume fondava tutta la
vita morale, discende che la benevolenza è una virtù
di cruciale importanza, quella che consente di
provare sintonia e vicinanza con gli altri, di «provare
sentimento». La sensibility consiste in questa capacità
di «sentire»; e chi la possiede è un esemplare man
of feeling, un uomo in cui risplende la virtù del
sentimento.
Nel Sentimental Journey sentimento e
sensibility sono al centro della narrazione; e questo
spiega il suo enorme successo nel Settecento e nel
primo Ottocento. Tuttavia non possiamo escludere il
sospetto che i let tori settecenteschi (e in seguito i
romantici) siano stati ingannati da Sterne, che in
realtà si sarebbe divertito a prendere in giro gli
aspetti di estrema sensibilità mani festati dal parroco
Yorick. Per cui, accanto alla paro dia della
popolarissima letteratura di viaggio, il libro
nasconderebbe un atteggiamento di satira parodica
nei confronti dell’altrettanto popolare filosofia
dell’epoca. Se però così non è, allora dobbiamo
pensare che in que sto libro, scritto poco prima di
morire e con la consape volezza dell’imminenza
della morte, si siano fusi, come sosteneva De Quincey,
humour e pathos. La sua tesi non è affatto peregrina:
in fondo sono proprio queste due componenti che
caratterizzano, contraddittoriamente, buona parte
della cultura inglese del Settecento.
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ne che nella sua opera narrativa è indicata come
quella assolutamente da evitare.) Le sue eroine sono
giovani donne intelligenti, graziose, modestamente
eleganti, ri spettosissime dello statu quo in ogni
ambito, sociale e privato. E quando Emma, la
protagonista del romanzo eponimo, che è
decisamente ricca, sposa Mr Knightley, tutto il suo
denaro diventa proprietà del marito: perché è così
che prevedono le leggi e il costume. E quindi è così
che è giusto che sia.
Spesso si fa notare come «piccole» siano le vicende
narrate nei romanzi di Jane Austen. Piccole, ma rac
contate con l’eleganza linguistica, la padronanza com
positiva, la capacità di creare personaggi di affascinante
verità che sono proprie del grande romanziere. La sua
vita e la limitatezza delle sue esperienze non ci dicono
molto sulle ragioni della sua grandezza, ma può comun
que essere utile accennarne brevemente. Jane Austen
(17751817) era la figlia di un reverendo anglicano, che
fu anche il suo «precettore». L’ambiente famigliare in
cui crebbe era sereno, gradevole, favorevole alla lettura
e agli svaghi «innocenti». La giovanissima Jane, che
ave va un rapporto molto affettuoso con fratelli e
sorelle, si dedicava con entusiasmo alla scrittura; ma
nascondeva il manoscritto a cui stava lavorando
affinché nessuno lo vedesse fino a quando, una volta
completato il raccon to, veniva poi letto ai famigliari.
Quando la famiglia si spostò a Bath, luogo termale di
consolidata mondani tà, Austen non si trovò
particolarmente a proprio agio; come ancor meno si
sarebbe trovata a proprio agio a Londra, dove si recò
fuggevolmente in poche occa sioni. L’ambiente che le si
confaceva era quello della campagna inglese, dello
Hampshire soprattutto, dove i rapporti sociali, le
occasioni di incontro, gli inviti e i balli, il ritmo della
vita quotidiana, erano quelli dettati
dalle convenzioni e dai valori del settore sociale in essa
dominante, quello della gentry, la classe dei grandi
pro prietari terrieri.
Nel Settecento il ruolo politico e sociale di questa
classe era stato di grandissimo rilievo. Tuttavia verso
la fine del secolo, quando Austen incominciò a
scrivere i suoi romanzi, la rivoluzione industriale,
con la creazio ne di nuove grandi ricchezze collocate
nelle città e non nelle campagne, aveva indebolito il
peso specifico della gentry grazie all’emergere di un
settore sociale legato all’industria e ai commerci
altrettanto ricco e altrettan to influente. In molti casi
la gentry si accinse perciò ad accogliere codici di
comportamento e valori propri del ricco ceto urbano
nel momento stesso in cui ne acco glieva le ricchezze
tramite il matrimonio.
Austen coglie con prontezza questa trasformazione
e si fa promotrice dei valori «rurali» di una classe
socia le il cui modo di vivere era considerato
l’incarnazione dell’essenza stessa della società inglese.
E invita la gen- try a continuare ad essere «ciò che era
sempre stata» e di attenersi saldamente ai propri
principi e alle proprie convenzioni sociali. Tanto più
che quelle convenzioni, quell’insieme di norme non
scritte che ne regolavano i
«costumi», erano uno strumento di grande importanza
per assicurare alla gentry il rispetto e il consenso di
tutta la società inglese, in particolare di quei settori
sociali che le erano inferiori. I suoi romanzi parlano di
corteg giamenti e di matrimoni; ma questo è il tema che
sta alla base di tutto.
Jane Austen era guidata da un profondo senso
mo rale e da un senso del dovere (da etica
protestante) che, in certi casi, voleva dire
confrontarsi con la propria co scienza senza alcuna
indulgenza verso di sé. Le sue con vinzioni etiche
non sono affidate alla voce del narratore,
ma al comportamento e alle riflessioni dei
personaggi, al modo in cui affrontano le difficoltà
che si trovano di fronte e al modo in cui lasciano
cadere i loro commenti sui piccoli contrattempi, sulle
grane di poco conto, sulla vita quotidiana dei loro
parenti e conoscenti.
Al centro dei romanzi di Jane Austen c’è il matrimo
nio. L’eroina, in genere, ha un corteggiatore «giusto» e
un corteggiatore «sbagliato», uno cioè che decisamente
non fa per lei. La Elizabeth Bennett di Pride and
Preju- dice deve decidere se accettare la proposta
dell’insignifi cante Collins (sistemando se stessa e
l’intero patrimonio famigliare), o dimenticare le prime
impressioni negative e accettare la corte
dell’affascinante Darcy. Emma deve scegliere tra il
brillante Frank Churchill e il non più gio vanissimo (e
un po’ opaco) Mr Knightley. La Marianne di Sense
and Sensibility deve decidere se lasciarsi in cantare
dal travolgente Willoughby o se invece abban donarsi
alla sicurezza che le offre il posato Colonnello Brandon
(anche lui privo del fascino della gioventù).
L’amore, che pure è condizione necessaria e indi
spensabile, deve fare i conti con la realtà. Il romantico
trasporto amoroso non può essere il fattore decisivo,
perché il futuro sposo deve meritare la stima della fan
ciulla e deve essere in grado di garantirle la sicurezza
economica. Due cuori e una capanna è un modo di dire
che Jane Austen avrebbe ritenuto infondato e perico
losamente ingannevole. Le era chiarissimo quale fosse
la condizione della donna nella società dell’epoca, e in
particolare nell’ambiente sociale in cui sono ambientati
i suoi romanzi. Per esperienza personale sapeva bene
che una buona dote era indispensabile per contrarre un
buon matrimonio; e che al di fuori del matrimonio una
donna aveva pochissime possibilità di realizzarsi. An
che la possibilità di diventare una scrittrice, ad esempio
nel suo caso, era comunque stata resa percorribile
solo grazie ai solidi rapporti famigliari, in particolare
con il fratello, che le avevano offerto le condizioni
materiali per potersi dedicare alla scrittura.
I due romanzi in cui Jane Austen espone in modo
più evidente la sua ricetta su come giungere a un feli ce
matrimonio (perché, sia chiaro, è solo il suono delle
campane nuziali che può sancire lo happy ending
della storia narrata) sono Sense and Sensibility
(«Ragione e sentimento», 1812) e Pride and
Prejudice («Orgoglio e pregiudizio»), scritto in una
prima versione nel 1796 e pubblicato nel 1813.
Il primo contiene la dimostrazione di come non ci si
debba abbandonare al romanticismo dei sentimenti e
si debba invece esaminarli alla luce della ragione.
Pride and Prejudice (il cui titolo nella prima versione
era First Impressions) spiega come non si debba
giudicare in base alle apparenze e non si debbano far
prevalere emozioni e sentimenti come il pregiudizio e
l’orgoglio (di cui sono in effetti colpevoli entrambi i
protagonisti, sia Elizabeth, sia Darcy), se si vuole
evitare di commettere clamorosi errori di valutazione.
La cosa è ancora più grave quando, come nel caso in
questione, sensazioni e sentimenti di quel genere vanno
a intralciare, se non a soffocare, il più prezioso dei
sentimenti, è cioè l’amore. Felicemente, alla fine
l’amore trionferà e i due giovani si uniranno in un
matrimonio basato non solo sull’amore, ma sul rispetto
reciproco che si è andato affermando man mano che le
circostanze – e la ragione – eliminavano il paraocchi
del pregiudizio che impediva loro di vedersi per ciò che
essi erano e non per ciò che erano apparsi l’uno all’altra
in base alle loro «prime impressioni».
Darcy è molto ricco, come Elizabeth ben sa e come
l’autrice, dati alla mano, sottolinea: ma senza alcuna
ironia, perché la sicurezza economica è di fondamenta
le importanza per il matrimonio. E tuttavia, proprio a
questo proposito, c’è uno splendido esempio di ironia
nella prima frase del romanzo: «È una verità univer
salmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di
un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie».
L’ironia non è diretta all’affermazione in sé, ma al
modo in cui la madre di Elizabeth, che ha ben cinque
figlie con una dote modesta da sistemare, trasforma le
sue attese e le sue speranze in un dato di fatto di
indiscuti bile verità. L’ironia di Jane Austen, che è una
delle doti maggiori della sua prosa (e che spesso
sparisce negli adattamenti cinematografici e nelle
versioni abbreviate dei libri per ragazze), corrisponde al
tipo di ironia che verosimilmente veniva coltivato dai
membri più bril lanti della gentry, quelli che le
facevano da punto di riferimento. È l’ironia di chi
critica gli eccessi, la man canza di misura,
l’approssimazione, la superficialità di persone che
comunque condividono gli stessi valori e principi.
L’ironia di Jane Austen, a differenza di quella di un
Fielding, è non solo più sommessa, ma, per co sì dire,
più nascosta nella narrazione che non esibita in primo
piano. Soprattutto è accuratamente mostrata come il
frutto di un atteggiamento critico che riguarda i
singoli personaggi, ma assolutamente non l’ambiente
sociale a cui essi appartengono.
Almeno altri due suoi romanzi meritano di essere
ricordati. Il primo è Mansfield Park (1814), che ci
rivela come le ricchezze della gentry non solo
discendessero dal reddito fornito dalle terre ereditate
dai lontani an tenati, ma, talvolta, anche dalle
piantagioni caraibiche coltivate dagli schiavi (nessun
commento da parte di Jane Austen: la schiavitù non era
ancora stata aboli ta). E che costituisce inoltre una
sorta di «manifesto»
dell’autrice: l’eroina, Fanny Price, è convinta, e vuo
le convincere gli altri, della necessità di tenere fermi
i comportamenti (e cioè i valori da cui discendono)
che caratterizzano la classe sociale a cui appartiene –
sebbene in posizione periferica, data la sua
condizione di parente povera. Molto ricca, oltre ad
essere bella e intelligente, è invece l’eponima eroina
di Emma, un personaggio complesso, ricco di
sfaccettature, ritratto da Austen quasi con una sorta
di partecipazione affet tuosa. Nel ritrarla, Austen
ottiene il risultato più ma turo sia per quanto riguarda
la sottigliezza con cui le contraddizioni del
personaggio giungono a soluzione, sia per come la
tecnica del libero discorso indiretto a cui esse sono
affidate si coniuga perfettamente con il ruolo
registico del narratore onnisciente.
Le eroine di Jane Austen, attraverso le «piccole»
vicende che le coinvolgono, seguono un evidente per
corso di crescita e di sviluppo della loro personalità
(fermo restando che deve sempre essere così per il pro
tagonista del romanzo moderno: al contrario di quanto
accade nel cosiddetto romanzo di prova ellenistico, o
in quello «rosa», o in quello western, o in quello fan
tasy, in cui l’eroe è uguale a se stesso dall’inizio alla
fine delle sue avventure, non modificato da esse perché
è dato sin da subito e una volta per sempre – e infatti
questi non sono romanzi). È uno sviluppo che scatu
risce dall’analisi, spesso difficile, a volte dolorosa, dei
loro sentimenti, del modo in cui essi stanno in rapporto
con i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro speranze
e le loro delusioni.
I sentimenti, in genere, hanno a che fare con
l’amore; le aspirazioni con il matrimonio. Il tutto in un
ambiente ristretto e molto lontano da noi, in un periodo
storico cruciale per la storia dell’Inghilterra, alle
prese con la
Rivoluzione francese prima e le guerre napoleoniche
poi – di cui nulla traspare nei romanzi. I lettori (in par
ticolare le lettrici) di oggi continuano però a trovare
nelle riflessioni delle eroine di Jane Austen, e nelle loro
considerazioni sull’amore per l’uomo che sposeranno
e sugli errori commessi nel valutare i suoi sentimenti,
qualcosa che tuttora parla alla loro esperienza.
In quanto all’assenza della storia, possiamo dire che
in effetti alle donne che appartenevano al mondo dei
suoi romanzi quei grandiosi eventi storici poco o nulla
erano presenti e non toccavano quindi la loro esperien
za e quel loro esame di sé che «parla» al lettore di oggi.
Riguardo alla limitatezza dell’ambiente, c’è da dire che
Jane Austen, radicando le sue storie nella realtà che co
nosceva così bene, compie con maestria l’operazione
che solo i grandi scrittori sanno realizzare: l’ambienta
zione nella sua epoca scavalca il passare del tempo e
ciò che è locale assume un valore universale.
«Con maestria». Ma in che cosa consiste la maestria
di Jane Austen? Innanzitutto, vale la pena ripeterlo, nel
la sua sottile e delicata ironia e nella limpidezza delle
sue convinzioni morali, che le consentono, attraverso le
riflessioni delle sue eroine, di suggerire come la vita
do vrebbe essere vissuta. E poi nella purezza e nella
preci sione della sua prosa: nell’accuratezza, ad
esempio, con cui la scelta di un vocabolo meno ovvio
di quello che ci si poteva aspettare non corrisponde a
una raffinatezza lin guistica, ma contiene
un’indicazione di giudizio. E, in fine, la sua maestria
sta nella fenomenale sicurezza della sua tecnica
narrativa, nella capacità di tessere il racconto delle
vicende dei suoi personaggi in una tela di mirabile
equilibrio, con i colori più accesi e quelli più tenui, con
gli arabeschi più ampi e quelli più minuti, tutti insieme
coordinati a offrire un’immagine di solare armonia.
L’eroina di Northanger Abbey, il romanzo di
Jane Austen scritto nel 1803 ma pubblicato postumo
nel 1818, è una giovinetta che vive (e fantastica)
sotto la pericolosa influenza delle letture di romanzi
gotici, un genere che Austen riteneva letterariamente
scadente.
E tuttavia fu una donna (di nuovo una donna scrit
trice, come spesso accadrà nell’Ottocento inglese, co sa
tanto notevole quanto poco comune altrove), Ma ry
Shelley (17971851), a pubblicare in quello stesso 1818
il romanzo gotico che possiamo considerare il
capolavoro del genere, Frankenstein, or the Modern
Prometheus. La storia raccontata nel libro di Mary
Shelley è stata a più riprese rivisitata dal cinema e dalla
letteratura ed è diventata, a suo modo, uno dei punti
fermi dell’eredità culturale dell’Occidente. Franken
stein, contrariamente a quanto pensano molti che non
hanno letto il libro ma ne conoscono l’argomento, non
è il mostro, bensì lo scienziato che, sfidando le leggi
della natura e di Dio (per questa ragione moderno
Pro- meteo), dà vita a una grottesca creatura, dotata di
una forza sovrumana.
La svolta decisiva ha luogo quando Frankenstein ac
cetta, seppure a malincuore, di fornire una compagna al
mostro, il quale vorrebbe poter amare ed essere amato.
Ma subito si pente e la elimina, suscitando così l’odio
della «creatura», che poi ucciderà la sposa di Franken
stein la notte stessa delle nozze. Il creatore, sconvolto
dal dolore fino alla pazzia, decide di uccidere la sua
pericolosissima creatura. La caccia al mostro si conclu
de nelle regioni artiche, dove Frankenstein troverà la
morte, mentre la creatura sparirà tra i ghiacci.
Quando scrisse questa storia «sovrannaturale» (ma
se vogliamo anche fantascientifica) Mary Shelley aveva
diciotto anni: si trovava in una bella villa sul lago di
Ginevra, insieme al poeta Percy Bysshe Shelley – che
aveva abbandonato la moglie incinta per fuggire con
lei – e a Lord Byron. Fu quest’ultimo, visto che il tem
po piovosissimo li costringeva a stare chiusi in casa, a
proporre una gara tra loro e il loro amico John Polidori:
per passare il tempo avrebbero dovuto cimentarsi nel la
scrittura di un racconto gotico. Polidori scrisse una
prima versione della storia di Dracula. La diciottenne
Mary (in una stanza per l’occasione tutta per sé) scrisse
il suo capolavoro, che probabilmente deve
all’atmosfera romantica in cui viveva la sua
caratteristica di sfida alle leggi divine. Ma l’invenzione
è tutta sua: un lampo di genialità letteraria che tuttora
continua a risplendere di fulgida luce.
V
Il romanzo vittoriano, parte prima:
Dickens, Thackeray e le sorelle
Brontë
89
bilmente The Notting Hill Mistery di Charles Adams,
pubblicato in otto puntate tra il 1862 e il 1863. E quasi
subito era comparso un detective donna: The Female
Detective, di Andrew Forrester, è del 1864.
La svolta decisiva, però, si deve alla fantasia di
Arthur Conan Doyle (18591930), il «padre» di
Sherlock Hol mes. Conan Doyle si era laureato in
medicina all’univer sità di Edimburgo (la città in cui era
nato): un uomo di scienza, quindi, non un letterato. La
figura di Holmes non può prescindere dalla fiducia
nella scienza e nella mentalità positivista caratteristiche
dell’Inghilterra di fine Ottocento: Holmes indaga e
risolve i suoi casi uti lizzando gli strumenti offerti dalle
più recenti scoperte scientifiche ed è scientifico (più
che psicologico) anche il suo metodo deduttivo. Gli
elementi di volta in volta forniti dal racconto, con un
alternarsi di dati utili alla soluzione e di altri fuorvianti,
costituiscono il materiale con cui viene creata la
suspense che si scioglierà nella rivelazione finale. Ma
il modo in cui Holmes riflette su tali elementi
costituisce altresì una sfida rivolta al lettore (oltre ad
essere un mezzo ulteriore per rafforzarne l’at tenzione)
affinché sia altrettanto scientifico nel cercare di trovare
lui stesso la soluzione del caso.
È questo il meccanismo che sta alla base della
detecti- ve story inglese e che, con un maggior rilievo
dell’aspet to psicologico, registrerà un nuovo trionfo
con i gialli di Agatha Christie (18901976) e i suoi
investigatori Poirot e Miss Marple. È importante notare
come in tempi più recenti il genere abbia continuato ad
avere come punta di diamante scrittrici donne, P.D.
James (19202014) e Ruth Rendell (19302015): la più
apprezzata, quest’ulti ma, per felicità di scrittura e per
sottigliezza psicologica. Molti gialli sono libri
avvincenti per gli appassionati, ma privi di valore
letterario, come d’altronde una parte
non piccola dei libri che vengono spacciati per romanzi.
Altri, a partire da Moonstone e The Sign of Four
(1890) di Conan Doyle, stanno benissimo a fianco dei
romanzi canonici.
La scienza con le sue scoperte, e il pensiero scien
tifico con il suo peso culturale, favorirono lo sviluppo
di un altro genere letterario di grande interesse, quello
votato ad immaginare le nuove prospettive (in campo
tecnologico e in campo sociale) che l’umanità si
sarebbe trovata di fronte nel futuro. Il primo grande
scrittore di tale genere, che nel Novecento venne
chiamato fanta scienza, fu H.G. Wells (18661946).
Figlio di una do mestica, Wells trascorse l’infanzia
nella magione in cui la madre era a servizio, imparando
assai bene quanto fe roce e sprezzante per gli uni (i
ricchi) e quanto umiliante per gli altri (i disagiati) fosse
il classismo della società bri tannica. Grazie a una borsa
di studio poté studiare alla School of Science di Londra
(l’attuale Imperial College) e familiarizzarsi con le più
recenti (e al tempo stupefa centi) scoperte scientifiche.
Dopo varie collaborazioni giornalistiche, Wells si
impose come scrittore grazie a The Time Machine
(«La macchina del tempo», 1895), un romanzo in cui lo
scienziato viaggiatore nel tempo scopre che il futuro
vedrà il fallimento delle speranze di progresso. Ancora
più fosco è il ritratto proposto nel romanzo successivo,
The Island of Dr Moreau («L’isola del dottor
Moreau», 1896), che segna la tendenza, come poi
accadrà in Huxley, Orwell e Ballard, a voltare l’uto pia
in negativo – cioè in una distopia –, non tanto per
profetizzare sviluppi catastrofici in un futuro più o
meno lontano, quanto per mettere in guardia su quegli
aspetti negativi del presente che potrebbero esserne il
germe.
A questi due testi si affianca The War of the Worlds
(«La guerra dei mondi», 1898), l’archetipica narrazio
ne di un’invasione della Terra da parte degli alieni, che
Wells utilizza per muovere la sua critica agli aspetti più
deleteri della società inglese. Questo, infatti, è il com
pito che Wells si assegna, sia quando immagina inva
sioni marziane, o stupefacenti (e minacciosi) sviluppi
tecnologici e guerre tra i mondi, sia quando ambienta i
suoi romanzi nel presente – come gli autobiografici Mr
Lewisham, Kipps, Ann Veronica (tutti pubblicati all’ini
zio del Novecento) e Tono-Bungay (1909), in cui
offre il ritratto più fortemente critico del mondo
britannico, lanciando i suoi strali in particolare contro
la categoria dei «nuovi ricchi», a cui attribuisce
caratteri distintivi quali la disonestà e il cinismo. Ma
soprattutto è da ri cordare The History of Mr Polly
(1910), un romanzo dal taglio comico, praticamente
sconosciuto in Italia, in cui la critica sociale è relegata
in alcuni brevi passaggi, ma non per questo è meno
puntuale.
Wells, socialista e libero pensatore, aveva una visio
ne totalmente negativa dei destini dell’umanità, che gli
appariva incapace di capire quali sono gli errori mador
nali e i catastrofici pericoli da evitare. «Ve l’avevo
detto, maledetti imbecilli!», è l’epitaffio che avrebbe
potuto essere inciso sulla sua tomba.
Questi ultimi romanzi di Wells, almeno in parte,
si possono collocare nella corrente letteraria debitri ce
del Naturalismo francese, che ebbe il suo maggior
esponente in Arnold Bennett (18671931). Bennett fu
vittima di uno sprezzante giudizio da parte di Virginia
Woolf, ma è invece giusto riconoscere che almeno in un
paio di casi seppe essere scrittore di vaglia. Della sua
amplissima produzione bisogna infatti salvare Anna of
the Five Towns («Anna delle cinque città», 1902), che
per la storia si rifà alla lezione di Balzac e per il taglio
stilistico a quella di Turgenev, che Bennett considerava
il maggior romanziere moderno; e The Old Wives
Tale («La vita è fatta così», 1909), un romanzo che
attraverso il racconto dei diversi destini di due sorelle
comunica magistralmente il senso del passare del
tempo.
Per la verità già prima, con Liza of Lambeth
(«Liza di Lambeth», 1897), il romanzo inglese aveva
potuto annoverare una prima piccola perla
naturalistica. Ne era autore W. Somerset Maugham,
che per nascita e prima formazione era più francese
che inglese, e che nella storia di Liza seppe
presentare un quadro quasi alla Zola delle condizioni
di vita e dell’esistenza precaria delle classi lavoratrici
londinesi. Ma di Maugham, che era anche
drammaturgo di successo, si dirà più avanti.
Romanziere e drammaturgo era anche John Gals
worthy (18671933), che deve la sua fama ai romanzi
che, a partire da The Man of Property («Il possiden
te», 1906), raccontano la saga della famiglia Forsyte. Il
primo romanzo della serie segue le vicende di Soames
Forsyte e di altri membri della sua famiglia, visti come
i rappresentanti di una borghesia votata a trasformare
ogni cosa in merce, in oggetto di proprietà e di
possesso. L’idea alla base del romanzo è quella di usare
le circo stanze e gli avvenimenti riguardanti una
singola famiglia per rappresentare la crisi di un’intera
classe sociale e dei suoi valori, come Thomas Mann
aveva fatto pochi anni prima in quel capolavoro
assoluto che è I Buddenbrook. Il successo di The
Man of Property suggerì a Gals worthy di dare un
seguito alle vicende dei Forsyte in due successivi
romanzi, usciti nel 1920 e 1921 (e altri tre seguirono
negli anni successivi, a ingigantire la saga). A quel
punto, però, la critica sociale si era abbondan temente
annacquata e non è difficile scorgere in questi romanzi
una sommessa ammirazione per i «possidenti». Forse
anche per questa ragione, le ultime puntate della
saga, uscite in tempi drammatici (lo sciopero generale
del 1926, il crollo di Wall Street e la crisi economica),
ebbero un grande successo: meglio fantasticare che
guardare in faccia la realtà. Chissà se è anche per que
sto che nel 1932 a Galsworthy fu conferito il Nobel per
la letteratura.
10
mento» che prima consentiva allo scrittore di ritrarre la
realtà «avendo in mano dei criteri sicuri per ordinarla».
Ciò da un lato implicava la rinuncia a voler rappresenta
re la vita nella sua completezza, con la scelta di limitare
il tempo della narrazione a poche ore o giorni, nella
convinzione che meglio era indagare il singolo fatto; e
nella persuasione che esso, attraverso il collegamento
con altre vicende nel passato appena intuite potesse fare
scorgere il senso di una vita.
Dall’altro lato ciò comportava la scelta di
«dissolvere la realtà, che passando per il prisma della
coscienza», veniva così frantumata in aspetti e
significati molteplici. Nella narrativa questo,
tecnicamente, comportava il ri corso al rivoluzionario
stream of consciousness di Joyce, al flusso di
coscienza, al trasferimento sulla pagina del processo
inconsapevole di pensieri, associazioni e sen sazioni
che attraversano la mente. Oppure, esemplar mente in
Virginia Woolf, alla rinuncia del punto di vista del
narratore per l’adozione di una molteplicità di punti di
vista. L’intento, diceva ancora Auerbach, era quello di
«avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di
molte impressioni soggettive avute da molte persone (e
in momenti diversi)».
È significativo che, già prima, sia Conrad, sia
Ford Madox Ford, pur senza adottare tali tecniche,
avessero elaborato scelte narrative (il secondo
narratore, il narra tore inattendibile) che registravano
la difficoltà di rac contare nella maniera tradizionale.
Furono poi i moder nisti, i testimoni della «perdita
del centro», a denunciare l’impossibilità di
raccontare una storia con la linearità che veniva da
un’ordinata visione del mondo ora che il mondo non
era più conoscibile nella sua totalità.
La mancanza di punti di riferimento sicuri,
l’incer tezza e la confusione determinate dal venir
meno di un
«centro», ma al tempo stesso la convinzione della pos
sibilità di rappresentare dimensioni inesplorate e nuove
dimensioni della realtà, si tradusse nella straordinaria
fioritura letteraria degli anni Venti. È importante ricor
dare che a prepararne il terreno non poco contribui
rono le posizioni espresse dal cosiddetto Bloomsbury
Group, formato dal saggista e biografo Lytton Stra
chey, dal critico d’arte Roger Fry, dall’economista John
Maynard Keynes e infine da Leonard Woolf e dallo sto
rico dell’arte Clive Bell, che sposarono rispettivamente
Virginia e Vanessa, le figlie dell’influente critico lette
rario, storico e filosofo Leslie Stephen. A partire dai
primi anni del Novecento, soprattutto nelle abitazioni
di Vanessa e Virginia, a Gordon Square e dintorni (la
zona di Bloomsbury), avvenivano gli incontri del grup
po, a cui si unirono poi Forster, Eliot e Bertrand
Russell. Le posizioni del Group erano coraggiosamente
li berali e in campo sessuale addirittura rivoluzionarie
rispetto alle ipocrite convenzioni vittoriane. E (quasi)
rivoluzionaria era la rivendicazione della piena digni
tà e assoluta autonomia della scrittura femminile. Fu
proprio tale posizione e la determinazione con cui fu
promossa che consentirono la valorizzazione e, ancor
prima, la paritaria possibilità di espressione delle scrit
trici del primo Novecento.
12
Tuttavia le ultime righe del libro registrano un’improv
visa impennata della volontà, la determinazione a non
arrendersi e a vivere la propria vita – come d’altronde,
seppur non così improvvisamente, accadde a Lawrence.
In Sons and Lovers sono già presenti i temi cruciali
dell’opera di Lawrence: le tensioni nei rapporti socia li e
nei rapporti sessuali, il conflitto tra convenzioni e
passione, il contrasto tra natura e civiltà industriale.
Quest’ultimo aspetto è fondamentale in The Rainbow
(«L’arcobaleno», 1915), il romanzo letterariamente più
raffinato di Lawrence, che, raccontando la saga di tre
generazioni della famiglia Brangwen, da metà Ottocen
to ai primi anni del Novecento, denuncia la distruzione
della civiltà contadina «naturale» operata dall’avanzare
della civiltà industriale. (Le tracce lasciate sul territorio
dagli insediamenti industriali erano ai suoi occhi le ci
catrici che avevano deturpato il volto dell’Inghilterra.)
In Lawrence c’è un’idealizzazione della vita vera ormai
scomparsa dal suolo inglese, di uomini «veri» in una
natura «vera»; ma ad essa si accompagna un ritratto di
grande interesse sociologico delle trasformazioni sociali
dell’Inghilterra del secondo Ottocento, disegnato con
avvincente forza e grazia narrativa. Subito dopo la sua
pubblicazione, The Rainbow subì un processo per
osce nità e nei successivi undici anni ne fu vietata la
vendita. Il romanzo fa tutt’uno con il successivo
Women in Love («Donne innamorate», 1921), in cui
viene ribadita e rafforzata l’idea che il recupero
dell’integrità vitale perduta possa passare attraverso
l’eros, attraverso un’e sperienza sessuale che Lawrence
(nonostante le accuse di oscenità che anche a questo
romanzo furono rivolte) vede come qualcosa di sacrale,
di strettamente legato a un rispetto quasi religioso del
corpo e della sua forza
vitale.
Women in Love per architettura e stile narrativo si
stacca fortemente dalla produzione precedente. Il lin
guaggio accentua quella sotterranea sensualità che già
appariva sin dai primi lavori e le valenze simboliche
vengono a occupare un ruolo centrale rispetto alle espe
rienze narrate; soprattutto, non sono tanto le vicende
dei personaggi a dettare lo sviluppo della narrazione,
quanto i singoli episodi, i singoli momenti di scoperta
di una verità profonda attraverso il trasporto dell’istinto
e dell’emozione. È anche vero, tuttavia, che in certe pa
gine la speculazione, la riflessione «filosofica» dei per
sonaggi, un po’ appesantisce lo scorrere del racconto.
Nel romanzo è facile scorgere un duro attacco all’in
tellettualità inglese (Bloomsbury Group incluso), che
agli occhi di Lawrence appariva malata di estetismo e
incapace di affrontare la tragicità del presente: il dopo
guerra, dopo i disastri e lo sconvolgimento causati dalla
guerra, è un tempo apocalittico, che testimonia la de
cadenza dell’anima inglese e, più in generale, il declino
dell’Occidente.
Il romanzo a cui Lawrence affida la sua ultima sfida
alla sterilità del mondo borghese è Lady Chatterley’s
Lo- ver («L’amante di Lady Chatterley»), pubblicato in
Italia nel 1928 e bloccato dalla censura inglese e
americana per oltre trent’anni. Il marito di Lady
Chatterley, relegato su una sedia a rotelle a causa delle
ferite riportate in guer ra, è paralizzato e impotente
(anche Lawrence in quegli ultimi anni era diventato
impotente). L’amante è Mel lors, il guardiacaccia, figlio
di un minatore, «naturale» per estrazione sociale e per
mestiere, non contaminato dalla civiltà industriale. Il suo
intervento è fisico, vitale, dettato dall’eros. Alla sessualità
è affidata la possibilità del riscatto, della realizzazione di
sé, e alle parole dirette (esplicite e popolaresche) con cui
essa si esprime è affida
ta la tenerezza della fisicità dell’amore. Il finale è aperto,
tra realistico pessimismo e speranza. La speranza sembra
però riguardare soltanto quei pochi capaci di liberarsi dai
vincoli soffocanti di una classe dominante non solo re
pressiva e prevaricatrice, ma anche incapace di affrontare
e superare il cataclisma prodotto dalla guerra.
Come si diceva più sopra, alcune delle caratteri
stiche della scrittura di Lawrence rappresentano una
rottura indubbia rispetto ai modi tradizionali della nar
razione; mentre fortemente innovativa è la profondità
dell’analisi psicologica che arricchisce i suoi
personaggi (già prima di conoscere l’opera di Freud,
Lawrence in dagò la dimensione dell’inconscio, a cui
dedicò due sag gi all’inizio degli anni Venti). È quindi
certamente vero che Lawrence fu uno scrittore
modernissimo; ma è assai meno vero che possa essere
annoverato tra gli scrittori modernisti – che infatti, a
parte i buoni rapporti degli inizi, egli non amò. E da cui
non fu amato.
15
L’altro suo fondamentale punto di riferimento fu
Greene. Come nei romanzi di Greene, i suoi protago
nisti sono uomini ordinari, antieroi. E come in
Greene hanno un ruolo decisivo i sentimenti che
guidano le scelte: in particolare l’amore, che è la
causa del loro di sastro, come nel caso di Leamas, il
protagonista di The Spy Who Came in from the
Cold («La spia che venne dal freddo», 1963).
In questo romanzo, attraverso i modi del thriller
emerge il ritratto della Gran Bretagna, della dimidia
ta potenza britannica nel mondo spaccato in due
della guerra fredda. Già qui, come nei romanzi
successivi, il mondo contemporaneo è ritratto da un
punto di vista improntato a un pessimismo profondo,
che si accompa gna all’idea di un patetico declino
del mondo britannico in corrispondenza alla perdita
del suo ruolo di grande potenza. Gli agenti segreti
ricevono gli ordini dai capi di un apparato che si
comporta come se ancora ci fosse un impero
britannico, mentre l’impero, semmai, è quello
sovietico, a cui l’Occidente, sotto la guida degli Usa,
in nome della democrazia deve opporsi. Il libro ebbe
un enorme successo. Non poteva essere «vero»,
spiegò le Carré, altrimenti non sarebbe stato
possibile pubblicar lo. Ma era credibile: non solo
come vicenda, ma anche come presentazione di un
dilemma che toccava e tocca l’essenza della nostra
civiltà occidentale, con i suoi prin cipi di democrazia
e di libertà.
Nel 1986 uscì il romanzo A Perfect Spy («La spia
perfetta»), che riproponeva quel tema cruciale all’in
terno di una vicenda, in parte autobiografica, che co
stituisce al tempo stesso la radiografia dello «stato della
nazione britannica». La spia perfetta è Magnus Pym,
un agente dei servizi segreti alla fine della carriera. A
un certo punto scompare e si nasconde in una
pensioncina
a scrivere le sue memorie, la sua storia di agente e di
traditore: Pym era stato per anni un double agent, una
spia per conto dei servizi segreti cecoslovacchi.
Magnus Pym scrive la storia della sua vita; ma il
nar ratore di A Perfect Spy scrive la storia di Pym che
scrive la sua storia, gli affianca la sua narrazione, ne
«correg ge» le informazioni imprecise, ne interpreta i
parziali silenzi, la integra attraverso le pagine in cui il
racconto è affidato al punto di vista della moglie Mary.
Di fatto le Carré scrive una sorta di metaromanzo, in
cui la sto ria procede andando avanti e indietro nel
tempo, dal presente al passato recente e al passato
lontano, sovrap ponendo un racconto all’altro,
intrecciando le ricostru zioni (non sempre affidabili) dei
momenti cruciali della carriera di Pym.
A Perfect Spy è una bella storia sullo spionaggio; e
sul rapporto tra padri e figli. Ma è anche una storia
straordi naria sulla società inglese a partire dagli anni
Trenta fino alla fine degli anni Settanta del
Novecento, un acutissi mo ritratto dei valori, dei
pregiudizi, della supponenza con cui la classe
dominante britannica, pur attraverso i cambiamenti
epocali di quel mezzo secolo, ha continuato a porsi
con imperturbabile sicurezza nei confronti dei propri
membri e di quelli delle classi ad essa inferiori. Il
ritratto è particolarmente efficace perché nasce soprat
tutto dalle sfumature del linguaggio, dai sottintesi, dai
riferimenti allusivi, dai gesti e dagli sguardi con cui
viene stabilito un sistema di riconoscimento tra i
privilegiati dell’alta borghesia e di esclusione nei
confronti degli al tri. Che Magnus Pym, con quel suo
retroterra ambiguo, sapesse appropriarsene per
diventare una spia perfetta (e in fondo vendicarsene)
non sembra poi una grave colpa. Dopo la caduta del
muro e la fine dell’Urss molti pensarono che le
Carré non avrebbe più saputo che co
sa e di che cosa scrivere, perché la guerra fredda era
stata la fonte e la materia prima dei suoi romanzi.
Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata
sull’Occi dente e sulle sue malefatte: quelle dei
colossi farmaceu tici, delle banche truffaldine, delle
multinazionali (che magari coltivano segreti legami
con la mafia russa). In realtà anche nei romanzi
scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei
valori (del non rispetto dei valori) dell’Occidente.
Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli
alla luce della contrapposizione tra i due blocchi e
attraverso le imprese dei rispettivi agenti se greti,
come liberato dal dovere di stare «dalla nostra
parte», le Carré ha mantenuto schemi e forma del ge
nere spionistico per applicarli a quel tipo di
invenzione narrativa che è propria del grande
romanzo. Ha messo la suspense al servizio della
rappresentazione del mon do di fine Novecento e di
inizio del terzo millennio, cogliendone
trasformazioni e infamie.
Premessa vii
I. Gli inizi 3
1
8
IX. Al di fuori del Modernismo 121
1
8