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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE

CORSO DI LAUREA IN MUSICOLOGIA E BENI MUSICALI

CORSO DI
STORIA DEL TEATRO INGLESE MODERNO E CONTEMPORANEO

RELAZIONE SU
MUCH ADO ABOUT NOTHING DI KENNETH BRANAGH

Insegnante Candidato
Valeria Pellis Nicola Bianchi

ANNO ACCADEMICO 2012/2013


1 - Un testo troppo letterario! 2

2 - L’esperienza della Renaissance Company sui personaggi! 3

3 - L’adozione di Branagh del metodo! 4

4 - Ammiccamenti e citazioni cinematografiche! 5

4.1 - Attori come icone! 6

4.2 - I generi come materia di gioco e ipertestualità! 7

5 - Il piano sequenza e la rappresentazione! 9

6 - L’ambiente e le stelle! 11
1 - Un testo troppo letterario
! Giorgio Melchiori1 ritiene che Much Ado About Nothing si esaurisca quasi tutto nel gioco di
parole, nel pun inglese. Tutti i personaggi sono tratti in inganno dal linguaggio, sono persone che
non si capiscono: sia Hero e Claudio (nella scena del matrimonio mancato, Claudio non riesce più a
comunicare bene con Hero, Leonato e il frate, equivocando tutte le loro domande a cui dà risposte
sarcastiche), sia Beatrice e Benedick (impegnati in una palese ed eterna gara di astuzie verbali). Le
cose addirittura peggiorano quando entrano in scena il Dogberry e la sua ronda, che parlano il
linguaggio tipico del loro basso rango e che quindi vengono compresi con grande difficoltà dai
nobili protagonisti. E proprio sulla capacità di comprendere tutti i linguaggi, anche quello della
verità, recata proprio dalla lingua bassa della ronda, si avrà la soluzione del dramma. «Dietro al
gioco dei bisticci linguistici, dietro al molto rumore, ci sono le contraddizioni di una realtà che vede
gli uomini divisi da barriere formali: la diversità dei loro linguaggi troppo strettamente legati al
rango di ciascuno di loro è fonte di continui equivoci pericolosi; l’unico modo di superarli è il
rendersi conto che tali divisioni non sono altro che “nulla”, vuoti ingannevoli artifici».2
! Questa considerazione spinge Melchiori a ritenere Much Ado solo un grande gioco lessicale-
letterario, in cui «i personaggi non sono altro che veicoli di tali giochi. Di qui l’impressione di
inconsistenza dei personaggi stessi, che divengono mere voci sapientemente concertate. La
commedia è stata infatti spesso descritta attraverso metafore musicali, come un componimento di
cui è più facile definire tempi e movimenti che non la sostanza drammatica».3
! Quindi, Much Ado è una commedia tutta letteraria, così tanto da risultare perfino musicale,
quasi senza emozione e senza peso drammatico. Finora nessun elemento è a favore di un possibile
adattamento cinematografico, e quindi visivo, della commedia. Fino a che Melchiori non nota che
perfino il titolo è un pun: Much Ado About Nothing, “molto rumore riguardo a nulla” è omofono di
Much Ado About Noting, “molto rumore riguardo al notare”, nel senso di osservare o di spiare. «[...]
tutte le complicazioni, il baccano, le confusioni e gli equivoci sono dovuti ad un eccesso di
attenzione, al gusto della “notazione” sia verbale sia visiva».4 Claudio è tratto in inganno dal vedere
una falsa Hero, mentre spia il suo convegno notturno. Beatrice e Benedick sono ingannati quando
odono, origiliano, i discorsi dei loro compagni. E tutto si risolve grazie al noting della ronda nottura
che riesce a spiare la confessione dei furfanti al servizio del villain.

1 GIORGIO MELCHIORI, Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Roma-Bari, Laterza, 1994-20103, pp. 348-349.

2 GIORGIO MELCHIORI, cit., p. 349.

3 GIORGIO MELCHIORI, cit., p. 350.

4 GIORGIO MELCHIORI, cit., p. 348.


2
! Su tale tema del vedere e dello spiare, del noting, un adattamento cinematografico acquista
punti, e ne acquista anche dalla considerazione che Much Ado altro non è che un grande ipertesto,
fatto di infinite citazioni, rimandi e link a numerosi altri testi, a cominciare dai link verso la fonte
primaria (il Canto V dell’Orlando furioso di Ariosto, che Shakespeare conosceva nella traduzione di
Harrington), per finire con i link ai testi dello stesso Shakespeare, soprattutto al Romeo and Juliet
(del quale Much Ado riproduce molto fedelmente la struttura e l’espediente della finta morte della
giovane).5
! Come rendere questo testo in forma cinematografica? Sono relativamente poche le versioni
filmiche della commedia, se paragonate alle più di 60 di Hamlet, segno che molti hanno sentito
poco attraente la materia letteraria del testo. La versione che ha avuto più successo, e che ha avuto
una fondamentale importanza per la storia del “genere Shakespeare” al cinema, è quella di Kenneth
Branagh del 1993.
!
2 - L’esperienza della Renaissance Company sui personaggi
! Branagh ha pubblicato la sua sceneggiatura6 , dove descrive per sommi capi le sue idee e i
suoi metodi. Tutto è partito dalla pratica teatrale, dalla rappresentazione, diretta da Judi Dench,
della Renaissance Company al Phoenix Theatre di Londra nel 1988, in cui Branagh recitava
Benedick. Lo scarso peso dei personaggi è la cosa che più di ogni altra la Renaissance Company ha
cercato di aggirare. Basandosi su metodi mutuati da Stanislavskij, la compagnia rende vivo ogni
dialogo, interiorizzando ogni sfumatura e giocando al massimo sull’immediatezza della prosa di
Shakespeare. Siccome la commedia, come nota Melchiori, ha pochi eventi e poca azione, è solo sui
personaggi, sulle loro reazioni e sulle loro passioni, che si può compiere una rappresentazione
teatrale viva e sferzante. Solo dalla vitalità dei personaggi possono originarsi quegli eventi e quelle
azioni, di cui il testo letterario non ha bisogno, ma che sono le basi per una messa in scena. I
personaggi vuoti, che Melchiori vede come mere voci, hanno bisogno, quindi, di uno sviluppo, di
una concretizzazione materiale, di essere resi corposi e solidi, pieni di vita e di dinamismo, e in
questo il metodo Stanislavskij è di grande aiuto 7. Il leggendario regista russo traeva ispirazione dal

5 GIORGIO MELCHIORI, cit, p. 350; TULLIO KEZICH, Molto rumore e il sole italiano, in «Corriere della sera», 4 ottobre
1993, http://archiviostorico.corriere.it/1993/ottobre/04/molto_rumore_sole_italiano_co_0_9310042443.shtml (ultima
visita: gennaio 2013); STEFANO SOCCI, Shakespeare tra teatro e cinema, Firenze, Le Lettere, 2009, p. 65.

6KENNETH BRANAGH, Much Ado About Nothing: Screenplay, Introduction and Notes on the Making of the Movie, New
York-London, W. W. Norton & Co., 1993.

7 Per un’illustrazione complessiva del metodo basta FAUSTO MALCOVATI, Stanislavskij. Vita, opere e metodo, Roma-
Bari, Laterza, 2004; oppure ANGELO MARIA RIPELLINO, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del
Novecento, Torino, Einaudi, 2002, che inquadra il fenomeno Stanislavskij in rapporto a tutte le teorie teatrali,
soprattutto russe, del Novecento.
3
naturalismo di Émile Zola, di André Antoine e del Barone Meiningen8 , che trovava nel radicale
realismo la forma adatta per rappresentare ogni cosa in teatro, e il realismo di un personaggio e di
una battuta, secondo Stanislavskij, si raggiunge immaginandosi cosa quel personaggio fa e pensa
anche quando non è in scena, in modo da dare alla battuta tutte le valenze e le pregnanze
psicologiche che precedono la battuta, per renderla ancora più viva, ancora più vera e ancora più
potente.
! In Much Ado molti sono i punti interrogativi sui personaggi, dovuti all’inizio quasi in medias
res della commedia: Don Pedro d’Aragona giunge a Messina vittorioso da una non precisata guerra,
e tutti sembrano già conoscere la corte del principe, Beatrice già conosce Benedick, Hero già
conosce Claudio, ma il loro passato è taciuto nel testo, solo poche ombre ci vengono date sui
precedenti incontri dei personaggi. L’immaginarsi cosa il testo non dice su come queste figure si
sono conosciute, o su quale guerra sia stata combattuta, è il punto di partenza per costruire il
personaggio, per fabbricargli una coscienza e una psicologia tale da sposarsi con le battute del testo,
rendendo così quelle battute più realistiche, più vive e fresche come se nessuno le avesse mai
pronunciate prima.

3 - L’adozione di Branagh del metodo!


! Il lavoro della Renaissance Company sui personaggi è stato completamente impiegato da
Branagh9, che si è impegnato nel rendere i suoi attori una vera compagnia affiatata e amica, con
mesi di prove anteriori alle riprese, per far sì che tutti avessero la grande familiarità che traspare dal
testo, e per costruire quella vita prima del testo che è necessaria al personaggio per rendersi reale. 10
Molti attori provengono dalla compagnia teatrale del regista, come Richard Bries (Leonato) e Brian
Blessed (Antonio), e Branagh ha preso la sua vera moglie, Emma Thompson, per fare Beatrice
(punto che ha valenze anche cinematografiche su cui torneremo) e la vera madre della Thompson,
Phyllida Law, a fare Ursula, dama di compagnia di Beatrice e Hero, a cui la scelta dell’attrice dà
caratteristiche inaspettate, diventando, più che serva, un’importante figura materna per le due
protagoniste.

8 Sul Naturalismo si veda CESARE MOLINARI, Storia del teatro, Roma-Bari, Laterza, 200210, Cap. XXIX: Naturalismo e
realismo psicologico, pp. 243-249; e MIRELLA SCHINO, La nascita della regia teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp.
38-40.

9 «Immaginarsi le storie passate di ogni personaggio è uno degli elementi necessari, più interessanti, nel preparare le
caratterizzazioni» dice KENNETH BRANAGH, cit., p. VII; cito una traduzione apparsa in un fascicolo, abbinato al VHS
del film, allegato a «L’Unità», uscito nel 1998.

10 STEFANO SOCCI, cit., p. 67, afferma che «s’intuisce che la lavorazione è stata anche una vacanza».
4
! Uno dei punti cardine è stato concretizzare i rapporti tra le diverse età e le diverse estrazioni
dei personaggi. Hero e Claudio, per Branagh, acquistano definizione psicologica se resi
giovanissimi, innocenti, e la loro giovinezza inesperta serve ad inquadrare meglio il rapporto tra i
protagonisti Benedick e Beatrice, resi molto maturi, in contrapposizione alla coppia giovane, e
quindi con molto più “passato” da inventare e valorizzare. Le poche battute che in Shakespeare
illustrano le precedenti vicende dei due vengono enfatizzate al massimo da Branagh: «[...] Benedick
e Beatrice [...] venivano descritti entrambi come tipi allegri. Sia Emma Thompson che io volevamo,
però, che i due innamorati fossero stati veramente feriti dal loro primo incontro, che forse era
avvenuto alla giovane età di Ero [sic] e Claudio. Nella nostra versione entrambi sono al punto in cui
potrebbero definirsi uno scapolo e una zitella. Entrambi sono fieramente contrari al matrimonio e
resistono al modo con cui questa istituzione potrebbe mutare la loro personalità. Ma alla base della
performance c’è l’idea di due persone che si sono spezzate il cuore reciprocamente, che hanno
sviluppato un carattere tale da evitare che la cosa possa succedere nuovamente. La loro intelligenza,
la loro ironia, la loro apparente mancanza d’emozioni, copre solo superficialmente due dei
personaggi più romantici, generosi ed emotivi di Shakespeare».11
! L’eterogeneità dei personaggi, che sono vecchi, giovani, principi e servitori è stata resa da
Branagh con l’ingaggio di attori della più varia provenienza: ai già citati esperti shakespeariani
inglesi (Branagh, la Thompson, la Law, Blessed, Briers), si affiancano Denzel Washington, Robert
Sean Leonard, Keanu Reeves, Michael Keaton, grandi star hollywoodiane e americane, che portano
con sé i loro accenti, le loro cadenze, le loro movenze eroiche. La scelta di un cast così famoso ha
un’importanza anche cinematografica, come vedremo.

4 - Ammiccamenti e citazioni cinematografiche


! Una volta lavorato sui personaggi, Branagh ha dovuto rendere visivo un testo che di visivo
non ha proprio nulla, se non l’intuizione di Melchiori sul noting. Il regista ha affermato che, invece,
le immagini gli sono venute subito in mente proprio mentre era sul palco, suggestionato dalla
musica della song “Sigh no more”, che deve essere stata molto ritmica se a Branagh sono venute in
mente le immagini di «calore, foschia e polvere, uva e carne di cavallo, e un ammiccamento ai
Magnifici sette».12 Subito dopo Branagh ammette che gli ci sono voluti quattro anni e tre film per
unire al meglio quell’immagine al testo, ma che era sicuro che la commedia «implorava di poter
vivere in esterni, in un paesaggio vivido e lussureggiante».13

11 KENNETH BRANAGH, cit., pp. VII-XI.

12 KENNETH BRANAGH, cit., p. II.

13 Ibidem.
5
! L’ammiccamento ai Magnifici sette ci aiuta a capire la chiave di lettura dello showing di
Branagh, che ha a che fare, ricordiamoci, con un testo che è di per sé un ipertesto gonfio di
citazioni. La citazione diventa quindi per Branagh una via d’uscita paradossalmente visiva: se
Shakespeare cita letterariamente altri testi compresi i suoi, il film può citare altri film, compresi
quelli dello stesso Branagh, citarli visivamente in modo “letterale”. Così lo spettacolo, che in
Shakespeare era di parole e wit, si trasforma in spettacolo visivo, puramente filmico.
! Il pud inglese è la materia con cui lavora Shakespeare al di là di ogni irreggimentazione tra
comico e drammatico, e allora Branagh può lavorare, giocando, sui generi cinematografici,
introducendo nel film echi di western, di screwball comedy, e, soprattutto di musical, così da
rendere al meglio la sinfonia delle voci parlanti individuata da Melchiori.

4.1 - Attori come icone


! Questo spettacolo visivo si sposa perfettamente con la profondità psicologica ottenuta nei
personaggi, poiché le loro motivazioni intime, così appassionatamente ricercate sul solco di
Stanislavskij, vengono enfatizzate in un continuo ammiccare al pubblico sulla valenza attorica, di
messa in scena, del loro agire e del loro essere. Le grandi star coinvolte sono così familiari e famose
che il pubblico le riconosce subito, le tratta come amici di vecchia data, e sa come si
comporteranno. In questo modo anche il pubblico viene aggiunto all’atmosfera amichevole e
goliardica del testo, anche il pubblico conosce tutti i personaggi come i personaggi si conoscono tra
loro.
! Denzel Washington, nel 1993, era l’eroe intelligente, sì fisico ma anche riflessivo e
intellettuale dei film di Spike Lee (Mo’ Better Blues, ’90), di Glory, Uomini di gloria (di Ed Zwick,
’89), e la sua autorevolezza era stata consacrata da Malcom X (ancora di Lee, ‘92). Quando il
pubblico lo vede, nel film di Branagh, sa che il suo personaggio, Don Pedro d’Aragona, è
un’autorità, una persona importante.
! Robert Sean Leonard era uno dei protagonisti di L’attimo fuggente (di Peter Weir, ’89), un
fantastico ruolo per attor giovane, lo stesso ruolo, quasi, che lo impegna con il Claudio
shakespeariano.
! Keanu Reeves era abituato a ruoli sì positivi, ma con una grande carica ambigua, come il
poliziotto infiltrato di Point Break (di Kathryn Bigelow, ’91), il ribelle di Belli e dannati (di Gus
Van Sant, ‘91, che, curiosamente, è anch’esso ispirato a Shakespeare, a Henry IV), e il Jonathan
Harker di Bram Stoker’s Dracula (di Francis Ford Coppola, ’92). Il villain Don John non stona a
livello di aspettativa da parte del pubblico: chi può correre in moto, tra droga e prostituzione, in giro
per il mondo, nel film di Van Sant e subito dopo diventare puro e ingenuo per Coppola può
benissimo fare la parte del cattivo, e il pubblico si divertirà molto a vederlo in tale ruolo.
6
! Michael Keaton è forse quello che ha la personificazione più divertente. Famoso come
comico del Saturday Night Live, di 4 pazzi in libertà (di Howard Zieff, ’89), di Gung Ho: Arrivano i
giapponesi (di Ron Howard, ’86), di Pericolosamente Johnny (di Amy Heckerling, ’84), era
arrivato all’apice della comicità con Beetlejuice (di Tim Burton, ’88), ed era stato anche un cattivo
coi fiocchi in Uno sconosciuto alla porta (di John Schlesinger, ’90) e niente meno che il grande
eroe Batman, nell’omonimo film di Tim Burton dell’’89, uno dei più grandi successi
cinematografici di tutti i tempi. Vederlo nel ruolo di Dogberry è il massimo per l’eterogeneità che
cercava Branagh negli attori: la grande esperienza di Keaton costruisce un Dogberry senza
precedenti, e il pubblico avrà una reazione comica immediata nel vedere Batman nel ruolo di un
bislacco conestabile.
! Emma Thompson, l’arguta Beatrice, moglie di Branagh nella vita, aveva appena vinto
l’Oscar per Casa Howard (di James Ivory, ’92), e tutti sapevano del suo wit e delle sue
“schermaglie” con il marito: i due hanno giocato molto su questo loro punzecchiarsi durante la
promozione del film14 , alimentando gossip e rotocalchi. Inutile dire che le schermaglie tra marito e
moglie il pubblico le ha viste tutte sullo schermo quando i due sono diventati Beatrice e Benedick.

4.2 - I generi come materia di gioco e ipertestualità


! La stessa scelta degli attori, quindi, è essa stessa una grande impresa citazionistica, grazie a
stars la cui sola presenza costituisce citazione.15 Ma gli attori sono anche coinvolti, come
accennavamo, in un plurimo gioco con i generi cinematografici, quali il musical, il western o la
screwball comedy.
! Gli attori così puntualmente assemblati si presentano al pubblico in una sequenza di grande
impatto, che è perfetta fusione tra elementi del musical ed elementi del western. Si muovono a
ralenti e la macchina ce li presenta, uno dopo l’altro, con stacchi a tempo di musica.16 Sia il ralenti
sia il montaggio ritmato sono espedienti tipici del musical fin dagli esordi, e che si sono consolidati
con i capolavori degli anni ’70, da Jesus Christ Superstar (di Norman Jewison, ’73, che li usa

14 NATALIA ASPESI, Molto rumore per Branagh, «La repubblica», 20 maggio 1993, http://ricerca.repubblica.it/
repubblica/archivio/repubblica/1993/05/20/molto-rumore-per-branagh.html?ref=search (ultima visita: gennaio 2013).

15 Usare gli attori in questo modo iconico è esso stesso una citazione: grandi registi come François Truffaut o Yasujiro
Ozu utilizzavano sempre gli stessi attori per avere sul pubblico un effetto di riconoscibilità immediata per ogni attore e
ruolo. Truffaut aveva Jean-Pierre Léaud, che è cresciuto insieme al personaggio Antoine Doinel, periodico protagonista
delle sue storie, e Ozu aveva sempre le stesse persone ad impersonare la sua “famiglia cinematografica”. Su Truffaut e
Doinel vedi GIANNI RONDOLINO, Storia del cinema, Torino, UTET, 20002, p. 507; su Ozu vedi PAUL SCHRADER, Il
trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Pomezia (Roma), Donzelli, 2002, p. 17.

16 La musica è composta da Patrick Doyle e riprende tutte le suggestioni barocche nei suoi rapporti intervallari, con una
orchestrazione ricca e pompante, con suggestioni anche operistiche da Verdi (che utilizzò per primo suggestioni
elisabettiane nell’opera italiana nel Falstaff, nel 1893) e Britten.
7
entrambi nella canzone Simon Zealotes, in un modo molto simile a come fa Branagh) a Woodstock
(di Michael Wadleigh, ’70), ma ciò che inquadrano appartiene tutto al western, con cavalli che
nitriscono e si impennano, polvere alzata ed esibita fisicità. Branagh stesso, ricordiamo, ha chiamato
in causa I magnifici sette (di John Sturges, ’60).
! In questo inizio denso di cinematograficità, tra citazioni e fusione di generi c’è già tutto il
programma di Branagh: gli attori come icone riconoscibili che esultano alla loro presentazione, una
vertigine di rimandi intertestuali, e un gioco di sguardi e di espressioni che mostra perfettamente il
“passato” dei personaggi così importante per rendere vitali le battute. Proprio le battute sono il
luogo dove Beatrice e Benedick vivono e parlano. La pratica teatrale della Renaissance Company
garantisce, grazie allo psicologismo stanislavskiano, la loro vitalità, e a livello cinematografico
Branagh trova un modo sicuro per inquadrarle: i campi e controcampi della screwball comedy degli
anni d’oro di Hollywood. Questo stesso genere è stato visto come una tarda derivazione delle
commedie shakespeariane17 , con Katharine Hepburn e Melvyn Douglas, che cavalcavano, al
cinema, l’onda dei loro successi teatrali. Branagh e Thompson imbastiscono i loro battibecchi con
la grazia di Cary Grant e Claudette Colbert e la macchina li osserva con la precisa fermezza e con il
gustoso montaggio di Howard Hawks, Frank Capra o George Cukor.18 E anche la screwball comedy
viene miscelata da Branagh con il musical. Dopo che Pedro, Leonato, Claudio, Hero e Ursula hanno
fatto credere a Benedick che Beatrice lo ama e a Beatrice che Benedick la ama, con inquadrature
tutte precisamente ritmate sui dialoghi, alla maniera di Howard Hawks (e con ulteriori richiami alla
commedia muta di Chaplin e Buster Keaton, grazie alle peripezie di Benedick con un’improbabile
sedia a sdraio 19) i due si abbandonano alla gioia, mostrandoci le loro passioni20 , in una sequenza,
con «montaggio rapido (nuovamene in ralenti) che avvicina e allontana i due protagonsiti, visti in
sovrimpressione»21, in cui Benedick sguazza felice in una fontana, dando calci e tirando su acqua
con le braccia, in tutto simile al Gene Kelly di Cantando sotto la pioggia (di Stanley Donen e Gene
Kelly, ’52), e Beatrice va in altalena, beata come una bimba in un’atmosfera simile a quella del
Mago di Oz (di Victor Fleming, ’39).

17STANLEY CAVELL, Pursuits of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage, Cambridge (Massachusetts),
Harvard University Press, 1981

18SAMUEL CROWL, The Marriage of Shakespeare and Hollywood: Kenneth Branagh’s «Much Ado About Nothing» in
COURTNEY LEHMANN, LISA S. STARKS (a cura di), Spectacular Shakespeare: Critical Theory and Popular Cinema,
Madison (New Jersey), Fairleigh Dickinson University Press, 2002, pp. 112-113.

19 DANIELA PECCHIONI, Kenneth Branagh, Milano, Il Castoro, 2000, p. 63.

20Come da paradigma della Renaissance Company; e grazie al cinema si trova esemplificazione anche visiva, e non
solo interiore e mentale, delle emozioni dei personaggi che nel testo sono taciute.

21 DANIELA PECCHIONI, cit., p. 63.


8
5 - Il piano sequenza e la rappresentazione
! Con questi espedienti visivi Branagh ha tradotto in cinema i richiami citazionistici letterari
di Shakespeare, ma il suo interesse è rendere anche le particolarità del teatro, del testo letterario che
si fa spettacolo. Le parole della commedia sono primarie per Branagh, che inizia il film con un
prologo, in cui proprio le parole del testo sono proiettate bianche su sfondo nero, come a dire che da
quelle parole tutto ha origine.22 Dalle parole si passa al dipinto ad acquarello della villa nel Chianti
in cui Branagh ha ambientato la commedia. Quell’acquarello è copia precisa della villa, «per
testimoniare che il film è solo una copia dell’originale» di Shakespeare.23 Rendere la leggerezza
musicale del testo è quindi per Branagh un fattore di primaria importanza, e anche rendere
l’atmosfera autenticamente teatrale delle frasi, che lui ha reso così vive grazie al metodo della
Renaissance Company. L’elemento visivo che Branagh utilizza per rendere questa leggerezza gli
serve anche da collante per tutti i suoi giochi tra i generi cinematografici e tra tutte le sue citazioni:
utilizza il piano sequenza.
! Il piano sequenza è il modo del cinema di fare spettacolo, la precipua spettacolarità del
cinema, che mostra sé stesso come il teatro si mostra nelle luci antinaturalistiche di un palcoscenico,
o in un cambio scena a sipario aperto.24 Il piano sequenza dà alle idee di Branagh la coerenza,
poiché la sua leggerezza traduce perfettamente gli svolazzi dei giochi verbali, il suo fluire supporta
la musicalità delle parole, la sua velocità garantisce l’immediatezza viva degli attori, la sua furia fa
da perno alla tragicità di alcune battute enfatizzandole, e inoltre, è esso stesso miniera di ulteriori
rimandi citazionistici.
! La natura musicale della commedia ha, come abbiamo visto, spinto Branagh molte volte
verso il musical e ci sono per lo meno tre sequenze di sola musica nel film, oltre all’inizio e alla
scena della fontata citate: le due canzoni, “Sigh no more” e “Pardon, goddess of the night”, e il
glorioso finale. In “Sigh no more”, Branagh realizza il massimo della fusione tra cinema e teatro
proprio con un piano sequenza circolare: «l’inquadratura parte da Don Pedro per ritornare, infine, a
lui. Ma la curva, nel suo compiersi, incrocia le traiettorie di personaggi secondari, seguendo prima
una ragazza, poi una coppia, poi un’altra ragazza, poi il frate e il menestrello che suonano e
cantano»25. È un intero teatro che Branagh filma in questo piano sequenza, come se inquadrasse un

22 DANIELA PECCHIONI, cit., pp. 58-59.

23 STEFANO SOCCI, cit., p. 65.

24GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI, Manuale del film, Torino, UTET, 1995, pp. 207-221. ARCANGELO MAZZOLENI,
L’ABC del linguaggio cinematografico, Roma, Dino Audino, 2002, pp. 84-88.

25DANIELA PECCHIONI, cit., p. 63. Curioso notare come il musicista di Branagh, Patrick Doyle, sia presente in scena a
cantare, sottolineando il coinvolgimento della compagnia come “famiglia di attori” nel film e nella realtà.
9
dietro le quinte, con maestranze che piegano lenzuola e raccolgono frutta, nel giardino della villa
del Chianti che è il centro di tutte le vicende, il vero palcoscenico, che appare all’inizio di ogni
nuova sequenza: «come piccoli sipari, il giardino e l’esterno della villa, scandiscono i vari episodi
di storia e ne sono i naturali spettatori».26 Inoltre, il movimento circolare, a 360 gradi, della
macchina, richiama alla memoria i grandi maestri del piano sequenza, soprattutto Brian De Palma,
che in Blow Out (’81), realizza un magistrale movimento ad angolo giro.
! Nel momento in cui la piega tragica della vicenda prende corpo, quando Don John va a
informare Don Pedro e Claudio dei presunti tradimenti di Hero27, la macchina fa un giro veloce e
improvviso, quasi schizofrenico. La macchina da presa enfatizza il momento. Questo è un modo di
utilizzare il mezzo cinematografico che è stato usato in altri film shakespeariani. Nell’Amleto di
Franco Zeffirelli (’90), Hamlet gira intorno a Ophelia, come a raggirarla, nello stesso modo in cui
lei, complice di Polonio e di Claudius, tenta di raggirare lui. La macchina di Zeffirelli enfatizza il
movimento circolare di Hamlet, catalizzando al massimo la furia del personaggio, un barbaro Mel
Gibson. Branagh prende felicemente il testimone di Zeffirelli come grande divulgatore
cinematografico del Bardo, utilizzando il suo stesso dinamismo filmico.
! L’enfasi delle battute è una prerogativa del piano sequenza, ma l’enfatizzare l’inganno fa
riflettere sulla effettiva oggettività delle immagini. Melchiori stesso diceva che il noting è il motore
della storia, il vedere, ma le immagini possono essere non solo pedisseque enfatizzazioni del
parlato, ma possono essere anche ambigue. Nella grande scena del ballo in maschera28, il gioco dei
travestimenti rende tutto meno chiaro e nessuno sa più con chi sta parlando, complicando
all’inverosimile il già labirintico problema di comunicazione della commedia. «Le apparenze
possono tramutarsi in inganni. Don Pedro, assumendo i panni di Claudio, corteggia Ero, mentre
Claudio, da lontano, osserva con fiducia la scena. Il punto di vista scelto da Branagh è
fondamentale: Don Juan convince Claudio dell’ipocrisia di Don Pedro, fingendo di confidarsi con
Benedetto. Quando Claudio si toglie la maschera, è la messa a nudo della sua sensibilità: un volto
turbato, stravolto, seguito nuovamente da un’inquadratura di Don Pedro, mascherato, che parla con
Ero. La scena è la stessa che Claudio osservava pochi attimi prima, ma la sua interpretazione adesso
è opposta. Cosa pensare, dunque, delle scene che si presentano ai nostri occhi? Così come, più tardi,

26 Ibidem.

27 Don John giunge a interrompere una allegra scena che illustra le passioni dei personaggi non presenti nel testo:
l’ormai innamorato Benedick si prova allo specchio una serie di sciarpe per apparire più bello, e viene interrotto dagli
schiamazzi degli altri personaggi maschili che non si sono trattenuti dal ridere mentre lo spiavano goliardicamente in
gruppo. Una scena che rende alla perfezione l’atmosfera caciarona che dal testo traspira, ma che per un film o un’azione
teatrale, è assolutamente necessaria per rendere visive e realistiche le emozioni e le reazioni dei personaggi.

28Altro momento di fusione tra teatro e cinema. Branagh aveva già filmato un ballo in maschera in L’altro delitto nel
1991.
10
scegliendo di mostrarci Claudio, Don Juan e Don Pedro osservare Borracio e la falsa Ero
(Margherita) alla finestra (scena che Shakespeare aveva evitato di mostrare), Branagh obbedisce
alla stessa logica: minare l’unità suggerendo la possibile esistenza della duplicità. Logica rafforzata,
se ce n’era bisogno, dall’inquadratura successiva: Ero, illuminata di candore, dorme ignara e
vergine nel proprio letto». 29 La doppiezza dei significati dell’immagine è la traduzione filmica
perfetta della malizia delle parole, sempre foriere di equivoci. Parola e immagini si generano a
vicenda e si mescolano nel film.
! Quando ogni dubbio è fugato e ogni furberia smascherata come inutle, la macchina, allora,
partecipa festante al finale gioioso, quasi crea da sola la forza del lieto fine. Dopo la battuta di
Benedick «Strike up, pipers.» c’è l’indicazione didascalica alla danza, la giga rinascimentale, che in
Much Ado «prende parte integrante della commedia»30, a sottolineare la natura musicale del testo.
Branagh ci mostra la giga come ha mostrato molte cose psicologiche e sceniche che non erano nel
testo, in un piano sequenza che è senza dubbio tra i più elaborati della storia del cinema, al pari di
quelli di Orson Welles, di Rainer Werner Fassbinder, e di quello del funerale di Soy Cuba (di
Mikhail Kalatozov, ’64). La macchina gira e turnica vorticosamente, seguendo la felicissima danza
di tutti i personaggi (tranne Don Pedro che rimane mestamente indietro e, ovviamente, il perfido
Don John che viene arrestato), fino a volare nel cielo, mostrandoci il mitico Chianti dove Branagh
ha ambientato il tutto.

6 - L’ambiente e le stelle
! In questo modo il piano sequenza illustra la scelta di ambientazione: in un luogo fuori dal
tempo, con i costumi che appaiono come ottocenteschi, quasi per niente differenziati l’uno
dall’altro, con i soldati vestiti uguali in divisa, con tutte le donne fasciate dal medesimo vestitino
bianco, con solo Antonio, Leonato (vestiti in modo più ricco) e il Dogberry (con i suoi stracci) a
distinguersi dagli altri. Staccare la vicenda dalla sua origine elisabettiana cinque-seicentesca è
fondamentale per renderla mitica, e per inserirci lo psicologismo adatto ad avvicinarla al presente.
Una volta distaccata dall’origine, la storia può librarsi nell’universale, e questo non è affatto un
tradimento a Shakespeare, dato che il Bardo aveva ben presente questa valenza metaforico-mitica
dell’ambientazione, visto che le convenzioni teatrali del suo tempo vestivano anche gli antichi
romani come signori rinascimentali, e che i nomi delle città erano scelti a caso dalle fonti della
vicenda (in Much Ado, come abbiamo visto, Ariosto, mutuato dal Bandello).

29 DANIELA PECCHIONI, cit., p. 64.

30 GIORGIO MELCHIORI, cit., p. 351.


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! L’ambientazione di Branagh, quindi, è in un tempo indefinibile, ottocentesco ma non troppo,
con l’assolato e lussureggiante Chianti che recita una imprecisata Messina presa a caso, per pure
suggestioni esotiche. E la dinamicità filmica di Branagh, con i piani sequenza che si sposano
all’azione e alla vitalità dello psicologismo ricercato nelle battute, con il suo slancio giovanile,
goliardico, divertente, immediato e sincero, è stata la base primaria di quello che è quasi uno
“Shakespeare Renaissance cinematografico” degli anni ’90.
! Grazie a Branagh, Romeo e Giulietta si sono trovati a camminare per una megalopoli
ispanica ai giorni nostri, vestiti con camicine hawaiiane, in William Shakespeare’s Romeo & Juliet
(di Baz Luhrmann, ’96); Amleto ha recitato il suo “essere o non essere” tra i corridoi di un
videonoleggio in Hamlet 2000 (di Michael Almereyda, ’00); Petruccio e Caterina hanno frequentato
una high school da teen-agers in 10 cose che odio di te (di Gil Junger, ’99); Bella e Edward hanno
citato Shakespeare nella saga di Twilight (di Catherine Hardwicke, ’08; Chris Weitz, ’09; David
Slade, ’10; Bill Condon, ’11 e ’12). Questi non sono insulti alla memoria del grande Bardo, sono il
modo per renderlo parte integrante dell’immaginario e del quotidiano, di renderlo indistinguibile dal
DNA umano, in un modo simile a come è Omero, o il Santo Graal, o le favole. Non a caso gli
astronomi, dagli anni ’80, hanno cominciato a nominare satelliti e meteoriti scoperti non più con
nomi mitologici greci ma con nomi dei personaggi di Shakespeare: fino al 1985 i nuovi asteroidi si
sono chiamati Prometeo, Pandora, Atlantide, poi, Stephen Synnot e la squadra del Voyager 2
nominò Puck l’appena scoperta quindicesima luna di Urano, e da lì seguirono Juliet, Portia,
Cressida, Desdemona, Rosalind, Belinda, Cordelia, Ophelia, Bianca e Prospero31. Questo è un
segno evidente che, tra le stelle, come nelle nostre menti, Shakespeare è incastonato insieme ai miti
ancestrali che c’hanno forgiato.

31 http://en.wikipedia.org/wiki/Timeline_of_discovery_of_Solar_System_planets_and_their_moons (ultima visita:


gennaio 2013).
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