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memorie
IN RICORDO DI MASSIMO ROSATI

«Sto come mi pare»


De-fenomenologia di Massimo Rosati

di Matteo Bortolini

Title: «How do ya do, what?» De-phenomenology of Massimo Rosati

ABSTRACT: Using rav Joseph Soloveitchik’s explanation of the dual narrative of the creation
of man in the Bible as a template, the paper proposes a deep and friendly appreciation of
the life and work of the late Massimo Rosati (1969-2014), an Italian Durkheimian intel-
lectual working on the themes of religion, post-secularism, and social solidarity.

KEYWORDS: Rosati, Intellectuals, Faith, Inner-worldly asceticism

Media vita in morte sumus


Detto medievale francese, ca. 750 d.C.

Due frasi di Michel Foucault, apparentemente lontanissime. La prima viene


da un saggio celebre, Nietzsche, la généalogie, l’historie: «c’est que le savoir n’est
pas fait pour comprendre, il est fait pour trancher». La seconda compare invece
in una intervista su Truth, Power, Self del 1982, dove Foucault afferma, quasi

Matteo Bortolini, Università degli studi di Padova,


matteo.bortolini@unipd.it

Se l’acrobata è chi riesce a realizzare l’impossibile come se fosse del tutto naturale senza per-
dere il sorriso, nello scrivere un pezzo che non dovrebbe essere possibile, né probabile, né doveroso
scrivere non mi sento certo un acrobata. A volte dovremmo poterci godere la pianeggiante sicu-
rezza di una passeggiata in riva all’oceano, con una panchina, un panino e il sole negli occhi.
Ringrazio Assunta Viteritti e Valeria Fabretti per la libertà che mi hanno dato e la pazienza che
mi hanno dimostrato.

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Matteo Bortolini

per caso, che «the main interest in life and work is to become someone else that
you were not in the beginning» (Foucault, 2001: 55; Martin et al., 1992: 3).
Comprendere, prendere posizione, cambiare sé stessi. Il perimetro del lavoro – e
della vita – dell’intellettuale è in qualche modo delimitato da questi tre solchi,
tre elementi divergenti che tratteggiano l’ombra di una tensione. Comprendere
e prendere posizione. Comprendere per prendere posizione. Gettarsi totalmente
fuori di sé. Ek-sistere, direbbe Franco Crespi. Lanciarsi a capofitto a comprende-
re il mondo esterno per poi occupare una posizione al suo interno. Consegnarsi
tutto al mondo per com-prenderlo e ri-prenderlo. Oppure ripiegarsi in sé stessi,
cambiare la propria vita, agire su di sé come se tutto il resto non ci fosse. Lasciare
il mondo, rinunciare, abbandonare. Chiudere la porta dietro le spalle, sedersi
e concentrarsi, non su di sé, sul sé di adesso, ma su ciò che si potrebbe essere.
Ascetismo. Misticismo. Intramondano. Extramondano. Due sostantivi e due
aggettivi. Un perimetro solo.
Si tratta, a ben vedere, di due uomini diversi che Foucault riesce a tenere in-
sieme con grandi difficoltà e infiniti silenzi. O sono forse due demoni che convi-
vono, e combattono, dentro ognuno di noi – noi uomini e noi intellettuali, cioè
noi che scriviamo e leggiamo queste righe, in questo preciso momento. Lo dice
Joseph B. Soloveitchik, the Rav – luce dell’ebraismo neo-ortodosso, non casual-
mente sconosciuto in Italia. Nella sua conferenza più famosa, The Lonely Man of
Faith, Soloveitchik rilegge i due racconti biblici della creazione non come due
storie incompatibili, malamente incollate l’una all’altra, ma come due narrazioni
complementari, diverse perché l’uomo – ogni essere umano – è in sé spaccato.
È l’uomo, non il racconto, a essere duplice. Il primo Adamo è quello, maestoso
(majestic), del primo racconto in Genesi, 1:26-31. È creato a Sua immagine e so-
miglianza e riceve il pieno diritto di governare sul mondo, sugli animali e su tutto
ciò che c’è. Il primo uomo domina. Costruisce. Come Dio, il primo Adamo crea
il proprio mondo. È tecnico e funzionale. Il suo è un pensiero del fare e ciò che
brama è dignità e gloria. È per questo che, fin da subito, è maschio e femmina: di-
gnità e gloria sono attributi relazionali che discendono dal riconoscimento altrui.
«Dunque il primo Adamo è aggressivo, coraggioso e orientato alla vittoria. Il suo
motto è il successo, il trionfo sulle forze cosmiche» (Soloveitchik, 2012: 11). Il
primo Adamo si getta nel mondo, e nel mondo conquista la sua posizione.
L’Adamo del secondo racconto, in Genesi, 2:4b-25, è diverso. È, innanzitut-
to, modellato con la polvere e vive grazie al soffio vitale di Dio. Come dire: non

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solo viene dalla terra, ma è fin da subito pre/occupato dalla presenza di un Altro
che gli è necessario e incomprensibile insieme (Soloveitchik, 2012: 16). Non usa
il mondo ma lo custodisce: lo guarda con la semplicità e la meraviglia del bam-
bino che scopre la luce, l’erba, i fiori per la prima volta, vuole andarci a fondo,
vuole capirne l’intima essenza. E certo, dice Soloveitchik, solo questo secondo
Adamo può essere davvero solo – e infatti la donna viene creata dopo, e ciò esige
torpore e sacrificio, un togliere, un distrarre ciò che era completo in sé ma non
lo era mai stato veramente. E loneliness non è la mancanza di altri (aloneness)
né il semplice sradicamento da ogni relazione (uprootedness). La solitudine del
secondo Adamo «non è che la messa in questione della propria legittimazione,
importanza e ragionevolezza ontologiche» (Soloveitchik, 2012: 23). La forma
della sua vita diventa dunque la ricerca della redenzione non come dominio
dell’ambiente fuori di sé, ma come conquista, sempre precaria, della convin-
zione del proprio valore – come conquista di sé. E in questo il secondo Adamo
è pronto al patto (covenantal), perché la garanzia della sicurezza ontologica è
qualcosa che si realizza insieme a un altro e, se c’è, a un Altro. Redimersi vuol
dire abbandonarsi e affidarsi.

L’uomo acquisisce la dignità ogni qual volta trionfa sulla natura. L’uomo trova la reden-
zione ogni qual volta è sconfitto dal Creatore della natura. La dignità si scopre all’apice
del successo; la redenzione nell’abisso della crisi e della disfatta (Soloveitchik, 2012: 26).

E dunque, l’uomo di fede è solo ontologicamente perché si sa solo a cospetto


di… di cosa o di chi? C’è bisogno di dire ‘Dio’ – o ‘D-O’ o ‘Elohim’ o ‘YHWH’
– oppure basta molto meno? Il secondo Adamo incontra il sacro ricavando per
sé una nicchia nel mondo, in quel mondo che continuamente si riversa dentro
di lui, che ne riempie i vuoti, che lo invade, che lo salva. In quel sacro fa una
religione che è innanzitutto atteggiamento, una abitudine di riluttanza che lo
trattiene, piuttosto che un sentimento lo spinge ad agire. Re-legere come ‘ri-leg-
gere’, ‘collezionare’, ‘raccogliere’ ancora e ancora le proprie azioni in un atto di
memorie

ininterrotta riflessione, concentrazione, meditazione. La religione come tratto


caratteriale di scrupulus, come dice Emile Benveniste (1976: 490): «Ricomin-
ciare una scelta già fatta (retractare, dice Cicerone), rivedere la decisione che ne
risulta, tale è il senso proprio di religio». Per questo una religione è innanzitutto
un rituale, cose che si fanno piuttosto che cose che si credono. È un fare indivi-

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duale che può diventare collettivo – ovvero un fare collettivo che viene accolto
dal singolo individuo. È trasformare in liturgia ogni piccola azione – coprirsi la
testa, pregare, astenersi dal lavorare il sabato, evitare la carne, salutare per primi,
fare silenzio. Non perché ci siano ragioni impellenti, ma per trovare un ritmo e
una forma in cui la vita possa indirizzarsi, in cui la regola e la vita si perdano e si
confondano (Agamben, 2012: 133). Per consentire ad Adamo secondo, e anche
al primo dopotutto, di esercitarsi continuamente fino alla fusione di regola e
vita – alla neutralizzazione e alla trasformazione di entrambe in una ‘forma-di-
vita’. Sempre.

1. Creare o redimersi

Per Soloveitchik i due racconti biblici rimandano a una duplicità intrinseca


dell’essere umano. Dentro ogni uomo ci sono, neanche tanto nascosti, il primo e
il secondo Adamo insieme. L’uomo ben riuscito è quello che riesce a combinare
il peso del primo con la gravitas del secondo. La scintilla del primo con l’esitare
del secondo. La gloria del primo con la vergogna del secondo. Ma la modernità,
è questo il problema del Rav, ha posto solo per il primo. Lo apprezza, lo coccola,
lo mette al centro del palcoscenico e gli lascia tenere la scena, concedendo al se-
condo Adamo una piccola battuta alla fine del secondo atto. Il finale è riservato
alla celebrazione, nonostante tutto, della gloria maestosa del primo.
Massimo Rosati, invece, cercava un equilibrio tra i due. Si vede già nel suo
primo articolo sulla socializzazione in Habermas. Il linguaggio controllato dello
studioso al debutto. La ricchezza dei riferimenti, ‘interdisciplinari’ senza che
nessuno dovesse forzarlo. L’attenzione per i particolari. L’intreccio di temi, ar-
gomenti e domande che avrebbe continuato a inseguire. La precisione e il pren-
dere posizione, fin da subito, con considerazioni critiche su cui, forse, non tutti
si sarebbero attardati, a quell’età. Trancher. Il tutto insieme a una urgenza di
tornare a casa a studiare, per capire, per approfondire, per imboccare una nuova
via. Redemption. Esattamente allo stesso modo, molti anni dopo, si apriva il suo
blog Living together, differently:

Insegno sociologia a Roma ‘Tor Vergata’, e da questo blog scriverò di religione e re-
ligioni. Perché? Perché è il mio mestiere, insieme all’insegnamento, e mi piace farlo,

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moltissimo […] Perché credo che ci sia un’infinità di ragioni per cui questioni legate
a religione/i siano interessanti, urgenti, cruciali, da molti di punti di vista: sociologico
(quello che mi appartiene di più), antropologico, politico, filosofico, morale, giuridico,
economico, e continuate pure voi. Discuteremo insieme di parole, fatti, e libri, che
con religione/i hanno a che fare. Alterneremo riflessioni su parole, correnti o demodé,
che compongono il nostro vocabolario, e di cui riascolteremo magari una eco religiosa
dimenticata, stravolta, secolarizzata, a commenti su fatti di cronaca, su cose che acca-
dono in relazione al nostro tema, a discussioni su libri recenti o passati, che ci aiutano
a capire posto e ruolo delle religioni nel mondo contemporaneo, in Italia, Europa, nel
resto del mondo.

Una semplice presentazione contiene tutto – il presente, il passato (e una


parola demodé come ‘demodé’), l’orizzonte. Una lista che non è mai arida, mai
catalogo delle buone intenzioni, quel catalogo che pure un uomo halakhico do-
vrebbe, a ragione, preparare, osservare e riverire (Soloveitchik, 1983). Una lista
che trasuda di quel vocabolario tutto suo – la strage di ‘il’ e ‘la’, la ‘zolla’, la ma-
nia per la parola giusta (haredim non è hassidim, si dice mitzvot non mitzvah), la
parola ‘D-O’ scritta col trattino, i versi di canzoni infilati senza spiegare. Mas-
simo Rosati spremeva ovunque il primo e il secondo Adamo. Ritirarsi in cerca
di redenzione e lanciarsi nel mondo. Come una donna cannone. Freakshow.
Questo a volte (spesso) voleva dire obbligarsi. Voleva dire uscire da quel guscio
di libri, disegni, fotografie e busti – sì, busti, dello zio Émile – e partire. Oppure
abbattere quei muri invisibili che ci dividono del resto del mondo e che sono il
tesoro di ogni studioso.

«Io non sono come te, non mi piace stare tra la gente»
«Ma cosa dici, che sei sempre in mezzo al casino!»
«Sì, ma non vorrei».

Si trattava di una forzatura che nasceva dal fatto, prima ancora che dalla con-
sapevolezza, che neanche il secondo Adamo si basta. Anche se ci affascina, anche
se pensiamo che sia quella la direzione da prendere – libri, concetti, problemi
memorie

difficili, poco tempo per chiacchierare, per mangiare, per dormire. Svegliarsi
presto, prima degli altri.

«Ma cosa fai seduto sul cesso alle sei di mattina???»


«Eh mi son svegliato alle quattro e mezza per studiare e non volevo svegliarti»

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Matteo Bortolini

«Andiamo a fare colazione va’»


«Andiamo».

Il secondo Adamo ha bisogno del primo. Ha la necessità di creare, di pren-


dere posizione, di uscire e fare là, nel mondo. Di fondare istituzioni – il se-
minario di Urbino, i Quaderni di teoria sociale, il RiLeS, il Centro studi sul
post-secolare e chissà cos’altro. Anche se a volte è difficile, anche se a volte pare
non valerne la pena. Anche se a volte la posizione – Repubblicanesimo in Italia?
Sacro e rituale? Pluralismo degli ordinamenti legali? Cappelle interconfessionali
in Parlamento? Riflessività liturgica? Diritti religiosi in carcere? L’anima dell’Eu-
ropa e la Shoah? MIRCEA ELIADE? – è lontana da tutto e da tutti. Cercare di
combinare il primo e il secondo Adamo, con la fatica che ne deriva, vuol dire
(spesso) dimenticarsi del mondo o almeno cercare di farlo. E vuol dire rappre-
sentarsi così, ‘fuori’.

Vorrei ringraziare inoltre la piccola Anna per tutte le volte che ascolta musica con me,
mentre lavoro e non solo, e ovviamente Barbara, che con infinita e gratuita pazienza
rende un po’ più ‘intramondano’ il mio ‘rifiuto del mondo’.

Non per posa. Non per immagine. Non per snobismo. Massimo Rosati era
davvero fuori dal mondo. O meglio. Era fuori da ogni mondo che non lo interes-
sava e totalmente dentro il mondo che lo incuriosiva. Era primo Adamo – stru-
mentale, razionale, controllato – nei confronti del primo, era secondo Adamo –
spellato, esposto, disarmato – nei confronti del secondo. Coriaceo verso ciò che gli
serviva o non lo affascinava, bambino sorridente verso ciò che lo attraeva, pronto
a identificarsi per poi, subito, tornare in una sorta di amaro distacco. E tornare
indietro, e ancora avanti, e ancora indietro, sempre così, senza fermarsi mai.

«Sono fatto così, prima faccio le cose per sbozzolarmi e poi mi rimbozzolerei. Lascia
stare».

Alla fine, però, il Rav forse suggerisce che il punto di ognuno sta in quel gap,
in quella discontinuità tra l’Adamo maestoso e l’Adamo in cerca di un patto e
nel movimento indifferibile che porta dall’uno all’altro senza mai poter trovare
un vero equilibrio. Nell’assenza di sé tra autonomia ed eteronomia – «‘Sto come
sto’, come direbbe Brontolo», ma anche «Qui io sto. Non avrebbe potuto esse-

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re diversamente». In quella mancanza che non può mai esaurirsi con l’umiltà
del rinunciante né con la spocchia del conquistatore. «‘Essere’ è un’esperien-
za profonda unica, di cui solo il secondo Adamo è cosciente, ed è staccata da
qualsivoglia funzione o performance. ‘Essere’ significa essere il solo, singolare
e diverso, e quindi solo» (Soloveitchik, 2012: 29). Ognuno prova a rivelarsi
nella relazione con l’altro, che è altrettanto unico e solo. E mai rivelato fino in
fondo. Il soggetto «che con troppa disinvoltura è in grado di gestire l’indeter-
minatezza della situazione» non esiste (Rosati, 1994: 292). Anche se sa che altri
stanno facendo esattamente lo stesso, forse per le stesse ragioni, ognuno rimane
solo nel suo fare, perché il suo posto nel mondo va riconquistato ogni volta,
daccapo.

«Voglio diventare un uomo dietro a un monitor»


«Anch’io. Non vedo l’ora»
«Tu non ci riuscirai mai, inutile che ci provi. Ti voglio bene».

Insieme a un altro che non si rivela mai per quello che è perché neanche lui/
lei sa cosa o chi è «per quello che è». E muore solo.

2. «L’shana haba’ah b’Yerushalayim»

L’etichetta accademica avrebbe preteso distacco. Avrebbe voluto oggettività.


Avrebbe imposto argomenti. L’etichetta accademica è una forma di morale – di-
sciplina dei comportamenti e attaccamento al gruppo, direbbe il figlio del rabbino
di Épinal – che dovrebbe aiutarci a contenere la passione dell’infinito e a dirigere
le nostre energie nella direzione giusta. Una direzione che, in questo caso, è la
conoscenza, la penetrazione, il sapere. Valutabili, per di più. Ma come si può, di
fronte alla catastrofe, tener conto dell’etichetta? Si stira la camicia? Si taglia con la
destra? Ci si pulisce la bocca prima di bere? Davvero, dobbiamo fare note a piè di
memorie

pagina discettando sulle continuità di una carriera e di una vita «interrotte troppo
presto»? O forse facciamo finta di non sapere che avremmo scritto le stesse parole
anche tra vent’anni? O trenta? O quaranta? Non ci ha insegnato nulla lo zio Max?
Non abbiamo ancora imparato che l’uomo colto può morire, sì, stanco, ma mai
sazio della vita? Fossero passati altri dieci, venti, trenta, quaranta anni, con Mas-

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simo saremmo sempre allo stesso punto. Un nuovo libro complicato da scrivere.
Una nuova passione da abbracciare con ingenuo entusiasmo. Un nuovo gruppo,
un nuovo centro, un nuovo progetto da dirigere.
La catastrofe è tale perché interrompe il difficile equilibrarsi del primo e del
secondo Adamo e ci lascia senza lo spettacolo, bellissimo, di Massimo-acrobata
che volteggia sulla corda sospesa mentre noi, là sotto, ci accendiamo una sigaretta.

3. Co/da

Quando comincio a scrivere sto lavorando a un pezzo sulla rottura assiale e


a un intervento su Pasolini luterano. Ascolto For Free? – una canzone del disco,
appena uscito, To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, un rapper americano che
sembra un po’ fuori luogo tra Massimo Rosati e Karl Jaspers:

Fuck you, motherfucker, you a ho-ass nigga.


I don’t know why you trying to go big, nigga you ain’t shit
Walking around like you God’s gift to Earth, nigga you ain’t shit
You ain’t even buy me no outfit for the fourth
I need that Brazilian, wavy, twenty eight inch, you playin’
I shouldn’t be fuckin’ with you anyway,
I need a baller ass, boss ass nigga
You’se a off brand ass nigga, everybody know it,
your homies know it, everybody fuckin’ know
Fuck you nigga, don’t call me no more
You won’t know, you gonna lose on a good bitch
My other nigga is on, you off
What the fuck is really going on?
This dick ain’t free
You lookin’ at me like it ain’t a receipt
Like I never made end’s meet, eatin’ your leftovers and raw meat
This dick ain’t free
Livin’ in captivity raised my cap salary

Poi però trovo un articolo che parla di questo disco e usa parole che avrei usa-
to anch’io, ma per descrivere Massimo Rosati. Senza saperlo, il critico musicale
di un sito internet qualunque parlava del primo e del secondo Adamo:

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Unlike other artists whose juxtaposition of hip-hop bluster with confessional vulner-
ability feels like shtick, Kendrick does not do performative honesty. Rather, he performs
honestly. And expertly. Do not buy it when critics will inevitably try to sell you that his
work is rough or unbridled, the magic work of a hood savant. It is precise and skilled, as
perfect in technical execution as it is uninhibited in content. Butterfly is not the record-
ing of a natural genius. It is the record of a working artist who has been visited by genius
and who has a deep and earned mastery of his form (Wallace, 2015).

La tecnica e l’onestà. La precisione e l’interiorità. La performance che non è


mai solo performance. Tutto torna. Il cerchio si chiude. Comprendere, prendere
posizione, cambiare sé stessi. Ora possiamo riposare e, almeno fino a domani,
trattenerci dal pensare.

Riferimenti bibliografici

Agamben, G. (2011), Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Vicenza, Neri
Pozza.
Benveniste, E. (1976), Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Volume secondo. Potere,
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Foucault, M. (2001), «Nietzsche, la genealogia, la storia» in Id., Il discorso, la storia, la veri-
tà. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Torino, Einaudi, 43-64.
Martin, L.H., Gutman, H. e Hutton, P.H. (a cura di) (1992), Tecnologie del sé. Un semina-
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Soloveitchik, J.B. (1983), Halakhic Man, Philadelphia, Jewish Publication Society of Ame-
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Soloveitchik, J.B. (2012), The Lonely Man of Faith [1965], Jerusalem, Maggid Books.
Wallace, C. (2015), «On Kendrick Lamar and Black Humanity», Pitchfork, March 19,
2015, http://pitchfork.com/thepitch/704-on-kendrick-lamar-and-black-humanity.
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