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CICLONE ESTIVO, DRAMMATICO, SURREALE

TWIN PEAKS: IL RITORNO


di David Lynch

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Titolo Originale: Twin Peaks
Nazione: U.S.A.
Anno Produzione: 2017
Genere: Drammatico, Surreale
Durata: 1000'
Sceneggiatura: David Lynch, Mark Frost
Serie televisiva: 18 episodi
Fotografia: Peter Deming
Montaggio: Duwayne Dunham, David Lynch
Scenografia: Florencia Martin
Costumi: Nancy Steiner
Musiche: Angelo Badalamenti

TRAMA

Venticinque anni dopo l’agente speciale Dale Cooper è ancora intrappolato


all’interno della Loggia Nera. Il suo doppelgänger è invece libero nel mondo reale,
ed è invischiato in diverse attività criminali.

RECENSIONI

TWIN PEAKS EMPIRE

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«I don’t know where I am»

Jerry Horne

Los Angeles. 3 ottobre 2014. Ore 8.30.


Dear Twitter Friends: That gum you like is going to come back in style.
#damngoodcoffee

David Lynch e Mark Frost annunciano con un tweet il ritorno di Twin Peaks. Non
è uno scherzo, Laura Palmer ha mantenuto la promessa che ci saremmo rivisti
dopo 25 anni. Un sogno che prende lentamente forma dopo numerose
contrattazioni con l’emittente Showtime e dà vita a una serie di 18 parti, tutte
rigorosamente dirette dal regista di Missoula che esorcizza con decisione le
difficoltà incontrate in passato.
Torniamo un attimo indietro. È evidente come Lynch abbia in parte rinnegato le
prime due stagioni di cui, per motivi produttivi, non riuscì a controllare fino in
fondo lo sviluppo. Ma qualcosa era rimasto in sospeso, troppi misteri aleggiavano
ancora su Twin Peaks. Ecco quindi la nascita di Fuoco cammina con me, il
prequel sugli ultimi giorni della vita di Laura Palmer, presentato in concorso al 45°
Festival di Cannes e massacrato tanto dalla critica tanto dal fandom della serie.
Riguardo all’accoglienza negativa rimane indimenticabile lo sfogo di Quentin
Tarantino che promise di non vedere mai più un film di David Lynch se non avesse
deciso di raccontare una storia diversa da questa.
Col tempo però Fire Walk with Me è diventato un piccolo oggetto di culto,
l’oscura e libera rilettura di un immaginario che aveva ancora molto, troppo da
dire. Perché se c’è un aspetto del cinema di Lynch su cui (credo) siamo tutti
d’accordo è che non c’è mai fine al mistero; quello che conta infatti è l’inner
voyage, il suo valore esperienziale indipendentemente dal punto di arrivo. L’arte
può essere indubbiamente un mezzo, una soglia da attraversare e dove perdersi
meravigliosamente, ma sempre con la consapevolezza che non potrà mai dare
delle risposte che sono, per fortuna, dentro di noi.

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Torna alla mente l’ironico sberleffo nei confronti dello spettatore in Fuoco
cammina con me. Desmond è insieme al suo partner e, guarda caso, a Gordon
Cole prima di intraprendere le indagini sul caso Teresa Banks. Appare Lil, una
donna completamente in rosso, che recita come un mimo e fa strane smorfie,
tutti segni in codice che il detective prontamente interpreta. Ma c’è un dettaglio
che colpisce l’occhio, una rosa blu, l’elemento estraneo che risucchia ogni forma
di interpretazione logica, di cui non viene data una risposta. Ritengo da sempre
questa sequenza la ghignante presa di posizione di David Lynch nei confronti di
chi è ossessionato dal senso, che cerca sempre delle risposte definite invece di
abbandonarsi alle domande.
Ora arriva la patata bollente. Come affiancarsi a questa opera fondamentale e
seminale che è Twin Peaks: The Return, dopo quanto scritto?
Cercherò di creare suggestioni passando da un universo all’altro interno alla serie
che, mai come in questo caso, è l’INLAND EMPIRE della filmografia del regista.
Diane, I’m entering the Twin Peaks EMPIRE.

«I can't seem to remember if it's today, two days from now, or yesterday. I suppose if it was

9:45, I'd think it was after midnight! For instance, if today was tomorrow, you wouldn't even

remember that you owed on an unpaid bill. Actions do have consequences. And yet, there is the

magic. If it was tomorrow, you would be sitting over there.»

(Neighbor – INLAND EMPIRE)

Home

Un ritorno a casa. Nel proliferare di sottotrame, nel riavvicinamento emotivo ai

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personaggi a noi familiari, nell’introdurre nuovi volti, nuove eredità generazionali,
Twin Peaks crea un mondo corale, fatto di tasselli che piano piano iniziano a
legarsi gli uni con gli altri, ricuciono lo strappo con il passato, l’ellissi di 25 anni.
Ma dove è Twin Peaks? E’ ancora possibile ricongiungersi a quell’immaginario così
lontano nel tempo?
Lo scorrere degli anni è spietato, la vecchiaia è incisa nella pelle dei suoi abitanti,
ma contemporaneamente è come se fossimo rimasti sempre lì, nell’attesa che
qualcosa potesse accadere di nuovo.
Is it the future or the past? Il tempo è tiranno, ma insieme allo spazio rivelerà
presto se stesso, la propria natura relativa e illusoria, per aprirsi alla sincronicità
di mondi paralleli, per riavvolgersi e nuovamente distendersi. Siamo dentro sì
imbrigliati, dobbiamo sì svegliarci, ma non ha molta importanza il punto di arrivo,
quanto il cambiamento di stato che permette alla visione di rileggere, infinite
volte (?), un universo che funziona come la nostra mente.
Perché Twin Peaks è dentro di noi e la memoria cerca gradualmente di
riconnettersi a quella fonte.
Lo spettatore percepisce quasi da subito che l’errare di Dale/Dougie e il suo
doppelgänger ha come meta la cittadina, il luogo dove tutto è iniziato e dove
potrebbe esaudirsi il sogno di rivivere, ancora una volta, quell’unicità di tanti anni
fa. La sensazione però è che la presenza di Twin Peaks sia immanente, nei
dettagli, nei rimandi, nelle suggestioni sonore, è intorno a noi, ma allo stesso
tempo avvolta dal velo dell’oblio.
Ed ecco che Dougie, privo di ego, in una regressione sia infantile che senile,
combacia pienamente con questo stato d’animo. Uno sguardo che subisce le
situazioni, l’incarnazione perfetta della mediocrità umana, che vive intrappolato
nella routine ed è paradossalmente costretto a esperire la realtà che lo circonda
in maniera diversa. Dougie sente, non agisce, non vuole come Bad Cooper, ma ha
realmente bisogno dell’altro, è patologicamente dipendente. E per sopravvivere
ha bisogno proprio di Twin Peaks che, mediante l’apparizione di Mike, lo guida nel
districarsi dagli ostacoli di volta in volta incontrati.
Poi, all’improvviso, mentre si sta gustando la sua amata cherry pie, giunge
l’epifania che lo libera.
Un cortocircuito teorico oltre che fisico. Il risveglio di Dale, infatti, avviene
durante la visione in TV di Sunset Boulevard di Billy Wilder, quando viene

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nominato Gordon Cole, personaggio minore della pellicola dal quale il regista ha
preso il nome per interpretare il Direttore dell’FBI.
L’immaginario feticizzato della Loggia Nera termina così di fare da tramite per
Dougie, non lo guida più.
Lynch ci riporta a Twin Peaks, facendoci dimenticare Twin Peaks stessa,
abbandonando quell’impianto fatto di aspettative, memorie, leit motiv, che ci ha
congelati in una beckettiana attesa. E tutto questo grazie al cinema, in un dialogo
impossibile tra mondi, dove per l’ennesima volta è un tramonto a segnare un
nuovo inizio.

Dreams

Quanto sognano i personaggi di David Lynch. Il sogno è quasi sempre


l’anticamera di un risveglio, di una nuova comprensione della “realtà”. Parlare
però di realtà è assai fuorviante, soprattutto rapportandoci a un universo dove
non esistono vere e proprie dicotomie, ma piuttosto stati diversi di
consapevolezza in quell’angosciante e misterioso percorso che vive di continui
superamenti di soglie, di porte che si aprono, di nuovi stadi di un viaggio
destinato a non fermarsi mai.
Ed è proprio Gordon Cole a spingerci verso una suggestione che invece di dare
una risposta ci mette di fronte a un quesito insuperabile. Who is the dreamer?
La sequenza è a dir poco bizzarra: l’apparizione di Monica Bellucci fuori da un
caffè parigino, in una situazione familiare (Gordon Cole sta forse sognando di
essere proprio David Lynch?), contempla la natura stessa di questo intricato gioco
di scatole cinesi [1]. Se viviamo dentro un sogno, come ci dice Philip Jeffries in

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Fire walk with Me, chi è che realmente sta sognando?
Ecco quindi che quello sguardo in macchina di Cole sembra dirci che facciamo
parte del gioco e forse siamo proprio noi la fonte di questo flusso magico. Certo,
potremmo lanciarci in terreni complessi, molto più pericolosi di queste probabili
sovrainterpretazioni e trarre spunto dagli interessi del regista nei confronti delle
tradizioni orientali (The Mandyuka Upanishad?), ma meglio restare dentro la serie
e perderci nuovamente nel vortice di interrogativi.
Di sicuro il sogno è un piano in cui i personaggi riescono ad anticipare qualcosa
del futuro, riconfermando per l’ennesima volta quel cortocircuito temporale, che ci
impedisce realmente di stabilire una sequenzialità tra gli avvenimenti messi in
scena.
Ma probabilmente è solo attraverso questo stato che si può entrare un pochino
più in profondità. Pensiamo a Freddie, un cockney che proprio grazie
all’apparizione di Cooper diventa un bizzarro supereroe (l’ironia, come in tutto il
cinema di Lynch, è abbagliante) e incarna la nuova generazione come mezzo per
superare le stasi del passato. Ed è tutto fondato sul credere, credere fermamente
ai segni, cercare di andare oltre all’apparenza e alla banalità letterale. Alla faccia
di quello zoticone di Chad!
I personaggi che dicono di aver sognato e hanno un’interpretazione di quello che
sta per accadere sono tanti, ma a colpire è come tutta la rappresentazione sia
strutturata a mo’ di lavoro onirico. Non si tratta infatti solo di sognare, quanto di
vivere dentro un sogno, in una maglia, una tela che unisce tutto Twin Peaks.
E proprio lì, nell’ufficio dello Sceriffo[2], che Cooper dopo la sconfitta di Bob
comprende che siamo vicini all’ennesimo risveglio. La splendida sovraimpressione
del suo primissimo piano con la famiglia nuova e vecchia di quel luogo ci
suggerisce già il passo successivo.
Richard o Cooper? La televisione è spenta, I’m deranged. Ci siamo però svegliati
o siamo nuovamente dentro l’ennesimo sogno?
Non si discute quanto l’ultimo episodio della serie crei un forte stato di disagio e
frustrazione allo spettatore.
Indipendentemente dalla lettura narrativa più “logica”(Judy ha creato un mondo
parallelo e ha intrappolato, di nuovo, il protagonista), ci colpisce questa uscita
brusca e non appagante dall’immaginario a noi familiare.
È però lì che la poetica del regista mostra un grande coraggio. Una stagione di 18

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puntate che ti ammalia con i live al Roadhouse [3], che evita chiusure sospese,
trova il suo cliffhanger definitivo nel season finale.
Un urlo che riecheggia, la constatazione dolente che l’unico happy ending
possibile è un tulpa che riabbraccia una famiglia ritrovata. Essendo però Laura the
one, è inevitabile che la ricerca continui, che non possa mai fermarsi. Siamo usciti
da Twin Peaks ed è lì il cuore della serie che è ben riflesso nel personaggio di
Cooper. Nell’incessante movimento verso la verità, l’abbandono e la rinuncia di ciò
che ci lega è molto spesso necessaria, ma non sarà certo l’arte a dare una
risposta. Perché se c’è qualcosa che Lynch non vuole è prendersi l’arroganza di
esaurire il mistero. Tutt’altro. Il suo sguardo rivendica come la ricerca non debba
mai finire. Probabilmente, non siamo ancora pronti per un vero risveglio.

[1] Nell’intro della sequenza che vede l’apparizione di Jeffries (Fire Walk with Me), Lynch ci

mostra questo aspetto in modo subliminale.

All’esterno della sede dell’FBI c’è una campana. Un movimento di macchina ne inquadra subito

l’ombra sottostante, per poi trovare un’ulteriore corrispondenza nello stacco di montaggio

all’interno dell’ufficio di Cole. La prima cosa che vediamo, infatti, appesa su una colonna è il

disegno incorniciato della campana stessa.

[2] Si noti come il ritorno a Twin Peaks inizi con un’alba che filtra. Anche questo è un suggestivo

risveglio.

[3] Sarà Audrey a risvegliarci/si.

.....

Meditation ...

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... in love

....

- I tuoi quadri sembrano raffigurare il mondo dalla prospettiva di un bambino in preda al terrore;

è una descrizione plausibile?

- Direi proprio di sì. Amo ciò che riguarda l'infanzia perché quando si è bambini il mondo è così

ricco di mistero. Persino una cosa semplice come un albero è inspiegabile. Lo vedi da lontano e

sembra piccolo, e invece man mano che ti avvicini pare che cresca; da bambino non riesci ad

afferrare le regolE. Noi crediamo di capirle quando diventiamo adulti, ma ciò che sperimentiamo in

realtà è un restringersi dell'immaginazione. –

Childish squiggles

Dougie fa un po’ il pappagallo, ma molto spesso nella ripetizione dell’ultima frase


del suo interlocutore apre uno spiraglio di senso. E’ il caso della consegna dei file
cases a Bushnell, con questo che si lamenta dei disegni infantili presenti sui

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documenti. Dougie col suo sguardo perso sussurra: Make… sense of it.
Si tratta di un vero manifesto di come Lynch guarda alla rappresentazione. E mai
come in Twin Peaks: The Return abbiamo potuto godere di una libertà
espressiva che rielabora la propria filmografia e la sua profonda passione per la
pittura. Un’esperienza visiva tanto virtuale quanto tattile, che innesta registri
diversi, che rielabora l’iconografia vintage della serie come ce la ricordavamo e
irrompe con suggestioni pittoriche, evoluzioni infantili dei personaggi (The Arm e
Jeffries), che usa i dispositivi 2.0 come nuove traiettorie mentali, che non ha
paura di forzare le immagini, ma le filtra attraverso gli occhi di un bambino
giocoso nello sfidare la sicurezza della verosomiglianza.
Twin Peaks è inoltre un’opera divertita nel dialogare con i film precedenti di
Lynch. Mai come in questo caso, infatti, l’autore riesce a integrare il passato del
suo cinema dentro questo nuovo impero seriale, da Eraserhead fino a INLAND
EMPIRE.
Un approccio a dir poco radicale, che tuttavia si presta a gestire i misteri, le
svolte narrative, con un’inaspettata semplicità. Certo, stiamo sempre parlando di
un cinema tutt’altro che a tesi. Gli enigmi però di volta in volta vengono
inquadrati, svelati nel loro funzionamento. Rispetto alle opere precedenti Lynch
ha molto a cuore che lo spettatore si agganci alla/alle storia/storie e inizi a
decifrare i tanti interrogativi lasciati in sospeso 25 anni prima.
Probabilmente la sensazione è quella di voler chiudere un cerchio, una fase, un
immaginario per poi andare oltre e deragliare in un Texas pronto a distruggere
tutte le nostre nuove “certezze”.
Pensiamo solo alla spiegazione della rosa blu, dei tulpa, dell’origine del Male, etc.
Lo spettatore si interroga, ma contemporaneamente può inserirsi nel discorso
senza precipitare nei vicoli ciechi con cui il regista ci ha abituato in passato.
Non sto parlando di semplificazione, attenzione, quanto della lucida capacità di un
autore che vuole portare il suo spettatore oltre la banale decodifica. Questo
perché pur con tutte le spiegazioni suggerite da Cole e compagnia, il nuovo
mistero è pronto a emergere e a rompere una glass box

Sex

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“Tu non mi avrai mai!”

(Alice – Strade Perdute)

Nel cinema di David Lynch il sesso ha un ché di alchemico.


Quasi sempre l’unione intima crea una trasformazione nel mondo circostante o, il
più delle volte, è causa disfunzionale dei rapporti.
Guardando al passato gli esempi sono tantissimi. Henry, in Eraserhead, ha
rimosso l’amplesso con la sua ex fidanzata, ma è proprio attraverso il sogno di un
amplesso con la vicina di casa che sprofonda (in tutti i sensi) dentro la propria
follia. In Velluto Blu e in Cuore Selvaggio la sessualità brucia ed è
indissolubilmente legata con la violenza. Si pensi solo al killer interpretato da
Grace Zabriskie che uccide il povero investigatore dopo un rapporto sessuale
animalesco con il suo partner. In Strade Perdute la sequenza di sesso nel
deserto, fortemente metacinematografica, toglie il velo all’illusione a Pete.
L’unione fisica di Betty e Rita in Mulholland Drive prepara al risveglio dentro
l’incubo, mentre Nikki inizia a perdersi nel ruolo proprio durante una (messa in)
scena di sesso con Devon/Billy.
Questa veloce panoramica introduce le tre scene presenti in Twin Peaks: The
Return.
L’ingenuo giovane della glass box baconiana, è tutto fuorché uno sguardo attivo.
Un oggetto, parte integrante di un sistema di telecamere a circuito chiuso che
registrano 24 ore su 24 l’invisibile (cfr HAL 9000).
Nella gelida operazione meccanica è proprio il sesso clandestino con la sua
compagna a canalizzare Judy e a scardinare, in tutti i sensi, questa logica di
controllo e lontana da qualsiasi partecipazione sensoriale.

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Discorso diverso per il nostro Dougie, il quale non nasconde con un primo piano
grandangolare il piacere di essere, anche in questo caso, totalmente alle
dipendenze di qualcun altro.
Ma è senza dubbio l’angosciante sequenza d’amore (?) tra Cooper e Diane a
rimanere impressa e a confermare nuovamente come ci sia tra un uomo e la
donna un enorme difficoltà a vivere pienamente, spiritualmente, un atto fisico.
L’incontro tra i due, che poteva esorcizzare il trauma della violenza inflitta dal Bad
Cooper, si rivela invece un dolorosissimo addio, uno sprofondamento nel buio che
ricorda quell’oscurità, riscontrabile pure nel nero delle lenzuola, tra Renee e il
marito in Strade Perdute.
E guarda caso proprio dopo questo amplesso che avviene il risveglio, portando il
protagonista in una realtà nuova, nella quale a cambiare sono persino le identità.

Electricity.

Nell’universo lynchano tutto è interconnesso, le varie realtà convivono e


dialogano grazie a un campo (unificato) elettrico. Anche qui le suggestioni che
vengono dall’Est sono abbastanza evidenti. Ciò che però colpisce di questa Legge
è il modo in cui il regista la manifesta.
Prese a parete, accendisigari delle auto, cavi. Oggetti a noi familiari assumono
un’aura perturbante e diventano canali che deformano lo spazio e il tempo.
Questa suggestione giunge da lontano. Già in Eraserhead, infatti, la mente di
Henry veniva paragonata a circuito elettrico, con tanto di demiurgo che ne
controllava il corretto (?) funzionamento. Quello che però colpisce è come gli
oggetti quotidiani, così vicini a noi, non sono mai quello che sembrano e

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trascendono il loro significato prettamente letterale.
E se ci pensiamo bene, la sensazione è simile quel tipo di incertezza che viviamo
nei sogni, dove molto spesso elementi quotidiani slittano di senso e sfuggono alla
nostra comprensione immediata.

Chi ha ucciso Laura Palmer?

“Find Laura”
Leland Palmer

Il Fireman vive dentro un cinema, interagisce con i mondi attraverso uno schermo
quasi si trattasse di un touchscreen, postproduce, modifica, ritaglia, porta avanti
la sua regia per ostacolare il Male.
La magia di poter manipolare il tempo è l’occasione perfetta per un atto eroico
che allo stesso tempo dà la sensazione di infrangere un tabù: salvare Laura
Palmer.
Ebbene sì, Cooper torna indietro. Twin Peaks: The Return entra dentro Fire
Walk with Me (che è in b/n!), si crea l’impossibile riscrittura filmica che
permette alla giovane ragazza di sfuggire dal proprio destino.
E’ l’atto iconoclasta definitivo, la sovversione totale del cuore della serie. E ora?
Chi ha ucciso Laura Palmer? No, Laura Palmer non è stata uccisa, è sparita, in
un’altra dimensione, con un altro nome, 25 anni prima.
Il lieto fine però non è da contemplare, perché Lynch ci ha dimostrato più volte
come il Bene (rappresentato proprio dalla martire Laura) non è al sicuro. Viviamo

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dentro un sogno, ma forse è più vicino a un terribile incubo, dove i nuovi pagano
il karma dei genitori (si guardino le varie sotto trame della serie).
In questo magnifico viaggio dentro le immagini, si formalizza una volta per tutte
l’allontanamento da Twin Peaks, dalle coordinate che poco prima avevamo
ritrovato. Siamo usciti da una televisione, che adesso è spenta, come ci fa ben
capire la soggettiva di Richard al risveglio. Il viaggio però continua e dentro di
noi, il nome di Laura può riemergere, portandosi con sé la paura di un tempo.

Marco Compiani Voto: 10


(7 Luglio 2019)

Di cosa parliamo quando parliamo di Lynch (?)

Se, qualche anno fa, mi avessero chiesto di legare David Lynch a un elemento,
avrei risposto «aria».
Esiste però, a mettere almeno in parte in dubbio le mie convinzioni, un volume,
pubblicato nel 2017 da Mondadori, dal titolo In acque profonde. Meditazione e
creatività (il titolo originale è Catching the Big Fish: l’immagine resiste,
rimandando anche all’onirismo burtoniano). Il testo raccoglie numerosi pensieri

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del regista di Missoula – si spazia da Kubrick, autore amatissimo, alla musica, dal
dolore fino alla solidarietà –, compatti sotto l’egida della meditazione
trascendentale. Su quest’ultima il regista afferma: «la meditazione trascendentale
è appunto il tramite che ti conduce alla beatitudine. La cosa essenziale, però, è
vivere in contatto con l’oceano di pura coscienza di beatitudine.» La densità del
fluido – l’oscurità degli abissi, per la precisione – non l’impalpabilità e
l’evanescenza del soffio. O forse, a voler essere un po’ indulgente con le mie
sensazioni, una crasi eletta fra i due; per dirla con l’epigrafe di John Keats: un
regista la cui arte è scritta sull’acqua. Poiché Lynch stesso, con quel suo ciuffo che
sfida la forza di gravità e una leggerezza che è davvero quella dell’oiseau,
rappresenta la fusione di mondi di un altro mondo, e il suo immaginario è come
un dipinto di Claude Monet: quante ninfee ci sono dietro le ninfee, dove l’acqua si
congiunge con il cielo?
E poi c’è il fuoco, associato, come simbolo, alla conoscenza, in almeno due
valenze: quella più eminentemente platonica, con il dualismo fra opinioni e verità,
e quella lynchiana della frammentazione, del rispecchiamento, dell’accettazione di
un mistero, insolubile, primordiale, che non è un limite, ma un’illuminazione.
David Lynch è un mistero che non può essere svelato e che costringe un mondo
che ama definirsi post-ideologico, pur restando intrinsecamente permeato di
dogmatismo critico, ad accettare la polisemia, anche e soprattutto percettiva,
dell’opera d’arte. Il regista fonda la propria idea cinematografica – ma anche
pittorica, per citare un’altra forma espressiva che gli è cara – sul concetto di
campo unificato e giunge poi a postulare in modo non così dissimile dalle teorie
gestaltiche di Kurt Lewin: l’opera si restringe alla lunghezza di Planck, diventando
tutt’uno con coloro che la osservano, modificando e lasciandosi modificare dagli
spettatori a ogni visione, stabilendo una connessione con la coscienza più che con
la materia. Nella sua Teoria del Campo, Lewin poneva l’accento
sull’interconnessione fra bisogno – soggettivo, momentaneo – e significato; i gufi,
che non potevano essere (solo) ciò che sembravano, a questo punto della
maturazione artistica di David Lynch, non sono ciò che sono e sono sempre anche
ciò che non potrebbero essere. Non fa eccezione il cinema, salvifico nella sua
essenza fatalmente incoerente e mutevole, alienante come dispositivo
convenzionale (Mulholland Drive, INLAND EMPIRE).

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Nel 2002, sulle pagine di Filmcritica, Bruno Roberti spiegava: «In Lynch è come
se le articolazioni macchiniche, gli ingranaggi e le sinapsi, gli snodi e le vie di
comunicazione, le tubature di un sistema che fa corpo con le apparizioni e le
storie, si manifestassero in quanto liberazioni di stati d’essere, di flussi energetici
che si sprigionano in quanto inerenti al cinema come luce e suono, come pensiero
che imprime movimento.»
Non è dunque una excusatio non petita l’ammissione di non saper scrivere della
terza stagione di Twin Peaks se, per saper scrivere, si intende la ricerca di un
significato o più plausibilmente di molti significati inscritti nelle diciotto ore in cui
si dispiega la narrazione. Quest’opera magniloquente che è televisione, cinema
(non perché vi sia una preminenza ontologica del secondo rispetto alla prima, ci
mancherebbe, è piuttosto il linguaggio a presentarsi come ibrido), pittura,
filosofia, neurobiologia non tollera di essere indagata perché, per sopravvivere,
non può esistere uguale a se stessa per più di qualche istante; è evanescente

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come i sogni sui quali si forgia, è impalpabile come la sensazione di calore
quando si avvicina il dito a una fiamma. Nel momento in cui la si esplicita, la
sensazione è già passata, non c’è più, è mutata in altro; permane solo la sua
verbalizzazione che non potrà però mai rendere l’idea vera – semmai verosimile –
di ciò che è stato, indipendentemente dall’accuratezza del resoconto.
Non abbiamo tuttavia molte altre modalità per cristallizzare un ricordo, pur nella
consapevolezza che Lynch si rivolga, da sempre, anche nei lavori considerati più
narrativi come The Straight Story, al cosiddetto secondo cervello – quello
collocato nell’intestino – oltre che al cervello vero e proprio. Michael D. Gershon
in The Second Brain (Perennial, 1999) scrive: «Sappiamo che, per quanto il
concetto possa apparire inadeguato, il sistema gastroenterico è dotato di un
cervello. Lo sgradevole intestino è più intellettuale del cuore e potrebbe avere una
capacità emozionale superiore. È il solo organo a contenere un sistema nervoso
intrinseco in grado di mediare i riflessi in completa assenza di input dal cervello o
dal midollo spinale.»
Quindi, ferma restando la premessa, mai così doverosa, circa la soggettività di
questo scritto, ciò che sto provando a mettere su carta – o su schermo – non è la
mia interpretazione – non ne ho una univoca o abbastanza convincente – della
serie evento, trasmessa nel 2017 dall’emittente Showtime. Il lavoro è così
pulsante che qualsiasi esegesi mi parrebbe profanatoria, quasi il tentativo di
dissezionare un presunto cadavere che invece è una creatura fervente di vita
(qualunque cosa significhi, nell’alfabeto lynchiano, questo termine).
C’è poi, in ultimo, il ritorno all’impressionismo cui accennavo all’inizio, per quanto
questa tecnica possa sembrare distante dai tagli angolati, espressionisti, e dalla
violenza surrealista dell’indagine cinematografico-pittorica di David Lynch; vi è
senza dubbio la tela dipinta con vecchi e nuovi personaggi, connessi in maniera
più o meno intelligibile. Ma vi è inoltre, o soprattutto, ancora una volta,
un’immagine a onde infinite, oscillante, peculiarità stilistica sottolineata già da
David Foster Wallace nel suo David Lynch Keeps His Head, datato 1996. Lo stesso
processo creativo del regista si conferma come spiraliforme, improntato
all’impressione personale rielaborata (e rielaborata e rielaborata secondo teorie
che vanno dall’animismo alla cultura indiana americana): «Posai la mano sul
tettuccio ed era caldo, molto caldo: non bollente, ma piacevolmente caldo. Stavo
lì con la mano poggiata sul tettuccio quando – puf! – apparve la “stanza rossa”

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[…] “Aspetta un attimo”, dici “le pareti sono rosse, ma non solide”. Allora continui
a pensare. “Sono tende. Non opache, ma traslucide”» (David Lynch, In acque
profonde. Meditazione e creatività).

Il regista elude di rado le domande, ma, se parliamo delle risposte che fornisce,
be’, quella è un’altra storia. Eppure, se non si ricerca la Verità – e non avrebbe
senso farlo, dato che non esiste – ma un suo frammento, qualche scintilla che
scuota un concetto, là, tra il significante e il significato, David Lynch è una
miniera. Riferendosi a Velluto Blu – una storia d’amore, parole sue – per
esempio ha detto che si tratta di «un incrocio fra Norman Rockwell e Hieronymus
Bosch» (riportato in Perdersi è meraviglioso, edito da Minimum Fax nel 2017). Il
protagonista era Kyle MacLachlan alias Dale Cooper: il regista anche adesso
storpia il suo nome in «Kale» perché in questo modo Dino De Laurentis si
rivolgeva al giovanissimo attore sul set di Dune, non riuscendo a riprodurre la
pronuncia corretta.
Piuttosto bizzarro è il modo in cui dirige questo suo attore ricorrente, quasi un
alter ego dalla bellezza antica, alla Cary Grant, scrutato dalla camera, in quel suo
aspetto altero e un po’ svagato, con l’affetto e l’ammirazione che Fellini riservava
a Marcello Mastroianni; ciò che il regista gli affida, attraverso richieste quali «give
me a little more Elvis» o «a wind, think of a wind» (ce lo riferisce lo stesso
MacLachlan, ospite da Stephen Colbert), non è dissonante rispetto a ciò che
domanda a noi. Ci concede, se siamo pronti a rischiare qualche certezza, di
cadere dall’alto, tenuti per mano, con l’audacia fatata (o stregata) di chi prova a
riempire i vuoti di un mezzo saturo, caldo, e di un linguaggio insaturo, tali da

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farmi ritenere che si possa parlare di cinema senza fare torto a nessuna istanza
critica né alla natura intrinseca di un progetto che nasce per la trasmissione
televisiva. A proposito della sfida a cui Il ritorno lo metteva di fronte, l’interprete,
originario di Yakima, nello Stato di Washington, ha confessato, durante il FYC
panel: «I don’t think [David Lynch] ever doubted that I could do what he was
asking me to do. I doubted that I could. But I know what I needed to do and I
wanted to do that, of course for myself, but even more for David». Sentito per la
realizzazione de Lo spazio dei sogni (David Lynch, Kristine McKenna, Mondadori,
2018), un libro definito come «la conversazione di una persona con la propria
biografia», MacLachlan aveva specificato: «Per me le scene più difficili furono
quelle in cui il Cooper cattivo affronta David e Laura Dern. Insieme, io e David
facciamo sempre un po’ gli scemi, ed essere il personaggio dominante in una
scena con lui fu complicato. Con lui e Laura ho un legame d’affetto così intenso
che non fu affatto facile metterlo da parte».
In molti hanno detto tantissimo, con maggiore competenza di quanta mai ne
potrò avere io, sulla filmografia del più geniale artista (o uno dei più geniali, per
non incorrere nel peccato di idolatria!) della nostra epoca; questo vorrebbe
essere una dichiarazione d’amore rispettosa verso l’autore che, più di tutti, ha
messo in ginocchio ogni pretesa di dominio della razionalità e ha schiacciato la
protervia dell’oggettivo sacro in un caleidoscopio di rifrazioni. Questo è solo un
racconto, perché altro, almeno per quanto mi riguarda, non potrebbe essere, se
non, forse, il racconto di un sogno.
Perché proprio di questo, alla fine, si parla; il sogno, per Lynch, qui di nuovo col
fido Mark Frost, al quale dobbiamo un final dossier che ho preferito non
consultare, è la materia grezza che si plasma sotto le mani dell’artista, è Il
ritratto di donna di Degas, che cela Emma Dobigny nell’ombra di altri lineamenti.
È come il David-Apollo di Michelangelo: infinito (o mai finito-indefinito) come lo
spazio, enigmatico, imperscrutabile, bellissimo.
Demiurgo di copie e di simulacri, nella definizione post-platonica di Deleuze e in
quella di Jean Baudrillard nel suo La Précession des simulacres («Il simulacro non
è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è
alcuna verità.»): lui è Jimmy Stewart from Mars, benedetto da un’ironia che ha
pochi eguali, e noi solo esseri umani caduti per caso sulla terra.
Insomma, parafrasando Audrey Horne che, in tempi non sospetti, ci forniva un

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indizio sul fascinoso agente dell’FBI e sulle sue nature: «There's only one problem
with David Lynch. He’s perfect».

«What we see and what we seem are but a dream, a dream


within a dream»

Sui titoli di testa delle prime due stagioni di Twin Peaks, gli spettatori erano
posti di fronte a un’immagine riflessa (non lo era costituzionalmente, solo a livello
figurativo) che trovava il suo asse mediano in un palo dell’alta tensione. Di qua e
di là, si notavano due abeti di Douglas – legno amato dal regista poiché, a suo
dire, offre possibilità quasi prodigiose di lavorazione – assai simili fra loro. In
pochissimi secondi, fin dal titolo gemellare, Lynch comunicava alcuni dei temi
fondanti di questo suo lavoro lungo trent’anni (e della sua ricerca cinematografica
in generale, nata come tentativo di far muovere i quadri che dipingeva): la dualità
e lo specchio, così vitale nella riflessione di Cocteau.
A partire dalla nostra prospettiva di osservatori, ignari di stare guardando la
realtà e/o un doppio quasi identico, ogni elemento si biforcava – e continua a
biforcarsi – in un suo simbolo, con valenza non di rado straniante rispetto al
significato originario, e il simbolo a sua volta poteva – e può – assumere natura
duplice, e così via fino a un n grado di scomposizione. Emblematica è la figura del
coniglio (cottontail o snowshoe?), uno degli elementi che fanno da trait d’union
fra la prima stagione e la terza, e fra l’intera saga e la filmografia lynchiana che
alla cosmologia di Twin Peaks si connette inestricabilmente. I coniglietti di
cioccolato, repertati nel fascicolo sull’omicidio di Laura Palmer e ritrovati da Hawk
quando ormai di Dale Cooper non vi è più traccia da molti anni, fanno pensare

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alla Pasqua, a una riconciliazione e a una rinascita. Noi sappiamo però che
l’agente speciale dell’FBI giunge in città in una data antecedente alla festività
pasquale (nel 1989, cadde il giorno 26 marzo), come ci comunica lui stesso
attraverso il registratore-Diane: «Diane, 11:30 a.m., February 24th. Entering the
town of Twin Peaks, five miles south of the Canadian border, twelve miles west of
the state line. I've never seen so many trees in my life. As W.C. Fields would say,
I'd rather be here than Philadelphia». Ci si discosta, anche a livello temporale, dal
riferimento che, per primo, poteva aver colpito la nostra attenzione, e i conigli,
come per incanto, assumono valori/voleri difformi dalla loro apparente tenerezza
e dal concetto di fragilità a cui di norma vengono assimilati. L’animale infatti, nei
marginalia medievali, viene spesso ritratto come vendicativo e sanguinario,
surreale ribaltamento del ruolo di preda di solito ascrittogli. Il coniglio è però
anche colui che conduce Alice nel mondo sotterraneo in Alice in Wonderland di
Lewis Carroll; un personaggio stravagante proprio per le congetture
sull’espansione/compressione che applica al concetto di tempo: «Povero me!
Povero me! Arriverò in ritardo!»/ Alice: «Per quanto tempo è per sempre?»
Bianconiglio: «A volte, solo un secondo». Nella fattispecie, la dimora di Jack
Rabbit, conosciuta da Bobby Briggs, divenuto ormai solerte poliziotto, grazie al
padre Garland, corrisponde al luogo di formazione di una sorta di cunicolo spazio-
temporale di collegamento con un mondo altro, quello della Loggia Bianca. La
memoria torna al nome dell’unico coniglio di Rabbits capace di uscire dalla
stanza e dunque di attraversare la linea di demarcazione fra il noto e l’ignoto:
proprio Jack.
Se Lynch riesce a fare questo con un McGuffin, è solo intuibile cosa possa creare
con il resto del materiale che ha fra le mani.
La posizione che ci spetta, in questo ritorno che è tale da più di un punto di vista,
è però diversa da quella che il regista ci aveva affidato tanto tempo fa. Adesso un

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ragazzo di nome Sam fa bingewatching di una glass box misteriosa. Il cubo è uno
dei cinque solidi platonici e il suo duale è l’ottaedro (il primo si compone di sei
facce e otto vertici, il secondo di otto facce e sei vertici): sei e otto sono due
numeri che ritroveremo. Anche l’apparecchio televisivo, in una raffigurazione un
po’ primitiva, potrebbe essere avvicinato alla forma di una scatola e, proprio su
un vecchio televisore senza segnale (e subito dopo esploso), vedevamo scorrere i
titoli di testa di Fuoco cammina con me. Il nostro omologo subirà una sorte più
ingenerosa di quella che toccherà a noi, lost girls and boys – per assumere il
concetto da INLAND EMPIRE – inglobati nella narrazione, nel sogno/incubo,
nella rappresentazione filmata del processo creativo che nasce, in prima istanza,
come trasmissione dell’impulso nervoso. Ritorna la dualità nella differenza di
potenziale elettrico, con cariche positive all’esterno della cellula e cariche
negative all’interno, fino all’arrivo dello stimolo e dunque all’inversione repentina
di polarità: c’è un processo legato all’elettricità alla base del processo creativo (e
di ogni processo cognitivo). Ho pensato così alla Loggia Nera e alla sua
particolarità: la chiave per accedervi è la paura. Da un punto di vista
neurobiologico, la paura e la creatività (ma anche gli stati maniacali; si legga, a
tal proposito, un testo dal titolo abbastanza emblematico: Touched with Fire:
Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament di Kay Redfield Jamison,
Free Press, 1991) sono inversamente legate dal neuromediatore dopamina. Da
una carenza di quest’ultima potrebbe scaturire il linguaggio ripetitivo e a scatti di
coloro che popolano la Loggia.
Le immagini sembrano seguire la suggestione di una volontà immersiva rispetto
al processo di creazione artistica e, da frontali, quasi schiacciate, diventano
avvolgenti: una tridimensionalità distorsiva che Lynch condivide con Francis
Bacon e Kienholz. Così le cascate dinnanzi al Great Northern Hotel, inquadrate da
sopra, nel loro scrosciare, così le famose tende della Loggia Nera o lo stesso
pavimento, dalla geometria analoga a quella della casa di Henry Spencer in
Eraserhead (ispirata magari a L'inhumaine), più escheriano, nella
deformazione; oppure ancora la nebbia che sembra avvolgere in modo
permanente il bosco di Ghostwood e che ricorda il vapore emesso dalla nuova
sembianza (un bollitore o il Brucaliffo? O, chissà, l’amata caffettiera…) di Philip
Jeffries, colui che decritterà per Cooper il simbolo inciso sull’anello. Questa scena,
prodromo dei finali di stagione, e di serie, per quel che ne sappiamo, si ricollega

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all’ora più iconica del ritorno all’universo di Twin Peaks e lo fa attraverso alcuni
precisi riferimenti: il numero otto, la sua scomposizione in segni e la conseguente
risemantizzazione simbolica. Nell’ottava parte della serie, assistiamo a una
particolare genesi laica che può essere riferita, in modo generico, alla creazione
dei concetti di Male e di Bene, ma che, a ben vedere, riguarda di più un’idea di
equilibrio primigenio, insito nell’Universo e violato in modo artificiale.
Ci vengono mostrate due date: la prima è il 1945, per la precisione il 16 luglio, la
seconda è il 5 agosto del 1956. Sopra lo stridore dei violini di Threnody for the
Victims of Hiroshima di Krzysztof Penderecki, ad Alamogordo, nel New Mexico, gli
Stati Uniti sperimentano il primo ordigno nucleare. Si tratta del cosiddetto Trinity
Test, condotto infatti proprio il 16 luglio del 1945. La nostra posizione resta quella
di osservatori inglobati nel flusso e l’esplosione stellare che segue la deflagrazione
(o la precede?), un vero e proprio Big Bang, assume i connotati inquietanti della
Madre (una creatura simile a quella dell’Esperimento), intenta a creare – o
vomitare, si dovrebbe dire, producendo una sostanza densa e corpuscolata che
ricorda la garmonbozia - uno dei propri mostri, Bob, ma anche i colori di una
festa pirotecnica. Ancora nel New Mexico, l’uovo-Bob si schiude e una sorta di
grosso insetto ranoide può giungere a quello che sembra essere il suo primo
ospite: Sarah Novak, una ragazza che la sera stessa aveva raccolto da terra un
penny, rivolto dalla parte della testa. Quest’ultimo particolare rievoca in modo
abbastanza immediato uno degli woodsmen (altri neutroni, scaturiti da reazioni
secondarie, che desiderano una carica elettrica?) in fuga dal Convenience Store.
La faccia della moneta e la creatura, che ripete ossessivamente la frase «gotta
light?» (l’imponente sacralità della locuzione fiat lux si incrina), prima di
schiacciare i crani dei malcapitati in cui si imbatte, presentano infatti il medesimo
sembiante, quello di Abrahm Lincoln, il sedicesimo presidente degli Stati Uniti
d’America (1 + 6 = 7). Provando a sfuggire al didascalismo, come le immagini
sembrano suggerirci di fare, si arriva alla figura di Roberto Grossatesta
(1175-1253), uno dei principali esponenti della metafisica della luce, espressione
coniata da Clemens Baeumker nel 1916 e che indica, non in modo unanime, la
dottrina che considera la luce come la prima forma corporalis (si legga Miriam
Savarese su disf.org). Savarese chiarisce: «Bisogna segnalare una differenza tra
lux e lumen nel pensiero grossatestiano, laddove con lux si indica la luce pura,
che si ha sin dall’inizio della creazione, mentre con lumen la luce derivata,

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prodotta dal primo cielo (composto sempre di materia e forma: è il primo corpo),
che riflette la lux, permette all’intelligenza celeste di muovere le sfere e giunge ad
operare fin nel mondo sublunare». Grossatesta, dopo essere stato maestro
all’università di Oxford, è divenuto vescovo di Lincoln, città inglese delle Midlands
orientali.
Da notare che la parola Lincoln era presente anche come marca dell’orologio
nell’automobile con cui Mr. C si schianta, durante la prima rinascita elettrica di
Cooper. C’è un altro sinistro mantra che l’essere ripete: «This is the water, and
this is the well. Drink full, and descend. The horse is the white of the eyes and
dark within». Sembra di trovarsi in presenza di una simbologia biblica, ma un
percorso di discesa e di risalita dal pozzo è lo stesso che affronta il personaggio di
Kevin Garvey in The Leftovers. Il secondo verso in qualche modo chiude una
questione dibattuta in teologia, a proposito della valenza del cavallo bianco
dell’Apocalisse; questo è sia una figura positiva che una figura negativa poiché,
come nel Taijtu, vi è complementarietà necessaria e naturale fra Yin e Yang, fra
Logos e Eros. Anche il cognome dell’ospite parrebbe suggerirci qualcosa anche se,
in questo caso, occorre pescare in cassetti un po’ più reconditi della nostra
memoria; il nome proprio è quello della madre di Laura Palmer, mentre Novak è il
cognome dell’attrice Kim che interpreta il ruolo di Madeleine in Vertigo di Alfred
Hitchcock. Madeleine Ferguson (Ferguson è il cognome di James Stewart nel
capolavoro hitchcockiano) è il nome della cugina di Laura, con le fattezze della
stessa Sheryl Lee. Un’esplosione atomica e uno scarafaggio-anfibio simbionte,
quindi, e Prospero/Gordon Cole sembra saperne qualcosa, dato che nell’ufficio
che occupa al Federal Bureau of Investigation sono poste, l’una di fronte all’altra,
la raffigurazione del fungo atomico e la foto di Franz Kafka, ovvero colui che ha
sublimato nella rappresentazione artistica la possessione mutante. E se fosse
proprio l’imperturbabile Gordon il magician (who) longs to see di cui parla MIKE?
Una curiosità sul supervisor: il suo nome è ispirato a quello di un personaggio
minore di Viale del tramonto, di Billy Wilder; si tratta di un assistente di DeMille
che contatta Norma Desmond, non per offrirle un ruolo, ma per chiederle di poter
noleggiare la sua automobile per un film. Lynch ha notato che, muovendosi dal
Sunset Boulevard verso gli studi della Paramount Pictures su Melrose Avenue, si
possono incontrare sia la Gordon Street che la Cole Avenue: non happy accidents,
di quelli così amati dal regista (uno su tutti, nella storia della serie, il vis-à-vis fra

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Cooper e il lama, nell’ambulatorio veterinario del dottor Lydecker), ma nomi
parlanti e ponti invisibili tra le realtà – d’obbligo il plurale nell’articolo – e la
celluloide.
Facendo cenno, benché in accezione impropria, ai nomi parlanti e sconfinando
nella biografia del regista, non si può non citare Bushnell Mullins, chief executive
della Lucky 7 Insurance, la compagnia assicurativa per la quale lavora Dougie
Jones. L’uomo, a cui il rinato Coop dice «you're a fine man, Bushnell Mullins. I will
not soon forget your kindness and decency», ha lo stesso nome proprio di
Bushnell Keeler, scomparso nel 2012, la prima persona ad aver creduto nelle
capacità pittoriche del giovane David, ad aver dunque compreso una sostanza
non immediatamente visibile: «All’epoca Bush fu l’unico a capire ciò che gli altri
stentavano a mettere a fuoco, e cioè che le ambizioni artistiche di David erano
sincere e fondate». (David Keeler in Lo spazio dei sogni).
Quattro elementi – l’atomo, la rana (o qualcosa che le assomiglia), la rosa e il
pesce, analogo a quello finito per sbaglio nel caffè di Pete Martell – richiamano le
teorizzazioni di Bohm sull’universo olografico e l’olomovimento. Come illustra
Augusto Sabbadini nella prefazione del volume Universo, mente, materia (David
Bohm, Red Edizioni, 1996): «Nella teoria di Bohm la visione unitaria della realtà
diviene ancora più radicale: i singoli sistemi, le particelle o gli insiemi di particelle
non esistono affatto. Essi non sono pensabili come enti separati interagenti tra
loro. Sono piuttosto simili a immagini che si formano e si disfano in un
caleidoscopio, o a vortici che si formano e si disfano nella corrente di un fiume
[…] La sola realtà ultima è la corrente indivisibile del movimento universale […]
Ma il flusso ininterrotto del movimento porta continuamente alcuni aspetti a
dispiegarsi, a divenire “esplicati” o manifesti, percettibili, per poi tornare a
immergersi nel tutto, mentre altri aspetti “implicati” emergono e divengono
“esplicati”».

La parte otto di Twin Peaks – Il ritorno ha una peculiarità, sottolineata anche


da Matteo Marino nel suo I segreti di David Lynch (Becco Giallo, 2018). Prima del
lungo racconto creazionista, i Nine Inch Nails si esibiscono alla Roadhouse con un
pezzo che recita: «I can't remember what she came here for/ I can't remember
much of anything anymore/She's gone, she's gone, she's gone away». Il fireman,
all’interno della loggia bianca, osserva l’ordigno che esplode su un grande

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schermo e forgia come espansione del proprio cranio una perla dorata sulla quale
scorgiamo il volto di Laura. Una donna con l’aspetto di una diva del cinema muto
(il sonoro viene introdotto a partire dagli anni Trenta), la Señorita Dido, bacia la
gemma e la spedisce nel nostro mondo, all’altezza della famosa cittadina. In che
anno siamo rispetto al Trinity Test?

Is it the future or is it the past?

L’otto ha inoltre un significato interno al racconto, come accennavo poc’anzi:


Jeffries compone un «8», molto simile al simbolo dell’infinito, scomponendo e
ricomponendo il simbolo presente sull’anello (verde, come di smeraldo era la
capitale del regno di Oz) e sul petroglifo della Caverna dei Gufi. Il sei, il cubo,
l’equilibrio, è qui anche il simbolo di energia (un’energia che al mantenimento di
quell’ordine mira), tanto che in più di un’occasione ci viene suggerita la presenza
di questo numero sui tralicci, lignei, nel caso specifico, dell’alta tensione. Tra i due
c’è il numero sette, il totale dei chakra, che sembrerebbe riferirsi a una qualche
entità traghettatrice: lo possiamo associare allo woodsman-Lincoln e allo stesso
Jeffries. La cifra sette compariva infatti sull’ascensore dal quale usciva David
Bowie (il Philip con sembianze umane benché già fantasmatico) quando si
presentava, visto solo dall’agente Cooper, da Cole e da Albert, negli uffici dell’FBI

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in Fire Walk With Me. Lo stesso numero è anche la somma delle cifre che
compongono i chilometri che Dale e Diane percorreranno su suggerimento del
Fireman: 430.
Il sette, cifra cara a tutta la teosofia, disciplina studiata da Mark Frost, ricorre
anche nella trattazione del filosofo e mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff.
Colui che ne ha tramandato il sapere, il suo allievo P.D. Ouspensky, in Frammenti
di un insegnamento sconosciuto (Casa Editrice Astrolabio, 1976) riporta infatti:
«Nel linguaggio di cui parlo, al posto della parola “uomo” sono usate sette parole,
ossia: uomo n. 1, uomo n. 2, uomo n. 3, uomo n. 4, uomo n. 5, uomo n. 6 uomo
n. 7 […] L'uomo n. 7 è giunto al più completo sviluppo possibile per l'uomo, e
possiede tutto ciò che l'uomo può possedere, come volontà, coscienza, un “Io”
permanente e immutabile, individualità, immortalità, e una quantità di altre
proprietà che nella nostra cecità e nella nostra ignoranza noi ci attribuiamo».
Dentro un’immagine onirica ci si muove per intuizioni che potrebbero rivelarsi del
tutto fallaci, una volta svegli, e l’andare raminghi è ancora più complesso, dal
momento che non è sempre chiara la nostra collocazione spazio-temporale. Per
gli spettatori esiste un limbo, una zona di decompressione – a la maniere de
Lynch, si intende – non a caso collocata (se si eccettua l’infrazione della parte
otto) alla fine di ogni episodio. La Roadhouse rappresenta una nowhere land che
per certi versi richiama il Club Silencio di Mulholland Drive; qui giunge – se la
definizione è corretta – Audrey Horne, la quale, ancora in un probabile stato di
coma, sembra altrimenti intrappolata nella soap-opera Invitation to Love. Come
nota anche Matteo Marino, la danza, la Audrey’s dance, invocata dal
presentatore, è nota per noi, ma non dovrebbe esserlo per il personaggio, a
meno, appunto, di non trovarsi in un mondo mediano senza quarte pareti né
sospensioni dell’incredulità. Che si sia situati al cospetto di universi multipli,
tangenti o contamina(n)ti è esplicato dal nome stesso del personaggio
interpretato da Michael J. Anderson nelle stagioni precedenti e in Fire Walk with
Me, qui presente come l’astrazione del Braccio: The Man from Another Place.

Proseguendo la sua riflessione sul mutamento, che è anche quello degli attori,
fermi nel nostro ricordo a più di venticinque anni fa, Lynch innesta la
compassione nella poetica. Alla figura – bellissima, nell’intuizione dello struggente
commiato diegetico che il regista le tributa – di Margaret Lanterman (il nome non

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può non suggerire l’assonanza con lantern man, un atmospheric ghost light
appartenente al folklore), scomparsa a ridosso della fine delle riprese, è donata,
senza mai celarne le condizioni di salute, quella che forse è una delle più esplicite
chiavi di lettura dell’intero racconto: «Watch and listen to the dream of time and
space. It all comes out now, flowing like a river. That which is, and is not. Hawk,
Laura is the one.» Margaret, già Mad Hatter, durante la prima stagione, racchiude
in sé, ormai in modo compiuto e definitivo, lo spirito del marito, morto a causa
del fuoco, che, attraverso il ceppo, ha continuato a vivere come essenza, dotata
di una sua propria voce. Ciò rivela(va) – in un certo modo anticipa(va) –
l’esistenza di quel doppio quasi speculare che adesso ci è palese per molti dei
personaggi dell’universo di Twin Peaks. Il Cappellaio Matto, accusato di stare
«murdering the time» dalla Queen of Hearts, è conosciuto con il nome di Hatta in
Through the Looking-Glass. La contrazione di hatter, se si vuole, ricorda, in modo
vago e giocoso, quasi in un rompicapo carrolliano, la pronuncia del vocabolo
other. La forma della donna sta cambiando di nuovo natura, sta divenendo altro:
questo e questo solo è il significato della morte.
A proposito di doppelgänger non si può non citare Dougie Jones. Il primo Dougie,
«created for a purpose», viene sostituito da una specie di golem dell’agente
Cooper, tornato in questo mondo dopo una lunga sequenza che richiama le
sperimentazioni cinematografiche delle avanguardie e il pittoricismo dei primi
lavori dello stesso Lynch, quali Six Figures Getting Sick o The Alphabet.
Dougie-Cooper (per lui, per un lui, ci sarà il doveroso lieto fine), prima del
risveglio nel vero Cooper grazie, ancora una volta, a una scarica elettrica, risulta
il contraltare comico-grottesco di Mr. C e senza dubbio una delle intuizioni più
memorabili della stagione. Capace (soltanto) di un pensiero laterale, secondo la
definizione di de Bono, e di una fortuna, emanata direttamente dalla Loggia,
Dougie Jones è la maschera di Buster Keaton, proveniente da un altro pianeta.
L’involontaria comicità è infatti sempre velata dalla malinconia dello sguardo,
quella di un essere, non vuoto – al contrario, capace di slanci commoventi – ma
come svuotato. La sua sensorialità è distintiva e, in un parallelismo possibile solo
con Gordon Cole, Dougie-Cooper non sente di più, ma sente molto meglio.
L’uomo, compreso da tutti, pur versando in uno stato di apparente catatonia,
viene accostato a un simbolismo di tipo assiale, proprio della cultura indiana:
«l’Asse dell’Universo è come una scala sulla quale si effettua un perpetuo

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movimento ascendente e discendente» (Ananda Kentish Coomaraswamy, The
Inverted Tree). Dougie è uno che resta, e che torna, ed è come se in lui si
catalizzasse la ristrutturazione/eliminazione di ciò che Carlos Castaneda, in
Viaggio ad Ixtlan (BUR, 2012), definiva come «importanza personale»: «Ti senti
troppo maledettamente importante, ma dovrai cambiare! Sei così
maledettamente importante che ti senti in diritto di irritarti di tutto. Sei così
maledettamente importante che ti puoi permettere di andartene se le cose non
vanno a modo tuo. Immagino che penserai che sia prova di carattere. È assurdo!
Tu sei debole, e presuntuoso». Nell’impianto irresistibile che caratterizza tutta la
storyline che lo vede protagonista, sono un paio di décolleté rosse (Oz, ancora
Oz!), molto simili a quelle indossate da Audrey nel pilot, la leva di una nuova
possibilità che fa da motore, a partire dalla sedicesima parte – il numero sedici
ricorre –, al duplice finale, imbastito da David Lynch e Mark Frost, tenendo fede
all’approccio complessivo di questo monumentale lavoro.

«We’re coming home»

Ci troviamo in una fase REM e ciò a cui assistiamo è il succedersi di immagini del
cosiddetto sonno paradosso: ci ricordiamo cosa abbiamo visto, ci sembra
addirittura di averlo vissuto, ma non è possibile risalire a un’interpretazione

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a-simbolica o univoca.
Come nascono i sogni provava a spiegarcelo l’agente Cooper molti anni or sono:
«Acetylcholine neurons fire high voltage impulses into the forebrain. These
impulses become pictures, these pictures become dreams, but no one knows why
we choose these particular pictures». Una forma di censura a monte rispetto
all’accesso a contenuti troppo scabrosi potrebbe essere rappresentata dai
numerosi semafori rossi che scandivano la narrazione del vecchio Twin Peaks.
Anche in un approccio en abyme come quello attuale, va tuttavia tenuta a mente
la natura del processo onirico, ben tracciata da Jacques Lacan in Il seminario,
Libro II (Biblioteca Einaudi, 2006), quando fa parlare Freud sul senso del sogno
dei sogni, quello dell’iniezione a Irma: «La mia ambizione è stata più grande di
me. La siringa era senza dubbio sporca. Proprio nella misura in cui l’ho troppo
desiderato, in cui ho partecipato a questa azione, in cui ho voluto essere, io, il
creatore, non sono io il creatore. Il creatore è qualcuno più grande di me. È il mio
inconscio, è la parola che parla in me, al di là di me».
Questo è dunque ciò che credo di essere riuscita a vedere, mentre l’opera-sogno,
be’, come dire, mi guardava: nulla più.
Il Cooper che conosciamo raggiunge Twin Peaks per un inevitabile rendez-vous
con Mr. C La distruzione di Bob, per mano di un giovane, dotato dal Fireman di un
guanto magico dello stesso colore dell’anello – la tangenza col cinema fantastico
sfiora qui la simpatica satira verso quello supereroistico – ferma il tempo sulla
cifra del compimento: le 2.53, somma uguale a 10. Coop ha terminato in suo
compito in quella particolare storia, ma c’è qualcos’altro che è necessario fare:
salvare Laura dalla morte, causata da Leland-Bob. Lynch dedica la diciassettesima
ora di questo suo ritorno a Jack Nance, ovvero Pete Martell, scomparso nel 1996.
A ritroso, ci rendiamo conto che il percorso che il regista sta compiendo porta in
nuce una necessità più intima, molto umana.

Grazie alle indicazioni di Jeffries, raggiunto tramite un passaggio dalla sua vecchia
stanza al Great Northern (315, somma uguale a nove: no, questo non sarà IL
finale), l’agente dell’FBI intercetta Laura Palmer nel bosco dove la attendono Leo
Johnson, Jacques Renault e Ronette Pulaski. La ragazza, in sella alla moto di
James, grida, e noi, per la prima volta dai tempi di Fuoco cammina con me,
conosciamo il motivo: ha scorto Cooper tra la vegetazione. Il dialogo fra i due è

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conciso. L’agente la riporterà a casa, ovvero all’interno della Loggia Bianca, dove
la perla d’oro è stata generata. Mentre, mano nella mano, camminano tra gli
arbusti, dirigendosi verso il Jack Rabbit’s Palace, vediamo stravolgersi l’innesco
drammatico dell’intera storia: Pete va a pescare, Josie si ammira allo specchio,
ma il cadavere della Palmer viene risucchiato via dal sacco di nylon. Non c’è più,
non è morta, Cooper è riuscito nel proprio intento. Solo in questo momento
assistiamo a una scena che è diretta conseguenza della non-morte della giovane,
versione più tormentata di Alice (attraverso lo specchio): Sarah Palmer tenta
invano di distruggere la foto della figlia. La scena ha almeno una doppia valenza e
ciò, arrivati a questo punto, non dovrebbe sorprendere affatto: la creazione di
Laura aveva una finalità ben delineata in un disegno più ampio, inoltre
quell’immagine è un simbolo, riconosciuto anche da chi non ha mai affrontato la
visione di Twin Peaks. Il cinema, o la televisione, in questo caso, hanno un
portato di eternità.
Nel bosco, Cooper comincia ad avvertire il ticchettio che il Fireman gli aveva fatto
ascoltare nella parte 1. A qualunque cosa si riferisca – potrebbe persino avere a
che fare, a livello simbolico, con la regolarità di un parametro vitale nella fase che
precede il risveglio – l’evidenza è l’innesco di un loop, simile a molti altri
incontrati in precedenza, il più inquietante dei quali è probabilmente quello
proveniente dall’orsetto demoniaco di Johnny Horne: «Hello Johnny, how are you
today?» Una domanda analoga, ancora una volta in sequenza ripetuta, chiudeva
la seconda stagione: «How’s Annie?».
L’agente si volta e Laura non c’è più; può sentire solo il suo grido.
«Faster and faster. And for a long time, you wouldn't feel anything. And then
you'd burst into fire. Forever. And the angels wouldn't help you…because they've
all gone away»: con queste parole la ragazza rispondeva, in Fire Walk With Me,
a una domanda di Donna che suonava come «Do you think that if you were falling
in space…that you would slow down after a while…or go faster and faster?».
Come sempre dal Bang Bang Bar (aka Roadhouse) ci giungono le parole di un
pezzo che ha profonda attinenza con le immagini dell’episodio: «Moving near the
edge at night/ Dust is dancing in the space/ A dog and bird are far away/ The sun
comes up and down each day/ Light and shadow change the walls/ Halley's
comet's come and gone/The things I touch are made of stone/ Falling through
this night alone.»

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All’inizio della parte 18 – la stessa suddivisione di Picnic a Hanging Rock, se si
include il capitolo fantasma, pubblicato postumo, nel 1987, in The Secret of
Hanging Rock – vediamo Cooper di nuovo nella Loggia Nera. Con facilità
guadagna l’uscita e, di fronte al cerchio di sicomori, incontra Diane che aveva
lasciato nell’ufficio dello sceriffo Truman. I due si mettono in cammino per una
località che dista 430 miglia dal luogo in cui si trovano: lì incontreranno Laura, e
l’entità malvagia Judy, la Madre, potrà essere annientata. Subito dopo l’arrivo di
Dale e Diane al motel, dove trascorreranno la notte, il regista ci pone di fronte, di
nuovo, a un’immagine non orientabile, sorta di nastro di nastro di Möbius cine-
televisivo, già ben chiarito nella struttura di Lost Highways. Durante un
rapporto sessuale a dir poco straniante, capiamo che Diane (del resto la divinità
pagana Diana è associata al concetto di fuoco) sta cogliendo una mutazione già in
atto: copre il volto di Cooper con le mani, gesto che Gordon Cole faceva su se
stesso di fronte a Lil, in presenza di Chester Desmond.
La storica collaboratrice di Coop ci viene mostrata, prima di assumere di nuovo la
fisionomia dell’attrice Laura Dern, come una giovane donna con gli occhi sigillati:
ne abbiamo vista una simile, in un altro momento cruciale per l’agente. Nello
sciamanesimo giapponese, in particolare nella regione del Tohoku, esiste la figura
della Itako, medium cieca, legata alle pratiche negromantiche; Itako-Ithaca-
Odyssey-Odessa: l’esemplificazione del viaggio e del ritorno, in termini omerici.
Mentre consuma l’amplesso, Diane ha l’espressione contratta da un dolore
intenso; una sua tulpa aveva confessato di essere stata stuprata da Mr. C e il
nome, Richard, che verrà attribuito all’uomo che ha l’aspetto di Dale Cooper, ha in
effetti a che fare con un abuso sessuale, perpetrato a ridosso dell’esplosione della
banca. I tulpa sono associati al colore blu (blue rose), lo stesso della box di
Mulholland Drive o del personaggio che Nikki Grace vuole interpretare in On
High in Blue Tomorrows, il film nel film di INLAND EMPIRE; lo stesso della pelle
del dio Vishnu – una delle espressioni del Brahman –, la divinità dai molti avatar,
preposta al mantenimento dell’equilibrio tra forze contrapposte. In sanscrito, per
indicare il gioco sacro del Brahman, viene utilizzato il sostantivo līlā; ci appare
così evidente l’assonanza con il nome della dancer di Fuoco cammina con me.
Richard Horne era il figlio di Audrey, con ogni probabilità violentata da Bob-
Cooper, durante il coma, con la complicità – non ne conosciamo la ragione né le
precise modalità – di Jerry Horne, in seguito impazzito. La suggestione deriva dal

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comportamento proprio di Horne in occasione della morte-sparizione del
congiunto, avvenuta con una particolare folgorazione elettrica che lo aveva
polverizzato mentre si trovava sopra un macigno, in un luogo dove Bob-Cooper lo
aveva condotto (e teniamo a mente che l’aura luminosa del bambino che Richard
aveva investito si era congiunta proprio con il flusso di corrente, all’altezza del
palo numero sei). Jerry guarda la scena con il binocolo al contrario, allontanando
quindi l’immagine del suo senso di colpa dai propri occhi. Si convince poi di
essere stato la causa di quella dipartita, quando invece potrebbe essere stato la
concausa della disgraziata – però ineluttabile, in un’ottica non moralista, e di
moralismo non v’è traccia nella filosofia di David Lynch – nascita. Se Diane sta
registrando un mutamento – ed è plausibile, dal momento che il luogo
dell’amplesso sembra non essere più lo stesso quando Cooper-Richard si sveglia e
trova il biglietto, firmato Linda – è immaginabile che questo sia connesso a
qualcosa di nero, programmaticamente tale, che di nuovo vive dentro l’agente.
Si ha l’impressione di un antico disegno che si compie, attraverso la tripartizione
(che è una pentapartizione per Kyle MacLachlan, la cui performance è calibrata e
magnifica, sia nel registro comico che in quello drammatico); il numero 3
campeggiava sulla presa di corrente che ha permesso a Cooper di ri-nascere
come Dougie e, in riferimento alle teoria neurobiologica – dunque non psichica,
ma strutturale – di Paul MacLean sul triune brain, rilevante anche come
sottotraccia di Mon oncle d'Amérique di Alain Resnais, questo numero può
riguardare un equilibrio arduo da raggiungere e agognato.

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E chi è dunque Diane-Linda?
Come al solito si possono imboccare varie direzioni, alcune diegetiche – Linda è la
moglie, solo nominata, di Mickey, uno dei residenti del Fat Trout Trailer Park –
altre ancora, frutto di una mera fascinazione mnemonica.
La corrispondenza dei nomi propri non è nuova all’universo di Twin Peaks: MIKE
e Bob non sono Mike e Bob(bie), sono altro/i, come Coop precisa allo sceriffo
Truman – quello sceriffo Truman, non l’altro – e a Lucy Moran, nel quarto episodio
della prima stagione. Anche gli omaggi possono frammentarsi in piccoli lampi,
tanto suggestivi quanto, talvolta, indecifrabili. È il caso della sala da gioco-
bordello, sorta di Loggia di questo mondo, One Eyed Jacks, che mutua il proprio
nome dall’unico film diretto da Marlon Brando. Il divo ricorre in un personaggio
che si presenta, all’apparenza, con un costume di scena: Wally Brando, vestito
come Johnny Strabler de Il selvaggio, viene introdotto come il figlio di Lucy e
del vicesceriffo Andy Brennan e potrebbe impersonare la sublimazione
s-mascherata di un desiderio di maternità. One-Eyed Jack è anche il titolo di un
album del 1978 di Garland Jeffryes: il nome, al di là della differente grafia, non
può non risuonare come la congiunzione di quello di due personaggi connessi con
altre dimensioni. Tuttavia è la dedica che colpisce in modo particolare: «in
Memory of my childhood idol, Jackie Robinson...here comes the One-Eyed Jack,
sometimes white and sometimes black».
Tornando al nome dichiarato da Diane, proprio una suggestione mi ha portato a
pensare a una raccolta, datata 1990, dal titolo The Things They Carried (Quanto
pesano i fantasmi, Leonardo, 1991); i protagonisti principali della storia sono
soldati americani, di stanza in Vietnam. Nell’ultimo racconto, The Lives of the
Dead, l’autore, Tim O’Brian, introduce però il personaggio di Linda, una bambina,
morta prematuramente, che continua a vivere nel ricordo di chi l’ha amata.
Rappresenta, insomma, l’egemonia della memoria sulla materia.
C’è poi un altro indizio a cui dobbiamo prestare attenzione: la musica che
sentiamo durante il rapporto sessuale è la stessa che l’emittente radiofonica sta
passando quando il woodsman-Lincoln interrompe la trasmissione con la sua

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litania e l’insetto-anfibio entra nella bocca di Sarah Novak. Si tratta di My Prayer
dei Platters, un vecchio pezzo, inciso dal gruppo nel 1956.

Is it the future or is it the past?

In effetti anche a noi adesso Cooper sembra diverso, come se in lui convivessero
il simpatico agente con doti deduttive alla Sherlock Holmes, alimentate a cherry
pie e a caffè, anzi a damn fine coffee, black like midnight on a moonless night, e
qualcosa di più oscuro. Sta di fatto che Jeffrey Beaumont ha smesso di
nascondersi e un «leave her alone» è qui scandito senza paura o esitazioni. Se si
analizza la sceneggiatura di Blue Velvet, si può scoprire come l’esortazione sia
presente due volte; solo di una, pronunciata in occasione della joyride con Frank
Booth, abbiamo testimonianza nel montaggio finale del quarto film di David
Lynch: «Finally, he leaves the furnace room, and, as he does so, he calls out:
«hey, shit head. Leave her alone. Don’t force girls […] I am describing a scene
from the film Blue Velvet, directed by David Lynch (1986). Except that I am not:
it is a scene from the screenplay for Blue Velvet: it was filmed but cut out during
the editing process». (The scene of Violence: Cinema, Crime, Affect, di Alison
Young, Routledge, 2010).

Ciò che Cooper-Richard scopre a Odessa, dopo la sosta in un diner dal nome
significativo, Eat at Judy’s, è che Laura non si chiama Laura, ma Carrie Page e
che la donna non ha alcuna cognizione dell’esistenza di Twin Peaks. Tuttavia
l’agente insiste per portarla a casa. La casa di cui parla questa volta non è la
Loggia Bianca, ma la vera abitazione dei Palmer, al civico 708 ed è probabile che
questa traiettoria si leghi al mutamento dello stesso agente, attratto ormai da
Laura quanto dall’entità. Giunti sul posto, siamo di nuovo messi di fronte a una
scoperta che cambia le carte in tavola: la proprietaria della villetta (siamo a
conoscenza del fatto che non si tratti di un’attrice, ma della vera proprietaria,
segno che ormai non vi è più soluzione di continuità fra quel mondo e il nostro
mondo) si chiama Tremond ed ha acquistato la struttura da una certa signora
Chalfont. I due cognomi, legati a delle presenze della Loggia Nera, più volte
riecheggiati sia in Fire Walk With Me che in Twin Peaks, fanno vacillare le
convinzioni e sparigliano le coordinate.

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«What year is this?» si domanda allora l’agente.
Non ottiene risposta. In sottofondo sentiamo Sarah Palmer che, come nel pilot
della serie, chiama la figlia per nome, più volte, perché Laura non è più lì, è
morta e non può rispondere. Laura/Carrie emette un grido, mentre un
sovraccarico elettrico pare mandare in cortocircuito le luci della casa.
Che cosa è successo davvero in questa storia che tende i margini del quadro fino
a straripare nel non visibile?
Non possiamo saperlo. Ciò che mi hanno suggerito le immagini è che si debbano
far convergere i significati di due tra le più sibilline frasi, sentite in questo
splendido ritorno. Il Fireman ha detto: «4-3-0. Richard and Linda. Two birds with
one stone». La stone a cui si riferisce – il pensiero va alla grande roccia sul lago
sotto la quale fu rinvenuto il corpo di Laura – potrebbe essere quella dove il
giovane Richard muore folgorato: i due massi si assomigliano. Una parte di
Richard, figura cupa, violenta, immorale, è adesso in Cooper che, nella sua
versione Mr. C, ha contribuito a generarlo. Gli uccelli sono il medesimo Cooper e
Laura, e proprio l’effige di un volatile è presente sul cornicione di casa Palmer. Il
woodsman-Lincoln fa riferimento, come accennavo in un paragrafo precedente, a
un cavallo bianco, scuro dentro (abbiamo visto un equino nelle visioni di Sarah e
un piccolo soprammobile con questo aspetto è presente nella casa di Carrie
Page). L’abitazione, con le luci spente, ci appare, simbolicamente, proprio
caratterizzata da questi due colori: bianca per l’intonaco e nera per ciò che
scorgiamo dalle finestre, non più illuminate dall’interno. Proseguendo con una
lettura metaforica delle immagini, la casa è una struttura solida, con una base
che può essere quadrata: il cubo, l’equilibrio.

Magari si può azzardare una riflessione che parta dall’inizio, dal titolo: Twin
Peaks. Accanto all’ovvia natura morfologica del nome, subentrano input che
attingono alla cosiddetta psicologia umanistica di Abraham H. Maslow, citata
anche nelle definizioni di meditazione trascendentale, in particolare al concetto di
peak experience (si veda Verso una psicologia dell’essere, pubblicato nel 1978 da
Astrolabio Ubaldini Editore) e alle indagini di Josette Van Luytelaar (si legga, per
una sintesi, Il flusso e la peak experience: sciogliere il congelamento dello shock
su www.nicolettacinotti.net). La studiosa, nel saggio Lo specchio di Perseo o le
risorse terapeutiche del flow and peak (in Manuale di analisi bioenergetica, a cura

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di Vita Heinrich-Clauer, FrancoAngeli, 2013), sostiene che: «Entrare in un alto
livello energetico è condizionato dall’avere una peak experience. Inoltre il
raggiungimento di livelli di energia sempre più elevati è una delle caratteristiche
principali del flusso. Il concetto bioenergetico di carica è legato a questo […]».
Aggiunge: «Una differenza, tuttavia, è che il flusso, in quanto tecnica occidentale,
cerca di rafforzare il Sé (centratura), mentre il metodo orientale ha come
obiettivo la scomparsa di sé (la fusione con l’universo)». Lo stesso Castaneda, ne
Il potere del silenzio (BUR, 1999), enuclea alcuni elementi fondamentali dello
sciamanesimo, proprio in termini energetici: «L’universo è un infinito agglomerato
di campi di energia, che somigliano a fili di luminosità […] Poiché gli unici campi
di energia percettibili sono quelli illuminati dal punto di intenso splendore, quel
punto viene chiamato […] “il punto di unione” […] Quando il punto di unione si
sposta, rende possibile la percezione di un mondo del tutto diverso, altrettanto
obiettivo e reale di quello che percepiamo di solito».Ancora una volta: cosa è
successo davvero in questo viaggio che comincia e si conclude con una madre?
Non lo so.
Ragionando attraverso gli indizi che Lynch e Frost hanno disseminato lungo il
cammino, ritengo che quest’ultima scena possa rappresentare un omaggio del
regista al potere infinito della mente (della mente che trascende, nel caso
specifico).
Secondo le leggi fisiche non possiamo tornare indietro nel tempo perché non è
possibile ridurre l’entropia di un sistema isolato: la freccia va solo in avanti.
La nostra mente (e il cinema o la tv che ne diventano compiuta espressione) può
invece, attraverso i ricordi o i sogni, re-immaginare un ordine in ciò che, per
natura, tenderebbe a divenire disordinato, infine a morire (la morte termica si
realizzerà quando tutto il calore – il fuoco – sarà dissipato). La mente umana ha
la facoltà di rendere il tempo bidirezionale.
Di nuovo: cosa è successo davvero in questo percorso tortuoso nella mente di
David Lynch, una mente che è riuscita ad allontanare il più bel personaggio
dell’original run dal miraggio feticista, scomponendo il prototipo in svariati
personaggi altrettanto straordinari?
Non lo so e ritengo che sia un dono meraviglioso.
Rodolfo Rosa, sul magazine online della società italiana di statistica, riporta un
estratto da Gli apprendisti stregoni: storia degli scienziati atomici di Robert Jungk

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(Einaudi, 1958): «Nonostante la serietà dei piani la bomba [atomica] restava pur
sempre un prodotto…dell’azzardo. Tanto è vero che i matematici, giudicando cosa
disperata un calcolo esatto del comportamento dei neutroni che provocavano la
reazione a catena, erano a loro tempo ricorsi a un nuovo tipo di calcolo delle
probabilità. Presentiamo i nostri problemi davanti alla ruota di una roulette, — si
erano detti, — e avremo forse una risposta statistica su quanti neutroni in media
vengono inghiottiti dai nuclei di uranio e quanti vengono emessi». Evidenzia poi
che «l’algoritmo di Metropolis (basato sullo stesso metodo utilizzato per la
costruzione della prima bomba atomica, ovvero il Metodo Monte Carlo N.d.R.) è
l’algoritmo di minimizzazione usato da Madre Natura: un sistema può uscire da
un minimo di energia per cercarne uno migliore […] Codificando questo principio,
i Nostri ottengono una catena di Markov». I processi di Markov rappresentano un
tipo di processi stocastici tali per cui «il futuro, dato il presente, è indipendente
dal passato».

Is it the future or is it the past?

Non è così importante, in fondo. Cooper-Richard e Laura-Carrie («Laura is the


one» e il verbo to carry significa sia portare che riecheggiare: chi sta conducendo
chi?) sono dove dovrebbero essere al momento giusto perché quella storia – una
storia che ha donato a Norma e Big Ed un lieto fine tattile – possa ricominciare

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all’infinito: «I am dead, yet I live».
E dopotutto lo sosteneva anche Dorothy (interpretata nientemeno che da Judy
Garland) in The Wonderful Wizard of Oz, opera particolarmente cara (e assai
citata, basti pensare alle ricorrenze testuali, evocative o dichiarate, in Wild at
Heart) al regista di Missoula: «There’s no place like home».
Il nero prima dei titoli di coda dura vari secondi (ne ho contati trentacinque):
eternity in an hour, per dirla con i versi di William Blake.
Vediamo infine Laura, all’interno della Red Room, sussurrare nell’orecchio di
Cooper delle parole inudibili: la stessa scena che si ripete dopo tutti questi anni. Il
Nano, nella medesima occasione, aveva introdotto quella Laura come sua cugina
(«she’s my cousin»): parole identiche a quelle che aveva usato Gordon, al
cospetto di Desmond e di Sam Stanley, a proposito di Lil.
Per due volte ci è precluso il sentire, come a Gordon Cole: ciò forse ci avvicina a
una comprensione di natura diversa.
Comunque sia andata, il ceppo è diventato d’oro e we’re home: è tempo anche
per noi di provare a svegliarsi.

P.s. Mentre ero impegnata a riguardare Twin Peaks, ho sognato David Lynch che
mi spiegava in modo dettagliato il significato dell’ultimo episodio della stagione.
Durante il sonno ero convintissima di aver trovato finalmente il Graal. Al risveglio,
non ricordavo più nulla.
Ecco, se un senso c’è, credo che stia proprio da quelle parti.

Ilaria Mainardi Voto: 10


(27 Luglio 2019)

Marco Compiani Ilaria Mainardi

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