Sei sulla pagina 1di 2

Autore: Jonathan Lethem

Titolo: Fear of Music

Sintesi: Monografia su Fear of Music dei Talking Heads che si trasforma in un


capitolo autobiografico su un ragazzino di Brooklyn a cavallo degli anni ottanta:
ossessionato dal disco, consuma il vinile, impara a memoria i testi e assiste a tutti i
concerti del gruppo, fino a identificarsi completamente con David Byrne, la sua
musica e i suoi testi.

Analisi: Nel 1979 esce il disco della svolta new wave dei Talking Heads: prodotto da
Brian Eno, Fear of Music è considerato uno dei loro capolavori. Ma al di là del suo
significato nella storia della musica, ciò che conta qui è quello nella storia di un
ragazzino di 15 anni ("Fear of Music mi catturò a un’età in cui avevo ben poche
difese"). Jonathan Lethem vive a Brooklyn, in una New York dominata musicalmente
dalle novità esplosive della scena che fa capo al CBGB, al Max’s Club, al Mudd
Club, e dove la new wave si intreccia quasi immediatamente alla no wave, in un
intreccio letale di dance, punk-rock e impegno ("this ain’t no party, this ain’t no
disco, this ain’t no fooling around" – Life During Wartime). Ma il disco è così
importante per il ragazzino anche perché è un disco profondamente e intensamente
newyorchese, nel senso che parla approfonditamente del presente della città, che gli
consente di orientarsi, inserirsi, trovare un centro di gravità in essa: "I Talking Heads
riuscivano ad abbracciare i diversi significati della città – le sue parti sporche e
pericolose, il suo fascino, la sua pretenziosità, il suo brio e la sua arroganza."

Evitando di addentrarsi troppo nel gossip biografico su Byrne e compagni, così come
nel tecnicismo della critica musicale ("Non volevo fosse una ricostruzione
autoptica"), e rifacendosi piuttosto alla creatività di Lester Bangs (del quale viene
citata la recensione del disco apparsa sul Village Voice), Lethem descrive però molto
bene l’unità mistica del gruppo, "la santità dei quattro, l’unità collaborativa di parti
più o meno eguali," compreso il suo look, "il taglio di capelli, la bizzarra chiarezza
dei titoli, il minimalismo intellettuale delle loro copertine – tutto questo sembrava
esprimere qualcosa." E soprattutto rende perfettamente un’atmosfera, un culto
adolescenziale della musica che comprende ovviamente le droghe, ma non si riduce a
queste. Lethem consuma letteralmente il vinile di Fear of Music, impara a memoria i
testi, si identifica totalmente con il gruppo e con la sua musica: all’apice della
venerazione, verso il 1981, avrebbe forse "voluto avere il disco al posto della testa, in
modo da esser visto più chiaramente da coloro che mi circondavano."
La svolta autobiografica impressa da Lethem lo solleva dalle paludi della critica e
della agiografia musicale per trasformarlo nell’ennesimo capitolo di quella che è
ormai una saga autobiografica (anche se ovviamente non solo questo) con un discreto
e accanito seguito. Non troviamo quindi gossip sui membri del gruppo o tecnicismi di
critica musicale, bensì una concentrazione sull’aspetto umanistico dell’impatto della
musica sull’esistenza.

Si legge volentieri grazie alla consueta perfezione stilistica e umoristica di Lethem, e


da monografia su un particolare disco e un particolare gruppo si eleva a una sorta di
novella sul ruolo della musica nell’adolescenza, sulla totale identificazione con il suo
linguaggio e le sue espressioni particolari quando si ha la sensazione di non averne
uno proprio.

Potrebbero piacerti anche