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(1923-1985)
“…un saturnino che sogna d’essere
mercuriale”
Non si leggono i classici per dovere o per
rispetto, ma solo per amore. Tranne che a
scuola: la scuola deve farti conoscere bene o
male un certo numero di classici tra i quali (o
in riferimento ai quali) tu potrai in seguito
riconoscere i “tuoi” classici. La scuola è tenuta
a darti degli strumenti per esercitare una
scelta; ma le scelte che contano sono quelle
che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
(Perché leggere i classici, 1981)
Bibliografia incompleta
• 1947 Il sentiero dei nidi di ragno
• 1949 Ultimo viene il corvo (racconti)
• 1952 Il Visconte dimezzato
• La formica argentina (racconti)
• 1956 Fiabe italiane
• 1957 Il barone rampante
• La speculazione edilizia
• 1959 Il cavaliere inesistente
• 1963 Marcovaldo ovvero le stagioni in città (racconti)
• La giornata di uno scrutatore
• 1965 Le cosmicomiche (racconti)
• 1967 Ti con zero (racconti)
• 1969 Il castello dei destini incrociati
• 1972 Le città invisibili
• 1973 La taverna dei destini incrociati
• 1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore
• 1983 Palomar (racconti, in parte editi precedentemente)
- Romanziere e saggista
- Produzione vastissima
- Manca il “capolavoro”
- Varietà tematica
- Varietà di genere
- Sperimentalismo specchio delle tendenze
culturali (Neorealismo, strutturalismo,
letteratura combinatoria, postmodernismo)?
- Unità solo nello stile?
1. “Stile Calvino”
Precisione
Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa,
la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che
in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione
improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente
ricerca del ‘mot juste’, della frase in cui ogni parola è
insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti
più efficace e denso di significato. Sono convinto che
scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo
scrivere poesia; in entrambi i casi è la ricerca
d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa,
memorabile.
In Rapidità, in Lezioni americane, 1986
Forza conoscitiva
[…] mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo
approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile.[] la
letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra
Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe
essere.
Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità
nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del
linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di
immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle
formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare
le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle
parole con nuove circostanze. Non m'interessa qui chiedermi se le origini
di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia,
nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella
diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le
possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare
degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio.
In Esattezza
Trasparenza
La trasparenza delle frasi del racconto è il solo
mezzo possibile per rappresentare la purezza e
la nobiltà naturale nell’accettare il male e il
bene della vita.
in Esattezza
2. Gli emblemi
Il granchio e la farfalla
Già dalla mia giovinezza ho scelto come mio motto l'antica
massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse
più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli
emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore
umanista veneziano, Aldo Manuzio, che su ogni frontespizio
simboleggiava il motto Festina lente in un delfino che guizza
sinuoso attorno a un'àncora. […] Ma delfino e àncora
appartengono a un mondo omogeneo d'immagini marine;
e io ho sempre preferito gli emblemi che mettono insieme
figure incongrue ed enigmatiche come rebus. Come la
farfalla e il granchio che illustrano il "Festina lente" nella
raccolta d'emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio, due
forme animali entrambe bizzarre ed entrambe
simmetriche, che stabiliscono tra loro un'inattesa armonia.
In Rapidità
Il cristallo e la fiamma
Il cristallo, con la sua esatta sfaccettatura e la sua capacità di
rifrangere la luce, è il modello di perfezione che ho sempre tenuto
come un emblema, e questa predilezione è diventata ancor più
significativa da quando si sa che certe proprietà della nascita e della
crescita dei cristalli somigliano a quelle degli esseri biologici più
elementari, costituendo quasi un ponte tra il mondo minerale e la
materia vivente. Tra i libri scientifici in cui ficco il naso alla ricerca di
stimoli per l'immaginazione, m'è capitato di leggere recentemente
che i modelli per il processo di formazione degli esseri viventi sono
“da un lato il cristallo (immagine d'invarianza e di regolarità di
strutture specifiche), dall'altro la fiamma (immagine di costanza
d'una forma globale esteriore, malgrado l'incessante agitazione
interna)”[…] Cristallo e fiamma, due forme di bellezza perfetta da
cui lo sguardo non sa staccarsi, due modi di crescita nel tempo, di
spesa della materia circostante, due simboli morali, due assoluti,
due categorie per classificare fatti e idee e stili e sentimenti.
da Esattezza
Il carciofo
La realtà del mondo si presenta ai nostri occhi
multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti.
Come un carciofo. Ciò che conta per noi
nell’opera letteraria è la possibilità di sfogliarla
come un carciofo infinito, scoprendo dimensioni
di lettura sempre nuovi.
in Visibilità
• disordine della realtà (dato biologico e storico)
• ordine della ragione (che è pure dato
biologico e storico)
in Esattezza
La società si manifesta come collasso, come frana, come
cancrena (o, nelle sue apparenze meno catastrofiche, come
vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle
crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo
sarà tanto definitivo da escludere altri crolli.
Il personaggio che prende la parola in questo libro […] entra in
scena negli anni Cinquanta cercando di investirsi d’una
personale caratterizzazione nel ruolo che allora teneva la
ribalta:“l’intellettuale impegnato”. […] L’immedesimazione in
questa parte viene meno a poco a poco col dissolversi della
pretesa d’interpretare e guidare un processo storico. Non per
questo si scoraggia l’applicazione a cercar di comprendere e
indicare e comporre, ma prende via via più rilievo […] il senso
del complicato e del molteplice e del relativo e dello
sfaccettato che determina un’attitudine di perplessità
sistematica.
dall’Introduzione a Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi
cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, 1956
Comunque, tutte le “realtà” e le “fantasie” possono
prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale
esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e
fantasia appaiono composte della stessa materia
verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell'anima si
trovano contenute in righe uniformi di caratteri
minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi;
pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia
rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in
una superficie sempre uguale e sempre diversa, come
le dune spinte dal vento del deserto.
in Visibilità
Un simbolo più complesso, che mi ha dato le
maggiori possibilità di esprimere la tensione
tra razionalità geometrica e groviglio delle
esistenze umane è quello della città.
In Esattezza
Le città invisibili, 1972
Le città e il desiderio
In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta
differente a chi viene da terra e a chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare
all'orizzonte dell'altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le
maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa
che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un
veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o
un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle
merci d'oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di
diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian
terreno, ognuna con una donna che si pettina.
Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d'una gobba di cammello,
d'una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano
dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto
pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si
vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi
d'acqua dolce all'ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di
calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le
braccia un po' del velo e un po' fuori dal velo.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il
marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.
Le città e gli scambi
A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli
abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o
grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela,
scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non
ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case
vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili. Dalla costa
d'un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia
guardano l'intrico di fili tesi e pali che s'innalza nella pianura. È
quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente. Riedificano Ersilia
altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero più
complicata e insieme più regolare dell'altra. Poi l' abbandonano e
trasportano ancora più lontano sé e le case. Così viaggiando nel
territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate, senza
le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa
rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.
Le città e il cielo
A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vicoli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva
un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno
a Eudossia che il disegno del tappeto , ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee
rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l'alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo
tutto l'ordito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del tappeto
corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno,
disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall'andirivieni dal brulichio dal
pigia-pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l'odore di pesce, è
quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c'è un punto dal quale la
città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio.
Perdersi ad Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in
un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora
che è il tuo vero punto d'arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all'ordine immobile del tappeto una
sua immagine della città , una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il
racconto della sua vita, le svolte del destino.
Sul rapporto misterioso di due oggetti così diversi come il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno
dei due oggetti,- fu il responso -, ha la forma che gli dei diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano
i mondi; l'altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana.
Gli àuguri già da tempo erano certi che l'armonico disegno del tappeto fosse di fattura divina; in questo
senso fu interpretato l'oracolo, senza dar luogo a controversie. Ma allo stesso modo tu puoi trarne la
conclusione opposta : che la vera mappa dell'universo sia la città d 'Eudossia così com'è, una macchia che
dilaga senza forma, con vie tutte a zig-zag, case che franano una sull'altra nel polverone, incendi, urla nel
buio.
Le città e il cielo
Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani,
impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie
tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro. Tra i
banconi dove ci si schiaccia tutti i momenti le dita col martello o ci si punge con
l’ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registri dei negozianti e dei
banchieri, o davanti alle file di bicchieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male
che le teste chine ti risparmiano dagli sguardi torvi. Dentro le case è peggio, e non
occorre entrarci per saperlo: d’estate le finestre rintronano di litigi e piatti rotti.
Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambino che da una finestra ride a un
cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un
muratore che dall’ alto dell’impalcatura ha esclamato: –Gioia mia, lasciami
intingere! – a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola,
contenta di servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di
pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata
d’un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui ma più felice
ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino,
felice uccello liberato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipinto piuma per
piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura di quella pagina del libro in
cui il filosofo dice: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia
un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti
in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città
infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.
(Kublai Kan) dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo
non può essere che la città infernale, ed è là in fondo
che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la
corrente.
E Polo: -L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se
ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci
sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di
non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei
scrivere e m'accorgo che quello che m'interessa è un'altra
cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta
escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra
quell'argomento determinato e tutte le sue possibili
varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo
spazio possono contenere. E' un'ossessione divorante,
distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla cerco
di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in
campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così
via. E allora mi prende un'altra vertigine, quella del
dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato
dall'infinitesimo, dall'infinitamente piccolo, come prima mi
disperdevo nell'infinitamente vasto.
In Esattezza
La pantofola spaiata
[…]«Forse anche lui in questo momento pensa a me, spera d'incontrarmi per fare il cambio. Il
rapporto che ci lega è più concreto e chiaro di gran parte delle relazioni che si stabiliscono tra
esseri umani. Eppure non ci incontreremo mai.» Decide di continuare a portare queste
pantofole spaiate per solidarietà col suo compagno di sventura ignoto, per tenere viva questa
complementarietà così rara, questo specchiarsi di passi zoppicanti da un continente all'altro.
Indugia nel rappresentarsi quest'immagine, ma sa che non corrisponde al vero. Una valanga
di pantofole cucite in serie viene periodicamente a rifornire il mucchio del vecchio mercante
di quel bazar. Nel fondo del mucchio resteranno sempre due pantofole scompagnate, ma
finché il vecchio mercante non esaurirà le sue scorte (e forse non le esaurirà mai, e morto lui
la bottega con tutte le merci passerà ai suoi eredi e agli eredi degli eredi), basterà cercare nel
mucchio e si troverà sempre una pantofola da appaiare a un'altra pantofola. Solo con un
acquirente distratto come lui può verificarsi un errore, ma possono passare secoli prima che
le conseguenze di questo errore si ripercuotano su un altro frequentatore di quell'antico
bazar. Ogni processo di disgregazione dell'ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti
vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità
praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti.
Ma se il suo errore non avesse fatto che cancellare un errore precedente? Se la sua
distrazione fosse stata apportatrice non di disordine ma d'ordine? «Forse il mercante sapeva
bene quel che faceva, - pensa il signor Palomar, - dandomi quella pantofola spaiata ha messo
riparo a una disparità che da secoli si nascondeva in quel mucchio di pantofole, tramandato
da generazioni in quel bazar.»
Il compagno ignoto forse zoppicava in un'altra epoca, la simmetria dei loro passi si risponde
non solo da un continente all'altro, ma a distanza di secoli. Non per questo il signor Palomar
si sente meno solidale con lui. Continua a ciabattare faticosamente per dar sollievo alla sua
ombra.
In Palomar, 1983
L’importanza di ognuno