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Italo Calvino

(1923-1985)
“…un saturnino che sogna d’essere
mercuriale”
Non si leggono i classici per dovere o per
rispetto, ma solo per amore. Tranne che a
scuola: la scuola deve farti conoscere bene o
male un certo numero di classici tra i quali (o
in riferimento ai quali) tu potrai in seguito
riconoscere i “tuoi” classici. La scuola è tenuta
a darti degli strumenti per esercitare una
scelta; ma le scelte che contano sono quelle
che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
(Perché leggere i classici, 1981)
Bibliografia incompleta
• 1947 Il sentiero dei nidi di ragno
• 1949 Ultimo viene il corvo (racconti)
• 1952 Il Visconte dimezzato
• La formica argentina (racconti)
• 1956 Fiabe italiane
• 1957 Il barone rampante
• La speculazione edilizia
• 1959 Il cavaliere inesistente
• 1963 Marcovaldo ovvero le stagioni in città (racconti)
• La giornata di uno scrutatore
• 1965 Le cosmicomiche (racconti)
• 1967 Ti con zero (racconti)
• 1969 Il castello dei destini incrociati
• 1972 Le città invisibili
• 1973 La taverna dei destini incrociati
• 1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore
• 1983 Palomar (racconti, in parte editi precedentemente)
- Romanziere e saggista
- Produzione vastissima
- Manca il “capolavoro”
- Varietà tematica
- Varietà di genere
- Sperimentalismo specchio delle tendenze
culturali (Neorealismo, strutturalismo,
letteratura combinatoria, postmodernismo)?
- Unità solo nello stile?
1. “Stile Calvino”
Precisione
Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa,
la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che
in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione
improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente
ricerca del ‘mot juste’, della frase in cui ogni parola è
insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti
più efficace e denso di significato. Sono convinto che
scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo
scrivere poesia; in entrambi i casi è la ricerca
d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa,
memorabile.
In Rapidità, in Lezioni americane, 1986
Forza conoscitiva
[…] mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo
approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile.[] la
letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra
Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe
essere.
Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità
nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del
linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di
immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle
formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare
le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle
parole con nuove circostanze. Non m'interessa qui chiedermi se le origini
di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia,
nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella
diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le
possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare
degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio.

In Esattezza
Trasparenza
La trasparenza delle frasi del racconto è il solo
mezzo possibile per rappresentare la purezza e
la nobiltà naturale nell’accettare il male e il
bene della vita.

Gustave Flaubert, “Trois contes” (1980, in


Collezione di sabbia)
In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte
due strade divergenti che corrispondono a due diversi
tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio
mentale d'una razionalità scorporata, dove si possono
tracciare linee che congiungono punti, proiezioni,
forme astratte, vettori di forze; l'altra che si muove in
uno spazio gremito d'oggetti e cerca di creare un
equivalente verbale di quello spazio riempiendo la
pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento
minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del
dicibile e del non dicibile.

in Esattezza
2. Gli emblemi
Il granchio e la farfalla
Già dalla mia giovinezza ho scelto come mio motto l'antica
massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse
più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli
emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore
umanista veneziano, Aldo Manuzio, che su ogni frontespizio
simboleggiava il motto Festina lente in un delfino che guizza
sinuoso attorno a un'àncora. […] Ma delfino e àncora
appartengono a un mondo omogeneo d'immagini marine;
e io ho sempre preferito gli emblemi che mettono insieme
figure incongrue ed enigmatiche come rebus. Come la
farfalla e il granchio che illustrano il "Festina lente" nella
raccolta d'emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio, due
forme animali entrambe bizzarre ed entrambe
simmetriche, che stabiliscono tra loro un'inattesa armonia.

In Rapidità
Il cristallo e la fiamma
Il cristallo, con la sua esatta sfaccettatura e la sua capacità di
rifrangere la luce, è il modello di perfezione che ho sempre tenuto
come un emblema, e questa predilezione è diventata ancor più
significativa da quando si sa che certe proprietà della nascita e della
crescita dei cristalli somigliano a quelle degli esseri biologici più
elementari, costituendo quasi un ponte tra il mondo minerale e la
materia vivente. Tra i libri scientifici in cui ficco il naso alla ricerca di
stimoli per l'immaginazione, m'è capitato di leggere recentemente
che i modelli per il processo di formazione degli esseri viventi sono
“da un lato il cristallo (immagine d'invarianza e di regolarità di
strutture specifiche), dall'altro la fiamma (immagine di costanza
d'una forma globale esteriore, malgrado l'incessante agitazione
interna)”[…] Cristallo e fiamma, due forme di bellezza perfetta da
cui lo sguardo non sa staccarsi, due modi di crescita nel tempo, di
spesa della materia circostante, due simboli morali, due assoluti,
due categorie per classificare fatti e idee e stili e sentimenti.

da Esattezza
Il carciofo
La realtà del mondo si presenta ai nostri occhi
multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti.
Come un carciofo. Ciò che conta per noi
nell’opera letteraria è la possibilità di sfogliarla
come un carciofo infinito, scoprendo dimensioni
di lettura sempre nuovi.

Il mondo è un carciofo, 1963 (in Perché leggere i classici )


3. La letteratura:
un’ostinazione senza illusioni
Lo scrittore […]compie operazioni
che coinvolgono l'infinito della sua
immaginazione o l'infinito della
contingenza esperibile, o entrambi,
con l'infinito delle possibilità
linguistiche della scrittura.

in Visibilità
• disordine della realtà (dato biologico e storico)
• ordine della ragione (che è pure dato
biologico e storico)

il medium è la lingua (l’equivalente verbale)


realizzata nella letteratura (luogo dei possibilia)
Un Calvino buono
(prima del 1965)

e un Calvino “meno buono”


(dopo il 1965)
È luogo comune parlando di Calvino dividerne la letteratura in due: un
Calvino dell’impegno, del Sentiero dei nidi di ragno, della Giornata di uno
scrutatore e della Trilogia e il Calvino delle scacchiere, della combinatoria
delle Città invisibili, del Castello dei destini incrociati, di Se una notte
d’inverno un viaggiatore. E se non proprio come il Visconte Medardo di
Terralba diviso in una parte buona e in una cattiva, certamente separato in
un Calvino più buono e in uno un po’ meno, dove per meno buono si
intende il secondo, a cui si imputa di essersi allontanato dalle cose e dai
fatti della vita.
[…] Le Lezioni ridisegnano questo dualismo, dimostrando che in realtà non
c’è stata nessuna palinodia.
Le scacchiere, le combinatorie non sono vane teche di cristallo, ma sono
specchio dei meccanismi della mente, sono i sistemi formali del pensiero
deduttivo e della scienza. Sono le strutture mentali sulle quali vengono
fatti decantare i fatti della vita. Sono un modo di coniugare una tensione
verso l’ordine e l’esattezza (cristallo) e la molteplicità unica e irripetibile
delle esperienze (fiamma).
Adriano Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma. Le Lezioni americane di Italo
Calvino, 2002
Il mio disagio è per la perdita di forma che constato
nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica difesa che
riesco a concepire: un'idea della letteratura.[…]
L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in
cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un
senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una
immobilità minerale, ma vivente come un organismo.
La poesia è la grande nemica del caso, pur essendo
anch’essa figlia del caso e sapendo che il caso in
ultima istanza avrà partita vinta.

in Esattezza
La società si manifesta come collasso, come frana, come
cancrena (o, nelle sue apparenze meno catastrofiche, come
vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle
crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo
sarà tanto definitivo da escludere altri crolli.
Il personaggio che prende la parola in questo libro […] entra in
scena negli anni Cinquanta cercando di investirsi d’una
personale caratterizzazione nel ruolo che allora teneva la
ribalta:“l’intellettuale impegnato”. […] L’immedesimazione in
questa parte viene meno a poco a poco col dissolversi della
pretesa d’interpretare e guidare un processo storico. Non per
questo si scoraggia l’applicazione a cercar di comprendere e
indicare e comporre, ma prende via via più rilievo […] il senso
del complicato e del molteplice e del relativo e dello
sfaccettato che determina un’attitudine di perplessità
sistematica.

Presentazione a Una pietra sopra, 1980


Disordine e riscatto: Il sentiero dei nidi di ragno (1947)
Il distaccamento del Dritto: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che
s'accomoda nelle piaghe della società, e s'arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente
da difendere è niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati, o fanatici. Un'idea
rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppure
nascerà storta, figlia della rabbia, dell'umiliazione, come negli sproloqui del cuoco estremista.
Perché combattono, allora? Non hanno nessuna patria, né vera né inventata.
Eppure tu sai che c'è coraggio, che c'è furore anche in loro. È l'offesa della loro vita, il buio
della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica
di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima e ci si
trova dall'altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo
stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso.
Ferriera mugola nella barba: - Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la
stessa cosa?...
— La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa... - Kim s'è fermato e indica con un
dito come se tenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è
nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di
male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel
furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa
sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma
allora c'è la storia. C'è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall'altra. Da
noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m'intendi? uguale al
loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire
un'umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei
gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno
storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio, finché
dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso
odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per
restarne schiavi. (cap.IX)
Delle cose del mondo la letteratura che vale ci dà coscienza:
ci fa esplodere sotto gli occhi la carica morale dei fatti
perché noi reagiamo. […]
La partecipazione attiva dell’uomo alla storia nasce dalla
necessità di dare un senso al sanguinoso cammino degli
uomini. “Dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo”. E’
in questo placare, in questo dare una ragione il vero
impegno storico e civile. Non si può stare fuori dalla storia,
non si può rifiutarci di fare tutto quello che possiamo per
dare un’impronta ragionevole e umana al mondo, quanto
più esso ci si configura davanti come insensato e feroce.

Natura e storia del romanzo, 1958, in Una pietra sopra


Biologia e caso: La giornata d’uno scrutatore (1963)

La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste


spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo a tratti
ciò pareva sublime, nell'Italia da sempre ossequiente a
ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli
pareva finalmente la lezione d'una morale onesta e
austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti,
su coloro che la democrazia avevano creduto di poter
disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore,
per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in
polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi, mentre
essa, col suo scarno cerimoniale di pezzi di carta
ripiegati come telegrammi, di matite affidate a dita
callose o malferme, continuava la sua strada.
Nel mondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe
diventare, o già essere, «Cottolengo») Amerigo non riusciva
più a seguire la linea delle sue scelte morali (la morale porta
ad agire; ma se l'azione è inutile?) o estetiche (tutte le
immagini dell'uomo sono vecchie, pensava camminando tra
quelle madonnette di gesso, quei santini […]). Costretto per
un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa
quella che vien detta la miseria della natura («E ancora grazie
che non mi han fatto vedere che i più in gamba...») sentiva
aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità del tutto.
La vanità del tutto e l'importanza d'ogni cosa fatta da ognuno
erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che
Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento
volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva
tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava
ancora? «Chi agisce bene nella storia, -provò a concludere, -
anche se il mondo è il 'Cottolengo', è nel giusto». E aggiunse
in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco».
Una volta fuori dalla società che fa diventare gli uomini
cose, la totalità delle cose -natura e industria -diventa
umana, e anche l'uomo menomato, l'uomo-Cottolengo
(ossia, nella peggiore delle ipotesi, l'uomo) è
reintegrato nei diritti del genere umano in quanto
usufruisce di questo corpo totale, di questo
prolungamento del suo corpo: la ricchezza di tutto ciò
che esiste […] finalmente divenuta nel suo insieme
oggetto della coscienza e della vita umane. Vorrà dire
che il «comunismo» […] ridarà le gambe agli zoppi, la
vista ai ciechi? Cioè lo zoppo avrà a disposizione tante e
tante gambe per correre che non s'accorgerà se gliene
manca una delle sue? Cioè il cieco avrà tante e tante
antenne per conoscere il mondo che si dimenticherà di
non avere gli occhi?
Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e
figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle
ginocchia le mani pesanti d'ossa e di vene, e le teste chinate per storto -
sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto -
in modo di continuare a guardarsi con l'angolo dell'occhio.
Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente
necessari.
E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore.
E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che
gli diamo

S'avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici


tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti
e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista.
Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il
carico pesava. Venne un'altra, grande come una gigantessa, e lo spinse,
quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un'altra, pure grande, venne
spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le
stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per
trasportare la minestra.
Anche l'ultima città dell'imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo
scrutatore, l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la Città.
Non da ieri ci siamo fatti una regola del cercare anche
nei testi più lontani le ragioni di forza d’un nostro
discorso, d’una nostra fedeltà. E oggi, il senso della
complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto
o dello screziato o del labirintico o dello stratificato, è
diventato necessariamente complementare alla visione
del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice,
schematizzatrice del reale. Ma il momento che
vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di
intendere la realtà, è pur sempre quello della non
accettazione della situazione data, dello scatto attivo e
cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione
senza illusioni

da Il mare dell’oggettività, 1960


Questa letteratura del labirinto gnoseologico-culturale […] ha in sé
una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria
per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni
semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di
rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa
del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il
fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del
rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera
condizione dell’uomo. […] Resta fuori chi crede di poter vincere
labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta
poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di
fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può
fare è definire l'atteggiamento migliore per trovare la via d'uscita,
anche se questa via d'uscita non sarà altro che il passaggio da un
labirinto all'altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una
letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e
distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.

da La sfida al labirinto, 1962


La mappa e il catalogo
Ora che, passati gli anni, ho smesso d'arrovellarmi sulla catena
d'infamie e di fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa
ho compreso: che l'unico modo di sfuggire alla condizione di
prigioniero è capire come è fatta la prigione.
[…] Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è
impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera -
e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno
avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non
potrebbe trovarsi altrove - o sarà una fortezza dalla quale la fuga è
ancora più impossibile che di qui - e allora è segno che qui una
possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la
fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla.

Il conte di Montecristo, in Ti con zero, 1967


È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel
qualcosa che prima accennavo, quell’unica convinzione mia che mi spingeva al
viaggio fra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte
insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una
spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio
delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi
a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è soprattutto il farsi
di un destino: la giovinezza, dalla nascita, che sovente porta in sé un auspicio o una
condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per
confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica
divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione
dell’innocente e il suo riscatto come termini di una dialettica interna ad ogni vita;
l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la
comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè di essere determinato da forze
complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come
un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi, il non potersi
liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore
come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di
grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo
di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose,
l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.

dall’Introduzione a Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi
cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, 1956
Comunque, tutte le “realtà” e le “fantasie” possono
prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale
esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e
fantasia appaiono composte della stessa materia
verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell'anima si
trovano contenute in righe uniformi di caratteri
minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi;
pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia
rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in
una superficie sempre uguale e sempre diversa, come
le dune spinte dal vento del deserto.

in Visibilità
Un simbolo più complesso, che mi ha dato le
maggiori possibilità di esprimere la tensione
tra razionalità geometrica e groviglio delle
esistenze umane è quello della città.

In Esattezza
Le città invisibili, 1972
Le città e il desiderio

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta
differente a chi viene da terra e a chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare
all'orizzonte dell'altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le
maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa
che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un
veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o
un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle
merci d'oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di
diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian
terreno, ognuna con una donna che si pettina.
Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d'una gobba di cammello,
d'una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano
dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto
pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si
vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi
d'acqua dolce all'ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di
calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le
braccia un po' del velo e un po' fuori dal velo.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il
marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.
Le città e gli scambi

A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli
abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o
grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela,
scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non
ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case
vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili. Dalla costa
d'un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia
guardano l'intrico di fili tesi e pali che s'innalza nella pianura. È
quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente. Riedificano Ersilia
altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero più
complicata e insieme più regolare dell'altra. Poi l' abbandonano e
trasportano ancora più lontano sé e le case. Così viaggiando nel
territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate, senza
le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa
rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.
Le città e il cielo

A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vicoli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva
un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno
a Eudossia che il disegno del tappeto , ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee
rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l'alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo
tutto l'ordito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del tappeto
corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno,
disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall'andirivieni dal brulichio dal
pigia-pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l'odore di pesce, è
quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c'è un punto dal quale la
città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio.
Perdersi ad Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in
un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora
che è il tuo vero punto d'arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all'ordine immobile del tappeto una
sua immagine della città , una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il
racconto della sua vita, le svolte del destino.
Sul rapporto misterioso di due oggetti così diversi come il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno
dei due oggetti,- fu il responso -, ha la forma che gli dei diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano
i mondi; l'altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana.
Gli àuguri già da tempo erano certi che l'armonico disegno del tappeto fosse di fattura divina; in questo
senso fu interpretato l'oracolo, senza dar luogo a controversie. Ma allo stesso modo tu puoi trarne la
conclusione opposta : che la vera mappa dell'universo sia la città d 'Eudossia così com'è, una macchia che
dilaga senza forma, con vie tutte a zig-zag, case che franano una sull'altra nel polverone, incendi, urla nel
buio.
Le città e il cielo

Chiamati a dettare le norme per la fondazione di Perinzia gli astronomi stabilirono


il luogo e il giorno secondo la posizione delle stelle, tracciarono le linee incrociate
del decumano e del cardo orientale l'una come il corso del sole e l'altra come
l'asse attorno a cui ruotano i cieli, divisero la mappa secondo le dodici case dello
zodiaco in modo che ogni tempio e ogni quartiere ricevesse il giusto influsso dalle
costellazioni opportune, fissarono il punto delle mura in cui aprire le porte
prevedendo che ognuna inquadrasse un'eclisse di luna nei prossimi mille anni.
Perinzia - assicurarono - avrebbe rispecchiato l'armonia del firmamento; la ragione
della natura e la grazia degli dei avrebbero dato forma ai destini degli abitanti.
Seguendo con esattezza i calcoli degli astronomi, Perinzia fu edificata; genti diverse
vennero a popolarla; la prima generazione dei nati a Perinzia prese a crescere tra
le sue mura; e questi alla loro volta raggiunsero l'età di sposarsi e avere figli.
Nelle vie e piazze di Perinzia oggi incontri storpi, nani, gobbi, obesi, donne con la
barba. Ma il peggio non si vede; urli gutturali si levano dalle cantine e dai granai,
dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe.
Gli astronomi di Perinzia si trovano di fronte a una difficile scelta: o ammettere che
tutti i loro calcoli sono sbagliati e le loro cifre non riescono a descrivere il cielo, o
rivelare che l'ordine degli dei è proprio quello che si rispecchia nella città dei
mostri.
-Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno
più. Perché ti trastulli con favole consolanti? So bene che il mio impero marcisce
come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi che lo beccano
quanto i bambù che crescono concimati dal suo liquame. Perché non mi parli di
questo? Perché menti all’imperatore dei tartari, straniero?
Polo sapeva secondare l’umor nero del sovrano.-Sì, l’impero è malato e, quel che è
peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo:
scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se
vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci
lontane.
Alle volte il Kan era invece visitato da soprassalti d’euforia. Si sollevava sui cuscini,
misurava a lunghi passi i tappeti stesi sotto i suoi piedi sulle aiole, s’affacciava alle
balaustre delle terrazze per dominare con occhio allucinato la distesa dei giardini
della reggia rischiarati dalle lanterne accese ai cedri.
-Eppure io so, -diceva, -che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e
aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli
elementi prende forma un diamante splendido e durissimo, un’immensa montagna
sfaccettata e trasparente. Perché le tue impressioni di viaggio si fermano alle
delusive apparenze e non colgono questo processo inarrestabile? Perché indugi in
malinconie inessenziali? Perché nascondi all’imperatore la grandezza del suo
destino?
E Marco:-Mentre al tuo cenno, sire, la città una e ultima innalza le sue mura senza
macchia, io raccolgo le ceneri delle altre città possibili che scompaiono per farle
posto e non potranno più essere ricostruite né ricordate. Solo se conoscerai il
residuo d’infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai
computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non
sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio.
Le città nascoste

Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani,
impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie
tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro. Tra i
banconi dove ci si schiaccia tutti i momenti le dita col martello o ci si punge con
l’ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registri dei negozianti e dei
banchieri, o davanti alle file di bicchieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male
che le teste chine ti risparmiano dagli sguardi torvi. Dentro le case è peggio, e non
occorre entrarci per saperlo: d’estate le finestre rintronano di litigi e piatti rotti.
Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambino che da una finestra ride a un
cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un
muratore che dall’ alto dell’impalcatura ha esclamato: –Gioia mia, lasciami
intingere! – a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola,
contenta di servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di
pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata
d’un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui ma più felice
ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino,
felice uccello liberato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipinto piuma per
piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura di quella pagina del libro in
cui il filosofo dice: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia
un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti
in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città
infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.
(Kublai Kan) dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo
non può essere che la città infernale, ed è là in fondo
che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la
corrente.
E Polo: -L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se
ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci
sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di
non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei
scrivere e m'accorgo che quello che m'interessa è un'altra
cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta
escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra
quell'argomento determinato e tutte le sue possibili
varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo
spazio possono contenere. E' un'ossessione divorante,
distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla cerco
di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in
campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così
via. E allora mi prende un'altra vertigine, quella del
dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato
dall'infinitesimo, dall'infinitamente piccolo, come prima mi
disperdevo nell'infinitamente vasto.

In Esattezza
La pantofola spaiata

[…]«Forse anche lui in questo momento pensa a me, spera d'incontrarmi per fare il cambio. Il
rapporto che ci lega è più concreto e chiaro di gran parte delle relazioni che si stabiliscono tra
esseri umani. Eppure non ci incontreremo mai.» Decide di continuare a portare queste
pantofole spaiate per solidarietà col suo compagno di sventura ignoto, per tenere viva questa
complementarietà così rara, questo specchiarsi di passi zoppicanti da un continente all'altro.
Indugia nel rappresentarsi quest'immagine, ma sa che non corrisponde al vero. Una valanga
di pantofole cucite in serie viene periodicamente a rifornire il mucchio del vecchio mercante
di quel bazar. Nel fondo del mucchio resteranno sempre due pantofole scompagnate, ma
finché il vecchio mercante non esaurirà le sue scorte (e forse non le esaurirà mai, e morto lui
la bottega con tutte le merci passerà ai suoi eredi e agli eredi degli eredi), basterà cercare nel
mucchio e si troverà sempre una pantofola da appaiare a un'altra pantofola. Solo con un
acquirente distratto come lui può verificarsi un errore, ma possono passare secoli prima che
le conseguenze di questo errore si ripercuotano su un altro frequentatore di quell'antico
bazar. Ogni processo di disgregazione dell'ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti
vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità
praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti.
Ma se il suo errore non avesse fatto che cancellare un errore precedente? Se la sua
distrazione fosse stata apportatrice non di disordine ma d'ordine? «Forse il mercante sapeva
bene quel che faceva, - pensa il signor Palomar, - dandomi quella pantofola spaiata ha messo
riparo a una disparità che da secoli si nascondeva in quel mucchio di pantofole, tramandato
da generazioni in quel bazar.»
Il compagno ignoto forse zoppicava in un'altra epoca, la simmetria dei loro passi si risponde
non solo da un continente all'altro, ma a distanza di secoli. Non per questo il signor Palomar
si sente meno solidale con lui. Continua a ciabattare faticosamente per dar sollievo alla sua
ombra.

In Palomar, 1983
L’importanza di ognuno

-Capisci – continuava – che la storia del mondo diventa


diversa se io spalo o non spalo-. E smise di spalare.
Cosa fai adesso? – chiesi io.
- Vedi? – rispose – In questo momento, in questo posto
ci poteva essere uno che spalava, invece non c’è. E il
bello è questo: che un momento non torna più e se
c’eri che spalavi, bene; se no niente, la palata che
potevi dare in quel momento non la dai più, e la storia
del mondo una così non l’avrà mai.
Discorsi sull’importanza, 1942
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?- chiede Kublai
Kan.
-Il ponte non sostenuto da questa o quella pietra, -risponde
Marco,-ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: -
Perché mi parli delle pietre? E’ solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: -Senza pietre non c’è arco.

Le città invisibili, 1972


Il “cosmicomico”
[…] Si capisce che si stava tutti lì, – fece il vecchio Qfwfq, – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo
spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì
pigiati come acciughe? Ho detto pigiati come acciughe tanto per usare una immagine letteraria: in realtà
non c'era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d'ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno
degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti.
[…]Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me,
era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta
(data l'impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più?
E tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era
contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente.
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a
un certo momento lei dicesse: – Ragazzi, avessi un po' di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E
in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi
avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e
uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte
d'olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la
farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l'acqua per irrigare i campi, e i
pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto
perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il
Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio
che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e, nello stesso
tempo del pensarlo, questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora
Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: – …le tagliatelle, ve', ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti
s'espandeva in una raggiera di distanze d'anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai
quattro angoli dell'universo (il signor – fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d'energia luce
calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d'uno
slancio generoso, il primo, "Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!", un vero slancio d'amore generale,
dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e
alla gravitazione universale, e all'universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di
pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le
braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.

Tutto in un punto in Le cosmicomiche, 1965

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