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Alessandro Perissinotto

La Canzone Di
Colombano

(2000)

EmmeBooks 265
Nel cuore di una canzone del sedicesimo secolo c'è la sto-
ria fosca e triste che questo libro racconta. Quattro omi-
cidi, di una povera famiglia di pastori, tra cui una fan-
ciulla, Floretta. Ne è accusato Colombano Romean, un
maestro minatore provenzale sfidato a realizzare da solo
l'opera immane del traforo della Thullie che ancora si
ammira in val di Susa. Guidato dalle strofe e dagli archi-
vi, Perissinotto svolge un'inchiesta e plasma questo rac-
conto giallo, che contiene un complotto di brutale prepo-
tenza e una falsa accusa

In un giorno d'agosto del 1533, sui monti che sovrastano


l'abitato di Chiomonte viene trovata morta un'intera fa-
miglia di pastori. Ippolito Berthe èrappresentante della
giustizia in nome del signore locale, il Prevosto di Oulx;
Ippolito cerca di attribuire i decessi a cause naturali, ma
ben presto gli abitanti del borgo indicano in Colombano
Romean il responsabile di quelle morti. Colombano è uno
scalpellino che da solo, da otto anni, sta scavando una
galleria (che esiste ancora oggi) per realizzare un ac-
quedotto sotterraneo su mandato della comunità e la sua
opera è ritenuta di vitale importanza dal Prevosto. Que-
st'ultimo incarica dunque il proprio giudice, Ippolito, di
istruire l'inevitabile processo contro Colombano, ma an-
che di assolverlo a tutti i costi. Nell'incrociarsi di accuse e
difese durante il processo, emergono usi, leggi, regola-
menti e tensioni della piccola comunità: in questo lungo
dibattimento, Ippolito riesce a scagionare Colombano
dall'accusa di omicidio, ma non può impedire che venga
formulata una nuova accusa: stregoneria. Ma, in attesa
dell'arrivo dell'inquisitore, Ippolito continua la sua inda-
gine e...

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La canzone di Colombano
di Alessandro Perissinotto

Sommario

La canzone....................................................................................... 4
I Strofa prima ....................................................................... 6
II Strofa seconda ............................................................... 20
III Ritornello ......................................................................... 34
IV Strofa terza...................................................................... 50
V Strofa quarta .................................................................. 65
VI Ritornello ........................................................................ 81
VII Strofa quinta .................................................................. 96
VIII Strofa sesta................................................................... 113
IX Chiusa.............................................................................. 141
Epilogo ......................................................................................... 151

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La canzone

Dieci anni fa, conducendo ricerche sul folclore alpino per la mia tesi
di laurea, mi imbattei in una strana canzone che non avevo mai sentito
e della quale non vera traccia in nessuno dei testi che io conoscevo. A
cantarmela, in uno sperduto alpeggio alle pendici del monte Bellavar-
da, fu un'anziana donna, allora più che ottuagenaria, che tutti chia-
mavano semplicemente Ghitin. La canzone appariva estremamente
corrotta nel linguaggio, con ampie contaminazioni tra il francopro-
venzale, il piemontese e l'italiano. Essa era poi mancante di alcune
parti, a volte intere strofe, che la donna sostituiva con un allegro can-
terellare a bocca chiusa, benché la storia narrata fosse in realtà
estremamente triste e cruenta. Alcuni versi sembravano poi chiara-
mente mutuati da altri canti, in particolare dal famosissimo Donna
Lombarda, e sommariamente adattati al componimento specifico, con
errori di metrica che costringevano ad incredibili virtuosismi vocali.
Mi diedi a cercare per le montagne altre lezioni di quella singolare
canzone che aveva come eroe un tale Colombano e che raccontava,
come molte altre, di un terribile delitto: non trovai ulteriori tracce e
nessuno seppe darmi indicazioni utili. In presenza di una sola lezione,
di un'unica versione della storia, non potei fare alcuno studio compa-
rativo sul testo e neppure potei riferire la canzone a qualche fatto sto-
rico tramandato dalla tradizione orale, poiché nessuno nelle zone at-
tigue all'alpeggio aveva mai sentito parlare di Colombano e della sua
vicenda.
Mi arresi ed esclusi quel canto dal mio corpus di indagine con buo-
na pace di tutti. Qualche anno dopo la laurea, riordinando gli appunti
che dal giorno della discussione della tesi giacevano dimenticati in un
raccoglitore, mi trovai in mano il foglio sul quale avevo trascritto i
versi che Ghitin mi aveva cantato. Fui nuovamente incuriosito da quel-
le parole ancora prive di riscontri e decisi di far visita alla donna. Mi

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recai all'alpeggio, ma la baita in cui l'avevo incontrata la prima volta
era chiusa; chiesi ai margari e mi dissero che era morta l'inverno pre-
cedente, a Lanzo, in ospedale. Parlammo ancora un po' di lei, del mari-
to, morto in Russia, e del padre di lei, un «foresto» che veniva da Chio-
monte, in Val di Susa.
Quest'ultimo particolare mi fece vedere la canzone in una luce nuo-
va: forse i riferimenti storici esistevano, bastava cercarli nella valle
giusta. A Chiomonte, Colombano era ben noto e proprio a lui, a Colom-
bano Romean, è dedicata la piazza principale del paese: peccato che
anche qui non conoscessero la canzone.
Non mi persi d'animo e presi a consultare testi e documenti in tutti
gli archivi posti lungo la linea che congiunge Torino a Grenoble per
trovare tracce degli omicidi descritti nella canzone e giustificare quin-
di, in qualche modo, la sua stessa esistenza.
Quello che segue è il risultato di queste ricerche, vale a dire una
realtà costruita a partire dalla sua rappresentazione, ma anche un'in-
chiesta condotta per scoprire chi, quasi cinque secoli fa, in un giorno
d'agosto del 1533, uccise quattro persone innocenti.
Adesso la canzone è qui, sotto i miei occhi, ma è una canzone che va
cantata piano e solo a chi ci accompagna nel cammino; come scrisse
Costantino Nigra citando dal Conde Arnaldos: Yo no digo esta cancion
sino a quiem conmigo va.

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I Strofa prima

Di là da cui boscagi
j'è quat mort da suterè.
E 'l pare e la mare
e la veja l'an massà;
e na fia d' quìndes ani
1
ch'a smija penha endurmentà.

Muli: razza maledetta e traditrice.


Ancora una volta aveva dovuto smontare dalla sua cavalca-
tura, là dove la mulattiera si faceva sentiero e il sentiero si fa-
ceva scala di pietre. Imprecava contro la bastarda, ma era so-
prattutto per dimenticare la paura e i pensieri più foschi.
Era peste? Sarebbe stata peste?
Per la prima volta la fiducia che i villani riponevano in lui gli
diede un senso di fastidio che lo prese poco sotto lo stomaco.
I margari che avevano trovato i quattro morti si erano rivol-
ti a lui come a chi ha il potere di salvare il paese dalla rovina;
come se lui e solo lui avesse potuto fermare il maleficio o il
contagio.
La fiducia dei montanari se l'era guadagnata appena assunto
il suo ufficio di giudice lì a Chiomonte. Non diversamente dagli
altri, era giunto a cavallo, con le vesti rosse e nere e con le in-

1 Al di là di quella boscaglia | Ci sono quattro morti da sotterrare. | Il pa-


dre e la madre | e la vecchia hanno ammazzato; | e una fanciulla di quin-
dici anni | che sembra appena addormentata.

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segne della Prevostura di Oulx, ma i valligiani avevano capito
subito che era uno di loro. La notizia del nuovo arrivo correva
più veloce del suo cavallo, in quel giorno di novembre. Il vento
eterno che spazza la valle addensava le nuvole a metà della
montagna, come se avesse voluto riempire quel solco di tutti i
vapori dell'universo. La strada del paese era deserta, gli usci
chiusi; dai viottoli, al suo passaggio, rumore di zoccoli di legno
che si affrettavano sull'acciottolato. Anche allora aveva provato
inquietudine; non la stessa inquietudine di oggi, ma di eguale
intensità. E poi quell'immagine che dopo tre anni rivedeva di-
stinta e viva: la comunità intera sul sagrato, centinaia di occhi
scuri lo fissavano, infossati nei volti smagriti. L'aria violenta e
gelida illividiva le labbra serrate e sotto le vesti di bigello, sotto
le pelli di pecora gettate sulle spalle, si intuiva il tremore di
corpi costretti ad un'inconsueta immobilità. Ma nessuno si
mosse fino a che egli non fu a terra ed ebbero potuto osservar-
gli le mani e gli zigomi: callosità e rossore rivelarono le sue
origini e quegli uomini, ad uno ad uno, in silenzio, se ne anda-
rono rassicurati. Il giudice poteva venire da dove voleva, da
Oulx o da Briarnon, dal Queyras o persino dalla città del Delfi-
no di cui solo alcuni avevano sentito parlare, ma era un uomo
di montagna, e questo bastava.
Ma davvero lui, uomo di carne, poteva qualcosa contro la
morte nera?
Con sé aveva la boccetta dell'aceto e le foglie odorose di
menta che, come gli avevano insegnato i professori di Greno-
ble, certissimamente preservavano dal morbo. Conosceva poi
formule e segni per sconfiggere i malvagi incantamenti. Eppure
nulla lo rendeva più sicuro in quell'ascesa verso le grange della
Thullie. Sapeva che vi avrebbe trovato i corpi di tre donne e di
un uomo, di un'intera famiglia che forse avrebbe potuto defini-
re amica.
Quante volte aveva bevuto latte caldo con il fulvo Isoardo?
Il profumo tiepido che esalava dalla scodella di legno invase
la sua memoria e di nuovo lo assalì quel malessere.

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Come sarebbe stato il cadavere di Isoardo? Gli alpigiani non
si erano soffermati nelle descrizioni; alle sue richieste di parti-
colari, uno di loro era corso fuori a vomitare: chissà quante
volte lo aveva già fatto da quando, qualche ora prima, avevano
scoperto i corpi.
E il corpo di Floretta? Lei, con i suoi quindici anni e quella
pelle bianca, non ancora sciupata dal sole e dal gelo.
Dall'inizio del mattino un pensiero si annidava indefinito
nella mente del giudice Ippolito, un qualcosa che non riusciva a
prendere forma, ma che si faceva sentire come un gusto amaro
in fondo alla bocca. Fu solo quando i suoi occhi si posarono su
un rivolo d'acqua che scendeva misero tra le rocce, che l'idea si
fece nitida: cosa era stato di Colombano? Nessuno aveva ac-
cennato a lui. Era morto con gli altri? Oppure, anch'egli conta-
giato, si era trascinato lontano a diffondere la malattia per il
contado? Ammesso che di malattia si trattasse.
Durante i mesi estivi, Colombano Romean era solito vivere
all'alpeggio con la famiglia di Isoardo e questo da quando, otto
anni prima, aveva cominciato quell'opera ardita e dissennata
nella quale nessuno aveva voluto seguirlo.
«La montagna non si buca, Romean!»
«È di pietra, non di formaggio...»
«Si 'l matin tu creuse la peyra, la montagna la va remplir la
seira».
Eppure quella roccia andava bucata, quel canale andava
scavato; a chiederlo erano i pascoli che dai Quattro Denti scen-
devano verso sud. Aridi, secchi, gialli già alla fine di giugno;
mandrie e greggi vi facevano la fame, sotto il sole, senza avere
di che abbeverarsi se non quel filo d'acqua che egli aveva ap-
pena scavalcato con un passo e che scorreva infossato tra le
pietre, così diritto e così rapido da non dare beneficio alcuno
all'erbe circostanti.
E allora si era elaborato il piano più semplice e più irrealiz-
zabile: attraversare la montagna con un acquedotto sotterra-
neo per prelevare l'acqua dal piano della Thullie e riversarla

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sulla costa a mezzogiorno, sui terreni del prevosto di Oulx che
molti degli abitanti di Chiomonte, della Ramats e di Cels colti-
vavano pagando le decime.
Almeno mille piedi di roccia da scavare. Lavoro da minatori,
come quello che facevano laggiù all'Argentiera, sulla Durance,
o ancora più vicino, a Prazlat. Ma i minatori costano, e farli ve-
nire da lontano costa ancora di più. Nessuna delle fratellanze
che si erano fino allora create per scavare i canali di irrigazione
aveva mai potuto disporre di tutti i fiorini che ci sarebbero vo-
luti per il buco della Thullie.
Il piano accese a lungo le assemblee della comunità. Se ne
discusse; coloro che avevano in uso le terre volte a sud si di-
sputarono con quelli dell'Inverso, che avevano acqua e fiena-
gioni in quantità. Vent'anni di tentennamenti, di lavori riman-
dati ad abbondanze future, poi Colombano che torna di Pro-
venza nella sua Chiomonte e lancia la sua sfida.
E così, da otto anni, dall'estate del millecinquecentoventisei,
Colombano lavorava da solo a quell'opera che già sarebbe par-
sa meravigliosa se a compierla fosse stato l'intero paese, ma
che, condotta dalle mani di un uomo solo, diveniva ciclopica.
Oramai l'acqua e i pascoli contavano poco; in gioco c'era il suo
onore e una promessa che la comunità gli aveva fatto quasi per
burla: se davvero le acque della Thullie avessero bagnato i pra-
ti che scendevano dai Quattro Denti, Colombano avrebbe rice-
vuto ogni anno, dalla comunità medesima, duecentoventi se-
stari di segale, cento di avena, quaranta di castagne e noci e
soprattutto cento brente di vino. Enormità delle cifre, scettici-
smo degli abitanti, ma la promessa era fatta, scritta, sigillata
dal notaio e depositata nell'archivio della pieve, proprio sotto
la torre campanaria.
Se almeno avesse potuto lavorare anche nella brutta stagio-
ne, ma la Thullie era troppo in alto; troppo freddo per dormirci
negli inverni secchi, troppa neve minacciosa negli altri, troppe
le cinque ore di marcia per raggiungerla. L'estate sola era giu-
sta, quando Isoardo montava all'alpe con le bestie e lo ospitava

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e nutriva in cambio di qualche lavoro di fatica che la sua fami-
glia, priva della benedizione di un figlio maschio, non riusciva a
fare.
Cosa ne era dunque di Colombano?
Ricordi e pensieri, lì si perse la mente del giovane giudice
Ippolito fino all'ultima salita prima del piano delle grange; in-
terrotti solo da qualche sporadica imprecazione contro la mula
che ancora s'impuntava.
Il sole alto di agosto lo faceva sudare e si liberò il petto dal
camicione legandoselo a vita. A mano a mano che si avvicinava,
cresceva la sua paura e il suo passo si faceva più lento, affatica-
to. Nei tre anni trascorsi al proprio uffizio aveva visto la piccola
Floretta farsi desiderabile e donna; quale scempio aveva ora
guastato la sua immagine?
Aveva ancora negli occhi il turbamento dei montanari che
gli avevano dato la notizia; pastori come Isoardo, solo di un al-
tro alpeggio. Erano scesi alla Thullie per prendere da Isoardo il
bouc per la monta delle pecore e avevano visto quello che ave-
vano visto, quello che non avevano saputo dire se non con frasi
spezzettate e incoerenti, frantumate dal terrore. Non poteva
essere uno scherzo, e peraltro tutti sapevano che a scherzare
con il giudice del Prevosto, anche con l'affabile Ippolito, si ri-
schiava la corda o la ruota, quando non la vita.
L'alpeggio non si distingueva ancora dalle rocce intorno
quando, avanzando nella conca che lo ospitava, vide lontane
chiazze bianche sull'erba.
Rimase disorientato.
Neve in quella stagione? E con quel caldo poi!
Non era neve. Una raffica di vento più forte delle altre staccò
da una di quelle macchie un ciuffo candido e lo disperse nell'a-
ria.
«Soffioni maturati e sfioriti» pensò.
Non erano soffioni.
Le pecore, esanimi, giacevano in piccoli gruppi, accostate
l'una all'altra nella morte come nella vita. Sui loro corpi, il gipe-

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to e gli altri rapaci avevano già svolto la loro opera infame e
dalla loro pelle si staccavano batuffoli di lana che andavano a
posarsi sull'erba attorno, come tanti fiori bianchi.
Qual peste attaccava pecore e capre? Stregoneria! Sortilegio!
Ippolito vide altre pecore pascolare placidamente accanto alle
compagne morte; forse proprio tra quelle erano gli stregoni
che avevano fatto quello scempio e che, come a tutti è noto,
sanno mirabilmente assumer le sembianze di molti animali. E
se non tra le pecore, tra i capri: il maligno non ha forse zoccoli
caprini?
Giunto sulla soglia della grangia di pietra, il giudice legò la
mula ad un palo infisso nel terreno, poi prese una pezzuola
bianca e vi versò sopra un po' d'aceto. Il rosso cupo che mac-
chiò il candore del tessuto gli riportò alla mente il sangue e per
un istante gli paralizzò le gambe; infine, raccolto tutto il corag-
gio dei suoi venticinque anni, passò oltre l'uscio già spalancato.
Isoardo giaceva riverso con in capo grottescamente appog-
giato al tavolo sul quale si allargava una chiazza di vomito
vermiglio, come quello degli ubriachi.
Diavolo d'un bevitore, la morte ti ha trovato bello pieno di
vino!
Sempre premendo la pezzuola contro naso e bocca, Ippolito
avanzò alla ricerca degli altri cadaveri.
Floretta, cosa ne è della tua indefinibile bellezza? Anche tu
gettata a terra, come tua madre, come tua nonna poco più in là;
anche tu perduta in una pozza di vomito rosso.
In un gesto estremo di pietà compose il corpo di Floretta e
su quello di Isoardo sperimentò quanto i seguaci di Ippocrate
gli avevano insegnato, ormai convinto che unica fosse la causa
di quelle morti e uguali le tracce sulle loro carni.
Sdraiò il cadavere sul pavimento di terra battuta, accanto al
focolare, e gli slacciò le vesti di lana pesante, segno che la mor-
te era giunta di sera. Sotto il braccio e nell'anguinaia niente en-
fiature, nessuno di quei lividi bubboni che confermano, al di là
di ogni dubbio, l'opera della peste nera. Gli occhi erano sbarra-

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ti, strabuzzati, come se avessero voluto uscire dal volto al so-
praggiungere improvviso dell'ultimo istante. Le membra non
presentavano ferite e, sotto la pressione delle dita del giudice,
nonostante il rigor mortis, i visceri mostravano di essere al lo-
ro posto.
Lacerazioni purulente, fuoriuscite di umori, secrezioni, nien-
te di tutto ciò. Solo un anormale gonfiore della lingua, delle
labbra e delle nari, dalle quali era uscito, ma senza gran copia,
un rivolo di sangue. Identici segni sul viso delle donne.
Solo dopo aver finito l'esame dei corpi, Ippolito si accorse
che nessuna delle poche cose ospitate nell'alpeggio era al suo
posto. Una delle due panche era rovesciata, disperse le ceneri
del focolare, capovolta la madia, sparsa ovunque la farina bigia.
Si sarebbe detto un assalto di briganti, ma i briganti attaccano i
viaggiatori che vanno al Moncenisio o al Monginevro, non i po-
veri pastori. Era stato lo scatenarsi delle forze del male a pro-
vocare un tale disastro.
Ciuffi di lana qua e là e persino una pecora esanime sotto il
tavolo fecero supporre al giudice che il putiferio fosse stato
causato da un'irruzione degli animali, quando già i cristiani
erano senza vita.
Prese una scodella e vi versò dentro un poco del vino conte-
nuto nella fiaschetta di scorza di zucca che era ancora appog-
giata sul tavolo; odorò ma non sentì nulla di particolare, nulla
di diverso da quel profumo leggermente acidulo che emana il
povero vino di montagna quando viene tenuto al caldo. E poi
non era certo il vino che aveva ucciso Floretta o sua madre o le
bestie.
Ippolito raccolse uno sgabello e vi si sedette, appoggiando la
schiena al muro di pietra. Quanto rimase lì immobile? Difficile
dirlo. Di sicuro si era assopito, vinto non tanto dalla stanchezza
della camminata, quanto dallo sciogliersi della paura e dal suo
trasformarsi in dolore.
Si svegliò di soprassalto scacciandosi le mosche dal viso.
Abominevoli insetti; sentono il lezzo di cadavere molto pri-

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ma che questo sia avvertibile dall'uomo. I corpi a terra erano
coperti di neri, ronzanti corpuscoli.
Agitò le mani sul volto irrigidito di Floretta e le mosche, cac-
ciate, presero a volargli intorno alla testa posandosi sulla sua
nuca, nelle orecchie, infilandosi nel colletto del camicione che
aveva nuovamente indossato. Ippolito tentò ancora, rabbiosa-
mente, di allontanarle da sé e da quei poveri resti, ma alla fine,
colto da un panico incontrollabile, corse fuori dimenandosi
come un posseduto. Aveva il fiato grosso e le gambe tagliate
all'altezza delle cosce, ma la sua corsa non finiva; superò un
piccolo dosso, un muretto di pietre, un nuovo ammasso di pe-
core morte e si arrestò solo al laghetto: lì si sdraiò volgendo gli
occhi al cielo, dove i rapaci volteggiavano in attesa che egli to-
gliesse la sua ingombrante presenza di umano e desse agio al
loro pasto.
Quando nell'aria vola largo il gheppio, o si libra il gipeto o si
abbandona alla corrente il corvo, nulla e nessuno, sulla monta-
gna, vuole far mostra di essere vivo. In quella calma di vento e
di rumori Ippolito sentiva solo il suo respiro e vedeva immobili
i Quattro Denti stagliarsi contro l'azzurro intenso. Quattro
spuntoni di pietra in cui i valligiani, per burla o per fervida
immaginazione di ignoranti, avevano creduto di vedere, più di
un secolo prima, i quattro denti superstiti che nell'anno del si-
gnore 406 avevano accompagnato nella tomba il Prevosto Gio-
vanni di Bigot, il Prevosto saggio e buono che aveva concesso
gli Statuti alla comunità di Chiomonte. Lì, in quella perfezione
di silenzio, di acqua, di sole e di roccia, il giovane giudice
avrebbe potuto dimenticarsi di ogni cosa e soprattutto di quei
morti. Ma non lo fece, non si scordò né dei morti, né dei vivi, o
almeno di quelli che sperava di vedere vivi, e andò alla ricerca
di Colombano.
Se il morbo o il maleficio non si erano impossessati del cor-
po e dell'anima di Colombano, lo scalpellino doveva trovarsi lì,
nel suo buco, e proprio verso il pertus de la Thullie Ippolito si
diresse.

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Una nuova ansia lo colse. Quel mattino, lasciando la sua di-
mora presso il castello, sapeva che i suoi occhi avrebbero visto
la morte in quelli di persone conosciute, ma alla perdita di Co-
lombano non era preparato. Con Isoardo beveva e parlava di
raccolti, di bestie e di fienagioni, ma Colombano era il solo, tra i
villani, a raccontargli cose che lo affascinavano e lo sollevavano
dal tedio delle giornate invernali. Romean non gli narrava sto-
rie di paese, né leggende d'uomini, di spiriti e di santi. Con la
sua fantasia egli non sarebbe neppure riuscito a immaginare
ciò che si trovava alle proprie spalle. Descriveva quanto vedeva
quotidianamente, quanto aveva visto nella sua vita: le pietre.
Le scaglie brillanti nelle miniere d'argento, tra Briançon ed
Embrun, i cristalli di rocca sulle pareti più scoscese, vicino ai
ghiacciai eterni, ed i massi spaccati dal fulmine, e il marrone
rossastro del minerale di ferro, ed il banale, consueto granito,
che nei frammenti staccati dalla furia dello scalpello sapeva
proporre disegni di animali meravigliosi e temibili. Tutto que-
sto diceva Colombano al giudice Ippolito quando la neve copri-
va i tetti e le strade di Chiomonte.
Se prima la sicurezza della morte aveva rallentato il passo
del giudice, ora l'incertezza lo spronava e, quasi correndo, rag-
giunse l'imboccatura della galleria.
Fuori, dello scalpellino nessuna traccia.
«Colomban. Colomban».
Solo il rumore del mantice.
Quel mantice Romean aveva dovuto costruirlo quando si era
accorto che il buco diventava troppo lungo e l'aria fresca
dell'esterno non ne raggiungeva più il fondo. Spinta dal soffiet-
to invece, l'aria percorreva una lunga manichetta di canapa ce-
rata ed arrivava là dove serviva. Ma il vero prodigio era il mec-
canismo che azionava il mantice, un'opera che aveva richiesto
tutto l'ingegno di Aimerico, il falegname.
Una ruota ad acqua, con un piolo conficcato lungo il bordo
premeva periodicamente il lato superiore del soffietto che, non
appena uscito dalla pressione del piolo, veniva tirato verso l'al-

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to da un contrappeso montato su una carrucola. Il piolo della
ruota comprimeva e il contrappeso espandeva: comprimeva,
espandeva, comprimeva, espandeva; al ritmo impresso dall'ac-
qua, quella stessa acqua che di lì a poco avrebbe dovuto passa-
re attraverso il canale sotterraneo.
«Colombano Romeaaan».
Solo il mantice.
Il giudice cercò lì attorno una lampada ad olio, o almeno una
candela di sego. Nulla.
Alla malora anche le candele! Se deve essere buio che buio
sia.
Prima di introdursi nella galleria si tastò quasi inconsape-
volmente la cintola per verificare che il pugnale fosse al suo
posto; poi strinse i denti ed entrò.
Lavoro fatto con coscienza; alta la volta da starci diritto, lar-
go il passaggio da non urtare con i fianchi, peccato il fondo ir-
regolare, ma d'altra parte è un fondo per un ruscello, non per i
cristiani.
Della luce che aveva accompagnato i suoi primi passi ora
non rimaneva che il biancore dell'imboccatura; avanti a sé e in-
torno solo nero, nero, nero...
Fin dal primo momento, in quel buio, s'era aspettato con an-
goscia di inciampare nel cadavere di Colombano, ma conti-
nuando ad avanzare nel cunicolo quella prese a sembrargli l'i-
potesi meno spaventosa. Si immaginava serpi e pipistrelli, sa-
lamandre enormi e tritoni o chissà quali esseri infernali. Ma
certo, era così, streghe e incantatori avevano fatto di quel luogo
il loro antro e vi avevano radunato tutti i sordidi animali che
erano ai loro servigi e tutti gli uomini e le donne che il sortile-
gio incatenava in spoglie bestiali.
O forse, ad attenderlo nell'oscurità c'era quella creatura ge-
niale e terribile che chiamano Uomo Selvatico. Sì, ne sentiva il
respiro. Profondo e ritmato era il respiro dell'Uomo Selvatico e
passando attraverso le fauci spalancate emetteva un suono
sordo di corno da guerra udito in lontananza.

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Si fermò, addossando la schiena alla parete e prendendosi il
capo tra le mani. Le vene del collo gli pulsavano come se aves-
sero voluto scoppiare; poi, piano piano, il suo cuore riprese a
battere con meno violenza ed egli riuscì a convincersi che quel
respiro disumano altro non era se non il rumore dell'aria che
passava dentro la manichetta.
Riacquistate le forze ed un minimo di coscienza, se non pro-
prio di calma, riprese il cammino. Ma quanto aveva scavato Co-
lombano? Ad Ippolito, così come a tutti gli altri, non era mai
stato possibile visitare la galleria ed essere adesso in un budel-
lo lungo migliaia di piedi era come trovarsi al centro di quell'o-
ceano infinito che gli aveva descritto una volta un chierico por-
toghese.
Sudava il giudice, sudava copiosamente ora, dopo che, in un
primo momento, appena entrato nel pertugio, aveva sentito le
membra gelarsi per il brusco passaggio dal sole all'ombra. Su-
dava e faticava a respirare, era giunto nel punto in cui l'aria
dell'esterno si rifiutava di penetrare e la natura, per orrore del
vuoto, riempiva quella zona di sconosciuti fluidi immateriali
che, se inalati troppo a lungo, portavano a morte certa.
Cercò il tubo collegato al mantice e si preparò a tagliarlo se i
suoi polmoni glielo avessero richiesto. Ma prima di ciò avvenne
quel peggio tanto atteso.
Clangore di ferri, suoni rochi, bestemmie, calci, pugni, spin-
toni, paura, confusione.
«Vai via!»
«Chi sei?»
«Ti uccido!»
«Vade retro...»
«Vergine santa...»
«Fermo Colombano, fermo. Sono io, Ippolito».
Confusione.
«Colombano! Per Dio, Colombano, arrestati e accendi la
lampada. O sei forse posseduto dal demonio?»
«Siete davvero voi, giudice?»

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«Fa un po' di luce ed accertati tu stesso».
Si udì più volte battere la pietra dell'acciarino, prima che un
leggero rossore si impadronisse dell'esca.
Alla fiamma della lampada ad olio i due poterono guardarsi.
«Cosa ci facevi lì al buio, Colombano?»
«Dormivo».
«A quest'ora?»
«E cosa volete che ne sappia io di ore o di giorni; è da quan-
do si è fatta la luna nuova che non esco più di qui dentro. Siamo
ad agosto: se non finisco questo dannato buco per l'inverno mi
tocca aspettare un altro anno per la ricompensa. E allora lavo-
ro, lavoro sempre, e quando proprio cado dal sonno mi sdraio
lì dove sono e dormo. È così che dormivo quando siete arrivato
voi. Poi ho sentito qualcuno che mi prendeva a calci... Oh, per-
donate, lo so che non mi volevate prendere a calci, ma sapete,
così, all'improvviso, ho pensato... ho pensato... non so neppure
io cosa ho pensato, ho iniziato a picchiare e basta. Vi ho mica
fatto male?»
«No, non ti preoccupare, tu piuttosto?»
«Oh, non c'è il caso che vi diate pena per me. Uno che ha
spaccato pietre in tutte le miniere del Delfinato ci è abituato al-
le busse».
«Da quanto tempo non vedi Isoardo?»
«Ve l'ho detto, dalla luna nuova. L'ho aiutato a spostare l'é-
tançon della peyra alta per fare andare l'acqua sui prati di fine
agosto; quel rio lì, la peyra alta, ha un sasso di sbarramento che
sembra una montagna, se non si è almeno in due non si riesce
mica a rotolarla via».
«Quando aveva bisogno veniva fin quaggiù a chiamarti?»
«No, Isoardo aveva paura di entrare nel buco; quando ci
serviva, gridava nel tubo dell'aria e io lo sentivo».
«E per mangiare e bere come fai?».
«Me ne porta Tuju tutti i giorni: pane fresco, vino e torna. Li
va a prendere giù alle Ramats, così non devo più pesare sul po-
vero Isoardo che ha sempre il mangiare misurato, che non è

La canzone di Colombano 156/17


questione di ricambiarlo, è che proprio non ne ha. Per l'acqua
poi ci sono un paio di vene qui tra le rocce, piccole piccole per
fortuna, ma a me bastano per riempire la scodella. Non l'ho
detto a nessuno però che non mangio più da Isoardo, così la
comunità continua a pagargli il vitto per me; anche alla vecchia
delle Ramats, quella che mi dà il pane, non ci ho detto niente: la
pago e basta».
«Un cane come Tuju è una benedizione per un uomo come
te Romean; un cane come Tuju è il miglior compagno che po-
tessi avere».
Al fondo dell'abisso nero i due parlavano con tono pacato
per dare una parvenza di normalità ad una situazione sospesa
e imprevista. Imprevisto per l'uno trovare la vita anziché la
morte, imprevisto per l'altro trovare, al risveglio, la compagnia
invece della solitudine.
Ma l'alito fresco che usciva dalla manichetta non bastava per
due persone e anche la fiammella della lampada diventava più
incerta e tremula. Inspirando profondamente dal tubo a turno
prima di attraversare la zona di aria morta a metà della galle-
ria, Ippolito e Colombano tornarono all'aperto e solo quando
furono lì il giudice parlò di ciò che era accaduto.
«Isoardo è morto, Floretta è morta, sono morti tutti, e anche
molte delle bestie sono stecchite».
Colombano, sdraiato a terra, la faccia coperta da un brandel-
lo di tela di sacco per abituare piano gli occhi alla luce, non si
mosse.
«Sono morti tutti» ripeté Ippolito.
«Com'è successo?»
«Non lo so».
I montanari non conoscevano parole superflue, neanche
quando avevano studiato.
Ancora sotto quella specie di veronica, lo scalpellino disse:
«Voglio vederli».
«Meglio di no. Che i vivi non destino i demoni dei morti.
Domani le guardie campestri li seppelliranno vicino alle grange

18/156 Alessandro Perissinotto


e condurranno a valle le bestie rimaste».
«Allora io torno a lavorare».
«Sì, torna. Ma, dimmi Romean, hai visto qualcosa? hai senti-
to qualcosa? Voci, luci, fuochi, danze, lampi, gatti neri, galli ne-
ri?»
Frastornato, Colombano non aprì bocca; levandosi seduto
indicò con il mento l'imboccatura del suo traforo, come a dire
che nulla, al di fuori del buio, del battere dei ferri e della super-
ficie ruvida e umida della pietra, aveva sfiorato i suoi sensi per
giorni e giorni. Poi, masticando un saluto, i due uomini si sepa-
rarono e il giudice ritornò all'alpeggio per riprendersi la mula e
completare l'ispezione.

La canzone di Colombano 156/19


II Strofa seconda

Quand la gent a l'è muntà


per andeje a suteré,
a l'a vist Culumban
ch'a fasia so mesté.
A l'an vist Culumban
2
a l'an falu përzuné.

Ippolito aveva temuto che le orribili immagini di quella


giornata si sarebbero accalcate nella sua mente durante la not-
te, rese ancora più spaventose dall'incertezza che procura l'in-
debolirsi del discrimine tra veglia e sonno. Invece la stanchez-
za aveva prevalso e sui suoi occhi era calata una cortina pesan-
te come piombo che si era diradata solo quando le campane
della parrocchiale avevano suonato mattutino.
Come spesso capita in agosto, l'afa del giorno prima aveva
lasciato il posto ad un'aria di tempesta dove le nubi, prima in
rapida corsa dal paese del Delfino a quello del Duca di Savoia,
si fermavano gravide di pioggia e grandine, in attesa di riversa-
re sulla valle il loro gelido carico.
Uscendo dagli appartamenti che gli erano stati assegnati nel
misero castello di Chiomonte, il giudice rimpianse il bagno cal-
do del giorno prima, nella grande tinozza. Vi si era immerso

2 Quando la gente è salita | per andarli a sotterrare, | ha visto Colombano |


che faceva il suo mestiere. | Hanno visto Colombano | e lo hanno fatto
prigioniero.

20/156 Alessandro Perissinotto


ancora con le vesti indosso per purificarsi di quanto di immon-
do e micidiale poteva essersi depositato sulla sua pelle e sugli
abiti nel luogo dei mortiferi fatti. Ma per lui, figlio di contadini,
il totale lavacro aveva il gusto della vittoria, dell'emancipazio-
ne, e pertanto si immergeva con voluttà nell'acqua tiepida più
di quanto una normale cura di sé avrebbe richiesto: persino
quattro o cinque volte l'anno.
Un servitore che aveva, tra le altre, mansioni di stalliere, gli
portò il cavallo ed Ippolito poté cominciare, controvoglia, il suo
viaggio verso Oulx, dove avrebbe fatto al Prevosto una relazio-
ne su ciò che era accaduto e avrebbe atteso da lui ordini.
Cinque leghe! Si stava rammollendo; dentro di sé sentiva
scemare troppo rapidamente il vigore dei suoi primi anni. Ba-
stava la minaccia di un temporale ed un percorso di sole cin-
que leghe, comodamente a cavallo, lo metteva di cattivo umore.
Uscendo dal paese guardò le ultime costruzioni, le più povere,
e pensò che anche quelle, al cospetto della casa di suo padre, su
a Saint Cristophe, sarebbero apparse come palazzi vescovili.
Ricordò le mura che lo avevano visto ragazzo, la terra battuta
del pavimento, la paglia legata del tetto e l'unico vero mobile,
la cassapanca nella quale sua madre aveva portato il suo ridi-
colo corredo nuziale. Tutti i suoi vivevano ancora là; quando
era partito aveva cinque sorelle e due fratelli, chissà quanti
erano ora? Quante bocche si dividevano il pane, quante mani si
contendevano, livide dal freddo, le poche castagne, le rape, le
cipolle?
Il giorno che, quindicenne, aveva lasciato Saint Cristophe al
seguito di un predicatore itinerante, i familiari lo avevano
guardato con soddisfazione e sollievo; tutti, persino sua madre,
avevano calcolato rapidamente di quanto, con la dipartita di
quello stomaco sempre più vorace, sarebbe cresciuta la loro
porzione, la loro possibilità di sopravvivere.
A nessuno importava delle voci che circolavano su quei frati
vagabondi: padroni tirannici, sfruttatori e seviziatori di giovi-
netti raccolti qua e là, e sodomiti; sì, corrotti dal vizio di lussu-

La canzone di Colombano 156/21


ria, assecondando la natura o andandovi contro. Tutte queste
voci avevano taciuto la domenica in cui il vecchio vestito di
saio aveva chiesto al padre di Ippolito il permesso di portare
con sé il ragazzo.
«Verrà con me a Grenoble e là andrà in seminario, perché
unico tra i mille e mille giovani che ho incontrato lungo le stra-
de della mia predicazione ha saputo comprendere, lui povero
illetterato, il senso di parole che io ho rivolto a nobili e a figli di
ricchi mercanti».
Ippolito aveva sospettato l'inganno; non poteva credere che
altri della sua età, ricchi e istruiti, non sapessero rispondere ai
semplici quesiti del frate.
«Chi è il sapiente?» aveva chiesto.
Qualcuno aveva risposto Gaston Oddoux, che si diceva sa-
pesse scrivere il proprio nome. Altri dissero il Pepi dei Pellor-
ce, il venerabile canuto che sapeva curar terzane e febbri puer-
perali con impacchi di foglie. Quanto a lui invece, non avrebbe
aperto bocca se proprio non fosse stato interrogato diretta-
mente; chiamato, invece, guardò il vecchio negli occhi e gli dis-
se ciò che credeva volesse sentire:
«Il sapiente è quello che capisce Dio».
Folgorato sulla via dell'Oisans, il predicatore lo abbracciò,
parlò dello Spirito Santo Educatore e lo condusse a casa sua
per fare quella richiesta.
Il ragazzo sospettava dunque. Sospettò in silenzio e in silen-
zio, indifferente, lasciò i suoi al seguito di quell'uomo che gli
prometteva un futuro senza l'ossessione della fame e che forse
avrebbe abusato di lui non appena usciti dal villaggio, nella pi-
neta che sovrasta Venosc.
E invece il fraticello fece ciò aveva dichiarato, e molto di più;
fece di lui un dottore, lo fece diventare quello che era adesso.
E adesso cos'era? Un giovane che aveva assaporato i piaceri
del lusso e della signorilità, ma che nel fisico e nei gesti più
spontanei rivelava le sue origini. Robusto, alto quel tanto che
bastava per non apparire tarchiato, scuro di capelli e di carna-

22/156 Alessandro Perissinotto


gione; anche bello, ma inadatto ad indossare le fini vesti che
giungevano di Fiandra. Inadatto anche a fingere con se stesso
una lassitudine che non provava, che non poteva provare per
quelle misere cinque leghe.
Spronò il cavallo e in breve fu a Exilles, dove la valle si strin-
geva fin quasi a diventare gola e dove tutti, da tempi remoti,
avevano pensato di poter controllare il passaggio di quanti,
viaggiatori, pellegrini, eserciti, transitavano sulla strada in alpe
Cottia. Ciò che colpiva di quel luogo era l'oscurità grigia che
sempre vi regnava e che in quel momento, con le nubi che ta-
gliavano a metà le pendici strapiombanti del monte, appariva
ancor più apocalittica.
Dopo Exilles la strada penetrava in una foresta fitta che però
si dissolveva rapidamente in un vasto piano dove la Dora dise-
gnava le sue anse e dove l'industria degli uomini aveva creato i
coltivi più ricchi.
Ippolito non era mai salito dal Prevosto con notizie tanto
gravi ed era forse per quello che la Prevostura, sul poggio che
dominava il paese, gli parve più tetra e minacciosa che mai. Vi
giunse mentre cadevano le prime gocce di quella pioggia an-
nunciata fin dall'alba. Un famiglio si prese cura del suo cavallo
ed egli, varcata la grata, si introdusse nel labirinto di corridoi e,
alla luce delle torce, lo percorse fino alla sala delle udienze.
«Padre» disse il giudice inchinandosi davanti al suo signore.
Ogni volta che pronunciava quella parola, accompagnata dal
gesto di omaggio, si chiedeva perché ci si rivolgesse al più po-
tente feudatario del basso Delfinato nel modo in cui si appella
un semplice curato di una pieve di montagna. Giustizia di Cri-
sto, che non fa differenze tra i suoi ministri; e il Prevosto era
innanzitutto un ministro di Dio. Oppure ipocrisia della sua
Chiesa, che con abile inganno di parola eliminava nel nome la
patente disparità che esisteva nella sostanza. Ma quest'ultima
idea sfiorava solo fuggevolmente l'animo di Ippolito e comun-
que, in quel momento, non lo sfiorò affatto. Anzi, a mano a ma-
no che andava illustrando al prelato i casi occorsi, il suo cuore

La canzone di Colombano 156/23


si apriva e sentiva crescere una totale fiducia nel suo signore e
nella santa istituzione che lì rappresentava: sarebbe stato lui a
rivelargli la giusta via da seguire.
«Hai fatto bene» disse il Prevosto. «Hai fatto bene ad ordina-
re l'immediata sepoltura di quegli sventurati, ma domani li fa-
rai esumare e tumulare nel cimitero della Ramats: seppelli-
menti furtivi, fuori di terra consacrata accendono la fantasia
dei semplici e li inducono a immaginare trame misteriose là
dove c'è solo infausta azione di natura».
«E il rischio di contagio?» replicò Ippolito.
«Tu quei corpi li hai toccati, ed oggi sei qui con me e nei tuoi
occhi non si specchia alcun morbo. D'altra parte hai visto tu
stesso che non v'erano bubboni, né tracce di pestilenza. E da
quando la peste colpisce uomini isolati che da mesi non hanno
contatto con moltitudini? L'emanazione astrale che diffonde la
peste ha sempre risparmiato i romiti; e la Thullie, dove non
passano né eserciti né carovane, dove non passa nessuno, non
è forse simile a un romitaggio?»
«E allora?»
«E allora dirai al paese che è stata la segale cornuta ad ucci-
dere. Così faranno più attenzione ai loro raccolti e alle loro
piante».
«Ma non è stata la segale...»
«Mi hai detto di aver visto la loro farina, ma hai forse visto la
segale prima che la macina la pestasse? Potresti giurare
sull'assenza dei minuscoli speroni che infettano il buon seme?»
«No», rispose il giudice facendosi più risoluto «ma so che la
segale cornuta non uccide di colpo. Io ho visto gli ardenti, ho
visto la gente di Chambon dopo che, per fame, aveva divorato
anche il pane fatto con la segale malata. Non so padre se avete
mai assistito al delirio di un intero villaggio. Uomini e donne
con gli occhi sbarrati, immobili per ore e poi, in un istante, al
centro della via in preda alle convulsioni. Volti tumefatti, can-
crene e la morte che guarda e non arriva, che si diverte a quello
spettacolo, che ghermisce le prede più facili, vecchi e bambini,

24/156 Alessandro Perissinotto


e attende le altre con la pazienza di un uccellatore. No, non è
quella morte che ha colpito alla Thullie».
«Può darsi, Ippolito, può darsi, ma cosa credi che accadreb-
be se la gente di Chiomonte, di Cels e della Ramats non riceves-
se dal suo giudice una risposta soddisfacente. Si comincerebbe
a dire che le conche dei Quattro Denti sono luoghi del demonio,
che i pastori vi muoiono misteriosamente. Nessuno vorrebbe
più curare i prati, nessuno porterebbe le bestie alla pastura;
proprio adesso che Colombano Romean, sia ringraziato Iddio
per la sua salvezza, sta per concludere il canale che darà acqua
e ricchezza ai pascoli dell'indiritto. Sarebbe una catastrofe per
tutti, fame e povertà».
E chissà quante decime in meno, pensò Ippolito nuovamente
critico.
«Vorreste dunque lasciare i vostri vassalli tra le grinfie di
Satana?»
«Ippolito, Ippolito, a cosa sono valsi i tuoi studi? cosa ne è di
quella intelligenza che aveva colpito il segretario del Consiglio
Delfinale, tanto da inviarti qui con la migliore delle presenta-
zioni? Il Maligno mette in atto i suoi piani ovunque. Ricordi co-
sa rispose Satana a Dio quando questi gli chiese dove fosse sta-
to? "Ho vagabondato sulla terra, tutta l'ho girata", questo disse
il Male. Egli non predilige né la Thullie, né altri luoghi; egli ama
il peccato e dove c'è l'uno, lì troverai anche l'altro. Che tolgano
superbia, lussuria e avidità dai loro cuori e che vadano a lavo-
rare lieti le terre del Signore».
Il volto del giovane giudice, già d'abitudine rosso negli zi-
gomi, s'era tutto imporporato di vergogna e di rabbia contro se
stesso, contro il montanaro rozzo e ignorante che c'era ancora
in lui.
La sua genuflessione di commiato fu più profonda di quella
che aveva fatto prima del colloquio, più profonda di quante
avesse mai fatto in passato. Uscì dalla Prevostura e, sebbene
avesse smesso di piovere, il cielo gli parve ancora più cupo.
Il tragitto di ritorno volò via in un turbine di pensieri e di

La canzone di Colombano 156/25


recriminazioni; quasi senza accorgersene, Ippolito si trovò, ben
prima del tramonto, in Chiomonte e decise di ricoverare lì le
sue amarezze nella casa di Margherita.
Il cavallo legato fuori, nascosto alla vista di chi passava in
strada, il volto sciacquato alla fontana, il giudice entrò senza
bussare.
Margherita era in piedi, accanto al tavolo su cui era seduto il
figlio, lo stava spidocchiando.
«Ha quasi otto anni e ancora non sa togliersele da solo que-
ste bestiacce».
«Sei sempre lì che ti lamenti, Margherita, non sai fare al-
tro?».
«E cosa può fare una povera vedova, se non lamentarsi,
spaccarsi la schiena, le reni e lamentarsi. Una vedova con un
figlio che non ha mai visto suo padre. Se quegli spagnoli non
m'avessero ucciso il marito non mi lamenterei mica...»
«Non erano spagnoli, erano soldati del re di Francia, erano
come noi».
«E tu cosa ne sai di chi erano, qui non c'eri mica tu. Chissà
dov'eri allora».
«Lo so perché la storia me l'hai già raccontata mille volte e
perché se Tommaso ha otto anni, o è figlio di un mulattiere di
passaggio, oppure tuo marito è morto nel venticinque e quelli
erano i soldati del re Francesco».
«Chiunque fossero avrebbero dovuto impiccarli. L'hanno in-
filzato solo perché difendeva il suo».
«Aveva cercato di proteggere te?».
«No, difendeva il maiale. Volevano portarcelo via, capisci? Il
maiale che avevamo ingrassato da due anni».
«Erano soldati, ne avevano il diritto, e poi la comunità di
Oulx è sempre stata lautamente ricompensata per l'ospitazione
delle truppe; la fiera di Oulx, una fiera franca di sei giorni, è
stata una concessione del re Carlo, e il re Francesco l'ha ricon-
fermata».
«Io non ci sono mai andata a quella fiera lì. La fiera serve per

26/156 Alessandro Perissinotto


chi ha qualcosa da vendere e soldi per comprare. A me bastava
averci mio marito, ma me l'hanno ammazzato; tutti me l'hanno
ammazzato: soldati, re, nobili...»
Ippolito si irrigidì, come per ribadire che egli era pur sem-
pre un giudice e che certi discorsi non potevano essere tollera-
ti, ma lei, seduta sul tavolo accanto al figlio, aveva già sciolto i
lacci della camicia e aveva aperto le vesti sul seno.
Malgrado si avviasse già verso i venticinque anni, Margheri-
ta aveva conservato una bellezza appetitosa di cui forse nessu-
no, all'infuori di Ippolito e del defunto marito, aveva goduto. La
vedovanza e gli stenti non le avevano tolto la dignità, ma,
quando il giovane giudice le aveva mostrato il suo favore, non
si era ritratta e, per assicurarselo il più a lungo possibile, aveva
creato per lui lussuriose tentazioni.
Margherita pose davanti a Tommaso una scodella di latte,
poi si avvicinò a Ippolito voltandogli la schiena e a lui spettò,
come d'abitudine, il compito di allargarle l'apertura della cami-
cia fin oltre le spalle per poi farla scivolare sul suo corpo fino a
denudarla completamente.
Se gli avessero chiesto un motivo, uno solo, per amare l'e-
state, egli avrebbe parlato di quei fianchi nudi e di quelle nati-
che bianche e lisce. D'inverno, il sesso di Margherita era per lui
un mistero umido al fondo di un'interminabile cortina di stoffe
che egli stesso le aveva regalato, ma con il caldo diventava un
frutto dolce e accessibile, da guardare e da accarezzare prima
del congiungimento.
Perché mai era scritto che la donna è più amara di morte?
Quello stesso saggio aveva infinitamente più ragione quando
invitava a goder la vita con la propria donna. E, se Margherita
non poteva a pieno esser la sua donna, ché la tonsura e i voti
pronunciati gli impedivano d'averne una, nondimeno era bello
accogliere quell'invito, almeno finché sopravviveva il deside-
rio.
Anche Ippolito si spogliò completamente e si sdraiò sul pa-
gliericcio.

La canzone di Colombano 156/27


Durante i primi incontri con Margherita, egli aveva provato
un po' di soggezione per gli occhi grandi di Tommaso, che, pur
senza scrutare, si posavano di tanto in tanto, forse con indiffe-
renza sui due corpi uniti. Ippolito era andato indietro con la
memoria, cercando l'immagine dei suoi genitori nudi e abbrac-
ciati, ma non l'aveva trovata. Ricordava i versi sordi dei loro
accoppiamenti nella stalla dove, per forza di necessità, si svol-
geva la vita serale di tutta la famiglia; ricordava sua madre di-
stesa e suo padre sopra di lei, le brache slacciate, ma non un
lembo di pelle esposto all'aria. Chissà se era per pudore? Più
probabilmente era solo per il freddo, per un'antica abitudine a
non scoprirsi mai, neppure con il caldo. E poi, nel breve perio-
do estivo, c'erano le messi, i grandi lavori nei prati; la sera, i
suoi si gettavano esausti sullo strame, incapaci di qualsiasi ge-
sto.
Dopo qualche tempo però aveva fatto l'abitudine anche al
bambino e delle impressioni confuse di prima non gli rimaneva
che un senso di annoiata tristezza all'idea che suo padre non
aveva mai conosciuto il piacere intenso di accarezzare l'intimi-
tà della sua donna e di farsi sfiorare il petto dai seni di lei.
Anche quel giorno, mentre giaceva supino e Margherita era
su di lui a cavalcioni con la sua sfrontata e seducente nudità,
Ippolito ebbe un pensiero di commiserazione per suo padre e
per tutti i contadini come lui: anche le vere e profonde gioie
dell'accoppiamento erano gioie da ricchi, da gente che poteva
permettersi il lusso dell'alcova in un pomeriggio d'estate senza
dover scontare le gravezze d'una giornata nei campi. Il giudice
assaporava ogni attimo di quei lunghi amplessi, e dopo si con-
cedeva il piacere, assai raro nelle povere stamberghe di mon-
tagna, di oziare immobile accanto al corpo di lei.
Fu proprio durante quel riposo che prolungava indefinita-
mente il godimento precedente, che Ippolito cominciò ad av-
vertire il rumore.
Da prima appena qualche voce squillante, come da una festa
lontana.

28/156 Alessandro Perissinotto


Poi un tramestio più forte, come di mercato.
Infine urla, passi di corsa, imprecazioni, bestemmie, richie-
ste di aiuto, come di gente in fuga dopo un incendio o una va-
langa.
Il giudice si alzò di scatto e si rivestì, riprendendo in un at-
timo coscienza della propria autorità e del proprio dovere.
Fuori, nel viottolo, sovrapponendo le loro orme a quelle la-
sciate nella mota da decine di piedi, coloro che si erano attar-
dati correvano verso il luogo dove l'orda chiassava ancora. Ip-
polito si unì a loro e, quando sbucò sul sagrato della parroc-
chiale, gli sembrò di rivivere un episodio della sua adolescenza.
Era accaduto a Grenoble; assieme ad altri chierici era uscito
dalla taverna della Table Ronde ed aveva visto un gatto addos-
sato al muro e circondato da quattro cani randagi. Il gatto era
senza scampo e inarcare il dorso sollevando il pelo non gli ser-
viva a niente; se era ancora in vita era solo perché i cani si stu-
diavano l'un l'altro: ognuno di loro sapeva che quello che si
fosse, per primo, avventato sulla preda avrebbe avuto tutti gli
altri addosso. Attendevano, abbaiavano, si avvicinavano. Ippo-
lito aveva scommesso con i compagni che il primo ad affondare
le fauci nelle carni del gatto sarebbe stato un bracco dal pelo
scuro; invece il più audace fu un ignobile bastardo: non aveva
ancora finito di azzannare la preda al collo, che già era diventa-
to egli stesso preda degli altri. Al termine della breve battaglia,
nel cerchio dei cani sanguinanti, del gatto non rimase che qual-
che brandello.
Non meno famelici e feroci dei cani, questa volta gli asse-
dianti erano uomini e donne di Chiomonte e dei villaggi vicini e
al posto del gatto, stretto contro il muro della chiesa, Colomba-
no.
«Assassino! Brigante! Muori! Alla forca!...». La folla esibiva il
suo solito repertorio.
Colombano era riuscito ad afferrare l'anello di salvezza mu-
rato tra le pietre della parrocchiale ed ora lo stringeva con en-
trambe le mani, guardandosi intorno senza capire. La massa

La canzone di Colombano 156/29


urlante si era arrestata a qualche passo da lui, i più scalmanati
in prima fila con forche e bastoni: chi tra loro avrebbe avuto il
coraggio di violare il sacro diritto d'asilo che l'anello dava a chi
lo teneva tra le dita? Probabilmente nessuno, ciononostante lo
spazio vuoto di fronte a Romean si stava riducendo a poco a
poco, mentre la folla diveniva sempre più compatta. Ippolito
cominciò a fenderla attraversando la piazza. All'inizio gli bastò
procedere con decisione, ma, man mano che avanzava, l'intrigo
di corpi si faceva sempre più difficile da lacerare; doveva pie-
garsi, usare i gomiti, mettersi di fianco, sopportare spinte nella
schiena e ripararsi stomaco e pudende da colpi più o meno in-
volontari. In ultimo, ormai a pochi passi dall'oggetto dell'ira
collettiva, fu costretto a spostare di peso le persone che gli si
paravano davanti. Quando riuscì a porre il suo corpo a prote-
zione di quello di Colombano il margine tra loro e i villani infe-
rociti era di pochi piedi e decise di aggiungervi la distanza che
crea un pugnale.
«Cosa ha fatto quest'uomo?» chiese alla schiera degli scal-
manati.
«Ha 'massà quattro brave persone e le loro bestie» rispose
uno.
«Ha sbudellato Isoardo e la sua famiglia» completò un altro.
«Li ha strangolati, quel cane...»
«... dopo che loro ci avevano sempre dato da mangiare».
«Chi vi ha detto di Isoardo?»
«Sono stati i champiers».
Idioti. Ma perché tra le guardie campestri non si riesce a
trovare qualcuno che non ciarli come una donna al lavatoio?
«E chi accusa quest'uomo?»
Il silenzio si diffuse come un'onda dalla chiesa verso le
estremità della piazza.
Chi è stato il primo a puntare il dito? Chi ci ha detto che è
stato il Romean? Io l'ho sentito. A me l'hanno detto. Lo urlava-
no tutti.
Questioni mute nella testa della gente. Muta anche la rispo-

30/156 Alessandro Perissinotto


sta, tutta raccolta negli sguardi di quanti si volsero verso Folco
Guy, il fornaio, e gli fecero ala.
Se il carattere dell'accusatore fosse stato solo d'un soffio
men saldo di quello di Folco, egli avrebbe probabilmente vacil-
lato in quel vuoto di spazio e di suoni capace di spegnere ogni
baldanza; invece, se smarrimento ci fu, questo non riuscì a sali-
re né agli occhi, né alle gote del mugnaio, né tanto meno alla
sua voce, che ferma rilanciò:
«È un assassino, bisogna impiccarlo!».
La rabbia si sostiene con la rabbia, la pazzia con la pazzia. Se
Folco avesse commesso l'imprudenza di spiegare le proprie
ragioni, la folla, sgonfiata della sua ira, sarebbe stata come un
otre vuoto, come una vescica lacerata. E invece quelle parole,
che non cercavano se non in se stesse la loro giustificazione,
avevano nuovamente alimentato l'incendio.
«Chi osa toccare un uomo al quale la Santa Chiesa offre asilo,
costui commette sacrilegio e il sacrilegio non resta impunito:
un secolo fa, il Prevosto Aimerico d'Arces sfidò gli editti del suo
signore il Delfino pur di consegnare personalmente al boia
quattro donne sacrileghe. Chi vuole oggi mettere alla prova la
pazienza del nostro buon Prevosto e la mia, quella del suo giu-
dice?»
Le forche cessarono di agitarsi, i bastoni di mulinare. Ippoli-
to proseguì:
«In capo ad una settimana, Colombano Romean verrà pro-
cessato: chiunque abbia accuse contro di lui le presenterà al
notaio Chalvet e questi le esporrà al mio greffier, che le trascri-
verà per l'istruzione del processo. Fino a quel momento Ro-
mean sarà custodito nel castello, e ha da temere per la propria
vita chi cercherà, per compiacerlo o per nuocergli, di trarlo da
lì».
Ippolito era stato convincente, la gente trascorse lungo i vi-
coli, scemando rapidamente e svuotando il sagrato dove rima-
sero, soli, il giudice e il suo amico imputato.
Si disperse così quella folla che era cresciuta, nel numero e

La canzone di Colombano 156/31


nell'eccitazione, lungo il cammino che dai Quattro Denti con-
duceva al paese.
Le voci sulla morte di Isoardo e dei suoi avevano cominciato
a diffondersi nella tarda mattinata, sulla scia dei racconti, subi-
to fantasiosi, dei due champiers incaricati della sepoltura. La
parola «peste» aveva risuonato qua e là, mescolata a «brigan-
ti», «diavoli», «streghe», «poveretti», «oddio»; poi, non si sa da
dove, era cominciato ad affiorare un nome, Colombano, e aveva
preso il sopravvento sopra tutte le altre ipotesi. Ai rintocchi di
Sesta ormai non si diceva altro se non: «Colombano ha fatto
fuori Isoardo e la sua famiglia». Sul perché e sul come i pareri
erano meno concordi, ma di questo non si curarono quelli che,
costituitisi in drappello, erano partiti con passo di corsa per la
galleria della Thullie, armati nel solo modo che la convenzione
con il Delfino concedeva ai membri della comunità, cioè con i
loro attrezzi di lavoro. C'era il falegname Aimerico, Martino il
fabbro, Costante del mulino, Pietro di Giovanni, Folco Guy...
Erano andati dritti allo scavo, neppure sfiorati, al contrario
di Ippolito il giorno precedente, dal pensiero che lo scalpellino
fosse morto o lontano. E infatti, come aveva detto al giudice,
Romean era tornato al lavoro, al fondo del suo oscuro abisso.
Con astuzia da strateghi si erano appostati all'ingresso della
galleria e avevano bloccato il meccanismo del mantice che vi
immetteva l'aria: quello che era caduto nelle loro mani era un
Colombano cianotico e attonito, incapace di comprendere, e
non era il solo, ciò che stava accadendo. Gli avevano legato le
mani dietro la schiena, ché legarlo tutto e portarlo giù di peso
era mestiere troppo duro, ed avevano iniziato il cammino ver-
so Chiomonte. A mano a mano che passavano per borgate e per
alpeggi, la schiera dietro al prigioniero si infittiva.
«Chi è?»
«È 'l Colomban».
«Perché...»
«... sassiné Isoard...»
«Isoard de la Thullie?»

32/156 Alessandro Perissinotto


«... e Fleurette, e i moutons, e tuti...»
«... estrangles...»
«Anche le pecore strangolate?»
«Ma no ha 'doprà il piccone».
Ad ogni alpe, ad ogni grangia era lo stesso. «Chi è?»
«È 'l Colomban».
«Perché...»
Alla Ramats si era raccolta così tanta gente che Colombano
aveva creduto che stessero per fargli la festa, ma i giustizieri
della prima ora avevano ribadito che il Romean andava conse-
gnato ai due consoli i quali lo avrebbero mandato di fronte al
tribunale del Delfino senza passare per il Prevosto.
Il corteo intanto procedeva, aperto sempre dal prigioniero,
come se già fosse alla gogna. Ma Colombano, che nel tragitto
aveva scacciato un po' di nebbia dalla sua mente, pensava a
come volgere a proprio vantaggio una tale posizione di testa. Il
suo piano, elaborato nell'ultima parte della discesa, aveva tro-
vato occasione favorevole al suo compimento al termine della
successiva salita che dalla Dora conduceva in paese e, nel mo-
mento stesso in cui il giudice Ippolito s'era disposto al riposo
dopo aver giaciuto con la sua vedova, Colombano aveva dato
uno strappo alla legatura che andava allentando da tempo ed
era corso in avanti con un solo obiettivo: l'anello di salvezza. E
ci era arrivato; gli occhi quasi ciechi per lo sforzo e per il sudo-
re che colava dalla fronte, lo stomaco stretto da una mano invi-
sibile, la lingua ispessita quasi a soffocarlo, ma ci era arrivato, e
gli altri avevano dovuto fermarsi.

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III Ritornello

'l bun Culumban (2 volte)


a porta l'éigua dal mont al pian
'l bun Culumban (2 volte)
3
a fura la pe(y)ra cun la man.

In poche ore, ciò che il giudice Ippolito credeva di aver ap-


preso, in quei tre anni, sulle genti sottoposte alla sua giurisdi-
zione si rivelò fumo, nient'altro che fumo. Equilibri, legami,
passioni, odi, amicizie, tutto era stato stravolto dai quattro
morti della Thullie, ma ancor più dagli addebiti a Colombano.
Non aveva mai pensato che Romean potesse avere tanti nemici.
Il notaio e il greffier avevano lavorato senza sosta per giorni, il
primo per mettere su carta le accuse che i paesani gli andavano
dettando, il secondo per ordinarle secondo l'oggetto e la gravi-
tà. All'imputazione originaria di omicidio si era aggiunta una
congerie di colpe, trasgressioni, violazioni, dei regolamenti
comunali, degli editti delfinali, delle regole della Prevostura, di
convenzioni di cui nessuno aveva più memoria. Tutto a un trat-
to si scopriva che Colombano aveva ucciso, ferito cum magna
sanguinis effusio, rubato, scavato canali non autorizzati su ter-
rain daultruy, deviato acqua di molino, sparpagliato fieni ricolti
in cuchons, gerbiers, gerbes, cuches, bouliers, senza contare le

3 Il buon Colombano | porta l'acqua dal monte al piano | Il buon Colomba-


no | fora la pietra (o il canale) | con la sua mano

34/156 Alessandro Perissinotto


innumeri volte che aveva desrobé bois daultruy, o couppé et
rompu arbres daultruy, o era penetrato in hortz et jardins daul-
truy pour y prendre quelques fruictz.
Mai, per istruire un processo in paese, era occorsa più di
qualche ora; d'altro canto, gli ufficiali della comunità non ave-
vano che compiti di bassa giustizia ed erano solitamente di
modi sbrigativi: mandavano i campieri a dare verbalmente av-
viso agli imputati, i quali, in pochi minuti, sapevano quale am-
menda avrebbero pagato alle casse comunali e alla Prevostura.
Ma quella volta sarebbe stato diverso: il giudizio lo avrebbe
emesso il giudice del Prevosto, sottraendolo tanto alla bassa
corte, quanto al Consiglio Delfinale, competente per i crimini
più efferati.
Subito dopo il linciaggio evitato, Ippolito aveva inviato un
messaggero al Prevosto per renderlo edotto sui nuovi fatti e
sulla necessità di un processo e la risposta era arrivata con lo
stesso messaggero.

Figliolo,
malgrado la tua giovane età, l'intelligenza viva e
la sapienza che hanno fatto del povero montanaro un
giudice ti accompagneranno in questa tua prima
prova di amministratore dell'imperfetta giustizia del
mondo. Non sofferire in alcun modo che il giudizio su
Colombano Romean venga avocato ad altro Tribuna-
le se non a quello da te presieduto, perché tu solo po-
trai statuire con limpida coscienza l'innocenza del
nostro buon scalpellino. Tu solo sai quanto la sua
opera sia una grazia per il paese e per tutti noi: non
possiamo concedere che le calunnie arrestino il solo
uomo capace di portare a termine un tale lavoro, né
possiamo lasciare che il male si burli della probità.
Coloro che accusano Romean sarebbero meritevoli
della ruota e della tenaglia, ma la Carta concessa dal
nostro signore il Delfino ci obbliga a riconoscere ai
La canzone di Colombano 156/35
nostri vassalli le stesse guarentigie giurisdizionali di
cui noi godiamo: dovremmo farli giudicare dai loro
pari, ché il loro reato non potrebbe esser rimandato
ad altra corte, ed il tribunale dei villani li mandereb-
be certissimamente liberi. Con forza rinnovata dì a
tutti che della morte d'Isoardo non v'è altra causa
all'infuori della segale cornuta e che Colombano non
s'è macchiato d'alcun crimine: questa sia la tua sen-
tenza.
Ti protegga il Nostro Signore Iddio e ti infonda la
sua forza per sbaragliare le schiere dei Suoi nemici.

Un giudizio già deciso, una linea di difesa già tracciata e, per


Ippolito, un doppio ruolo, di giudice e di difensore occulto. Ma
ora si trattava di mandare Colombano assolto non da una, ma
da cento colpe. Inutile chiedere ulteriormente lumi al Prevosto;
cosa si doveva fare appariva chiaro da quel preciso messaggio
di risposta, come si dovesse fare toccava a Ippolito stabilirlo ed
Ippolito decise che tutte le accuse, ad esclusione di quella di
omicidio, sarebbero state dichiarate inammissibili sulla base di
ogni possibile documento contenuto nell'archivio comunale.
Fu così che all'alba del quarto giorno successivo alla scoper-
ta dei cadaveri, Ippolito convocò, alla sua presenza, sulla piazza
i due sindaci di Chiomonte, il curato e il fabbro, il quale si pre-
sentò accompagnato dal ragazzo di bottega. Il piccolo drappel-
lo così composto sì diresse verso il campanile la cui cima aguz-
za e snella all'apparenza a dispetto della mole, si stagliava con-
tro un cielo che appena stava mutando il blu scuro della notte
con l'azzurro d'una giornata che s'annunciava serena. Alla base
della torre campanaria si apriva una porta di dimensioni esi-
gue, ma d'una tale solidità che l'ariete degli antichi assedi non
sarebbe valso ad abbatterla. Per disserrarla i sindaci aprirono
una cassa contenuta in una nicchia ricavata nel perimetro
dell'abside e il fabbro, aiutato dal suo giovane, ne prelevò una
36/156 Alessandro Perissinotto
chiave in ferro tanto pesante da poter essere sostenuta a mala-
pena dai due uomini e a stento girata nella toppa per rimuove-
re con la sua mappa gli innumeri chiavistelli.
Assolto a questo uffizio, il fabbro e il priore si allontanarono,
tornando ognuno alle proprie occupazioni, e Leonardo Beau-
dia, uno dei sindaci. fece per seguirli.
«Leonardo», lo richiamò il giudice, «occorre ancora dischiu-
dere gli armadi».
Benché non avesse mai avuto motivo d'accedere all'archivio,
Ippolito sapeva che i documenti più importanti erano racchiusi
entro stipi foderati di lamina metallica per proteggere il patri-
monio diplomatico dai tarli, e quegli stipi erano muniti d'una
doppia serratura che solo i due sindaci insieme, ognuno con la
propria chiave, avrebbero potuto aprire. A volere così, secondo
quanto gli avevano spiegato, era stato, due secoli prima, l'illu-
minato Prevosto Fioccardo Berard, protettore delle arti e della
cultura, che aveva chiamato a sé bibliotecari dalle abbazie più
prestigiose del marchesato di Saluzzo. E proprio a Fioccardo,
quale causa remota, furono indirizzate le silenziose impreca-
zioni che affiorarono alla mente di Ippolito appena vide la bru-
sca reazione di Beaudia.
«Non è uso che il rappresentante del Prevosto acceda ai do-
cumenti più riservati della comunità, non si può contravvenire
ai bonos usus, consuetudines, usagia et libertates ratificati con la
Transatione del 1418».
Si era studiato la risposta a memoria quel bifolco, imbeccato
chissà da quale notaio. Tenaglia e ruota anche per te. Ma dove,
dov'erano í tempi in cui Philippe de Remi de Beaumanoir pote-
va scrivere, forse con un velo di critica, che il sire poteva priva-
re i villani d'ogni loro bene e sprofondarli nelle segrete a torto
o a ragione senza risponderne ad alcuno? L'ira del giudice
montava. Ma perché non si poteva più dire come un tempo
«entre toi seìgneur, et entre toi, vilain, il n'y a juge fors Dieu».
Oggi bisognava rispettare i loro diritti, garantire le loro libertà:
la rovina sarebbe giunta presto.

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Tutto questo Ippolito lo pensò silenziosamente, stringendo i
pugni, ma senza dare altro segno della sua rabbia: il fine ulti-
mo, la liberazione in tutta sicurezza di Colombano, veniva pri-
ma del suo orgoglio. Ci sarebbe stato un momento anche per
quello.
Salutò Leonardo e si congedò anche dall'altro console e fu
sorpreso di cogliere nel suo sguardo una sorta di smarrimento,
come se il comportamento dell'altro lo avesse preso alla
sprovvista ed ora ricercasse con gli occhi un perdono e una
spiegazione. Tra la gente dunque, quell'oscura vicenda aveva
scavato valli profondi, e qualcuno, che nella decisione di Ippoli-
to di avocare a sé il processo aveva letto qualche preciso inte-
resse della Prevostura, ora cercava di sbarrargli la strada.
Rimasto solo, il giudice varcò la porticina e la richiuse subito
dietro a sé. Nella stanza a volta del campanile, non filtrava
dall'esterno alcuna luce. Al chiarore della lampada ad olio, si
vedevano gli scaffali colmi di carte legate in pacchi e le pietre
del soffitto, grandi ai lati e minuscole al centro, nel sottile gioco
di incastri che reggeva la volta. Sulla parete di fondo gli armadi
più protetti e, sparse per il pavimento, trappole per i topi, i
peggiori nemici dei manoscritti. In tutto il Brianzonese, a
Prazlat come a Nevache, a Monestièr come a Vallouise, il Co-
mune custodiva in quel modo, con gli spessi muri del campani-
le come riparo dagli incendi, il proprio tesoro di atti, conven-
zioni, transazioni, statuti e mappe, in una parola, il proprio pa-
trimonio di libertà e di indipendenza dal signore.
Ippolito iniziò la ricerca dei documenti che meglio si adatta-
vano a controbattere le accuse riguardanti le acque e le pro-
prietà; di altre carte, certamente più riservate e protette, si sa-
rebbe occupato dopo.
Procedeva scorrendo rapidamente le pagine e leggendo a
mezza voce l'inizio dei vari articoli, come se questo lo facilitas-
se nel riconoscimento di una certa pertinenza alla sua causa.
«... senza consenso, laudemio o diritto alcuno può ognuno su
propri beni costituire rendite et censi...». Non faceva al caso

38/156 Alessandro Perissinotto


suo.
«Item quod dicti homines de Chomontio possunt eligere et
ponere champerios seu custodes...».
Gran bel diritto quello di poter eleggere dei campari della
forza di quegli idioti che erano stati incaricati della sepoltura.
Ancora niente di rilevante.
E se almeno fossero stati ben leggibili.
«Pactum ex... tit quod possuint facere be... lia et acque-
ductum, per rem seu res domini et alt... us cuiscumque per-
son...».
Muffe e macchie d'umidità cancellavano alcune lettere e la
carta di quel documento, redatto nell'anno domini MCCCXXXVI,
aveva il colore e la fragilità dei petali ormai morti della calta
palustre che cresceva nelle anse della Dora, ma quello era uno
degli atti da non trascurare e Ippolito lo mise in un canto: altri
attendevano il suo vaglio.
«... e tutti possono prendere dell'acqua detta Jaffoir» e chissà
quale magica acqua era quella, mai ne aveva sentito parlare
«ma debbeno rimetterla in luogo a notte, per l'ora di Compie-
ta».
Utile? inutile?
«Item ont ordonné que quiconque voulant rompre pierres et
faire lauses en poissession daultruy jl le puisse fere et luy soit
loysible de fere jmpuniement... le dommage a celluy a quy pour
jl sera donné a tauxe de probes...».
Bene, nessuno aveva ancora pensato di accusare Co-
lombano d'aver rotto pietre in terreno privato (ché mai sareb-
be balzato loro in mente di formulare accusa veridica), né d'a-
ver fatto lastre di losa d'ardesia, ma se qualcuno lo avesse fat-
to, ora egli sapeva che la questione poteva essere composta
con un'ammenda stabilita dai probi viri.
«Quiconque en Chaumont, homme ou femme, peut fere
marriage sans auctorizacion du seigneur...».
Dimenticarsi della tonsura e sposare Margherita? Mai. Una
donna più giovane, forse.

La canzone di Colombano 156/39


«I vassalli sono esentati da ogni tassa od imposta per qual-
siasi causa eccettuata la somma di sessanta soldi di moneta
censuale da pagarsi per la generalità degli abitanti e per ogni
anno nella festa di S. Andrea...».
Questa la ricordavano tutti, specie nella prima parte.
Ippolito esaminò ogni sorta d'atti e di regolamenti annotan-
do, di tanto in tanto, qualche informazione sul suo calepino.
Sentì batter Sesta, sentì batter Nona, quando il campanile diede
i rintocchi del Vespro egli aveva in mano tutte le carte per ri-
fiutare tutti i generici addebiti a Colombano. Tra tanti docu-
menti però, nessuno riguardava direttamente il Romean e ciò
lo sorprese, ché, al più, sarebbero stati contratti privati, non
così segreti quindi da venir occultati. Né Colombano poteva es-
sere tanto ingenuo da intraprendere un'opera come la sua sen-
za averne legalmente stabiliti i termini. Dov'erano dunque tutti
gli scritti che concernevano l'acquedotto della Thullie?
Riprese una ricerca meticolosa tra le pagine che prima ave-
va scartato.
Era ormai suonata da un po' Compieta quando il giudice si
convinse che, se qualcosa c'era, doveva trovarsi per forza in
uno dei due armadi che Leonardo Beaudia non aveva voluto
disserrargli. Avvicinò il lume agli stipi ed esplorò palmo a pal-
mo. Le ante erano coperte di polvere, segno che da tempo non
si redigevano atti importanti, ma proprio nel sudiciume di una
di esse, in alto, si stagliava l'impronta di una mano: qualcuno
aveva tentato di forzarla, giacché sulle due serrature lo strato
di polvere era uniforme. Un tentativo maldestro e probabil-
mente inefficace, ma che indicava che lì andavano concentrati
gli sforzi.
Ippolito guardò la serratura. Era vecchia, rudimentale: in al-
tre terre del Delfino, dove più forte si faceva sentire l'influenza
dei maestri artigiani di Ginevra, avrebbero riso di congegni
tanto semplici, ma lì, ai margini estremi delle possessioni che
un tempo erano state dei conti d'Albon, quello era il meglio che
sapessero fare, almeno nel campo dei piccoli meccanismi. La

40/156 Alessandro Perissinotto


chiusura non era altro che un salterello, un'astina di ferro im-
perniata sull'anta destra che, con un mezzo giro d'una chiave
lunga e sagomata all'uopo, si alzava fino a liberarla dal gancio
collocato entro l'anta sinistra. Per aprire le due serrature sa-
rebbe dunque bastato un semplice uncino, ma sottile, molto
sottile, perché se il serrurier non s'era molto ingegnato nel
progettare il dispositivo, molto s'era applicato nel ridurre il
gioco delle portine rispetto al mobile.
Un uncino, dove?
Si guardò intorno, trovarlo nella camera dell'archivio sareb-
be stato un vero miracolo. Infatti non lo trovò.
Uscì, era notte; notte vera, senza luna, con la lampada che
creava una sfera luminosa attorno a lui e più in là il nulla. Cer-
cò lungo il perimetro del campanile, nel caso la Fortuna avesse
deciso di disseminare il prato lì attorno di lamine metalliche, di
chiodi lunghi ed esili, di giunchi. La Fortuna era altrove. Sapeva
che in quel suo cercare non v'era nulla di logico, ma non ristet-
te dal guardare ancora nel campanile. La porta d'accesso alla
torre si apriva sopra la camera a volta e vi si giungeva attra-
verso alcuni scalini di pietra; essa non doveva essere chiusa a
chiave, poiché chiunque avrebbe potuto aver necessità di suo-
nare le campane per dare l'allarme: incendi, briganti, soldati,
frane, inondazioni... All'interno, il chiarore fioco del lume non
rivelò nulla di utile. Ippolito salì i primi gradini della ripida sca-
la in legno che, con una successione di rampe e di ballatoi, con-
duceva alla cella campanaria. Il rumore delle tavole sotto i suoi
piedi gli parve strano; ad ogni passo sentiva una sorta di scric-
chiolio moltiplicato. Pensò all'eco, si fermò, diede un colpo di
tosse, ma quello non risuonò. Continuò l'ascesa e ancora udì
sotto di sé e altrove, più in alto, il gemito dello scalino calpesta-
to. Afferrò lo stiletto e lo sbatté contro il muro; si diffuse un
suono squillante, ma niente eco. Solo la scala produceva
quell'effetto: qualcuno, sulle rampe superiori, stava proceden-
do al suo stesso ritmo per dissimulare la sua presenza. Si fer-
mò di nuovo, poi riprese bruscamente a salire; l'altro rimase

La canzone di Colombano 156/41


disorientato e, abbandonata ogni cautela, iniziò una fuga pre-
cipitosa: l'inseguimento era cominciato.
Al primo ballatoio il giudice lasciò la lampada per essere più
libero. I due divoravano i gradini di corsa; con i piedi, con le
mani, rampe, ballatoi, rampe, ballatoi, buio, paura di cadere,
rampe, ballatoi, scivoloni, dolore, fatica, scalini, rampe, fiato
grosso, buio, vento nelle feritoie, buio, poi un cigolio, un colpo
secco, un clangore: una porta, quella che comunicava con la
chiesa, aveva inghiottito il fuggitivo ed ora ne proteggeva la ri-
tirata, chiusa com'era dal chiavistello.
Ippolito tornò sui propri passi, indeciso tra lo sconforto e la
soddisfazione. Certo, qualcuno lo spiava, forse attentava alla
sua vita, e quel qualcuno, Leonardo maledetto, gli era scappato,
ma significava che la scelta di cercare nell'archivio era stata
quella giusta.
Tutto quel subbuglio aveva scacciato in lui il senso di torpo-
re che, prima, aveva rischiato di abbatterlo. Si infilò nuovamen-
te nella camera a volta, deciso ad aprire, con qualsiasi mezzo,
lo stipo dei segreti.
Ci sarebbe voluto Bertrand de la Tour du Puy. Come dimen-
ticare la maestria di quel giovane nobile e ribaldo che in una
sera come quella aveva scassinato con lui e con gli altri clercs il
forziere dell'Università di Grenoble. Nessuno, tranne forse Ip-
polito, lo aveva fatto per i denari; era stato per imitare un altro
chierico, il signore di tutti i clercs, quel François detto Villon,
che s'era guadagnato la condanna a morte e il bando in perpe-
tuo per aver svaligiato il Collegio di Navarra. Ma il tesoro della
povera Università delfinale era ben più scarso, o forse solo oc-
cultato in altro loco: il bottino non bastò che per pagare una
bevuta alla Table Ronde e alla scoperta del furto non seguirono
né condanne, né clamore, giacché le nobili famiglie degli scolari
ripagarono con generosità l'Università in cambio della sua di-
screzione. Come avrebbe fatto Bertrand?
Come ispirato dal ricordo dell'amico, il giudice trasse un filo
di lana grezza dalla sua veste e lo annodò ad una estremità

42/156 Alessandro Perissinotto


formando un anello. Il filo si inseriva perfettamente nella fen-
ditura tra l'anta e il corpo del mobile, ma da qui ad agganciare
l'astina del salterello ce ne passava ancora. Manovrato alla cie-
ca, l'anello si chiudeva, si piegava, sfiorava il proprio obiettivo
e lo rifuggiva; occorreva dargli rigidità.
Istinto di ladro, forza di necessità o ispirazione momentanea
che fosse, Ippolito ebbe l'idea giusta. Prese una candela di quel-
le che aveva portato con sé, la accese e ne fece colare la cera
sull'ovale di filo che aveva disposto sul tavolo: l'anello ora era
rigido quel tanto che bastava per infilarsi con facilità nell'asti-
na. Ma facilità è parola che appartiene all'ipotesi e alla virtù,
non alla realtà: quando il primo salterello fu alzato, la candela,
rimasta accesa per agevolare lo scasso, era ormai consumata
per più di metà.
Aperta la prima serratura, la seconda cedette con minor dif-
ficoltà e le due ante finalmente si dischiusero: ora rimaneva da
rimuovere solo la lamina metallica incastrata di giustezza nel
vano del mobile. Ma proprio lì, tra le portine e la lamina, Ippoli-
to vide alcuni fogli che qualcuno doveva aver infilato dall'alto,
senza poter aprire lo stipo, solo forzandolo leggermente: ecco
come s'era prodotta l'impronta di mano che aveva visto prima.
Il giudice non seppe mai dire se si trattò di vera premoni-
zione o solo di un riflesso delle sue speranze, ma quando aprì
quelle carte egli conosceva già il loro contenuto: Conventio fac-
ture aqueducti de Tulliis inter habitantes de Celsis et Ramatis
cum Colombano Romiani.
Lesse.

In nomine domini amen. Anno eiusdem domini


millesimo quingentesimo vigesimo sexto inditione de-
cima quarta et dei...

Dovette ricominciare da capo; a quel punto della notte, dopo


una giornata intera trascorsa inseguendo deboli tracce d'in-
chiostro, la mente gli fuggiva per altri luoghi, lungo le monta-

La canzone di Colombano 156/43


gne o lungo i fianchi di Margherita, indifferentemente, ed era
duro ricondurla all'esercizio della lettura in latino.
Riprese, traducendosi mentalmente il testo.

... Nell'anno del medesimo Signore mille cinque-


cento ventisei, indizione decima quarta ed il giorno
venti del mese di Ottobre. A tutti sia noto che gli uo-
mini ed abitanti delle Ramats infra nomati a nome
loro e d'altri, tanto delle Ramats che di Chiomonte
per una metà, e similmente gli abitanti di Cels nella
parrocchia d'Exilles infra nomati e qui presenti per
un'altra metà, convennero con Colombano figlio del
fu Giovanni Romean oriondo della Ramats ed abitan-
te in Saint Gilles Diocesi di Nimes qui presenti ed ac-
cettanti per sé e per i loro, di perforare o proseguire
il già incominciato forame od acquedotto verso le
Chapls fini d'Exilles sopra le Ramats e Albournet co-
me infra.
E primieramente il Colombano a nome suo e dei
suoi promise a detti Parerii ed a me notaio qual per-
sona pubblica stipulante per essi o per parte di quelli
assenti di terminare il già cominciato foro il più bre-
vemente possibile, in guisa che fu iniziato, cosicché
parte dell'acqua scorra dal monte di Touillies di qua
verso Albornet di Cels e l'altra metà verso le Ramats
a profitto degli abitanti di esse Ramats, e tutto ciò a
carico dello stesso Colombano ed a sue proprie spese
salve le infrascritte...

Ippolito scorse rapidamente i capi successivi.

…unum sestarium boni et sufficientis vini... unam heminam si-


liginis pro singulo mense...
instrumenta necessaria ad ipsum opus... mathora, massas, pi-
chos, paliferros aliaque universa ferramenta...

44/156 Alessandro Perissinotto


Vino, segale, martelli, picconi e ferri vari li avrebbero dun-
que forniti le due comunità, ma quanto alle punte e alle affila-
ture, si specificava oltre, quelle erano compito del Romean.
Niente di straordinario per il momento.

... se Colombano dovesse interrompere il lavoro


per difetto di lume, di vettovaglia o di ferramenta o
d'altra colpa dei parerii, questi siano tenuti ad un ri-
sarcimento, parimenti, se il lavoro sarà interrotto o
qualche cosa si perda per difetto o colpa del Colom-
bano questi sia tenuto alla restituzione...
... dovranno i detti parerii di Cels per una metà, e
quei della Ramats per l'altra metà pagare al detto
Colombano cinque fiorini di moneta corrente, ciascu-
no dei quali vale dodici soldi, per ogni tesa di detto
acquedotto... ad opera fatta... segala duecentoventi
sestari, cento di avena, quaranta di castagne e noci...
cento brente boni et sufficientis vini pro anno.

Ecco la rendita di cui tanto si favoleggiava!

Colombano non potendo, per inabilità, difetto, im-


pedimenti proprii o causatigli d'altri, portare a com-
pimento la detta opera, o essendo in necessità, per
malattia, menomazione o altro, di sospendere Io sca-
vo per oltre mesi due, fatto salvo il tempo dell'inverno
ed altro tempo di neve e rigori eccezionali, dovrà egli
restituire ai parerii fiorini otto di moneta corrente
per ogni tesa già pagata e fiorini venti per ogni tesa
di acquedotto che, secondo il parere di probi uomini
non sospetti e di parte neutra, rimanga ancora da fo-
rare.

Cosa c'era da nascondere in un documento i cui termini,


grosso modo, erano noti a tutti?

La canzone di Colombano 156/45


Per la verità non era nascosto, era solo sottratto a lui in
quanto giudice del Prevosto. Qualcuno, in tutta fretta, lo aveva
spostato dall'archivio esterno, al quale nessuno poteva vietar-
gli l'accesso, a quella sorta di laico tabernacolo. E sull'identità
di quel qualcuno, nessun dubbio: Leonardo Beaudia. In una
stanza dove potevano entrare solo i sindaci e gli ufficiali della
Prevostura, un sindaco era entrato, un sindaco solo, ché se fos-
sero stati due avrebbero aperto lo stipo e vi avrebbero colloca-
to la transazione in bell'ordine, senza occultarla ingenuamente
appena dietro le antine.
Le ipotesi presero a vorticargli per il cervello.
Esisteva una congiura per fermare il lavoro di Colombano e
Leonardo Beaudia era uno dei congiurati. Forse alcune tra le
persone consorziate cominciavano a trovare quel contratto un
po' troppo oneroso. Forse si era pensato ad una galleria più
corta ed ora, a cinque fiorini la tesa, ogni palmo strappato alla
montagna era uno svuotar le tasche. Ma altri pensavano che
quei sacrifici sarebbero valsi più latte, più tome, più bestie, più
ricchezza. Era in atto una lotta sorda.
Ippolito immaginò riunioni segrete e burrascose.
«Altro che acqua e abbondanza, ci prosciugherà anche il mi-
dollo!»
«Ma diventeranno pasture ricche, tutta erba grassa, e ave-
na...»
«... e le vigne, pensate alle vigne, così belle al sole; sole e ac-
qua e sai che vino!»
«È un lavoro che non finirà mai: tu scavi da una parte e la
montagna ti butta terra dall'altra».
«Si 'l matin tu creuse la peyra, la montagna la va remplir la
seira».
«No, è che Colombano è un tricheur, ci inganna sulla lun-
ghezza».
«Non è vero, l'abbiamo misurata tutti assieme al notaio, che
portarlo fin lassù è stata una fatica, è proprio come dice lui».
«Bisogna smetterla con quel buco. Se Domeneddio avesse

46/156 Alessandro Perissinotto


voluto darci l'acqua l'avrebbe scavata lui la montagna...»
«... ma sottoterra non è il posto di Domeneddio, è il posto del
diavolo, e Colombano ha fatto un patto col diavolo».
«Sì, è Satana che aggiunge sempre nuove rocce, Romean gli
ha dato l'anima e lui gli allarga la montagna per farlo diventare
ricco a nostre spese».
«Ma che fandonie andate dicendo. Che diavolo, che patto. Il
patto l'ha fatto con noi, e noi lo dobbiamo rispettare, abbiamo
giurato».
Certo, com'era abitudine avevano giurato tutti supra sancta
Dei evangelia corporaliter libro tacto.
Non trovando un accordo per interrompere l'opera, ecco
l'occasione per bloccare Colombano: una bella accusa di omici-
dio e per buon peso anche tutti gli altri delitti. Ma i volenterosi
persecutori si sono spinti troppo in là, e magari tra loro c'è an-
che qualche imbecille che ha incolpato Romean di aver fatto
qualcosa che è previsto nella transazione. E allora è bene che la
transazione non cada sotto gli occhi del giudice, anche perché
sarebbe spiacevole che egli ricollegasse i nomi dei principali
accusatori con quelli dei sottoscrittori. Ma guai a distruggere il
contratto, ché, se mai Colombano venisse assolto, lo si potreb-
be impugnare usando la clausola della sospensione dei lavori
per oltre due mesi.
Ma, visto che il documento tra le sue mani ci era effettiva-
mente finito, meglio annotarsi i nomi dei consorziati per censi-
re quali, tra essi, appartenessero alla folta schiera degli accusa-
tori.

Nomina pareriorum de Celsis sunt hec: Guillelmus


Bernardi, Petrus Bernardi, Johannes Pasqualis, An-
thonius Bernardi, Alsiatus Coste, Jacobus Vasoni, Co-
lumbanus Johannoni, Johannes Grandis, Bartholo-
meus Sale.
Nomina pareriorum de Ramatis: Vincentius Jallini
del Villa, Johannes Luc, Johannes Beaudia filius et

La canzone di Colombano 156/47


procurator Jacobi sui patrui, Jacobus de Lionardo
Beaudia, Simion Blaxii, Leonardus Beaudia, Colum-
banus Jallini, Anthonius Jallini, Michael Blaxii, Marti-
nus Richardi, Anthonius de Jacopo Richardi, Johannes
Richardi, Ludovicus Johannoni pro se et Michaele
Romeani.

Ippolito trascrisse poi sul calepino i passi essenziali d'un


documento rinvenuto assieme al primo, la Concessio acqueduc-
tus habitantibus de Ramatis per Comunitatem Exilliarum acque
de monte de Tulliis, redatta nell'Anno domini millesimo quingen-
tesimo quarto indictione septima cum eodem anno sumpta, et
dei tertia mensis octobris, nella quale, già ventidue anni prima
che i lavori fossero affidati a Colombano, si prevedeva di mon-
tem perforare in dicto monte de Tulliis.
Ora il giudice aveva il cuore più leggero, ché parte degli an-
gosciosi interrogativi di quei giorni erano sciolti. Ora sapeva
perché, e in che modo, e quando, e dove e ad opera di chi, tanti
nemici dello scalpellino avessero levato il capo come facevano,
al nascer del giorno, quelle nuove piante che molti chiamavano
girasoli.
Di lì a poco però, gli sarebbe sorto un altro dubbio, più forte
e più inquietante di quanti lo avessero preceduto: i cospiratori
avevano semplicemente approfittato degli effetti funesti della
segale cornuta (o di chissà qual altra diavoleria), oppure erano
stati essi stessi causa di morte? Ma in quel momento, una tale
domanda, che gli si sarebbe affacciata alla mente al risveglio,
non sfiorò la sua ritrovata serenità.
Usando ancora una goccia di cera, fissò in posizione aperta i
due salterelli dello stipo, poi, chiudendo con violenza l'anta si-
nistra, li fece cadere entrambi nei loro ganci ed infilò le carte là
dove le aveva trovate.
Uscì dal campanile e chiuse la porta dell'archivio comunale
girando in una delle serrature la sola chiave che gli era dato di
possedere, l'altra, quella ciclopica, rimase lì, in attesa di torna-

48/156 Alessandro Perissinotto


re, il giorno dopo, nella cassa guardata dai sindaci.
La notte volgeva al termine, ma dell'alba non si scorgevano
ancora le tracce; benché il vento avesse spazzato tutte le nubi,
il cielo rimaneva nero, punteggiato solo qua e là da luci lonta-
ne. Ippolito attraversò un paese senza vita, dove le case avreb-
bero potuto essere massi, giunse a quello che pomposamente
chiamavano castello e si sprofondò esausto nel letto ed in un
sonno di pietra.

La canzone di Colombano 156/49


IV Strofa terza

Anans al giüdise
a j'è tüt 'l pais
(Testo mancante. La cantatrice
sostituiva le parole dimenticate
4
con un passaggio a bocca chiusa)

Il primo giorno di udienze fu come la fiera di Oulx. La gente


era scesa dalle Ramats, da Cels, da Exilles. Col vestito della fe-
sta, con nastri e gale, ma anche in semplici abiti da margari.
Qualcuno, con l'occasione, aveva portato tome e galline per
venderle. Altri avevano con sé il primogenito, perché in certe
situazioni c'è sempre qualcosa da insegnare. Pochi erano quelli
che conoscevano esattamente l'accaduto, ma tutti si attende-
vano un processo spettacolare, come, dicevano i vecchi, quan-
do era arrivato da Roma Alberto Cattaneo a strigliare quei sa-
tanassi che assaltavano le chiese. Che poi satanassi non lo era-
no mica tanto, loro se lo ricordavano. C'erano i Lantelme di
Prazlat e i Vilhot e ancora i Passet; tutti contadini, tutte brave
persone.
È che a Cattaneo, Satana o non Satana, interessavano i soldi.
E a quella povera gente, i vecchi lo sapevano, non era bastato
dire che erano buoni cristiani; avevano dovuto vendere bestie
e campi e pagare. E forse era per quello o forse no, che proprio

4 Davanti al giudice | c'è tutto il paese (segue testo mancante).

50/156 Alessandro Perissinotto


mentre passava il Colle delle Finestre, Alberto Cattaneo era
stato colpito e ferito da una scarica di pietre di quelle che si
staccano, talvolta per natura, talvolta per forza d'uomo, dalle
bastionate di roccia; ma su questo, se i vecchi sapevano, tace-
vano. Di certo ci fu che, a causa di quell'incidente, quella volta il
terribile Cattaneo non giunse in Chiomonte con tutta la deva-
stante forza del suo ufficio e del suo temperamento.
«Chi è che vanno a impiccare?» chiedevano quelli venuti da
fuori.
«Impiccare, impiccare, prima deve decidere il giudice».
«Lo impiccheranno vedrete, i giudici scelgono sempre così».
«Magari ci danno fuoco...»
«Ma no, non è mica un eretico, è un cristiano che ha ammaz-
zato altri cristiani».
«Sì, ma mi dite chi è?».
«È Colombano Romean, lo scalpellino delle Ramats».
«Non è delle Ramats, è un foresto».
«Vien di Provenço, ma è nato alle Ramats, me la ricordo io la
sua povera madre, la Margaritun».
«Poteva restarci in Provenço, per venir qui a mazar le gen-
ti».
«Non ha mazato nessuno e se il giudice ha un po' di coscien-
za lo deve mandar libero, povero figliolo».
«Ma come, libero?».
«Ma chi lo dice che è innocente?»
Dai gruppi di quelli venuti da più lontano si levavano voci
preoccupate. Tanta strada per vedere uno impiccato e poi ve-
niva fuori il rischio di un'assoluzione.
Neanche la forca preparata, ma a quella ci vuol poco; un no-
ce robusto, una corda e via.
Di tanto vociare, dimandare, rispondere, congetturare, a Ip-
polito, ancora chiuso nei suoi appartamenti, non giungeva che
un rumore lontano. Eppure era come se li sentisse ad uno ad
uno: a un giudice bastavano pochi anni di esperienza per com-
prendere quanto grande fosse la voglia di veder giustiziare

La canzone di Colombano 156/51


qualcuno. Più difficile era capirne il perché. Perché gente che
ogni giorno vede bambini e vecchi morir di stenti, vede uomini
robusti portati via dalla peste, dal vaiolo, dai morsi delle vipe-
re, vede madri e mogli stroncate da terzane e quartane, perché
tutta questa gente ha ancora bisogno di ammirare qualcuno
che pende da un albero, di sentir riecheggiare, masticate in ma-
lo modo, le strofe della ballata dei pendu? O forse era proprio
questa mietitura indiscriminata e dissennata della nera falcia-
trice a far nascere la passione forcaiola. Perché la morte del pa-
tibolo, ammantata d'una giustizia vera o presunta, è morte
sensata, giudiziosa in quanto necessaria. Giudice e boia, con-
cludeva Ippolito, danno un senso pubblico e civile alla morte
stessa.
Ma entrando nella grande aula ricavata nel castello, i conve-
nuti afferravano immediatamente che quella volta i loro desi-
deri non sarebbero stati appagati, o almeno non con la spedita
procedura di sempre. Ciò che colpiva, ciò che lasciava presagi-
re tempi lunghi, era la grandiosità dell'apparato. Per il suo
primo importante processo, Chiomonte aveva preparato ogni
cosa per dimostrare a tutti che, sebbene terra di confine, ulti-
mo lembo di Delfinato, era in grado di ospitare un tribunale
degno della capitale. E, in effetti, proprio nella capitale, a Gre-
noble, avrebbe dovuto celebrarsi quel procedimento tanto im-
portante, ma l'irrazionale incrociarsi di regole, consuetudini e
principi aveva permesso ad Ippolito di uniformarsi senza diffi-
coltà al volere del Prevosto: non sofferire in alcun modo che il
giudizio su Colombano Romean venga avocato ad altro Tribu-
nale se non a quello da te presieduto, perché tu solo potrai sta-
tuire con limpida coscienza l'innocenza del nostro buon scal-
pellino. Se, da un lato, l'alta giustizia spettava senza dubbio al
Consiglio Delfinale, dall'altro c'era la questione dell'anello di
salvezza: Colombano, nella sua fuga disperata, lo aveva stretto
in mano, ed ora aveva diritto ad essere sottoposto a giudizio
ecclesiastico e non a quello civile. Come giudice del feudatario,
Ippolito non avrebbe avuto altro che compiti di media giusti-

52/156 Alessandro Perissinotto


zia, ma in quanto uomo di chiesa e rappresentante della Prevo-
stura anche nella sua preminente funzione spirituale, egli po-
teva avocare a sé il giudizio su Colombano sebbene l'accusa
fosse quella di omicidio.
Il pubblico vociante ammutoliva entrando nei magazzini del
castello, svuotati per l'occasione: un grande tavolo di quercia
trasportato lì dalle sale superiori sembrava destinato a racco-
gliere più carte di quanto chiunque dei valligiani riuscisse a
immaginare; sugli scanni dei giudici e degli avvocati erano si-
stemati ampi cuscini, a render meno disagevole ai magistrati
una permanenza che si annunciava forzatamente lunga; solo lo
sgabello dell'imputato rimaneva di nudo legno, ma, d'altro can-
to, né piume né broccati l'avrebbero fatto più comodo o più de-
siderabile. Pur nell'austerità di uno stanzone dalle pareti nude
e tagliato in diagonale dalle lame di luce che provenivano dalle
alte finestre a feritoia, si avvertiva un senso di solennità, come
se davvero si volesse dare valore alla vita dell'uomo che si sta-
va giudicando e quindi un valore a quel giudizio stesso.
Nelle due settimane che avevano separato la formulazione
delle accuse dall'apertura del processo, Ippolito aveva avuto
modo di riflettere e di disporre ogni cosa in maniera che i vil-
lani che accusavano il Romean sentissero nei confronti del giu-
dice e dell'autorità prevosturale timore e reverenza; così sa-
rebbe stato più facile far trionfare la giustizia, cioè affermare il
volere del Prevosto. Che le due cose coincidessero Ippolito era
ormai convinto; se mai per un solo istante aveva sospettato
dello scalpellino, dopo il fiorire delle accuse contro di lui era
giunto alla determinazione della congiura. Era certo: Colomba-
no era innocente e, con tutti i documenti che aveva raccolto, lo
avrebbe dimostrato senza difficoltà.
La gente si ammassava stando in piedi e riempiendo ogni
spazio a partire da quelli più vicini all'imputato e quello stan-
zone, dove ancora non si era spento l'odore greve dei formaggi
e delle carni essiccate, si riempiva ora di afrore di corpi sudati
e avvezzi più al letame che all'acqua. Un grosso canapo, teso tra

La canzone di Colombano 156/53


due muri, divideva gli attori dagli spettatori, ma, mentre questi
ultimi saturarono in fretta il luogo a loro disposizione, i primi,
protagonisti assoluti della giornata, fecero artatamente cresce-
re l'attesa.
Ippolito entrò in aula in mezzo ad un bisbigliare che si face-
va via via tonante, ma che ristette improvvisamente quando
egli si mise a sedere sullo scanno. In fila, seguendo un rituale
anomalo inventato per l'occasione, fecero ingresso il segreta-
rio, gli avvocati che presero posto su di una lunga panca ad-
dossata alla parete, e infine Colombano, incapace di capire e di
esprimere altra emozione se non lo smarrimento. I suoi occhi,
che cercavano facce amiche, rimasero sbigottiti di fronte al so-
vrapporsi confuso di decine e decine di volti sconosciuti e, co-
me insensato, si lasciò cadere sullo sgabello.
Come previsto dai rigidi piani di Ippolito, le imputazioni
vennero esaminate in ordine di gravità.
La prima a deporre fu Maria vedova di Julius Berardi, per
tutti Maria Neigra, a causa del colore dell'abito vedovile indos-
sato a vent'anni e mai più dismesso.
«Maria, quali accuse hai tu da portare contro il nomato e
presente Colombano Romiani?».
«Non ci porto certo scuse a quel lì, ci porto colpe, ché gli ho
donné due emine di segala, l'anno passato e lui deve ancora
darmi i denari, bene che molte volte ce li ho chiesti quando che
passava davanti alla mia casa e mai me li ha dati che...»
«Dove è sita la tua casa?» la interruppe Ippolito. Maria restò
con la bocca aperta, la parola morta sulle labbra, senza capire.
«Ti ho chiesto dove abiti, Maria!».
«Sto alla Ramats, lo sanno tutti, e lo scalpellino passa davan-
ti a me quando va ai monti a scavare il suo buco».
«È vero Colombano che hai ricevuto due emine di segale da
Maria Neigra e non le hai pagate?».
«È vero, ma me le dovevano, che la comunità non aveva pa-
gato il povero Isoardo per il mio mangiare e io ci avevo onta di
andare alla sua tavola».

54/156 Alessandro Perissinotto


«E allora doveva chiederla ai sindaci la segale, non a una po-
vera vecchia!» urlò la voce stridula di Maria. Ippolito non perse
la calma.
«Maria Neigra, vuoi dire il tuo vero nome di famiglia?».
«Maria di Alziato Blaxi vedova di Giulio Bernardi».
«Sei dunque sorella di Michael Blaxi, morto tre anni or sono.
E siccome il morto non aveva figli, né moglie, né altri parenti in
vita, hai ereditato tu ogni suo bene, ogni suo diritto e ogni suo
obbligo».
Le lunghe ore trascorse dal giudice nell'archivio comunale
davano i loro frutti.
«E non sai che tuo fratello era tra i parerii che avevano ga-
rantito al Romean» lesse dal calepino «"un sestario di buono e
comune vino ed una emina di buona e comune segale per cia-
scun mese mentre sarà solo a lavorare"?».
Fu in quel momento che Leonardo Beaudia maledisse la
propria ingenuità nel nascondere così goffamente i documenti
nello stipo; il suo gioco, il loro gioco, era stato scoperto, o,
quanto meno, chi non doveva sapere sapeva che gioco vi era.
Dalla sua posizione anonima in mezzo al pubblico, il sindaco
levò gli occhi al tavolo e incrociò lo sguardo sorridente e bef-
fardo di Ippolito puntato su di lui. Fece mentalmente il conto di
quante accuse sarebbero state bruciate allo stesso modo e si
rassegnò a ricevere altrettanti strali dalle pupille del giudice;
ma la sua pena, così esattamente calcolata, fu subito accresciu-
ta dall'irruenza di Turin, figlio di Maria Neigra, che aveva ac-
compagnato la madre per la deposizione.
«Chi lo dice», ringhiò rabbioso Turin piantandosi davanti al
tavolone «chi lo dice che Michele aveva promesso qualcosa a
quel farabutto, la nostra famiglia è sempre stata lontana da
quel foresto».
La diffidenza di Turin per i forestieri era sempre stata cieca
e violenta, come quando aveva aggredito a pugni e calci un pel-
legrino che calmava la sete al suo fontanile. Dicevano che
odiasse gli stranieri perché era un bastardo, figlio di uno di

La canzone di Colombano 156/55


passaggio, di un grande mercante di Francia, di un ufficiale o,
più probabilmente, di un colporteur qualsiasi. E Colombano
era straniero abbastanza per meritarsi tutto il suo odio.
«Ricordati chi sono e chi rappresento, Turin, altrimenti ti
aspettano tre buoni tratti di corda». La voce di Ippolito si era
fatta dura. «L'impegno di fornire cibo a Colombano Romean,
Michele Blaxi lo aveva preso assieme agli altri in un documento
certificato dal notaio, che scrive: "Ed io Francesco Rostollan
notaio Regio Delfinale di Chiomonte commissario e custode de-
gli istrumenti ricevuti dal fu di buona memoria Giovanni Ro-
stollan mio genitore, mi sono qui tabellionamente segnato col
segno che sono solito adoperare in tali circostanze a testimo-
nianza di verità". C'è forse qualcuno che mette in dubbio la pa-
rola del notaio Rostollan?».
Il sindaco Beaudia si sentì come se gli avessero vibrato un
fendente al ventre: immobile, armato d'uno sguardo più ta-
gliente d'una spada di Toledo, Francesco Rostollan lo fissava
come prima aveva fatto il giudice, ma con una sfumatura di di-
sprezzo e insieme di paura negli occhi, mentre Beaudia atteg-
giava il volto ad una smorfia di scusa.
Trionfante, Ippolito spiava i due, sicuro di aver fatto uscire
allo scoperto, con la prolissità di quella dichiarazione di auten-
ticità, il notaio che aveva suggerito al riottoso Beaudia il na-
scondimento del capitolato. Nasconderlo era giusto, sottrarlo
al giudice anche, ma con più senno, perdio, con più senno. Po-
vero Francesco Rostollan del fu di buona memoria Giovanni
Rostollan!
Ippolito si rivolse nuovamente a Maria.
«Da tuo fratello Michele non hai ereditato solo i prati d'Au-
munt, ma anche gli obblighi da lui contratti, ivi compreso quel-
lo di fornire, in solido con gli altri parerii, il cibo a Colombano
Romean: io qui dispongo che la comunità paghi Maria vedova
di Julius Bernardi per le emine di segale da lei consegnate al
detto Columbanus Romiani e riterrò i sindaci responsabili del
buono e celere adempimento di codesta disposizione».

56/156 Alessandro Perissinotto


Maria Neigra si levò in piedi benedicendo il giudice, del tut-
to incosciente del pieno fallimento del suo agire, sostenuta al
braccio da Turin, sguardo rabbioso, mascella tesa di cane alla
corda.
A turno, altri prezzolati vomitarono le loro denunce preor-
dinate maldestramente. Ippolito ascoltava, ma distrattamente.
«Colomban a fait tomber les pierres del mur del me hort...»
«...l'ho visto con i miei occhi desrober pomi e poires...»
«...e rotolar peyres per togliere acqua e seccare il pré del
priore...»
Il giudice respingeva le accuse citando regolamenti comuna-
li e articoli della Transazione del 1418, e comminava pene leg-
gere e risibili ammende là dove le leggi e le consuetudini non
scagionavano completamente Colombano. Ma pensava ad altro
il giudice, a come fossero diversi tra loro i persecutori dello
scalpellino. C'erano stati i facinorosi della prima ora; poi la fila
degli accusatori di fronte al tavolo del notaio Chalvet e infine
erano giunti quelli che, odiandolo più o meno tacitamente e
mettendo in essere ogni trucco, giocavano sui documenti e sui
meccanismi del processo per vederlo condannato.
«Colombano m'ha uccellato una gerla piena di fieno... no,
forse non era una gerla, l'era un garbin... sì era Colomban, sono
sicuro, forse...»
«... e gli ovi che non si è mangiato quello lì; ovi e galline di
nascosto prende, che non è un cristiano, è una faina».
Il greffier annotava, Ippolito annuiva, ribatteva, deprecava,
urlava e sorrideva, discolpava e talvolta, come prescriveva l'ar-
ticolo tredicesimo degli Statuti comunali, disponeva che le mal-
facteur e delinquent demeures a la misericorde du Seigneur. Ma
la sua mente era altrove, su quel foglio dove aveva annotato, in
tre colonne, i nomi dei nemici dello scalpellino. Alcuni compa-
rivano in tutte e tre le colonne, come Folco Guy, che lo aveva
acchiappato, denunciato per omicidio e aveva fatto di tutto
perché l'imputato fosse giudicato dalla corte delfinale.
Altri, quelli che comparivano solo nella seconda colonna,

La canzone di Colombano 156/57


non erano che marionette in mani altrui, portatori di accuse ri-
dicole e manovrate dai nomi della terza colonna; nomi di nota-
bili, di gente che contava, dei Beaudia e dei Rostollan. Ma c'e-
rano anche quelli che dopo la prima tempesta sembravano
aver perso ogni acrimonia e ogni interesse verso il Romean:
cosa ne era stato dell'ira furiosa del mugnaio Costante e di Ai-
merico il falegname? S'era spenta? o aveva solo scelto come
veicolo il volto belluino di Turin? o forse covava sotto la cene-
re?
«...l'olio dei lumi ha da pagare... e ferri e carbone...»
La litania dei testimoni a carico continuava e la strategia di
Ippolito non mutava.
Ad un tratto, Leonardo Beaudia cominciò a fendere la folla
dell'aula e, portandosi alla corda che delimitava lo spazio del
pubblico, chiese di parlare. Poteva farlo? non poteva? Oramai
Ippolito stava perdendo la cognizione delle regole e decise di
lasciargli la parola, ché almeno sarebbe uscito allo scoperto.
«Vostra Signoria» disse Beaudia rivolgendosi al giudice «ha
oggi più volte assolto l'imputato Columbanus Romiani dicendo
che questo era in suo diritto perché lo diceva la Transazione
con il nostro signore il Prevosto, che quella cosa non era colpa
perché gli statuti del Comune vogliono così; Vostra Signoria ha
trattato Colombano Romean come un uomo di Chiomonte, ma
Romean è un foresto e non ha i diritti di un uomo di Chiomon-
te».
«Io ho casa qui da nove anni» si levò Colombano «sono o
non sono persona della comunità?».
«L'hai forse pagata la tassa per essere aggregato?».
«Io sono nato alla Ramats, sono vassallo del Prevosto di
Oulx da sempre; mente per la gola chi dice che no!».
«Vostra Signoria lo sa, essere nati qui conta poco, conta co-
me si è nati e i Romean erano dei manants e non degli homines
burgenses e andando in Provenza hanno perduto tutto, beni e
diritti di comunità, ora Colombano è uno straniero».
La voce era quella del sindaco, ma le parole erano del notaio

58/156 Alessandro Perissinotto


Rostollan; anche nella confusione del processo i due avevano
elaborato una strategia, o forse era questa una mossa di riser-
va studiata fin dall'inizio.
Ma inaspettato quanto la minaccia venne il salvamento per
bocca dell'altro sindaco, Guigo Sibille.
«Mente il console Beaudia, oppure la memoria lo abbando-
na, ma il padre di Columbanus Romiani era persona da anno-
verarsi tra i franchi borghesi e non era in maniera o ragione al-
cuna vassallo legato alla terra. Era scalpellino e mastro sculto-
re e l'ho visto con questi miei occhi, e giuro sopra il Santo
Evangelio, baciare il dorso della mano del Prevosto Giovanni
Michiel, il buon cardinale Sant'Angelo, che lo accoglieva rico-
noscente per l'opere sue nelle fontane e nei portali di tutta la
valle. Se il Romean fosse stato un populares, un manant, non il
dorso gli avrebbe baciato della mano, ma i due pollici uniti. I
suoi beni non furono perduti, ma li vendette a me che ne presi
possesso dopo aver soddisfatto il diritto di terza vendita entro
gli otto giorni in ragione di un tredicesimo del prezzo pattuito,
ne fa fede l'atto rogato dal defunto notaio Girolamo Jallin».
L'aula fu attraversata da nuovi brusii di disappunto, mentre,
di quando in quando, qualcuno tra i più anziani ondeggiava il
capo in segno d'assenso verso le parole del vecchio Guigo: Co-
lombano aveva trovato degli alleati e il sindaco Sibille, che or-
mai aveva colma la misura, si era vendicato.
Fino a quel momento, la vittoria di Ippolito era stata totale,
ed egli era certo che quella prima giornata di udienze si sareb-
be conclusa con un'apoteosi, ché per l'ultima denuncia aveva
preparato un colpo di teatro degno dei guitti migliori.
Il crimine di cui si sarebbe dibattuto era ancora privo di at-
tinenze con la morte di Isoardo e dei suoi, ma certo non era co-
sa di poco conto. Alcuna persona di qualonque stato grado e
conditione si vogli non osi né presumi provocar né dar causa ad
altro di mentida meno ingiuriare sotto pena... Ingiurie, onore.
L'imputato se la sarebbe cavata con qualche soldo, ancora una
volta; ma il giudice aveva più gusto a svergognare i mendaci

La canzone di Colombano 156/59


che lo attaccavano.
«Vuoi dire alla corte, Bernardo Forneris, quale affronto hai
subito dallo scalpellino Colombano Romean?»
«Una mattina, mentre che ero in bottega, no, cioè, al forno.
Ero lì che tiravo su fascine, che il forno ha bisogno di fascine...
mentre che ero in bottega... al mio forno...»
«Tu hai un forno, Bernardo?»
«No, Sua Signoria, lo sanno tutti, il forno è del marito di mia
sorella».
«Intendi dire Folco Guy?»
«E chi se no? C'ho una sorella sola, che c'ha un marito solo,
perché è una donna onesta, non come dice quel lì, che mentre
ero al forno che facevo un monte con le fascine, passa quel fur-
fante per la strada e grida, che tutti lo sentono, grida che il si-
gnor Folco Guy è cornuto e che ha un cognato ruffiano che gli
mangia il pane unto in casa e che quando lui, il signor Folco,
non c'è, la moglie se la spassa coi garzoni e che io... che il co-
gnato non dice niente».
«Cosa vuol dire che "mangia il pane unto"?»
«Vuol dire... vuol dire... è una cosa brutta, e poi quello che
vuole dire chiedetelo a quel tristo di Colombano che l'ha detto
lui, non a me che l'ho ascoltato».
«E tu ti arrabbi per una frase di cui non conosci il significa-
to?»
«Non l'ho capito, ma so che era una cosa brutta che offende-
va l'onore mio, del mio signor cognato e di quella donna one-
stissima che è mia sorella».
«Bernardo, tu sai leggere?».
«Solo la scritta grossa grossa che c'è scolpita sulla casa Ron-
chil, quella dei Cavalieri di Sant'Egidio, quella sotto il sole e il
grappolo d'uva: Jamais sens toi, perché senza il sole che matura
l'uva non si può stare».
«E allora, se non sai leggere, ti leggo io qualcosa. È il verbale
di un processo celebratosi nel 1491, più di quarant'anni fa. Il
greffier l'ha trovato qui nel castello, ma qualche copia deve es-

60/156 Alessandro Perissinotto


sere in giro per il paese, presso qualche notaio. Leggo qua e là:
Catelano Beneitone udiva dalla sua bottega Gio' Giacomo Auru-
zio urlare per via che mastro Francesco Vasone cognato di lui
deponente era becho cornuto e suo cognato, il deponente, man-
giava il pan onto. Hai visto, Bernardo, che caso? Anche Gio' Gia-
como Auruzio usava questa frase strana, così strana che anche
il giudice non la conosce, tanto che se la fa spiegare e in un suo
foglio, che qui è unito al verbale, annota: mangiare il pan onto,
o panunto, pane unto nel grasso di salsiccia, è, secondo l'uso del-
la lingua parlata nella villa di Chieri, ingiuria che designa l'uomo
senza mestieri che vive a spese di qualcuno. Non ti sembra stra-
no che Colombano, che è nato qui e vissuto in Provenza, parli la
lingua di Chieri? E non è finita. Catelano Beneitone udiva anche
l'Auruzio dire a voce alta che la di lui sorella si gabbava del ma-
rito e, con lo silenzio di lui deponente, viveva disonestamente
con garzoni e genti piccole. Chi ti ha fatto imparare a memoria
questa storia, visto che ha cambiato i nomi, poteva anche cam-
biare le offese; forse ci avrei creduto».
Ippolito si tacque. La gente ora rideva, perché le cose, le sto-
rie, le miserie delle famiglie erano sempre uguali; perché era
vero che Bernardo Forneris era un poltrone che Folco Guy s'e-
ra preso come dote e come censo per potersi portare in casa la
bellezza della Caterina Forneris; ed era vero che Caterina usa-
va coi garzoni del forno e con fanciulli quasi imberbi. Ma di tut-
to questo Colombano non si era mai interessato e Bernardo era
lì, come allocchito.
«Bernardo Forneris» riprese il giudice «mentitore, spergiu-
ro, bestemmiatore, sii messo domani alla berlina, dal sorgere al
calar del sole e sia tu obbligato a pagare la somma di...»
Le ultime parole furono soperchiate da urla, fischi, risa, da
batter di mani e dallo strusciar di piedi della folla sciamante.
Trascorsa la soglia dell'aula improvvisata, la gente era ab-
bagliata dalla luce ancora forte del pomeriggio. Che fare? Tor-
nare alle proprie case; le bestie aspettano, le mogli aspettano. E
l'impiccagione? E la berlina? Fortunati quelli di Chiomonte!

La canzone di Colombano 156/61


Qualcuno di loro lo si conosce, un po' di paglia nella stalla e si
può star qui fino a domani. C'è la locanda; la locanda costa; con
tutti i soldi guadagnati con le tome però...
Il sole scendeva dietro il passo di Clopaca, quando a Chio-
monte si capì che quella sera sarebbe stata memorabile. La go-
gna e la forca avevano attratto i villani e i mercanti più di quan-
to l'avesse fatto il richiamo delle case e dei lavori. Ogni stalla,
ogni fienile, ogni anfratto, abitabile o meno, divenne ospizio,
talvolta offerto in amicizia, talvolta a saldo di debiti antichi, tal-
volta a pigione. E quando tutti i ricoveri furono colmi di cri-
stiani si cominciò a gettare paglia lungo il muro della chiesa,
quello di levante, al riparo del vento di Francia, sperando che la
serena non venisse troppo fredda. E poi, contro il freddo c'era
sempre il vino; alla locanda, Jouvencel dei Jouvenceaux ne sta-
va offrendo a tutti. Jouvencel, proprio lui che non beveva nep-
pure il vino delle sue vigne per poterne vendere ogni goccia ai
signori di Bardonecchia; Jouvencel dei Jouvenceaux, che ve-
stiva di misero bigello, lui e tutta la famiglia, e che aveva negli
ovili tanti montoni da ricoprire, al pascolo, l'intera pendice del
monte di Sauze con i suoi prati assolati; il più ricco tra coloro
che in valle non avevano feudo, il più avaro tra gli uomini d'o-
gni condizione. Quale eccitazione, quale febbre gli aveva attra-
versato le membra per menarlo a quella liberalità dissennata?
Forse l'eccitazione medesima che s'era impadronita del paese
in un'orgia di tragica allegria.
Giochi di dadi sui tavoli dell'oste. Vinto! Baro!
La morra e i suoi gridi: tre, sette, nove, mia!
E per le strade le ghironde prestavano il vibrare delle loro
corde ai canti.
E se sarà na fija la mariderem, e se sarà na fija la maride-
rem...
Come se fosse facile, per un povero, maritare la figlia.
E se sarà un fij preive lo farem...
Di quando in quando Ippolito pensava a questa strofa e ai
suoi, troppo miserabili anche per pensare di farlo prete, o fra-

62/156 Alessandro Perissinotto


te; e invece lui frate lo era diventato, e poi giudice, più giudice
che frate.
Né rosso, né arancione coloravano più il cielo; solo un chia-
rore livido intorno alla Punta del Vallone e sopra la cima dei
Quattro Denti, quel chiarore che, come un fuoco fatuo, accom-
pagna le montagne nelle notti d'estate, prima che il buio le
cancelli.
I cantori non si fermavano, il suono della ghironda richia-
mava gente e quella sera si ballò in piazza come se fosse stata
la San Zan, la festa che salutava l'estate. Si ballò la borrea a due
e a tre tempi; si danzò la courante e il rigodone, e la nordica gi-
ga e il perigurdino. Poi, sulle lingue seccate dal ballo e dagli ec-
cessi, il vino fece sentire il suo sapore più amaro e, fermate le
danze, qualcuno iniziò a cantare, masticando le parole, la storia
triste degli scolari di Tolosa.
Sun tre giuvenin de scola, ch'a Tuluza völo andé.
E chi non la conosceva quella vicenda. Quanto tempo era
passato da quella Pasqua di sangue a Tolosa? I duecento anni
esatti sarebbero caduti nella prossima primavera, almeno così
si diceva. Ma la ballata aveva tenuto vivo il ricordo di Americo
di Bérenger e dei suoi amici e ognuno li immaginava cavalcare,
ebbri, per le vie della città; li vedeva gonfi della sfrontatezza
dei loro vent'anni sfidare l'autorità del Capitolo. Si narrava, si
diceva, si cantava. Il signore di Gaure, così si narrava, arresta di
sua mano uno scolare, ma Americo libera il compagno e ferisce
di pugnale il volto dell'altro.
A j'an pià-je, j'àn ligà-je, an përzun a j'àn meinà.
Arrestati e torturati, Americo e i suoi; sono nobili e chierici,
il Capitolo li odia e li teme e, appena può, li schiaccia.
I giovani scrivono una lettera, si appellano al parlamento di
Parigi.
vöi scrive na litrinha... a l'àn fa-ne përzunè...
Queste parole stonate arrivavano alla cella di Colombano;
un annuncio di morte? Anche lui sarebbe finito come, duecento
anni prima, i tre studenti di Tolosa?

La canzone di Colombano 156/63


J'è tre giuvinin de scola, tüti tre devo ampiché.
Impiccati tutti e tre. Il Capitolo non ha concesso appello, non
ha atteso la risposta di Parigi; il Capitolo aveva fretta, il boia la
corda unta. E quanti, a Chiomonte, non avrebbero esitato ad
unger la corda per lo scalpellino?
Tutto in fretta, per dare alla morte il suo senso apparente;
tanto in fretta che i salvatori dei tre scolari giungono tardi e
l'armata di salvamento diventa orda vendicatrice: bruciate To-
losa!
Quand sun stait sül punto d' Tuluza, a j'àn vist tüit trei pen-
deiéint.
A l'àn fait brüzè Tuluza, cun tüta la sua géint.
Ma a vendicare Colombano non ci sarebbe stato nessuno;
nessuno a bruciar Tolosa, così come voleva la ballata, nessuno
a far pagare al Capitolo le sue colpe, così come recitava la sto-
ria. L'onore di un Bérenger era stato difeso anche dopo la mor-
te, quello di Colombano bisognava difenderlo prima, perché un
Romean non aveva onore, aveva solo la vita; la vita e un cane
fedele, Tuju, fuori dal castello ad attendere.
Chiomonte, quella notte, era come l'accampamento di un
esercito sbandato e incosciente; senza più saper dove andare,
la milizia che giaceva ubriaca e spossata sui giacigli attendeva
il giorno dopo per conoscere se al suo sacrificio avrebbe arriso
la vittoria, se tanta fatica sarebbe stata ripagata con una bella
esecuzione. Intanto, le voci nei canti e nei giochi si fecero più
acute e fiacche, fino a che in tutto il paese, assediato dal canto
dei grilli, non risuonò un unico, monotono e corale russare,
sotto un cielo che, velandosi, aveva fatto coperta agli accampa-
ti.

64/156 Alessandro Perissinotto


V Strofa quarta

«Culumban a l'a massà!»


siur giüdise pende lo farà
«Con 'l diau a l'a giügà!»
Culumban a l'è përzuné
«Con le masche a l'a dansà!»
5
siur giüdise lo farà brüsé.

Non erano gli affanni che tenevano desto il giudice Ippolito


nel letto; era, al contrario, l'euforia, l'eccitazione vaga d'una
vittoria che sentiva in pugno. I rintocchi dell'ora Prima non
erano ancor giunti e neanche erano prossimi, ma i suoi occhi
spalancati nel buio della casa di Margherita non avevano più
alcuna voglia di chiudersi. Aveva riposato un poco dopo l'am-
plesso, forse aveva anche dormito, di quel sonno sereno che
sembrava preannunciarsi quando al culmine dell'eccitazione i
suoi lombi si scioglievano ed egli si apriva al godimento tra le
generose cosce della vedova. Ma ora era sveglio e i suoi pensie-
ri erano mobili quanto le sue mani che percorrevano la schiena
nuda di Margherita fino alle natiche senza per questo svegliar-
la: chi, nelle notti dell'infanzia e dell'adolescenza, aveva condi-
viso il giaciglio di paglia con fratelli e sorelle nella stalla non

5 «Colombano ha ammazzato!» [probabilmente si riprendono qui le parole


della folla] | il signor giudice lo farà impiccare. | «Con il diavolo ha gioca-
to!» | Colombano è prigioniero | «Con le streghe ha danzato!» | il signor
giudice lo farà bruciare.

La canzone di Colombano 156/65


poteva permettersi il lusso signorile d'avere il sonno leggero.
Ippolito rimase a lungo indeciso se chiamare la donna a condi-
videre con lui la veglia; il suo sesso, nuovamente gagliardo, l'a-
vrebbe desiderato, avrebbe voluto concedersi altre estasi e de-
liziarsi dei gemiti di lei, così intensi quando il piacere la inva-
deva e le sue dita gli penetravano le carni. Ma poi ne ascoltò il
respiro ritmato e non ebbe cuore di strapparla al sogno. Con
delicatezza la voltò supina e le appoggiò la mano sul pube co-
me per assorbirne il dolce calore, poi, pregustando un'altra
giornata di successi, ritrovò finalmente il sonno e s'assopì.
Al primo filtrare della luce attraverso l'impannata, Marghe-
rita si scosse e sorrise nel trovarsi la mano di Ippolito proprio
lì. Sorrise d'un sorriso amaro, pensando che proprio lì risiede-
va l'unica fortuna di una povera donna. Guardò il giudice nudo
e addormentato nel letto; le membra solide, ben proporzionate
e, se mai lei avesse conosciuto il senso e il suono della parola
amore, avrebbe potuto domandarsi se in qualche maniera lo
amava e se lui la amasse. Ma quella parola non le era mai stata
familiare e, semplicemente, si chiese quanto sarebbe durato il
desiderio generoso di lui, fino a quando la sua fortuna avrebbe
potuto esser donata con reciproco piacere e non venduta al mi-
glior offerente. Si alzò e Ippolito, definitivamente sveglio, poté
ancora bearsi delle forme di Margherita che, senza aver cura di
vestirsi, o forse con studiata attenzione a quella nudità che sa-
peva eccitante, si chinava sul lettino di Tommaso.
Fu con quell'immagine negli occhi e con un sorriso appagato
sul volto che il giudice attraversò il villaggio per recarsi nei
suoi appartamenti per poi scendere da questi all'aula del pro-
cesso. Prese un sentiero a monte, leggermente discosto dalle
case, per non destare la curiosità di tutte quelle figure che, co-
me fantasime, nella bruma del mattino si levavano intorpidite
dai loro giacigli lungo l'acciottolato dei viottoli; egli non teme-
va lo scandalo, ma neppure lo cercava e, se una semplice de-
viazione poteva tenere i guai lontano dal suo capo rilucente
per la tonsura, era meglio percorrerla.

66/156 Alessandro Perissinotto


Nei quartieri a lui assegnati, i servi del castello avevano
scaldato l'acqua ed egli procedette all'abluzione e alla rasatura
mentre i champiers arginavano la folla che, ancor più ansiosa
del giorno precedente, s'accalcava nel salone scommettendo
sulla sorte di Colombano. Accantonati mentide e immaginari
abigeati ora la giustizia avrebbe deciso se caricare sulle spalle
e sul collo di Colombano l'assassinio di Floretta e di Isoardo e
della moglie e della vecchia, oppure se negare ogni assassinio
privando i vivi del gusto di dare, con la vendetta, una ragione a
quelle morti.
Quando la figura di Ippolito emerse dal buio del piccolo va-
no che adduceva dai piani alti al salone fu come se un impera-
tore fosse apparso all'improvviso tra le plebi; il suo volto ro-
seo, ben sbarbato, mondo era una sorta di visione, in mezzo a
quelle facce che portavano i segni della notte trascorsa all'a-
perto, a quelle pelurie così incolte e rade da non fare onore al-
cuno ai menti che le portavano. I visi degli astanti erano spor-
chi e tirati, ma in essi brillavano occhi d'una vivacità inconsue-
ta e perniciosa; occhi indagatori, maliziosi, che non si sarebbe-
ro accontentati di facili risposte. Sotto quegli occhi sfilò la cor-
te, di là dal canapo teso; a partire da quello d'Ippolito si empi-
rono a uno a uno gli scanni e, come il giorno prima, ultimo tro-
vò posto l'imputato sul suo sgabello.
Nessuno, al di fuori del giudice silenzioso e indaffarato
all'apparenza, conosceva ciò che sarebbe successo di lì a poco.
L'accusa non sapeva se avrebbe avuto agio d'esporre inconta-
mente le colpe di Colombano, né la difesa, immagine riflessa ed
emanazione di Ippolito, aveva cognizione piena del proprio
compito, mentre il pubblico, prima rumoroso, taceva nell'atte-
sa di cogliere il suono, sibilante come vipera, della parola «as-
sassino».
L'aula viveva da lunghi istanti in quella sospensione innatu-
rale e tesa, quando un messaggero, altero nel suo ampio man-
tello, s'affacciò alla porta grande del salone e fendette con pas-
so sicuro la folla fino a superare, ad un cenno del giudice, la

La canzone di Colombano 156/67


corda e a depositare sul legno scuro del tavolo un incartamen-
to su cui spiccava il rosso d'un sigillo in ceralacca.
Chi, nei tempi che seguirono, ebbe l'ardire di interrogare Ip-
polito su quell'episodio e di domandargli s'egli fosse stato pre-
viamente avvertito dell'arrivo del messo, non ottenne mai ri-
sposta al di là d'un mesto sorriso.
Con movimenti studiatamente lenti, il giudice aprì l'involto e
ne estrasse un foglio che esaminò con attenzione. Fu solo dopo
aver terminato la lettura, mentre la curiosità montava intorno
con un brusio sordo, che egli decise di dare al processo quella
che riteneva essere l'impronta decisiva e definitiva.
«Quella che ho tra le mani» disse «è l'attestazione circa le
vere cagioni della morte di Isoardo e della sua famiglia. Ne do
pubblica lettura acciocché ognuno veda la futilità delle accuse
mosse all'imputato».
Tacque, si alzò e si dispose a tradurre ad alta voce dal latino
a beneficio del pubblico presente.

Io, Ottavio Berry di Vizille, fisico e maestro d'arte


medica nell'Università di Grenoble, esaminato il caso
de li morti delle Thullies così come descrittomi
dall'ecc.mo Ippolitus Berthe, giudice esecutore del
rev.mo Prevosto di Oulx affermo che certissimamente
dette morti debbesi imputare a velenifera ingestione
di pane fatto con segale cornuta e certo non fisico,
ma volgare medico o phlebotomator o barbitonsore
sarebbe colui che affermasse che mancandosi i segni
più comuni e manifesti del morbo dal quale il santo
Antonio è chiamato a protezione s'abbia a ricercare
altrove la causa di quanto occorso. È vero che nessun
testimone riferisce di demenza e fissità nello sguardo
delle vittime nei giorni che precedettero il nefasto
evento, né puotesi riscontrare sui loro cadaveri ma-
nibus et pedibus troncati o braccia e gambe color del
carbone, così come leggesi nella Chronographia di

68/156 Alessandro Perissinotto


Sigismondo di Gembloux, ma non sempre trattasi di
ergotismus gangrenosus; chi lo crede mai ha letto ciò
che Pietro d'Abano scrive a proposito della cornuis
spicae, che manducata in forma di pane o di farina
provoca accesi dolori al ventre non dissimili dal fuoco
sacro che Sigismondo scorge nelle interiora dei suoi
ardenti, ma senza nigricanza o caduta degli arti. La
forma in cui il corpo si arrende alla malattia dipende
dalla stagione e dal temperamento di ciascuno. Gli
arti s'anneriscono e cadono quando il veleno della
segale s'accompagna ad una abundantia di bile nera
e ad una corruptio del sangue che scarseggiando la-
scia luogo agli altri umori. Ma, come Galeno ci spiega
e come ognun sa, la bile nera è umore dell'inverno,
mentre la stagione in cui siamo è tempo d'umori
chiari, di bile gialla e di sangue. E non era forse il
sangue in gran copia sui cadaveri e sulle loro bocche?
Ed altrettanto certo sono che le vittime fossero di
temperamento sanguigno se persino l'ava, che per
etate avrebbe dovuto esser pervasa di flegma, era, al
pari degli altri, immersa in una rossa pozza. Di fronte
a tanta cacocimia di prevalenza ematica, poteva
dunque la cornuta segale prender la via scura e secca
della bile nera e delle cancrene? o forse non le sareb-
be stato più facile, com'ha fatto, l'imboccar la via
umida del vomito e dell'emorragia? Chiedete a Mont-
pellier, chiedete a Chartres, chiedete a San Gallo e
ogni savio dottore, ogni fisico riconoscerà nei segni il
passaggio della segale cornuta. Il veleno del cereale
imputridito e divenuto immondo ha lasciato le sue
tracce ovunque, e gli ovini morti ne fanno fede, ché,
come Avicenna disse che le feci degli avvelenati da el-
leboro bianco uccidono le galline, noi qui affermiamo
che le pecore, bestie che per la loro natura intima
non disdegnano la coprofagia, nutrite agli escremen-

La canzone di Colombano 156/69


ti degli umani affetti dal morbo ne sono morte esse
stesse. Nulla di quanto è avvenuto alla Thullie è per-
tanto da imputarsi a mano d'uomo, bensì alla dege-
nerazione maligna dell'alimento primo.

Il giudice Ippolitus Berthe socchiuse per un istante gli occhi,


quasi avesse voluto armarli, così come si arma una balestra, di
quegli strali che il giorno prima avevano colpito i suoi nemici.
Li levò poi beffardi ad esplorare la disfatta altrui, ma nulla vide
di ciò che s'attendeva. Leonardo Beaudia e Francesco Rostollan
si sarebbero detti schierati in parata, orgogliosi, a petto gonfio,
come se stessero per ricevere un encomio o un'onorificenza.
Cosa stava accadendo?
Ippolito avvertì la spiacevole sensazione di non riuscire a
dominare gli eventi, di qualcosa che si lasciava osservare, ma
non afferrare; quella stessa impressione d'impotenza che inva-
de quando, sotto l'effetto di vini o di spiriti, s'ascoltano le paro-
le fluire dalla propria bocca senza che la mente assuma su esse
un preventivo dominio.
Cosa stava accadendo? Perdio! Perché in luogo di scoramen-
to o di rabbia appariva su quei volti un sorriso vittorioso?
Sentì l'effimera natura del suo precedente successo: una
borsa gonfia di monete false, di metallo corrotto. E la baldanza
della sua giovane età lasciò il posto a quel timore e a quella
cautela con le quali egli avrebbe dovuto temperarla fin da prin-
cipio.
«Ed ora» esordi Ippolito senza tradire nella voce il suo tur-
bamento «Folco Guy, è giunto il vostro turno di formulare le
accuse. Volete ripetere davanti alla corte d'esser venuto a co-
noscenza certa che l'imputato Colombano Romean ha ucciso
Isoardo Agnel, sua figlia Floretta, sua moglie Marta e la di lei
madre Belletta di Morello Morelli, tramite» lesse «percussione
causando magna sanguinis effusio dalla bocca delle vittime e
allo stesso modo ha sterminato pecore, montoni e capri delle
vittime?».

70/156 Alessandro Perissinotto


I balbettamenti del ricco fornaio furono un tonico per il giu-
dice, così come lo fu lo smarrimento evidente della gente che lo
contornava, di Costante del mulino, di Aimerico, di Martino e di
molti altri.
«Qualcuno m'aveva detto che... qualcuno aveva visto Colom-
bano... ma adesso che il dottore dice quelle cose...»
Era una pena sentirlo e molti pensarono che se Folco avesse
avuto un eloquio e una saggezza anche minimamente commi-
surati ai suoi averi, in quel momento non si sarebbe trovato in
acque così torbide. La gogna che di fuori stava tormentando ed
umiliando il cognato mentitore era pronta ad accogliere anche
lui e quanti lo avevano seguito nell'accusare lo scalpellino.
Il popolo presente sentì in quell'aria di berlina un anticipo
di carnevale, con i ricchi beffeggiati e irrisi e i villani a guidare
le danze; Folco nella polvere e Gaudenzio lo storpio in vesti
porporine di panno pregiato di Lione, e sopra a tutti, principe e
custode di quel paese di cuccagna, lui, Ippolito. Subitamente la
sala fu pervasa d'un'euforia appena macchiata, a tratti, dalle
facce scure di quanti, da accusatori, si sentivano di necessità
mutati in bersaglio: l'imminenza d'un carnevale del mondo ca-
povolto fece perfino dimenticare il desiderio dell'altro carne-
vale, quello dell'impiccagione.
Intanto, nella mente di Ippolito si riannodavano quei fili che
sciogliendosi avevano provocato quel repentino senso di ma-
lessere: perché mai aveva temuto per la spavalderia del notaio
e del sindaco? Non aveva essa un significato ben evidente? I
due sapevano d'aver agito con scaltrezza; avevano mandato
avanti i loro uomini di paglia, avevano tentato di eliminare lo
scomodo Colombano con il suo costoso progetto, ma, pur nel
fallimento, a corollario dell'impresa era venuta l'umiliazione
del meschino e cornuto Folco e dei suoi pari. Ecco di cosa ride-
vano i due, Ippolito ne era certo, e gonfio di quella certezza in-
solente si permise la longanime superiorità di considerare ba-
stante la punizione che i falsi testimoni s'erano inflitti da sé
con il generale ludibrio.

La canzone di Colombano 156/71


Tacque dunque il giudice, tacque per lasciare che l'eco dei
ghigni sommergesse i calunniatori e per studiare una forma di
solenne chiusura degna di quel grand'apparato. Salvato Co-
lombano, che sul suo sgabello aveva ripreso colore in volto, ora
bisognava salvar lo spettacolo, nulla più. Di Isoardo, di Floretta
e del loro possibile assassino non importava più nulla a nessu-
no: il responso del medico aveva rassicurato ognuno e persino
Ippolito, che tra tutti doveva più diffidare, s'era fatto persuaso
della diagnosi e della inconfutabile autorità di Pietro d'Abano,
s'era arreso a una diagnosi ch'egli stesso aveva, per così dire,
commissionato.
E fu proprio quel momento di ritrovata fiducia e serenità
che il notaio Francesco Rostollan scelse per sferrare il suo at-
tacco.
«Eccellentissimo signor giudice, l'autorevolissima opinione
del degnissimo dottore e fisico Ottavio Berry di Vizille ci ha
confermati in un sospetto tanto orribile da togliere il coraggio
e la parola e solo la coscienza delle nefaste conseguenze che
un'omissione nostra comporterebbe ci corrobora nel formula-
re la terribile accusa. Da diverse e fededegne testimonianze
sappiamo esser Colombano uomo pravo dedito a pratiche ma-
giche e negromantiche, se fino ad ora abbiamo taciuto è perché
ci mancava la conferma che il patto indubitabilmente siglato da
Romean col Malvagio fosse di nocumento della comunità, ma
ora che il responso dell'esimio fisico ha sostituito il nostro
dubbio con una positiva certezza, possiamo, senz'altra tema
che quella per la nostra incolumità, incolpare Colombano Ro-
mean d'avere con maleficio ed opera diabolica corrotto la sega-
le custodita presso le grange della Thullie e d'aver così causato
la morte di Isoardo, della sua famiglia e del suo bestiame. Ac-
cuso Colombano Romean d'essere stregone, servo e complice
del demonio e di adoperare il traforo da lui scavato alla Thullie
per consessi di spiriti delle viscere della terra».
A quelle parole l'aula intera risuonò d'un unico, grande so-
spiro atterrito.

72/156 Alessandro Perissinotto


«Avete forse voi, eccellentissimo giudice, udito narrare di
ardenti isolati? O non è forse vero che il morbo, o fuoco, di
Sant'Antonio colpisce villaggi, città intere, nazioni a volte? Co-
me la peste non getta tra le braccia della morte il viandante so-
litario, ma coglie a mucchi, a legioni le sue vittime, così la sega-
le cornuta semina desolazione e lutti per ogni luogo del paese
ov'essa è germogliata. Veniva forse la segale di Isoardo da pae-
si remoti? O non era segale di questi monti? Era forse diversa
da quella impastata nel pane che avete mangiato ieri, in questo
stesso pane?».
Con gesto quasi blasfemo il notaio levò in alto una forma,
come il celebrante fa con il pane eucaristico, la spezzò e ne
mangiò avidamente.
Dove aveva imparato, questo misero leguleio di paese, l'arte
retorica dell'elocutio? Eppure Cicerone e Quintiliano avrebbe-
ro guardato compiaciuti all'efficacia delle sue parole, a come
quel semplice richiamo al pane mangiato da ognuno avesse a
tutti legato i denti per la paura del morbo.
«Invece» riprese Rostollan «questo pane è sanissimo e an-
che il vostro lo era». I denti si sciolsero e dalle facce scompar-
vero le smorfie. «Solo la segale di Isoardo era cornuta, e cornu-
ta era divenuta per l'incantesimo di Colombano che ha voluto
donare al diavolo le anime dei suoi amici, più preziosa di tutte
l'anima della vergine Floretta, per ottenerne in dono i segreti
delle vene di pietre preziose nella roccia e della trasmutazione
dei metalli. Io vi chiedo dunque, giudice Ippolito, di convocare
un tribunale con giurisdizione sui crimini di stregoneria, vi
chiedo di far venire a noi l'inquisitore».
Il silenzio delle cime dei monti nelle notti d'inverno senza
vento, o il silenzio degli spazi siderali o degli abissi marini non
furono mai così profondi e assoluti come quello che cadde sul
salone affollato e muto.
Ippolito vacillò come vacilla il cavaliere colpito, prima di ca-
dere dall'arcione. I suoi pensieri brancolarono alla ricerca d'un
appiglio, d'un cavillo, d'una salvezza, ma tutto ciò che riuscì a

La canzone di Colombano 156/73


trovare fu un modo per differire l'inevitabile.
«Notaio Rostollan, tutti, nelle terre del nostro buon Signore
il Prevosto di Oulx, conoscono il valore della vostra parola e
nessuno osa dubitarne, tuttavia l'istruzione di un processo per
stregoneria è fatto di gravità estrema che può turbare le co-
scienze e provare gli animi, spero dunque che non troverete
straordinaria o fuori luogo la richiesta d'ascoltare queste vo-
stre testimonianze».
Una strategia dilatoria, nulla più. Ippolito sapeva che una
volta pronunciata la parola «inquisitore», chiunque avesse osa-
to opporsi sarebbe entrato immediatamente nel novero dei so-
spetti e dei complici; e non importava di quale tipo o valore
fossero i testi del notaio, non importa quanto vaghe o circo-
stanziate fossero le prove a carico dell'indiziato: il processo
andava fatto.
«Vossignoria è magistrato giusto e scrupoloso e con la stes-
sa mirabile equanimità con cui ha condotto questo procedi-
mento vuole che si dia avvio alla nuova e più dolorosa causa
che da questi stessi atti procede. Nulla sarà perciò celato a voi,
insigne rappresentante in questa villa di Chiomonte del signo-
re nostro il Prevosto, né nulla sarà celato al pubblico presente,
affinché sappia guardarsi dalle trame del demonio e dei suoi
alleati. Possiamo accondiscendere immediatamente alla vostra
richiesta ascoltando la testimonianza di Telmon Celier».
Stava forse il notaio assumendo la direzione del dibatti-
mento? Ippolito ne ebbe l'impressione, anzi, capì che fin dall'i-
nizio il gioco era stato nelle mani del suo avversario ed egli non
era stato che un suo strumento; si era lasciato avvolgere dal
fumo delle piccole accuse sparso con perizia per occultare le
trame più profonde ed aveva offerto il destro ai fendenti porta-
ti dai nemici dello scalpellino. La tesi della segale mortifera,
che resa nota con largo anticipo avrebbe dovuto impaurire e
sbaragliare le schiere degli accusatori, s'era ritorta contro il
giudice ed egli sentiva di nuovo tintinnare a vuoto le monete
false del suo gruzzolo. Sentiva lo sconforto impadronirsi non

74/156 Alessandro Perissinotto


solo del suo cuore, ma anche delle sue membra; aveva voglia di
tornare sulle montagne della sua infanzia a badare alle capre e
anche a morir di fame cercando bacche lungo le rive del Ve-
neon o pesci nelle acque del Lauvitel; qualsiasi cosa avrebbe
fatto pur d'essere altrove.
Telmon Celier si alzò. I capelli gli ricadevano sulle spalle
bianchi ed incorniciavano, con la barba, un volto più rugoso
d'una mela rinsecchita. Per tutti quelli che dalle Ramats porta-
vano le bestie in pastura sui prati dei Quattro Denti, Telmon
era il Pepi d'en Haut, il nonno dell'alpe alta, quella che, appog-
giata al pendio di Clopaca, guardava sull'ampio piano della
Thullie. Per lui non v'era rispetto, ma venerazione e ai bambini
si raccontava che in quei capelli color di nuvola non crescevano
pidocchi, bensì minuscoli pezzetti d'oro e d'argento.
Il notaio fece per invitare il vecchio a parlare, ma Ippolito
ebbe la prontezza di fargli comprendere con lo sguardo che
non avrebbe rinunciato oltre alle sue prerogative.
«Quali cose» disse il giudice «ti hanno indotto, Telmon, a
credere che Colombano Romean sia dedito a pratiche strego-
nesche?»
«L'ho visto andar sota i capri con una scodella di legno
quando che i capri pisciavano, a raccogliere quello che faceva-
no e versarlo in un otre».
Rostollan lo interruppe: «Giudice Ippolito, l'urina di capra è
prova evidente dell'opera satanica dell'imputato. Cosa provata
è che streghe e stregoni se ne aspergano durante le turpi adu-
nanze loro ch'essi sogliono chiamare sabba o shabbat come
fanno gli infami giudei e che...»
«Grazie notaio Rostollan» tuonò decisa la voce di Ippolito
«credete davvero che non siamo noi edotti sulle triste abitudini
di queste genti perverse? Credete forse che i chierici in Greno-
ble trascorrano il loro tempo in ozio e in taverna anziché leg-
gere e meditare i testi dei sapienti che scrivono per la preser-
vazione dal male del popolo di Cristo? O forse pensate d'esser
stato oggetto di rivelazione e che questi siano segreti prodigio-

La canzone di Colombano 156/75


si. Leggete il Champion des Dammes di Martino Prevosto di Lo-
sanna, il saggio Martin Le Frau, egli racconta d'aver visto le
streghe nelle notti di sabba; non due, non tre, ni vingt, mais puis
de trois mille vielles veoir leur dyables familiers et certaines
nuits de la Valpute veoir la sinagogue pute. Se quell'uomo sag-
gio ha ritenuto, quasi cent'anni fa, di dover palesare simili cose
alle donne, essendo le donne per natura di piccolo ingegno e
male disposte a serbare con cura i segreti, voi non potete certo
farci intendere d'esser custode d'arcani misteri. Non solo co-
nosciamo le più aberranti pieghe di queste adunanze, ma sap-
piamo anche che in esse i convenuti si bagnano il capo con uri-
na di capro, secondo alcuni, per beffa e vituperio del pio uso
dell'acqua benedetta, secondo altri, per dissetarsi del liquido
che promana direttamente dalla bestiale incarnazione di Luci-
fero in forma d'animale cornuto».
Il giudice e il notaio erano ormai due campioni di eserciti
avversari; infiacchiti dai colpi non gioivano d'altro che delle fe-
rite reciprocamente inferte, in tutto dimentichi delle ragioni
della lotta e dello sbigottimento di quanti assistevano al duello.
E più sbigottito di tutti fu Colombano quando gli venne chiesto
a quale diabolica evocazione fosse destinata l'urina di capra
ch'egli aveva raccolto.
«Io non ci so niente di diablerie, di streghe e di pute, il piscio
di capra mi serve per gli scalpelli e le picche».
«Dicci cosa te ne fai» lo incalzò il giudice.
«E per gli attrezzi, ma è... è un segreto».
«Non temere Romean, anche l'inquisitore ha i suoi attrezzi,
e quando sulle tue membra si sarà posata la sua tenaglia, di se-
greto non rimarranno né i tuoi pensieri, né i tuoi visceri».
Colombano sentì in quel tono un'ostilità del tutto nuova e il
fluire incerto, ma inarrestabile delle sue dichiarazioni fu quello
di chi si sente perduto.
«È un segreto, ma un segreto buono dei fabbri di Provenza
che glielo avevano detto ai loro padri i marinai delle navi spa-
gnole che lo avevano saputo dai prigionieri turchi dopo quella

76/156 Alessandro Perissinotto


grande battaglia che c'era stata sul mare».
«Navi», «Mare», «Turchi» lì tra le montagne non eran parole,
ma semplici suoni, remoti e inusuali, vuoti d'ogni senso defini-
to: il mare, una distesa d'acqua forse mille volte più grande del
lago della Valle Stretta, talvolta placido come una piana inneva-
ta, talvolta, dicevano, infuriato come la Dora a primavera, e le
navi, non v'era altra via per spiegarle che la fallace similitudine
con slitte enormi che scivolavano sull'acqua; quanto ai turchi,
era solo mistero, paura e odio. Colombano lo straniero, Colom-
bano il viaggiatore, Colombano l'assassino, Colombano lo stre-
gone, Colombano era sempre più lontano da tutti gli altri.
«Quando ero a Saint Gilles, gli spadai arroventavano le lame
sul fuoco di carboni e poi le buttavano a raffreddare in un tino
pieno di piscio e le spade diventavano più dure; che battendo-
ne due insieme, con tutta la forza, il filo non si rompeva. Ma più
dure di tutte erano le lame raffreddate col piscio di capra, che
potevi dare un colpo a una pietra e loro facevano scintille, ma
non si rompevano. E allora io ho pensato che se usavo lo stesso
sistema con le punte degli scalpelli e dei picconi dovevo passa-
re meno tempo ad affilarli e andavo avanti più svelto».
Ad Ippolito tornò in mente la clausola con la quale, nel con-
tratto, si obbligava lo scalpellino a provvedere da sé alle punte
degli attrezzi; quella notte, nell'archivio comunale, aveva pas-
sato, ormai esausto, un tempo interminabile a tradurre men-
talmente quelle poche frasi in latino che ora erano come scolpi-
te nella sua memoria. Il giudice, pur prestando ancora orecchio
all'imputato, provò a ripetersele silenziosamente e a riflettere,
come se cercasse in esse una nuova soluzione: quod ipsi pareri
de Celsis et de Ramatis tenentur fornire supplire instrumenta ne-
cessaria ad ipsum opus faciendum et proficiendum; il fatto che
gli strumenti di escavazione dovessero essere forniti dalla co-
munità gli appariva chiaro; mathora, massas, pichos, cugnos et
palferrors aliaque universa ferramenta necessaria; martelli,
mazze, picconi, cunei, pali di ferro, quanti utensili per un uomo
solo; cum ipsorum factur salvis secundis et aliis cuspidibus, quas

La canzone di Colombano 156/77


ipse Columbanis facere teneatur suis sumptibus; ma perché la
fattura degli attrezzi sì e l'affilatura no? Perché le nuove punte
dovevano essere fatte da Colombano? Hoc addito quod ipsi pa-
rerii providean ipsi Colombano follas, carbonum, maleum et
unam cornuta pro ipsis cuspidibus faciendis sive reparandis; tut-
to il necessario, carbone, magli, incudine, ma le punte no, le
punte erano affare dello scalpellino. Da chi era stata posta que-
sta condizione? Difficile credere che i parerii ritenessero que-
sta via meno onerosa; con tutta probabilità era stato Colomba-
no stesso ad includere la clausola, chissà perché? Forse i suoi
scalpelli, le sue punte erano magici, frutto di misteriose opera-
zioni alchemiche, di trasmutazione dei metalli. Le sue mazze
picchiavano da sole, i suoi utensili fendevano la pietra senza
usurarsi. Mantici, carbone e incudine non erano per la forgia,
ma per il rituale oscuro dei seguaci di Ermete Trismegisto ed i
segreti dei fabbri provenzali non erano che fumo dietro al qua-
le nascondersi. Questi i pensieri che rapidi si fecero spazio nel
cervello di Ippolito e su di essi le dichiarazioni di Romean
piovvero con un senso nuovo emanando odore di menzogna e
di colpevolezza.
«... quando che butti nel piscio i ferri ancora rossi di fuoco,
quelli sfrigolano che sembra grasso che si scioglie e si sente un
odore che non si resiste, ma poi ci puoi spaccare pietre per tre
o quattro giorni senza farci le punte; ma niente diavolo e nien-
te streghe, solo piscio, lo può fare anche Martino...»
Cosa poteva fare Martino? Il lavoro o il piscio? Neanche un
quarto d'ora prima questa puerile ambiguità avrebbe suscitato
il riso sulle bocche dei bifolchi, ma ora nessuno fiatava: l'uomo
in piedi accanto allo sgabello rimaneva solo, prigioniero del ri-
brezzo e della paura che aveva iniziato a suscitare.
Salvare Colombano, il Prevosto voleva così, ma si fosse se-
duto lui, il Prevosto su quello scanno sempre più scomodo, a
lui di tener mano ai complici di Satana, se ne aveva l'estro. Alla
malora, sia quel che sia.
«Notaio Rostollan, avete raccolto altre testimonianze? ché

78/156 Alessandro Perissinotto


l'inquisitore dovrà essere informato su tutto avanti della sua
venuta».
«Giudice giusto, volentieri risparmierei a questa buona gen-
te i racconti orribili delle nefandezze di quest'uomo, ma se vos-
signoria desidera conoscere fino a qual segno sia giunta la sua
intimità col principe del male non potrò sottrarmi al suo co-
mando».
Come il seduttore che ferita la preda la disdegna per poter
meglio terminare l'opera, così il notaio fingeva riluttanza
nell'esibire quei testi accuratamente cercati, se non addirittura
istruiti.
«La più dolente e penosa delle deposizioni è quella che rac-
colsi quattro giorni or sono dalla voce flebile di Marta Rouardo,
alla quale il curato ha da poche ore dato l'olio santo, tanto è
grave, ancorché inspiegabile la sua malattia. Ella mi disse d'a-
ver veduto l'imputato cogliere copiosamente delle pervinche
durante la vigilia di San Giovanni. La donna non sapeva e non
sa quale sia l'uso d'un tale fiore nelle pratiche negromantiche e
tuttavia rimase colpita dal fare sospetto col quale Romean na-
scondeva il suo raccolto e volgeva intorno gli occhi spiritati per
assicurarsi che nessuno lo scorgesse, e quando quelle due pu-
pille ardenti si posarono su di lei provò un tale turbamento che
ne cadde ammalata. Ciò che la donna non sapeva è noto invece
ai dotti e il nostro giudice non avrà difficoltà a spiegarlo».
Oh quanto rapidamente il notaio imparava dai propri errori!
Era impossibile coglierlo in fallo due volte.
«Provenchia» iniziò Ippolito «provenchia collecta in vigilia
festi Nativitatis beati Johannis...».
Guardò il pubblico che lo fissava con aria interrogativa.
«La pervinca raccolta nel giorno che precede la festa di San
Giovanni è, secondo alcuni, efficace amuleto da adoprarsi con-
tro l'azione della giustizia e per scampare alla guardia o alla
famiglia del signore».
Colombano negò; negò d'aver raccolto pervinche nei giorni
del solstizio d'estate e in ogni altro giorno; negò d'essersi ap-

La canzone di Colombano 156/79


pellato al diavolo per scatenare incendi e tempeste ché, secon-
do l'irrefutabile autorità di Guglielmo d'Alvernia vescovo di
Parigi, questo e molto altro sogliono fare maghi e stregoni; ne-
gò d'aver avuto apparizioni di Lucifero in forma di gallo nero,
di gatto nero, di donna lasciva e sensuale, di bue, di cane, di
giovane uomo riccamente parato; negò d'aver operato sortile-
gio sulla segale per uccidere Isoardo. Ogni cosa avrebbe nega-
to, anche d'esser vivo, ma quella speranza di tornare libero,
che prima s'era fatta reale, ora s'allontanava come un uccello
scuro nella nebbia.
Le deposizioni dei nuovi accusatori furono sobrie e misurate
e tutto il congegno abilmente assemblato da Maître Rostollan
funzionò con precisione. Alla fine, ascoltato l'ultimo testimone,
il giudice Ippolito si alzò e disse:
«Colombano Romean, i crimini di cui questi rispettabili sud-
diti del re di Francia e devoti servi del nostro signore il Prevo-
sto di Oulx ti accusano non possono essere sottoposti alla mia
giurisdizione, ché l'indagine e il giudizio sulle orribili colpe di
stregoneria spetta solo al tribunale della Santa Inquisizione.
Oggi stesso un messo raggiungerà la Prevostura affinché il
Prevosto sia informato di quanto s'è dibattuto in quest'aula e
possa richiedere l'invio in Chiomonte di un saggio inquisitore.
Fino a quando questi non giungerà in paese tu resterai rinchiu-
so nella prigione del castello. Il processo è concluso; un altro se
ne aprirà».
E mentre pronunziava queste parole, il suo volto, che prima
era passato dal ghigno beffardo alla smorfia impaurita, assunse
un'apparenza di pacata serenità; come se l'aver posto nelle
mani d'altri la sorte dello scalpellino l'avesse liberato d'un pe-
so troppo grave. Fu proprio nel momento in cui, spenta l'eco
della voce del giudice, la sala stava per riempirsi dei commenti
della folla, che dalle piccole finestre in alto entrò il suono pro-
fondo delle campane a morto: l'anima di Marta Rouardo, forse
atterrita dai malefici di Colombano, aveva trovato nuova pace
nei cieli del buon Dio.

80/156 Alessandro Perissinotto


VI Ritornello

'l bun Culumban (2 volte)


a porta l'éigua dal mont al pian
'l bun Culumban (2 volte)
6
a fura la pe(y)ra cun la sua man.

... perché grande sarebbe la mia ira se non fossero


troppi i casi occorsi senza tua colpa; casi imputabili
alla nequizia dei tempi, alla riottosità delle genti a
noi sottoposte e finanche alla mia leggerezza, giac-
ché fui io ad additarti la più ingenua delle soluzioni.
In epoche di maggior giustizia, di maggior fede, il no-
stro verbo sarebbe stato legge, e poi, se solo i campa-
ri si fossero ritenuti vincolati al silenzio e al rispetto
per il loro signore, chi mai avrebbe dovuto dubitare
della nostra spiegazione per le morti della Thullie?
Certo è che se i tuoi occhi, che sono i miei occhi in
Chiomonte, avessero visto per tempo l'ostilità che
s'andava levando contro Colombano Romean, se le
tue orecchie, che in Chiomonte sono le mie orecchie,
avessero afferrato nell'aria i propositi d'avversare lo
scavo del canale della Thullie, forse le accuse avreb-
bero colpito altrove, o chissà, forse non vi sarebbero

6 Il buon Colombano | porta l'acqua dal monte al piano | Il buon Colomba-


no | fora la pietra (o il canale) | con la sua mano

La canzone di Colombano 156/81


state né accuse, né cadaveri. Ma più che d'ira, il mio
animo è colmo d'indignata sorpresa per il modo in
cui la tua intelligenza s'è fatta carpire dal vortice
delle suggestioni e delle immagini prodotte dalla lin-
gua mendace del notaio Francesco Rostollan. Senza
troppe macerazioni hai ceduto alla seduzione del mi-
stero, alla tentazione di bollare come magici, negro-
mantici, stregoneschi, alchemici, i fatti che non sei
riuscito a spiegare. Il tuo raziocinio si è piegato sotto
la prima raffica di vento. Tu veramente credi che l'u-
rina di capra sia segno inconfutabile del diabolico
mercimonio? Sei tu persuaso che le testimonianze
prezzolate di quattro vecchie ignoranti siano garan-
zia di colpevolezza? Oh, sicuramente il tribunale del
Santo Uffizio per molto meno comincerebbe a far
ammonticchiare le fascine per il rogo, così come lo
farebbe per me e te se solo questo foglio cadesse nelle
sue mani. Ma chi è uso far negozio col Nemico
dell'umanità spesso rifugge l'ostentazione del male e
trama nel silenzio, lasciando i turpi rituali alla de-
menza degli indemoniati e di essi si fa schermo, per
meglio operare nel peccato; si profuma il capo e gu-
sta vini speziati e ride degli abominevoli intrugli che
altri ingurgitano pensando così di richiamare nei lo-
ro sordidi antri colui che invece predilige il lusso, l'o-
pulenza e il vizio. Se pure Colombano, per ottusità o
per il provvisorio smarrimento del cuore che la soli-
tudine ingenera, ha potuto cedere alla lusinga
d'un'alchimia ingenua, certo egli non s'è avvalso
dell'aiuto di Satana, ché altrimenti ben più rapida e
leggera sarebbe stata la portentosa opera sua. Noi
sappiamo e abbiamo sempre saputo, ad onta d'ogni
nostra negazione, che alla Thullie operò la mano di
un assassino, ma sappiamo anche che la volontà che
mosse quella mano era estranea a quanto lì si va edi-

82/156 Alessandro Perissinotto


ficando per il bene della comunità tutta: le guardie
del signore di Bardonecchia riferiscono che l'infame
individuo che si è proclamato Roi des Ribauds, Re dei
Depravati, ha ripreso le sue scorrerie, non solo nelle
terre ai piedi del Colle della Scala, ma anche nei do-
mini del signore di Nevache. Tu sai quanto poco i
confini facciano argine alle incursioni dei briganti e
conosci la selvaggia violenza con cui essi si abbatto-
no su qualunque creatura si ponga sul loro cammino,
godendo del sangue versato e delle sofferenze inferte,
pertanto, udite queste novelle, è divenuto mio fermo
convincimento che a portare morte e distruzione nel-
le grange di Isoardo, siano stati i Depravati, e non al-
tri. Ho fatto dar ordine ai champier della comunità di
Savoulx di sorvegliare tutti i sentieri lungo la Dora e
sulle pendici settentrionali e forse ciò indurrà i ban-
diti a correre altri luoghi, ma certamente non baste-
rà a placare gli animi in Chiomonte, ché le cose sono
andate troppo oltre. Tuttavia, ridotte al silenzio le ire
più accese, la gente, in luogo d'uno stregone sul rogo,
s'accontenterà d'un branco d'assassini impiccati, a
condizione che essi siano indubitabilmente i masna-
dieri che di tanti e tali crimini si sono macchiati. La
mia volontà è quindi che tu torni ai pascoli dei Quat-
tro Denti per scoprire le tracce che forzatamente la
torma degli infami deve aver lasciato e per compren-
dere quali armi abbiano potuto uccidere senza pro-
durre, come tu stesso constatasti, ferite sulla pelle, sì
che quando le mie guardie avranno catturato i col-
pevoli e i ferri roventi avranno piagato le loro carni,
le loro confessioni non siano che una conferma di
quanto tu avrai già reso noto al popolo, che sedotto
dalla positiva certezza delle tue scoperte e conferma-
to nel suo credere dagli inoppugnabili esiti della tor-
tura, si farà persuaso dell'innocenza dello scalpellino.

La canzone di Colombano 156/83


Ora più che mai però bisogna che il tuo agire sia
accorto ed efficace: la mia carica ed il precipitare
della situazione mi vietano qualsiasi indugio nella
convocazione di un inquisitore, ma prima che questi
abbia toccato il suolo della villa di Chiomonte, tu do-
vrai aver decretato e provato, con prove certe e sod-
disfacenti ciascuno, che per Isoardo e i suoi vi fu de-
litto e che questo delitto fu commesso dalle persone
che io ti indicherò. La mia fiducia nel tuo talento si
rinnova, ma meglio per te sarà che non abbia a pen-
tirmene, giacché preziosi come altri mai mi sono i
servigi di Colombano Romean.

Sebbene l'avesse già letta molte volte, come del resto il ri-
manente della lettera, Ippolito fu ancora intimorito da quella
frase che di poco precedeva la conclusione.
Guardò il foglio, la calligrafia minuta e regolare del Prevosto
lo ricopriva interamente, come un ricamo d'inchiostro sulla
carta color della paglia; poi, con decisione, lo strappò in minu-
scoli frammenti, certo per cancellare ogni traccia di quelle pa-
role troppo compromettenti, ma soprattutto per la stizza d'a-
ver dovuto nuovamente subire le dure rampogne del suo si-
gnore. Né poteva in alcun modo negare che il Prevosto avesse
colpito nel segno biasimando l'arrendevolezza che egli aveva
mostrato davanti alle accuse di stregoneria. Per molti giorni,
concluso il processo, il giudice aveva calmato gli affanni dell'a-
nimo nella confortante sicurezza d'aver combattuto la lotta
contro il male nel giusto esercito, e poco importava se quello
era lo stesso esercito dei Beaudia e dei Rostollan. Egli aveva
giaciuto dimentico e sereno con la sua vedova e s'era addor-
mentato col capo tra i suoi seni ancora nudi, malgrado l'inizio
di settembre cominciasse a portar via dall'aria il tepore tanto
amato.
Con l'irresponsabilità d'un fanciullo, Ippolito aveva vissuto

84/156 Alessandro Perissinotto


come se l'esito del dibattimento fosse stato quello che il suo si-
gnore gli aveva chiesto di ottenere, come se dalla Prevostura
non potessero giungere che lodi. Poi, dopo un silenzio inspie-
gabilmente lungo, un messaggero aveva recato il dispaccio, ed
ancor prima di srotolarlo il giudice aveva compreso che il tem-
po dell'incoscienza era finito; ora, ad un giorno dalla prima let-
tura, egli andava cercando nella mente e nella memoria un filo
che spiegasse i fatti con la forza della logica e non con la super-
bia inconcludente dell'autorità.
L'aria ferma della stanza in cui si trovava gli parve inade-
guata alla bisogna, alla difficoltà del suo compito in quel mo-
mento; uscì dunque e appoggiò la schiena al muro in pietra di
quel palazzotto che l'orgoglio paesano continuava a chiamare
castello. Le sue vesti garrivano al vento e nel cielo le nubi si sti-
ravano in veli sottili dietro i quali il sole, privato dei suoi raggi,
non era che un disco perfetto e freddo.
Si guardò intorno; nei prati, uomini e donne raccoglievano
chini l'ultimo fieno, quello che avrebbe garantito lungo l'inver-
no la sopravvivenza delle bestie e anche la loro. Cosa mai ave-
vano cercato i briganti tra questa gente? Non oro, non gioielli.
E bastava la loro condotta di masnadieri a spiegare tanta fero-
cia contro persone inermi? E perché non violare la vergine Flo-
retta prima d'ucciderla? Perché non stracciarle le vesti ed abu-
sare del suo ventre? S'erano mai astenuti dallo stupro i brigan-
ti o i soldati di ventura o persino i cavalieri in cerca di gloria?
Eppure, egli se lo ricordava bene, gli abiti della fanciulla erano
composti ed integri, né il sangue, altrove copioso, aveva arros-
sato le sue cosce. E poi, chi mai aveva udito di questo Re dei
Depravati? La servile contrizione di poco prima lasciò il posto
per un attimo ad un desiderio di ribellione simile a quello che
coglie l'allievo verso il maestro quando questi diviene suo pari,
ma non fu che un'ombra subito dissolta.
Camminava ora il giudice Ippolito e tutto ciò che vedeva lo
convinceva della perfezione di un ordine superiore al quale
egli non doveva e non poteva opporsi: l'acqua del fiume scen-

La canzone di Colombano 156/85


deva più abbondante in estate, quando i campi ne avevano bi-
sogno, e più scarsa in inverno, con i coltivi che giacevano sotto
la neve, e le piogge cadevano nelle giuste stagioni e il sole
splendeva secondo le necessità della terra per far germogliare i
semi e maturare i frutti; tutto obbediva al disegno del Creatore
che aveva disposto ogni cosa secondo il suo volere e per l'utili-
tà dei suoi figli. E come i fiumi, gli astri e i venti obbedivano alla
volontà superiore, anche gli uomini dovevano uniformarsi a ciò
che per loro era stato decretato, ciascuno secondo la propria
condizione, ciascuno obbedendo a colui che il salvifico piano
divino aveva collocato a guida dei sottoposti.
Continuò a camminare senza meta e senza scopo, quasi che
il rumore delle scarpe sui ciottoli del sentiero avesse dovuto
imporre ai suoi pensieri un ritmo più preciso. E invece essi, ir-
requieti, in luogo di concentrarsi sul compito assegnato, segui-
vano il suo sguardo e mutavano col mutare degli oggetti su cui
esso si posava. Risalendo a mezza costa il versante meridiona-
le, col viso volto a ponente, Ippolito vide stagliarsi la punta
aguzza del Rochemelon e si sovvenne dell'inutile impresa di
Rotario d'Asti che due secoli prima vi era salito con sforzo im-
mane. Nessuno, dalle sue parti, avrebbe desiderato scalare le
nevi della Muzelle, o della Meije, o l'irta roccia del Pelvoux, at-
torcigliata su se stessa come, dicevano, un'enorme cacata di
Gargantua. Inutili le alte montagne, isterilite dai ghiacci peren-
ni e dall'affiorare della pietra nuda; imponenti segni della mae-
stà divina, ma anche algidi e feroci guardiani dell'inverno, di-
spensatrici di valanghe e d'ombra sulle valli e sugli uomini.
Quanto più preziosi erano i pascoli, fecondi, ricchi, grassi come
quelli del Frais e come, in un giorno molto vicino, quelli dei
Quattro Denti.
Li cercò con lo sguardo, ponendosi a sedere su un grosso
sasso, ma non li vide così come essi erano, gialli e aridi, li vide
trasfigurati, smeraldini, solcati da cascatelle e punteggiati di
stagni di fronte agli alpeggi e quella visione gli suggerì che non
occorreva pensare oltre, bastava credere: l'indomani avrebbe

86/156 Alessandro Perissinotto


ripreso la mula e il cammino per la Thullie, le tracce dei ribaldi
sarebbero state lì dove aveva detto il Prevosto, lì dove non
aveva saputo trovarle la prima volta.
Ridiscese lungo il sentiero; dietro al velo di nubi il sole s'era
fatto color di brace ed ogni cosa intorno tendeva ormai al gri-
gio. Nei viottoli più prossimi al villaggio incrociò i villani che
tornavano dai campi con la gerla piena e quelli che si erano at-
tardati nei vigneti ormai spogli. Davanti alle case però, sulle
panche accanto agli usci spalancati, vi era già chi consumava la
sua piccola cena: un pezzo di toma e una fetta di pane che, im-
mersa nel latte, ritrovava un po' della morbidezza di quando,
un mese prima, era uscita dal forno.
Dopo tutti gli sconvolgimenti dei giorni precedenti, si respi-
rava ora un'aria di serenità; Ippolito ne fu contagiato e gli ven-
ne improvvisamente voglia di Margherita, non solo del suo
corpo, ma della sua compagnia e, perché no, anche di quella di
Tommaso.
Tornò al castello solo per prendere con sé un pane, un gros-
so pezzo di carne secca e salata e una fiasca di vino; poi, per il
consueto camminamento discosto dalla via principale, rag-
giunse la casa della sua vedova.
Margherita non lo attendeva, almeno non più di quanto lo
attendesse sempre. Non c'erano giorni fissi per i loro incontri,
il cui ritmo era scandito solo dalla voglia di lui e dall'opportu-
nità; e tuttavia, mai era accaduto che lei si mostrasse meno che
lieta di incontrarlo o di giacere con lui ed anche quella sera, per
gioia o per posa, atteggiò il suo volto al sorriso per accogliere
quell'ospite generoso ed esigente. A vederli, tutti e tre intorno
al tavolo, li si sarebbe detti una famiglia. Parlavano, motteggia-
vano, bevevano, mangiavano, ridevano. Bello il mondo, pensò il
giudice Ippolito e, contrariamente al suo costume e alle conve-
nienze, prese a raccontare della sua missione e della caccia al
Roi des Ribauds che sarebbe iniziata il giorno successivo.
«Il Roi des Ribauds?» chiese Margherita sorpresa.
«Sì, il Roi des Ribauds, il Re dei Depravati o comunque abbia

La canzone di Colombano 156/87


nome quel vigliacco che percorre le montagne uccidendo genti
inermi».
«Credevo che il Roi fosse solo un'invenzione dei vecchi».
Ippolito rimase sconcertato. «Avevi già udito parlare di
lui?».
«Quand'ero piccola, gli uomini cantavano una filastrocca che
le nostre madri dicevano di non ripetere perché parlava di bri-
ganti e di puttane».
«Te la ricordi?».
«Solo il ritornello».
«Come fa?».
Margherita canticchiò con la sua voce pulita e una leggera
malizia negli occhi:
Jean Barneaud Roi des Ribauds,
Jean Barneaud Roi des Crapauds,
et sa femme Ribaude
qu'est ce que va faire enfin,
et sa femme Ribaude
va faire la catin.
Il giudice appoggiò, uno sull'altro, i pugni sul tavolo e vi po-
se sopra il mento, pensoso, rimanendo in silenzio mentre la
vedova raccoglieva le poche stoviglie di legno e di coccio. Ad un
tratto, continuando ad alta voce un pensiero, chiese:
«Qualcuno l'aveva forse visto questo bandito?».
«Certo non quelli che io avevo sentito cantare la canzoncina:
dicevano che era morto sul rogo prima che nascessero i vecchi
dei loro vecchi».
Avrebbe potuto essere l'inizio di una nuova conversazione,
ma il giudice riprese a tacere e Margherita uscì per lavare sco-
delle e tagliere alla fontana. Fuori faceva buio ormai, più buio
che nel profondo della notte, ché la luna non era ancor sorta; e
freddo anche, con un vento da ovest che penetrava cattivo nel-
la trama larga delle vesti. La vedova sciacquò in fretta il suo ru-
stico servizio, rabbrividendo leggermente al contatto con l'ac-

88/156 Alessandro Perissinotto


qua fredda, poi rientrò e vide una scena che mai aveva veduto,
né mai aveva creduto di poter vedere: Tommaso dormiva sulle
ginocchia di Ippolito e il giudice gli carezzava la testa, assorto,
con lo sguardo che sembrava contemplare le ombre proiettate
sul muro dalla fiamma irrequieta della lucerna. Margherita, an-
cora sulla soglia, pensò a suo marito e non le riuscì di immagi-
narselo tanto amorevole; si sentiva dentro qualcosa che poteva
assomigliare alla felicità. Si avvicinò al tavolo e Ippolito le por-
se il bambino addormentato; lei lo distese nel suo lettino di ca-
stagno, poi, malgrado il freddo appena temperato dalle braci
del focolare, si spogliò.
Il giudice già sapeva che non si sarebbe coricato con lei
quella sera, ma egualmente lasciò che ella si togliesse la tunica
di panno e la camicia e rimanesse nuda; la sua pelle chiara, le
sue cosce sode di giumenta, i seni duri offerti alla vista nella
penombra della lampada erano una tentazione troppo grande.
La attirò a sé e, restando seduto, prese a far scorrere le mani
sulle sue natiche e le labbra sul ventre piatto e sugli inguini, fi-
no a che non udì il respiro di lei farsi più affannoso, allora la
baciò sulla bocca, le disse che non poteva fermarsi e la lasciò lì,
confusa, a chiedersi se quell'uomo non la desiderasse più.
E invece Ippolito non l'aveva mai desiderata tanto quanto
quella sera ed in seguito avrebbe rimpianto di non aver goduto
con lei forse per l'ultima volta. Ma la maledetta filastrocca gli
aveva disseminato l'animo di dubbi.

Jean Barneaud Roi des Ribauds,


Jean Barneaud Roi des Crapauds,
et sa femme Ribaude
qu'est ce que va faire enfin,
et sa femme Ribaude
va faire la catin.

Re dei Depravati, Re dei Rospi per dovere di rima, con una


donna che non può che esser baldracca, che non può andare a

La canzone di Colombano 156/89


far altro che la puttana. Era questo il sanguinario bandito che
aveva sterminato la famiglia di Isoardo? Ma non era morto da
cent'anni almeno?
Un emulo, un brigante nuovo col nome vecchio, attratto,
come spesso accade ai perversi, dalle gesta malvagie di chi l'ha
preceduto. Ecco cos'era.

Jean Barneaud Roi des Ribauds,


Jean Barneaud Roi des Crapauds,
et sa femme Ribaude
qu'est ce que va faire enfin,
et sa femme Ribaude
va faire la catin.

La strofetta gli rigirava in bocca come un boccone duro a


deglutire.
Eppure il Prevosto aveva parlato di ripresa delle scorrerie,
come se si trattasse dello stesso Roi di un tempo. Probabilmen-
te Margherita si sbagliava, non capiva, confondeva, era donna.
Nel dubbio, Ippolito, prima di partire per la montagna, aveva
deciso di interpellare l'unico notabile di cui potesse ancora fi-
darsi, il sindaco Sibille; per recarsi da lui stava ora attraver-
sando il paese buio e deserto.
L'aria fredda aveva spazzato le nubi del crepuscolo e in cielo
la stella della sera era come appoggiata alla cresta nera dei
monti. Rimpianse di non aver indossato il mantello; l'autunno
gli era piombato addosso come sempre, puntualmente inaspet-
tato. Sicuro di non incontrare nessuno, camminò lungo la stra-
da principale; i sassi dell'acciottolato erano lucidi d'umidità.
Rasentò le case; dalle impannate, qua e là, giungevano deboli
bagliori di braci non del tutto spente e il fumo, dopo aver anne-
rito i muri di pietra e le travi dei tetti, usciva in strada portan-
do con sé l'odore un po' acre della legna ancora troppo verde.
Molti già dormivano, gli altri l'avrebbero fatto presto, nelle
stalle, i più, nei letti ad armadio, con le ante ben chiuse, quelli

90/156 Alessandro Perissinotto


che potevano permetterselo. Com'erano distanti le sue notti di
scolaro a Grenoble! Le vie illuminate dalle fiaccole, le taverne e
gli argini dell'Isère e del Drac come alcove a cielo aperto nel
caldo dell'estate. Forse i suoi compagni d'un tempo, almeno
quelli con un blasone e una rendita alle spalle, adesso erano a
banchetto e mangiavano quaglie e fagiani, civet di vitello, riso
cotto nel latte, anguille rivoltate in tegame, anatra in salsa di
cipolla, sanguinaccio, lesso lardellato con vino rosso d'Orléans
o bianco di Auxerre, di Beaune, di Sancerre, e poi ancora for-
maggio bianco, sformati, cialde, innaffiati di malvasia e di co-
stosissimo vino di Cipro. Ma in tutto quell'immaginare non c'e-
ra invidia, ché per il figlio d'un pastore di Saint Cristophe en
Oisans era troppo anche il semplice desiderare.
La luna intanto, seppure nascosta, cominciava a disegnare
un leggero chiarore dietro la costa, dando agli alberi sul crinale
l'aspetto di tentacolari creature. Certo era un'ora inconsueta
per far visita al sindaco, ma Ippolito desiderava essere al ripa-
ro da ogni sguardo.
Giungendo alla casa di Guigo Sibille, Ippolito vide dietro il
vetro della finestra una fiammella ancora accesa: ci aveva con-
tato. Tutto, il lindore delle stanze, la finestra col vetro, la lucer-
na accesa fin dopo Compieta, tutto denotava una sobria e di-
stinta agiatezza. Il sindaco era un uomo savio, posato e colto,
che conosceva un po' di latino e leggeva la bibbia e le vite dei
santi. Ad Aimerico, il falegname, anni prima aveva chiesto di
costruire un mobile insolito per una casa privata, non dissimile
da una scansia di quelle che si usavano per la stagionatura dei
formaggi, ma infinitamente più delicato nelle forme e destinato
non alle tome ma ai libri. Al falegname era parso inconcepibile
che un solo uomo possedesse tanti volumi da riempire un mo-
bile largo quattro piedi, ma il lavoro gli era stato pagato bene
ed egli lo aveva eseguito senza porsi troppe domande. In effetti
Guigo Sibille aveva più libri d'ogni altro in paese e in tutte le
lingue che a Chiomonte, transito di eserciti e di pellegrini, si
parlavano o si capivano. Possedeva Il poema di Giovanna d'Arco

La canzone di Colombano 156/91


di Christine da Pizan, che egli stesso aveva copiato dall'esem-
plare di un predicatore errante; c'era poi il Morgante, che sem-
pre lo faceva ridere per le crudeli burle di Margutte; il Novelli-
no di Masuccio, che mordeva la mondanità di preti e frati; e an-
cora il seducente, maledetto Villon e molti altri ancora. E, natu-
ralmente, fu un uomo intento alla lettura quello che Ippolito
destò bussando alla porta.
«Buona sera sindaco».
«Buona sera giudice Ippolito, si può dire che vi aspettassi».
«Aspettavate me?»
«Aspettavo qualcuno che mi spiegasse perché quel galan-
tuomo di Colombano è rinchiuso innocente nelle segrete del
vostro castello».
Era come se la stranezza di quella visita notturna avesse
stabilito un tacito accordo tra i due e li avesse autorizzati ad
ignorare ogni prudenza verbale.
«Non vengo per spiegare, ma per capire. In primo luogo vor-
rei però porvi una domanda che indubbiamente vi parrà stra-
na: conoscete Jean Barneaud?».
«Il Roi des Ribauds, il Re dei Depravati?».
«Sì, lui».
«Giudice Ippolito, voi mi fate più vecchio di quanto io non
sia, più vecchio di quanto alcuna creatura umana sia mai stata
dai tempi di Kenan, di Maalaleel, di Matusalemme, di Enoc e
degli altri patriarchi prima di Noè. Jean Barneaud è morto sul
rogo con i suoi Ribauds nel 1418 a Bardonecchia. La sua storia
è ormai quasi dimenticata e sopravvive solo in alcune strofe da
trivio».
Il giudice canticchiò quella che sapeva:
Jean Barneaud Roi des Ribauds,
Jean Barneaud Roi des Crapauds,
et sa femme Ribaude
qu'est ce que va faire enfin,
et sa femme Ribaude
va faire la catin.

92/156 Alessandro Perissinotto


«È una di quelle» sorrise Sibille e riprese. «Si diceva che i
Ribauds fossero stregoni, iniziati ai riti magici dai mercanti
giudei e da quelli della trista genia dei marrani di Spagna. La
gente credeva che le loro donne fossero nobili e principesse
prese e trattenute per incantamento, ma io credo che si trat-
tasse di povere pazze, di fanciulle rapite e di baldracche senza
più clienti. I Ribauds erano una masnada di ribelli, assassini,
ladri, troppo bestiali per penetrare i misteri alchemici, troppo
selvaggi anche per la stregoneria. Pensate che tutto questo vi
aiuterà a salvare Colombano?».
«Forse mi aiuterà a non seguire una pista sbagliata e a diffi-
dare di chi me la indica». Ippolito sentì l'impulso di parlargli
della lettera ricevuta dal Prevosto, ma si trattenne, decidendo
di tenere per sé i propri dubbi.
«Siete un uomo accorto, giudice Ippolito; perdonatemi se ho
dubitato di voi, ma ho veduto troppi abomini e troppi ne ho
sentiti narrare da mio padre e dal padre di mio padre, la mia
fede nella giustizia degli uomini vacilla sempre più».
«Raccontate anche a me ciò che sapete, affinché non abbia-
no a ripetersi le colpe del passato».
«Ve ne racconterò, se lo desiderate, ma non confidate trop-
po nella perfettibilità dell'Uomo: gli errori passati torneranno.
Le mie orecchie hanno udito Alberto Cattaneo estorcere dena-
ro alle genti della valle di Thures e dell'Argentiera con la mi-
naccia di essere uccisi come seguaci dell'eresia di Valdo e pri-
ma di lui, Bartolomeo Aggroffati ha sparso il terrore tra queste
montagne, sì che i vecchi, per timore d'essere additati a stre-
goni, si nascondevano persino per preparare gli infusi di ver-
bena o gli impiastri di foglie di castagno che alleviano i dolori
delle ossa e delle membra intorpidite dal freddo e dagli anni».
«Eppure» lo interruppe Ippolito «non si può negare l'esi-
stenza del demonio e dei suoi emissari sulla terra: il fuoco pu-
rifica quanti si sono lasciati sedurre dal Maligno e ci libera dal-
la corruzione del peccato».
«Ma il fuoco può dilagare senza controllo, come quando si

La canzone di Colombano 156/93


incendia un bosco per ridurlo a coltivo e poi si leva il vento e le
fiamme ghermiscono le case degli uomini, i fienili, le bestie e
persino la casa di Dio. Cent'anni fa il fuoco dei roghi ha rischia-
rato fin troppo le terre del basso Delfinato, da Bardonecchia a
Chiomonte, da Oulx a Prazlat e assieme a streghe e ad assassini
sono morti stuoli di sempliciotti, visionari e ubriaconi. A Sa-
voulx, ai tempi di mio padre, si rideva ancora della moglie d'un
tale, Laurent Moti, che, non volendo più usare carnalmente con
lui, diceva d'aver evocato un diavolo di nome Guillamet affin-
ché disseccasse il membro del marito. La povera idiota aveva
confessato che il diavolo le era apparso prima sotto forma di
gallo nero e poi sotto le spoglie d'un giovane vestito di bianco e
che, in segno di distacco da Dio, le aveva chiesto di rovesciare a
terra una scodella di latte. Pare che Laurent Moti abbia conti-
nuato a lungo le fornicazioni, mentre la moglie è finita sul rogo
di Bardonecchia. Vi chiedo, giudice, vi pare possibile che per
tanto poco il diavolo offra i suoi servigi?».
«Il demonio gode anche del più piccolo dei mali» rispose Ip-
polito, ma lo fece senza convinzione.
«E Tommase Bègue, qui di Chiomonte, in cosa aveva servito
Satana? Era un demente, col corpo da vecchio e il volto da
bambino. Gli hanno fatto confessare d'aver invocato per tre
volte Mermet diable a Exilles, un martedì notte e, in segno di
clemenza per la confessione resa spontaneamente, senza tor-
ture, invece di bruciarlo lo hanno annegato nelle acque gelide
della Dora, d'inverno, proprio a Exilles dove aveva detto d'aver
visto il suo diavolo correr via come un gatto nero».
«Per fortuna» intervenne il giudice «nell'accogliere a sé le
anime, il Signore sa porre rimedio alle miserie degli uomini.
Ma, non temete sindaco, farò ogni cosa affinché Colombano
non debba conoscere il rogo o il patibolo; per questo, il vostro
aiuto mi è stato prezioso».
«Se li accettate, forse posso darvi ancora due consigli. Il
primo riguarda le carte: siete stato molto abile con i documenti
dell'archivio comunale, ma, da qualche tempo, ho l'impressio-

94/156 Alessandro Perissinotto


ne che sull'acquedotto della Thullie siano stati presi nuovi ac-
cordi, accordi segreti. Il paese sembra meno diviso di prima e
tutti paiono attendere con ansia la fine dei lavori. Se veramente
accordo c'è stato, in qualche luogo deve esservi un atto che lo
ratifichi, ché qui nessuno è tanto ingenuo da fidare solo sulla
parola degli altri».
Strano come gli stessi segni diano agli uomini impressioni
tanto diverse; da tutto ciò che aveva visto e udito, Ippolito si
era formato un'opinione opposta a quella del sindaco e aveva
creduto che le lacerazioni non fossero mai state così profonde,
ma, dopo tutto, queste non erano che idee: ad ognuno la sua.
«La seconda cosa che voglio dirvi è questa: avete rimarcato
quanto Colombano fosse spiato, osservato, controllato da parte
della gente degli alpeggi?».
Il giudice questa volta si trovò d'accordo e annuì.
«Bene, allora per la vostra causa potrebbe esservi utile
qualcuno che abbia guardato le cose dall'esterno, che abbia
spiato gli osservatori e l'osservato, qualcuno che può vedere
tutto senza essere visto».
«Sindaco, se è all'aiuto di Dio che mi volete rimandare, sap-
piate che in ogni mia azione io mi appello a lui...»
«No, non era a Dio che volevo raccomandarvi, e adesso, se lo
volete, accostate a me il vostro sgabello ed ascoltatemi».
Colpito dall'improvviso abbassamento del tono della voce e
da quel parlare pacato da venerabile saggio, il giovane si avvi-
cinò all'anziano e si dispose all'ascolto. A chi li avesse visti da
fuori, lì, nella luce della lampada, chiusi in quel rustico studio
dalle pareti di nuda pietra, sarebbero parsi come due dottori
intenti a discutere di questioni inafferrabili, dell'entelechia o,
magari, di Gorgia e della mendacità della parola.
E fu solo dopo aver molto argomentato e molto udito che
Ippolito si levò ed aprì la porta per uscire.
«Buona notte sindaco Sibille».
«Buona notte giudice Ippolito, il Cielo vi accompagni».

La canzone di Colombano 156/95


VII Strofa quinta 7

Un po' di riposo, tutto ciò che gli occorreva in quel momento


era un po' di riposo. Rispettando i piani formulati il giorno pre-
cedente, era salito alla Thullie, questa volta senza mula, ma con
un piccolo sacco legato a un bastone che lo faceva sembrare un
pellegrino sulla via di Santiago. Lungo il cammino, aveva più
volte abbandonato il sentiero per addentrarsi nel fitto bosco
che sovrastava le Ramats: non si nascondeva forse nei boschi
colui che il sindaco Sibille gli aveva detto di cercare? Aveva
esplorato minuziosamente la bassa vegetazione sperando di
cogliere con lo sguardo una linea di ramoscelli spezzati, ma
niente. Allo stesso modo aveva alzato gli occhi verso la compat-
ta volta di foglie che quasi impediva di vedere il cielo, fidando
di poter scorgere un rifugio tra le fronde: solo rami contorti
che si intrecciavano in bizzarri abbracci, spinti da null'altro che
dalla loro natura. Di lui, nessuna traccia. Ma non era forse, per
sua stessa definizione, introvabile? Anche questo gli aveva det-
to il sindaco la sera precedente. Quante cose gli aveva detto! Di
tanto in tanto, durante la marcia, Ippolito si ripeteva mental-
mente alcune battute di quel lungo dialogo, per essere certo
che la folle ricerca che stava conducendo non scaturisse soltan-
to da un'esaltazione della sua mente.
«Ippolito, credete voi all'Uomo Selvatico?» gli aveva chiesto
il vecchio.

7 La strofa è mancante, la cantatrice si ricordava solo che in essa si parla-


va dell'om selvaie, dell'Uomo Selvatico, ma nulla più; normalmente ella
saltava questa strofa, la cui originaria esistenza è comunque certa.

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«Donne e uomini d'ogni età e d'ogni luogo dicono d'averlo
visto» aveva risposto.
«Ma voi giudice, voi l'avete veduto con i vostri occhi?».
«Io no, mai, ma nel paese dove sono nato, a Saint Cristophe,
nell'Oisans, si raccontava che un tempo l'Uomo Selvatico spun-
tasse all'improvviso tra le case, la sera, spaventando tutti con
la sua barba incolta e i suoi capelli arruffati, più criniera che
chioma. Ma, in fondo, non era cattivo e a quanti avevano avuto
il coraggio di non fuggire e di invitarlo nella stalla, aveva svela-
to i segreti del latte, del caglio e della cera».
«È quanto si dice anche qui, tranne per la questione della
cera. Al vostro paese vi era qualcuno capace di trasformare il
siero del latte ormai esausto in cera da candele?».
«Per la verità no».
«Neppure qui a Chiomonte, o a Millaures, o a Fenils o in qua-
lunque delle comunità che compongono l'escartons di Oulx. I
vostri vecchi non vi hanno narrato la storia della chiave?».
«No».
«Qui si racconta che per molte sere l'Uomo Selvatico avesse
riunito in una grande stalla tutti i giovani del villaggio per in-
segnare loro a trarre dal latte tutte le ricchezze che esso poteva
dare. Aveva loro spiegato come ottenere il burro migliore, il
formaggio più saporito e meno corruttibile e per ultimo aveva
lasciato il passaggio più sottile e misterioso, quello che consen-
te di mutare il siero, il residuo spoglio e inutile di tutte le lavo-
razioni precedenti, in ottima cera per fare candele. Ma proprio
l'ultima sera, i giovani, che dell'Uomo Selvatico avevano perdu-
to ogni timore, riscaldarono sul fuoco una grossa chiave e la
posero sulla sua panca appena prima che lui si sedesse; il Sel-
vatico si bruciò e scappò via senza farsi più rivedere: è per
questo che noi non sappiamo fare la cera col latte».
In certi momenti quelle frasi gli apparivano assurde. Chissà
quale sarebbe stata l'irritazione del Prevosto se lo avesse sapu-
to lassù, non alla ricerca delle tangibili tracce d'una banda di
briganti, ma impegnato in una caccia senza possibilità. Proprio

La canzone di Colombano 156/97


lui, al quale mai l'obbedienza era pesata, si permetteva ora di
trascurare gli ordini. Quale traviamento s'era impossessato
della sua persona? È forse che mai prima di allora gli era oc-
corso di perdere ogni fede in chi lo comandava. Ma perché il
suo signore aveva voluto prendersi gioco di lui indicandogli
quel nome: Jean Barneaud? Perché raccontargli una storia così
manifestamente falsa? Per quel maledetto Roi des Ribauds si
era fatto quasi deridere da Margherita e poco c'era mancato
che il sindaco non lo prendesse per un folle.
Riposo, gli ci voleva riposo. Tutto il giorno aveva camminato
e senza neppure giungere alla sommità della montagna. L'inte-
ra giornata per setacciare, sasso per sasso, il versante esposto
a mezzogiorno: dal territorio delle Ramats a quello di Cels, e
poi di nuovo indietro, in un percorso tortuoso che lo aveva la-
sciato esausto. Sterpi, bossi, rododendri rinsecchiti ed esili ra-
mi di giovani noccioli: tutto si poneva sul suo cammino. E ades-
so non aveva altro desiderio che quello di posare il corpo sulla
terra ed abbandonarsi, ma non lì, non nell'ombra che si era di-
segnata sul pendio quando il sole si era abbassato all'orizzonte,
ché il vento ora gli gelava il sudore sul dorso e faceva rabbrivi-
dire la sua pelle diaccia. Doveva spostarsi più in alto, sulla cre-
sta, dove i raggi dorati riscaldavano ancora le rocce.
Camminò ancora un po' lungo la traccia in diagonale e
quando vide proprio sopra di sé gli spuntoni chiari dei Quattro
Denti ebbe un moto di gioia: la cresta, col suo tepore, era vici-
na. Quattro Denti, otto, dodici e anche di più, tanti erano gli
acuminati picchi di bianco calcare che parevano infitti nella co-
sta erbosa a formare una gigantesca bocca. Lì il paesaggio si fa-
ceva irreale, tanto era diverso dalle altre vette di scuro granito,
e ancor più irreale ed inquietante si faceva in quell'ora in cui il
tramonto arrossava i bianchi denti trasformandoli nelle zanne
d'una belva dopo un sanguinoso pasto. Ma ad Ippolito quel
rosso ricordò solo il calore del fuoco e, quando vi giunse, ap-
poggiò la schiena ad uno di quegli enormi massi e si prese la
testa tra le mani.

98/156 Alessandro Perissinotto


«Ma voi, giudice, ci credete all'Uomo Selvatico?».
Appena il corpo aveva trovato riposo, la mente era tornata
al colloquio della sera precedente con il sindaco Sibille e so-
prattutto a quella domanda che sembrava riassumere in sé
l'essenza di tutto il discorso: «Ma voi, giudice, ci credete all'Uo-
mo Selvatico?»
Il sindaco gliel'aveva posta nuovamente dopo avergli narra-
to la vicenda della chiave ed egli, dopo tanti racconti, si era
sentito di dire ciò che aveva in cuore: sì, ci credeva.
«Io no» aveva replicato, a sorpresa, il vecchio e poi aveva
continuato:
«Qualcuno l'ha visto nell'Oisans, come voi dite, qualcun altro
qui a Chiomonte, altri nelle terre dei Duchi di Savoia, altri an-
cora nelle montagne dove si parlano lingue alemanne. L'hanno
visto gli avi, i padri, i figli e i nipoti. Ora, io vi chiedo, chi è dun-
que costui che vive in ogni luogo e sempre, attraverso il tempo
e lo spazio?».
«Uno stregone».
«Oh giudice, vedete com'è facile ricadere nello stesso erro-
re? Ancora la stregoneria, ancora Satana. Cos'è invece quella
cosa che può non morire mai, che può godere dell'ubiquità, che
può essere donata senza privarsene, che può essere condivisa
senza essere suddivisa, senza che ad ognuno tocchi una parte
più piccola dell'intero?».
Ippolito, ora se ne ricordava benissimo, era rimasto silen-
zioso e perplesso ed il sindaco aveva fornito da sé la risposta.
«Un'idea, questa è quella cosa. L'Uomo Selvatico è un'idea,
ma non per questo è meno reale».
Quanta confusione, quante contraddizioni. Ancora adesso
che vi ripensava, godendosi gli ultimi momenti di sole con il
dorso contro la superficie calda della roccia, Ippolito sentiva
tutta la difficoltà che aveva provato nel seguire i ragionamenti
del buon Sibille.
«Io credo» aveva proseguito il sindaco «che di quando in
quando vi sia qualcuno che sente insopprimibile il desiderio di

La canzone di Colombano 156/99


incarnare in sé l'idea dell'Uomo Selvatico, di farsi selvatico da
civile quale è. Certo, talvolta è la follia a condurre a un'esisten-
za belluina, ma ben più sovente è la saggezza; avete notato che
tutte le leggende ci parlano di lui come di un sapiente? Sono
persuaso che non esista un Uomo Selvatico, ma dieci, o cento, o
mille uomini selvatici. Uomini partoriti da donne normali, alle-
vati in case normali; uomini che si chiamavano Guigo, France-
sco, Ippolito, Antonio, Einardo, Durante e che un giorno hanno
scelto per sé soltanto l'appellativo di Selvatico».
«Ma perché tutto questo?»
«Per conoscere la vera saggezza, per guardare gli uomini
dall'esterno. Ascoltatemi giudice, da oltre un anno l'Uomo Sel-
vatico sembra essere tornato sui nostri monti. Ne parlano i pa-
stori della Thullie e del vallone di Tiraculo, ma a mezza voce;
dicono d'averlo visto, vestito di sacco; dicono d'aver lasciato
nei pascoli delle pecore malate, moribonde, e di averle trovate
il giorno dopo guarite, con le ferite sanate. Lo temono e lo
amano e non ne hanno riferito a voi per paura che gli deste la
caccia».
«Credete che sia stato lui ad uccidere Isoardo?».
«No, non pensiate che sia così semplice. L'Uomo Selvatico
porta la vita, non la morte. Ma potrebbe aver visto cose che voi
non sapete, che nessuno di noi può sapere. Cercatelo, ma non
lo troverete, eppure continuate a cercarlo perché potrebbe non
essere invano».
Ecco, ora che l'intero discorso del vecchio Sibille era ripas-
sato attraverso la sua mente, Ippolito si sentiva smarrito come
prima. Cercarlo e non trovarlo e tuttavia non agire invano. Si
credeva forse un oracolo il sindaco? Quale enigmatico messag-
gio era il suo?
Si malediceva ora, per aver seguito il consiglio del vecchio;
si malediceva perché nel cercare senza trovare era trascorso
un giorno intero ed ora che del sole non rimaneva che un az-
zurro chiarore dietro al passo di Clopaca, lo attendeva una not-
te sulla montagna, da solo.

100/156 Alessandro Perissinotto


Si levò in piedi, la cresta dei Quattro Denti era stata una
buona tappa, ma non poteva certo offrire un rifugio per il son-
no, né, a quelle altezze, la coperta che il giudice aveva nel suo
sacco sarebbe bastata a proteggerlo dal freddo. Riprese il sen-
tiero che scavalcava la cresta e, dall'alto, vide le grange della
Thullie. Era certo che nessuno vi fosse più entrato dopo che i
cadaveri di Isoardo e della sua famiglia, assieme a quelli degli
animali, erano stati portati via dai champiers; si sarebbe dun-
que fermato là, anche se la sola idea gli dava un'ansia insop-
portabile.
Discese piano, lungo il versante opposto a quello da cui era
salito. Nella penombra che volgeva ormai in oscurità, il piano
della Thullie, malgrado l'erba grassa che lo ricopriva e i ruscelli
che lo solcavano, appariva desolato, disseminato com'era di
mille piccoli massi che sembravano altrettanti corpi esanimi. O
forse era Ippolito che da quel mattino di fine agosto non riusci-
va più a vederlo altrimenti. Oltre il piano, l'ampio e uniforme
pendio che conduceva al monte delle nebbie e ai ghiacciai pe-
renni non suggeriva maggiore allegria.
Quando il giudice giunse all'alpeggio, gli oggetti, le baite e
tutte le cose che si rilevavano dal piano dell'erba non erano che
volumi indefiniti i cui contorni erano come risucchiati dal buio.
Con un calcio leggero aprì la porta di quella che era stata la ca-
sa di Isoardo e vi entrò. Raggiunse a tastoni il tavolo, tirò fuori
dal sacco una candela di sego e, dopo alcuni tentativi con l'ac-
ciarino, riuscì a dar fuoco allo stoppino. Più che di luce, gli par-
ve che lo spazio circostante si riempisse d'ombre e di figure: da
terra Isoardo lo guardava attonito, mentre più in là, mossi dal
vento che penetrava dalle fessure, i capelli delle tre donne si
attorcigliavano come serpi di Medusa, quasi a richiamare, nelle
chiome, il groviglio dei corpi inerti abbandonati al suolo.
Toglieteli, in nome di Dio; togliete quei cadaveri, sottraete i
vivi al loro sguardo di morte.
Ci volle un profondo respiro perché Ippolito riuscisse a can-
cellare dai suoi occhi quella visione infernale. Abbassò le pal-

La canzone di Colombano 156/101


pebre e quando le riaprì, i morti, se non dalla sua mente, erano
scomparsi almeno dal pavimento che, così come il tavolo, era
stato anche mondato dalle sozzure di quel terribile giorno. Le
tracce della devastazione erano però ancora ben visibili tutto
intorno: la lampada a terra, la madia ancora rovesciata, ma ri-
pulita della farina che si era sparpagliata, la panca appoggiata
su un fianco e sparse a terra le poche cose che normalmente
giacevano sulle mensole.
Ritrovata un poco di calma, il giudice raddrizzò la panca e vi
si sedette per mangiare il formaggio che si era portato e per
farsi coraggio col vino della sua fiaschetta. Ma ci voleva ben al-
tro per vincere davvero la paura, ché ogni rumore, ogni scric-
chiolio del tavolo, ogni sospensione nel gorgoglio della fonte di
fuori, ogni impercettibile vibrazione nella fiamma della candela
lo gettava nell'angoscia.
Perché essere lassù? Perché non invece tra le coltri di Mar-
gherita? Al diavolo Sibille e i suoi consigli. Al diavolo Rostollan,
Guy. Al diavolo anche il Prevosto. In quella casa maledetta, sen-
tiva la morte approssimarsi; forse quella stessa notte. Chissà?
Avrebbe vomitato sangue, si sarebbe portato le mani alla bocca
e sarebbe crollato a terra con gli occhi strabuzzati. Oppure la
Bertona, la strega del colle, lo avrebbe fatto sparire come aveva
fatto con molti altri prima di lui, come aveva fatto sparire quel
musicante di Provenza.
Beveva il giudice, ma più beveva e più le sue ossessioni si fa-
cevano reali.
Sì, quei due musici che venivano dalle terre occitane, con i
loro pifferi e la loro ghironda. Erano in viaggio verso Susa;
camminavano, parlavano, cantavano, finché, sull'erta finale del
valico, prima del vallone, s'erano taciuti per lo sforzo e aveva-
no proseguito in silenzio, l'uno davanti, a scandire il passo, l'al-
tro dietro. Superato il colle però, quello davanti si era girato e
dietro di sé aveva visto solo il pendio deserto. Aveva gridato,
aveva chiamato, aveva cercato, ma l'altro musicante era ormai
stato preso per sempre dalla Bertona. Sì, la Bertona, il diavolo,

102/156 Alessandro Perissinotto


gli stregoni o i briganti; qualcuno avrebbe preso anche lui quel-
la notte.
Per cancellare le ombre dai muri spense la candela e, senza
cercare il saccone di foglie, si sdraiò sulla panca, gli occhi spa-
lancati nel buio, poi socchiusi, infine serrati in un sonno agitato
e popolato di incubi.
Nella galleria scavata da Colombano non risuonava più il re-
spiro dell'aria nella manichetta; il mantice era fermo da quan-
do avevano arrestato lo scalpellino. Si udiva solo il gocciolare,
qua e là, di qualche vena d'acqua, moltiplicato dal rimbombo
sulle rocce. Ippolito avanzava nel buio, come aveva fatto la
prima volta, a braccia larghe con le mani appoggiate alle pareti
umide. Adesso sapeva cosa vi avrebbe trovato al fondo; qual-
cosa di più misterioso della porta dell'inferno, di più spavento-
so dell'antro delle streghe. L'odore di piscio di capra si faceva
più forte. Era vicino, vicinissimo! Il gabinetto dell'alchimista, il
luogo delle trasmutazioni doveva essere lì, a pochi passi. Ad un
tratto, un rumore, come un ruscello; di più, una cascata, un
fiume. Un muro d'acqua in corsa verso di lui. Una fuga inutile e
poi l'acqua fredda sulla schiena che spinge il volto contro la
roccia e la roccia che cede, si schianta ed entra la luce, entra
l'aria: la galleria è finita, la terra è bucata, ora Ippolito è dall'al-
tra parte, sdraiato sull'erba, cosciente, ma incapace di muover-
si. E a lui si avvicina un'orsa, lo annusa: Ippolito giace inerme.
L'orsa gli tocca col muso le gambe e il ventre, ma lui rimane
immobile. Gli pone il muso davanti al viso; egli ne sente l'alito
caldo e bestiale, quell'alito lo invade, lo soffoca...
Ippolito avrebbe avuto spesso, in seguito, l'occasione di ri-
svegliarsi da un sogno orribile e di gioire della realtà intorno a
sé, ma quella volta, forse, avrebbe preferito non destarsi. Il
passaggio dal sonno alla veglia fu repentino e spaventoso; l'ali-
to fetido che lo aveva soffocato nel sonno non si era allontana-
to, al contrario, esso si era unito a un rantolo di moribondo e
quando finalmente aprì gli occhi vi trovò davanti quelli di un
animale mai veduto, un animale il cui muso irsuto mutava for-

La canzone di Colombano 156/103


ma al baluginare della fiammella d'una lampada. Sebbene im-
pietrito dallo spavento, il giudice capì in un istante il senso del-
le parole del sindaco.
«... cercatelo, ma non lo troverete, eppure continuate a cer-
carlo perché potrebbe non essere invano...».
Cercare l'Uomo Selvatico non serviva a trovarlo, ma a farsi
trovare. Per tutto il giorno il Selvatico doveva averlo seguito,
spiato e quando aveva voluto, quando si era sentito sicuro,
aveva manifestato la sua presenza. E adesso era lì, nella gran-
gia di Isoardo, sopra il corpo di Ippolito sdraiato sulla panca,
pronto ad attaccare, a fuggire, o forse a parlare.
Il pugnale. Con il pugnale in mano si è più sicuri.
Ma il pugnale era rimasto sul tavolo dopo esser servito per
tagliare il formaggio: Ippolito aveva persino riso della spropor-
zione tra lo strumento e lo scopo; ora, immobilizzato sulla pan-
ca da quella materializzazione d'ogni allucinazione, non ne ri-
deva più.
«Chi è l'uomo che mi ha braccato come fossi una fiera?».
«Il tuo non è forse l'aspetto d'una fiera?».
«Hai mai sentito le fiere parlare la tua lingua? O vuoi forse
che ti parli in latino? In illo tempore: Dixit Jeusus discipulis suis:
Amen, amen dico vobis, nisi granum frumenti cadens in ter-
ram...».
«Fermo, le tue labbra selvagge non osino pronunziare le pa-
role di nostro Signore, ché sarebbe bestemmia».
«Dimmi dunque il tuo nome».
Ippolito avrebbe dovuto porre la medesima domanda e con
una fermezza ancora maggiore, ma, in quel momento, il valore
dell'autorità ch'egli rappresentava gli parve nullo e si piegò a
rispondere per primo.
«Mi chiamo Ippolito Berthe, sono giudice in Chiomonte per
conto del signore di queste terre, il Prevosto di Oulx».
«Il tuo signore ti ha forse ordinato di portargli uno stregone
per i suoi roghi? O forse gli abbisogna una bestia strana per il
suo serraglio. Che meschino; crede forse di potersi contentare

104/156 Alessandro Perissinotto


di un Uomo Selvatico per competere in grandezza con principi
e duchi, i quali hanno nelle loro corti gatti mammoni e orribili
nani neri che chiaman Pimei e ancora uomini con capo e piedi
come cani che stanno nella città di Goia e servono l'esercito del
Prete Gianni, crede invero di potersi misurare con loro?».
«Non è per questo che son salito quassù...» iniziò Ippolito,
ma il Selvatico non lo lasciò concludere.
«Sono tempi di malvagi costumi ed il più miserabile dei no-
bili si crede il Gran Cane ed il Cielo vuole che siano essi igno-
ranti, ché altrimenti, leggendo le croniche dei viaggiatori, in-
dubitabilmente prenderebbero ad imitare i sovrani d'Oriente e
li vedresti sui laghi di questi monti a cacciar liocorni ed io ma-
ledirei d'aver salvato dall'acqua e dai tarli il libro che tale cac-
cia insegna, il libro di meraviglie di Jacopo da Sanseverino che
ho imparato a memoria come facevan gli antichi, per essere
certo che mai, io vivente, andasse perduto».
Il suo volto divenne quello d'un invasato e la sua voce iniziò
a declamare le parole che la sua mente alterata aveva serbato
in modo così geloso.
« ... ci me menò in un cerchiovito, dov'erono sessanta leo-
corni, legati con catene d'oro, perché sono molti feroci e molto
bravi. E non si può appressare a loro nessuna persona se none
donzelle vergini, perché è animale molto avulterato più che
animale sia al mondo; e mangiono iscorze d'alloro. Noi doman-
damo come si pigliavono. Rispose: "Io ve lo farò vedere; e do-
mani saremo insieme, e vedrete la più strana cosa che voi ve-
dessi mai"».
Il giudice assisteva alla recita d'un tale guitto frenetico ed
era sbalordito, turbato e incuriosito ad un tempo: chi mai, su
quei monti, poteva interessarsi agli unicorni e ai racconti dei
viaggiatori nei paesi remoti? Ma intanto l'altro proseguiva, tra-
sformato ormai in un libro vivente.
«E l'altro dì noi fummo alla caccia discosto cinque giornate,
dove lui istà in uno paese molto disabitato; ed èvvi grandissimi
boschi, ed èvi molti istagnoni d'acque; ed in questi stagnoni

La canzone di Colombano 156/105


abita serpenti di più ragioni, e abitavi molti leoni e molti leo-
corni e altri animali; e chiamasi el detto paese Somaete. E nes-
suna bestia usa mai bere a questi stagnoni per insino a tanto
che li alicorni non vengono a mettere il corno nelle dette acque,
e di poi beono; e quando hanno beuto, gl'altri animali beono».
Nel parossismo della foga oratoria, la creatura s'era levata
in piedi liberando il corpo del giudice dalla sua opprimente
stretta. Il pugnale sul tavolo. Un gesto, un gesto solo, rapido e
deciso, un gesto e il più svelto sarebbe stato salvo, salvo dal pe-
ricoloso terrore dell'altro. Ippolito sbirciava il piano in legno,
misurava mentalmente la distanza e il tempo che lo separava-
no dall'arma e dalla salvezza; l'altro teneva gli occhi fissi sul
suo immaginario pubblico fatto di ombre sul muro, ciò bastò a
rassicurare il giudice e a fargli fare la mossa decisiva.
Una delle molte presunzioni dell'uomo di cultura, ebbe in
seguito a pensare Ippolito, è quella del primato della vista: il
sapiente legge, osserva, ammira, guarda e sopisce tutti i suoi
sensi al di fuori della vista; al contrario, il selvaggio odora,
ascolta e soprattutto... soprattutto... Ma quale mai era stato il
senso misterioso che aveva permesso all'Uomo Selvatico di co-
gliere in anticipo l'intenzione di Ippolito? Quale oscuro impul-
so l'aveva fatto avventare sul pugnale prima che il giudice po-
tesse anche solo levare la mano?
Adesso era davvero finita. Non il diavolo, non la Bertona,
non gli stregoni, bensì l'Uomo Selvatico era lì per dargli la mor-
te.
Come il gatto tiene il topo soggiogato prima del balzo con
cui lo divorerà, così il Selvatico faceva con Ippolito: brandiva
l'arma e continuava, con le parole del degnissimo Jacopo da
Sanseverino, a descrivere la certissima via per la caccia all'uni-
corno.
«E sapiate che questo signore ha certe donzelle vergine, e
mettele intorno a questi laghi, e co' molti cavalli fa cacciare
questi alicorni; e come il leocorno sente al naso le dette donzel-
le, conviene che le trovi le dette vergine; e, giunto a lei, le mette

106/156 Alessandro Perissinotto


il capo in grembo, e addormentasi. E queste donzelle sono
amaestrate dal loro signore, e con certe corde lo legono, e me-
nollo dov'elle vogliono. E se la detta donzella non fosse vergi-
ne, subito l'amaza. E veduta questa caccia, tornammo alla detta
valle».
Lo spettacolo era finito, l'immaginaria caccia che i signori
locali avrebbero potuto imitare si era conclusa: quanto restava
ancora da vivere?
Ippolito sentiva già la lama lacerargli le carni, e invece il Sel-
vatico, esausto per il monologo, si abbandonò sulla panca, pur
senza posare l'arma.
«Allora giudice» disse con voce strascicata «perché mi per-
seguiti?».
«Non ho niente contro di te, ma c'è un uomo nelle segrete
del mio castello e forse tu potresti trarlo fuori».
«Fallo tu stesso, non credi che sia più semplice?».
«No, non lo è affatto: io devo dispensar giustizia, non fare la
mia volontà».
«La vostra giustizia mi è indifferente».
«Anche la vita di un uomo?».
L'Uomo Selvatico ci pensò. « Sì, anche la vita di un uomo».
«Allora uccidimi col mio stesso pugnale, oppure fammi mo-
rire tra sofferenze indicibili, così come facesti con la povera
Floretta e con tutti i cristiani che vivevano in questa casa, che
portavano le bestie su questi pascoli. Sì, uccidimi come loro, fa
che dai miei visceri trasudi il sangue insieme a tutti gli altri
umori, che mi risalga per la gola e che infine esca dalla mia
bocca mentre la mia anima va ad incontrare il suo Creatore».
Calcolo? Disperazione? Incoscienza? Qualunque cosa fosse
quella che aveva spinto Ippolito a pronunciare quelle parole,
essa venne come una benedizione.
Il Selvatico fu scosso da tremiti così profondi che si sarebbe
detto in preda ad un subitaneo delirio e le lacrime presero a
scendergli copione. La lana delle gote ne fu subito intrisa, ma
ciò non arrestò il singhiozzare convulso.

La canzone di Colombano 156/107


Ora, forse, il giudice lo teneva in pugno. Alzò la fiamma della
lampada che il Selvatico stesso aveva portato e una luce crude-
le rischiarò la faccia dell'uomo piangente. Privato ormai anche
della protezione della penombra, il Selvatico si arrese.
«Io non porto la morte» disse ancora tra le lacrime e Ippoli-
to pensò che il sindaco Sibille dovesse conoscerlo molto meglio
di quanto non gli avesse fatto credere.
«Io non ho ucciso nessuno. Non uccido neppure gli animali
del bosco, neppure gli insetti più fastidiosi. Mi cibo di radici, di
spinaci selvatici e dei frutti che il buon Dio dissemina sul mio
cammino. Qualche volta i pastori mi lasciano del latte o del
formaggio. Li lasciano fuori dagli alpeggi, così che io possa
prenderli di notte. Io non uccido, non posso uccidere e neanche
posso vedere uccidere...»
«E per questo che hai abbandonato la Novalesa? Per non
vedere i famigli che sgozzavano maiali e vitelli?».
Nell'uomo, l'angoscia lasciò il posto alla sorpresa.
«Come sai che ero alla Novalesa?».
«Guardati. Quello che hai indosso è il più lacero, sordido,
consunto dei sai, ma è pur sempre un saio. E poi conosci il lati-
no, reciti il Vangelo di Nostro Signore e la tua scena di prima
denuncia una lunga frequentazione di studi e biblioteche. Credi
che non ve ne sia abbastanza per comprendere che sei un mo-
naco? E da dove viene un frate che sceglie di fare il romito sulle
montagne tra il Moncenisio e il Monginevro? Viene forse a pie-
di da San Gallo? O magari vieni dalla Chartreuse? Oppure,
dimmi, eri ad Altacomba? No, tu hai abbandonato la tua abba-
zia, la Novalesa, hai risalito i pascoli della comunità di Venaus,
hai superato il solco della Valle Clarea e ti sei fermato qui.
Dimmi il tuo nome, dunque».
«Bernardo».
Nella casa di pietra, nel cuore della notte, i due uomini ave-
vano finalmente messo da parte la reciproca paura e stavano
l'uno di fronte all'altro, entrambi a cavallo della panca.
Ippolito porse a Bernardo il formaggio che era avanzato e

108/156 Alessandro Perissinotto


questi lo inghiottì voracemente, senza quasi masticarlo.
«Bernardo, tu oggi hai osservato ogni mio passo senza che
io ti vedessi, non è vero?».
L'altro annuì col capo.
«Tu guardi sempre con tanta attenzione ciò che accade da
queste parti?».
La paura si era ormai dissipata, ma non la diffidenza; Ber-
nardo avvertì nella domanda l'ombra d'un inganno e misurò la
risposta.
«Sono solo al mondo, devo sempre guardarmi dai pericoli».
«E la tua circospezione ti ha mai portato a conoscere o ad
udire cose nuove e sorprendenti sull'opera di Colombano Ro-
mean?».
«Più sorprendenti del clamore che fecero gli scalmanati che
lo presero a tradimento?».
«Hai assistito a quei fatti?».
«Sì, dall'alto. Ero nascosto nella grotta che sovrasta l'imboc-
co della galleria».
Alle risposte pacate e vagamente cantilenanti di Bernardo,
Ippolito dava segni d'una crescente impazienza, quasi avesse la
positiva certezza che il frate volesse sviarlo dal vero.
«Ascoltami bene, ché non vi sarà domanda più diretta di
questa: tu sai chi ha ucciso Isoardo?».
L'altro scosse violentemente la testa negando, ma non parlò:
l'idea stessa dell'uccisione gli toglieva la favella.
Era come interrogare un bambino. Quanti anni aveva Ber-
nardo? Scoprirlo era lavoro d'indovino. Nella massa arruffata e
sudicia dei capelli e della barba, spuntavano copiosi i fili bian-
chi e la pelle scura sembrava una terra seccata e spaccata dal
sole, tanto era attraversata da rughe profonde. Eppure, nei suoi
movimenti e nella mobilità del suo sguardo vi erano i segni di
una gioventù non lontana.
Interrogare un bambino, un fanciullo sincero, ma che ri-
sponde solo quando la domanda è precisa e particolare.
«Nell'estate, hai visto Colombano uscire spesso dalla galle-

La canzone di Colombano 156/109


ria?».
Ci fu un nuovo diniego silenzioso di fronte al quale il giudice
cercò di non irritarsi.
«È vero che stava lì dentro per settimane intere?».
«Sì».
«Chi gli portava da mangiare?».
«Il suo cane. Veniva su tutti i giorni dalle Ramats con un pa-
nierino legato al collo».
«Hai mai visto altri avvicinarsi allo scavo?»
«Una volta sola».
«Chi erano?»
Bernardo allargò le braccia.
«Per Dio, Bernardo, parla! Fammi sentire la tua voce, come
prima, quando declamavi. Abbandona ogni paura e parla, che
non ti difetta né l'eloquio né l'intelligenza».
Il Selvatico parve scuotersi.
«Un giorno, forse due settimane prima che Isoardo e i suoi
morissero, sono saliti tre uomini, avevano l'aria di signori, ma
erano a piedi, senza muli. Sono andati prima sulla cresta dei
Quattro Denti, esattamente sopra il punto dove l'acquedotto
attraversa la montagna; poi uno di loro è sceso all'imboccatura
della galleria e l'altro è andato sul versante opposto, all'indirit-
to, dove dovrebbe sbucare. Infine, quello che è rimasto su ha
gettato agli altri dei lunghi e sottili canapi, come per misurare
le distanze tra loro».
«E Colombano li ha incontrati?».
«No, lui era dentro, da fuori si sentivano i colpi del suo mar-
tello. I tre hanno fatto tutto con grande premura e sono ridi-
scesi a valle senza neppure fermarsi a bere all'alpeggio».
«Sì, così va bene, Bernardo. Ora raccontami tutto».
«Cosa credi che io abbia a raccontarti?».
«Tutto: quello che vedi, quello che senti, i passaggi degli
animali, gli odori nel vento, le grida dei bambini. Voglio sapere
ogni cosa, giacché non conosco ciò che mi sarebbe utile sape-
re».

110/156 Alessandro Perissinotto


Gli occhi di Bernardo brillarono: per mesi, per anni forse,
nella sua memoria s'era andato depositando il ricordo di mille
e mille accadimenti minuti senza che gli fosse dato di parlarne
con qualcuno. Ora gli pareva venuto il tempo di dischiudere
quel forziere.
Sul giudice si riversò il fiume dei piccoli fatti della vita dei
pascoli. Senza ordine e senza pause il Selvatico raccontò storie
di pecore rubate, di amori, di malattie guarite, di apparizioni
meravigliose.
«... e Giannetta, la moglie di Turin, quando va in pastura s'in-
contra con Durante, il giovane dell'Alpe d'Artaud; sono adulteri
e quindi peccatori, ma a vederli insieme paiono due angeli...»
Ippolito ascoltava.
«... il bouc, il capro della Balma Grande, quella dei due fratel-
li, Marcellino e Simeone, quel bouc lì è vecchio e non riesce più
a ingravidar le capre. I padroni dicono di sì, ma lui proprio non
ce la fa...»
Per risparmiare l'olio, avevano spento la lampada e l'Uomo
Selvatico era solo più una voce in mezzo al nero che avvolgeva
ogni cosa.
« ...c'è un uomo, uno che sta giù in paese, non un pastore,
che gira per i boschi raccogliendo quelle barbe gialle che cre-
scono sugli alberi. Non sono erba, non sono fiore, né frutto, né
muschio, né fungo, sono secche e si sbriciolano al tocco. Cre-
scono un po' ovunque, eppure mai vidi un animale mangiarle.
Io conosco i semplici, so quali erbe fanno passare la rogna e
quali curano le flussioni, ma di quelle strane barbe gialle non
trovai menzione su alcun libro, né mai lo speziale del convento
ebbe a parlarmene. E tuttavia, se quell'uomo... quell'uomo...».
La voce si incrinò per l'orrore.
«... quell'uomo uccide i lupi, senza scavare buche, senza por-
re trappole come fanno i cacciatori esperti; quell'uomo mette
l'esca e il giorno successivo, quasi infallibilmente, lo vedo per-
correre il sentiero verso valle con un cadavere di lupo sulla
schiena».

La canzone di Colombano 156/111


Ippolito avrebbe voluto chiedere come avveniva quella cac-
cia, ma il turbamento che si impadroniva dell'altro ogni volta
che la morte, foss'anche quella degli animali, entrava nel di-
scorrere, lo fece desistere. Si figurò Bernardo che fuggiva via
dai suoi nascondigli al solo vedere il coniglio squartato che so-
litamente serviva da esca e preferì non infliggere altre soffe-
renze a quell'animo così provato dalla troppa sensibilità; solo
una cosa gli domandò:
«Quale ragione ti spinge a celarmi il nome di quell'uomo?».
«Di ciò che so non ti nascondo nulla, ma il suo nome non lo
conosco, né chi sia o cosa faccia. I pastori degli alpeggi, quelli
sono i miei amici, ma gli altri sono stranieri; e poi quell'uomo
qui non si era mai veduto prima della metà dell'estate».
«La prima volta che lo vedesti, Isoardo era già morto?»
«No, ma sarebbe morto di lì a poco, perché ricordo che il
cacciatore di lupi comparve dopo i tre signori con i canapi».
Il giudice provò a concatenare i fatti, ma senza alcun co-
strutto e ben presto ricominciò a prestare orecchio all'oramai
inarrestabile narratore.
«... alle carbonaie sopra l'Ambournet, Bastiano fa il carbone
di legna, ma ci mette troppo castagno, poca quercia e quasi
niente faggio e soprattutto non aspetta che il fumo della carbo-
naia diventi bello chiaro. Ha fretta Bastiano, e il suo carbone
viene fuori cattivo, fa la fiamma alta e brucia in un istante.
Chiedi a Colombano quanto doveva lavorare di mantice prima
di riuscire ad arroventare i suoi ferri con quel carbone lì. È in-
fido Bastiano, come tutti i carbonai...».
Domande e risposte continuarono ad intrecciarsi, ma il loro
ritmo si fece sempre più lento a mano a mano che le palpebre
diventavano pesanti.
L'alba, il cui chiarore filtrava dalla minuscola apertura ac-
canto alla porta, trovò Ippolito addormentato, la testa appog-
giata al tavolo e la coperta buttata addosso. Bernardo, ritorna-
to l'Uomo Selvatico, era nuovamente tra rupi e boschi, inaffer-
rabile come prima.

112/156 Alessandro Perissinotto


VIII Strofa sesta

Per pié 'l Iüv a fan 'l pan


a fan 'l pan envelenà.
Chi ch'a na mangia 'n toc
a va a ciamé 'l consur.
Chi ch'a na mangia dui toc
8
a va a ciamé 'l sotrur.

Lavori d'autunno in paese. I ragazzi e le donne intrecciavano


cesti con i rami di nocciolo; gli uomini raccomodavano le botti.
E poi c'erano i tetti da sistemare, prima dell'arrivo della neve;
le lastre di pietra, le lose, dovevano essere controllate affinché
nulla fosse alterato della loro rigida geometria, ché, se l'acqua
fosse filtrata attraverso le scriminature, le travi di sotto sareb-
bero ben presto marcite.
Terminata la maggior parte dei lavori nei campi, il villaggio,
in quel periodo dell'anno, si riempiva di una vita che in altri
momenti, con la gente dispersa nei prati o rinchiusa nelle case
sommerse dalla neve, gli era sconosciuta.

8 Per prendere il lupo | fanno il pane avvelenato. | Chi ne mangia un pezzo


| va a chiamare il confessore. | Chi ne mangia due pezzi | va a chiamare il
becchino.
Questa strofa risente pesantemente delle influenze di alcune lezioni del-
la canzone Donna Lombarda; potrebbero dunque esservi delle contami-
nazioni, l'assenza della strofa precedente rende però difficile la formula-
zione di ipotesi più precise.

La canzone di Colombano 156/113


Ippolito, avvolto nell'odore di fumo del mezzogiorno, ascol-
tava il battere dei martelli, ascoltava il crocchiare secco dei
ciocchi colpiti dalla scure, il grattare della sega sui rami più
grossi, le urla dei maiali scannati dal norcino. E col veder vive-
re e lavorare tutto intorno a sé, veniva colto da un senso di di-
sperata inutilità: erano trascorsi quasi due mesi da quando gli
alpigiani erano venuti ad avvertirlo dei terribili fatti della Thul-
lie ed egli era ancora incapace di porre una spiegazione, un vol-
to, un nome dietro quelle morti. Il suo signore lo incalzava, lo
rampognava, si prendeva gioco delle sue ingenuità, ma poi lo
sviava, lo confondeva e lo abbandonava, indifferente alla sua
sorte e a quella di Colombano. Dopo il suo incontro con l'Uomo
Selvatico gli era parso di vedere, in un lampo, una plausibile
spiegazione a tutto, ma il pensarci e ripensarci non aveva fatto
altro che cancellare l'immagine che per un momento si era sta-
gliata netta nella sua mente. Era stanco, logorato dal pensare,
spossato dalla sua stessa inerzia. Avrebbe voluto gettare il
mantello, imbracciare una forca ed unirsi ai contadini nell'ac-
cumulare il foraggio nei fienili, oppure nel cambiare lo strame
alle bestie, con la merda alle caviglie e la tunica lorda; sentiva
rinsecchirsi le sue braccia forti e la testa gli girava come dopo
una sbornia, una sbornia triste.
Ancor di più avrebbe voluto tornare al suo paese. Dieci anni
di lontananza da Saint Cristophe e neppure un solo istante di
nostalgia, poi, ad un tratto, col crescere delle difficoltà del pro-
cesso, aveva desiderato sempre più fortemente quelle quattro
case malandate, quei tetti di paglia e fango; sentiva che, tra
quei muri di pietra addossati al pendio tanto da parere raggo-
mitolati nel ventre stesso della montagna, anch'egli avrebbe
potuto accucciarsi, con la fronte appoggiata alle ginocchia, ac-
cucciarsi e lasciar passare su di sé gli eventi come un vecchio
che non attende altro che la nera mietitrice. Quando il senti-
mento della sua impotenza verso la giustizia e verso Colomba-
no si faceva più acuto, Ippolito si rifugiava nell'illusione del
viaggio verso il suo Oisans. Sarebbe partito all'alba, come si

114/156 Alessandro Perissinotto


conviene, a cavallo avrebbe raggiunto Oulx e, abbandonata la
bestia nelle stalle del Prevosto, avrebbe proseguito a piedi, se-
guendo la strada di mezza costa fino a che la valle, restrin-
gendosi, non l'avrebbe indotto a preferire il ripido sentiero del
canalone, in luogo delle lunghe risvolte che si disegnavano sul
versante a mezzogiorno. La seconda alba l'avrebbe trovato sul
colle del Monginevro, dopo una notte trascorsa nella capanna
di qualche pastore. Si sarebbe lavato il viso là dove le acque del
colle si dividevano per far nascere i due fiumi e avrebbe cantic-
chiato tra sé la vecchia canzoncina che si diceva la Dora, gorgo-
gliando, cantasse alla sua sorella Durance prima di scendere
verso la valle di Susa:

Adieu donc, ma soeur la Durance,


Nous nous séparons sur ce mont:
Toi, tu va ravager la France,
Je vais féconder le Piémont.

E lungo il corso della Durance, devastatrice delle terre fran-


cesi, sarebbe sceso, in mezzo ai larici accesi del giallo e del ros-
so autunnali. A Briançon avrebbe curiosato tra botteghe e pa-
lazzi d'imponenza inconsueta tra le valli e poi nuovamente in
salita: Saint Chaffrey, Le Monestier, l'affascinante desolazione
del Col del Lautaret, sul quale le orride valanghe dell'inverno
lasciavano segni e ammonimenti in ogni stagione. E scendere
ancora. Di quanti giorni quel viaggio? Non riusciva più a imma-
ginarlo. Ogni giorno sarebbe però stato più bello del preceden-
te, più libero. Passato il Lautaret avrebbe mangiato un pezzo
dei grandi pani profumati di Villard d'Arène, avrebbe riposato
nella cupa oscurità meridiana della Grave, guardando il fronte
del ghiacciaio frammentarsi in mille seracchi. A quel punto
avrebbe cominciato a sentire nelle nari aria d'Oisans. Ma oc-
correva ancora scendere e salire e salire e scendere: così era
quel cammino che dall'antica via Cozia aveva condotto nei se-
coli eserciti e viandanti alla città di Graziano, alla Gratianopolis

La canzone di Colombano 156/115


che nei dialetti barbari aveva finito per tramutarsi in Grenoble.
Scendere fino a Chambon e inerpicarsi a Mont de Lans, passare
per Bons, attraverso quel suo portale scavato nella roccia dal
quale il tempo non aveva cancellato l'inconfondibile segno di
Roma, percorrere la cornice del monte di Pied Moutet, badan-
do a non cadere nel precipizio che sovrastava la piana di Bourg
d'Oisans, quella piana che, come ricordavano le lapidi, nel 1191
era stata sbarrata da una frana e sommersa dalle acque della
Romanche: per ventotto anni, quello che era stato il più grande
paese della valle era diventato un lago, poi, un giorno, l'acqua
era defluita come da una tinozza bucata e il lago aveva restitui-
to le case diroccate, i resti dei vecchi ponti e gli scheletri sepolti
nella melma. Finalmente, superata la foresta di Venosc, avreb-
be scorto la chiesa del suo paese staccarsi appena dalle rocce,
con il piccolo cimitero addossato alle sue stesse mura. Le case
intorno, le sue case, i suoi amici d'infanzia. Non sarebbe torna-
to da vincitore, da sapiente, da uomo ricco; sarebbe tornato e
basta. Avrebbe raccontato agli altri le città e le cose che aveva
visto e poi avrebbe lasciato che la vita facesse di lui ciò che vo-
leva fare.
E così, altro tempo era trascorso dalla sua ultima salita alla
Thullie, era trascorso tra fantasie di viaggio, inerzia e silenzi
del Prevosto. Una sola volta, in quei giorni, era andato a far vi-
sita a Colombano e da quell'incontro aveva tratto un'altra di
quelle impressioni che non riusciva bene a controllare, ma che,
in certi momenti, gli si presentavano al cervello come tracce
concrete da seguire per risolvere ogni cosa.
Colombano marciva in carcere con la rassegnazione di chi
non ha mai conosciuto la fortuna e con la tranquillità dell'uomo
avvezzo agli spazi angusti delle miniere. Nei suoi occhi, che a
lungo il giudice aveva cercato di evitare, non c'era rimprovero.
«Come stai?» gli aveva chiesto Ippolito.
«Innocente» aveva risposto l'altro mostrando, forse inten-
zionalmente, di non aver compreso la domanda.
Il giudice non si era dilungato in parole inutili ed era andato

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subito alla questione che più lo interessava.
«Colombano, quanto dovrai ancora scavare per forare com-
pletamente la montagna?»
«Chi può dirlo? Io so quante tese è lunga la galleria che ho
già fatto, ma quanta roccia ci sia ancora per passare dall'altra
parte, chi lo sa?».
«Hai detto a qualcuno quante tese o quanti piedi è lunga
adesso la tua opera?»
«Certo, l'ho detto ai parerii, ai sindaci, a tutti quelli che con-
trollano il mio lavoro».
Ippolito pensò ai tre uomini con i canapi di cui gli aveva par-
lato il Selvatico e si ricordò delle arti del Quadrivio, in partico-
lare dell'aritmetica, della geometria e dell'astronomia, ché per
la musica non era mai stato molto versato. Conoscendo i due
lati di un triangolo e l'angolo tra essi compreso, si poteva otte-
nere la lunghezza del terzo lato. E i due canapi tesi dai misura-
tori non erano forse due lati di quel triangolo che avrebbe avu-
to per base la galleria della Thullie? Vi era dunque qualcuno in-
teressato a conoscere la lunghezza che quel pertugio avrebbe
avuto una volta ultimato o forse, per sottrazione con le misure
date da Colombano, la lunghezza di ciò che rimaneva ancora da
forare. Ma quale legame poteva avere questo con la morte di
Isoardo? A meno che... Il dubbio non aveva ancora assunto una
forma definita nella sua mente che già la lingua andava cercan-
do ad esso conferme.
«Per quanto tempo credi di dover ancora lavorare?» chiese
Ippolito.
«Quando vi ho incontrato quel giorno, pensavo che se avessi
scavato senza sosta avrei potuto finire per l'inverno o, al mas-
simo, prima dell'arrivo della nuova estate; adesso ho paura che
non finirò mai».
«E se qualcuno continuasse la tua opera, potrebbe terminar-
la al posto tuo?»
L'espressione dello scalpellino fu tra l'incredulo e lo spaven-
tato: qualcuno impossessarsi della sua galleria? di otto anni

La canzone di Colombano 156/117


della sua vita?
«No, perdio, nessuno può prendere il mio posto!»
«Perché non lo vuoi o perché non è possibile?»
«Vedete giudice, per forare la montagna non basta averci la
forza nelle braccia, gli attrezzi robusti, il coraggio di stare al
buio; per forare la montagna bisogna sapere dove andare, dove
scavare. Se aveste girato come me le miniere di Francia avreste
sentito raccontare storie di minatori incapaci e di gallerie stor-
te che ritornavano al punto di partenza, di trafori che, piano
piano, voltano a destra o a sinistra, oppure si impennano in sa-
lita. No, giudice Ippolito, per l'acquedotto della Thullie non ci
posso essere che io; solo io conosco la linea da tenere, solo io
so qual è la giusta vena di roccia da seguire per andare diritto».
«Ma» incalzò il giudice «se per uscire sul pendio esposto a
meridione ci volesse meno di quanto tu pensi? Se di roccia non
rimanesse che un ultimo diaframma? Scavare nella direzione
giusta non sarebbe forse più facile?»
«Be', se non rimangono che venti o trenta piedi di roccia, per
sbagliare occorre farlo con intenzione. Ma io vi giuro, giudice,
che la galleria non è così vicino alla fine, che solo io posso finir-
la».
Ippolito si pentì quasi subito di aver posto quelle domande
al povero Romean e soprattutto di avergli fatto temere che
qualcuno potesse portare a compimento, proprio ora, l'opera
della sua vita. Da quel momento in poi, Ippolito lo capiva, per
Colombano, nella solitudine della segreta, vi sarebbe stata una
pena di più.
Cambiò discorso: «Hai più visto Tuju?».
«Ogni tanto», rispose triste il prigioniero «adesso è diventa-
to quasi un randagio. Qualche volta viene qui fuori e lo sento
abbaiare, ma poi se ne va subito. Prima o poi le bestie del bosco
me lo mangiano».
E non parlarono più.

Quella visita aveva acceso nel giudice il lampo di un sospetto

118/156 Alessandro Perissinotto


e a lungo egli aveva almanaccato cercando di comprendere chi
potesse aver mandato alla Thullie i tre misteriosi misuratori e
a chi potesse giovare di più il dato che essi avevano senza dub-
bio consegnato. Ancora una volta però, l'assenza di una rispo-
sta precisa e immediata aveva riempito di nuova nebbia quel
po' di chiarore che s'era fatto nella mente di Ippolito ed altre
fantasie ed altri rimpianti vi avevano preso il posto delle rifles-
sioni concrete.

Giunse il giorno di San Dionigi e la fiera dell'autunno


quell'anno sembrò a tutti la più ricca e gioiosa tra quelle che si
ricordavano a Chiomonte. Il selvaggio desiderio di divertimen-
to che la gente aveva maturato durante il processo a Colomba-
no era rimasto inappagato ed ora bastava la vista delle banca-
relle, delle merci colorate o degli orsi ammaestrati per disse-
minare le strade d'euforia. Guitti e giocolieri d'infima categoria
che altrove rischiavan le busse per i loro lazzi spenti e volgari,
strappavano qui applausi e fischi conditi delle risate più grasse
e sguaiate. Si vendeva e si comprava di tutto: tele di Fiandra,
cinture di cuoio, fave miracolose che, seminate, davano piante
gigantesche, campanacci da vacche e campanellini da capre,
penne variopinte di uccelli straordinari. Si scambiavano for-
maggi con zoccoli, vini con utensili, castagne con corde. Un
mercante di passaggio esponeva monili troppo preziosi che le
donne guardavano senza neppure assaporare il gusto d'averli
indosso.
Ippolito camminava confuso e allegro tra i banchi e le merci
disposte a terra; le urla dei venditori e lo strepito degli animali
da vendere o da barattare gli riempivano le orecchie dandogli
una sorta di ebbrezza. Soppesò un coltello dal manico di corno
e il mercante si affrettò a garantirgli che la lama veniva da To-
ledo; ne rise, sapendo benissimo che non era vero; tuttavia la
fattura era buona e lo comprò, suscitando sguardi d'invidia nei
fanciulli che correvano incuriositi da una bancarella all'altra
per osservare gli acquisti più mirabolanti.

La canzone di Colombano 156/119


Percorse per intero la via acciottolata, ingombra qua e là di
casse e balle di paglia, e sbucò sulla piazza della chiesa, dove
tre attori, usando un carro come palco, stavano mettendo in
scena una delle infinite varianti della storia del villano e della
moglie che gli fa le corna col prete. Due di loro erano vestiti da
donna con penose imbottiture sul petto e sui fianchi, mentre il
terzo non doveva faticare molto per apparire idiota. Il giudice
fu tentato di usare la sua autorità per scacciare i tre e disper-
dere la folla che si era raccolta intorno, tanto lo spettacolo gli
pareva squallido, ma poi vide la gente piegarsi dal ridere e dar-
si grandi manate sulle spalle ed abbandonò il suo proposito.
Sull'improvvisata scena ora gli attori erano solo due.
«Moglie, dammi il sacchetto della biada per il cavallo che
voglio partire subito!» stava dicendo quello che impersonava il
villano.
«Ma fuori è ancora buio, smettila di darmi il tormento e
dormi» gli rispose quello in abiti femminili.
«Ti ho detto di andare di sopra e di portarmi il sacchetto per
la biada, che se parto ora sarò il primo ad attraversare il bosco
di Piglianculo; non sai che nel bosco di Piglianculo crescono i
funghi più grossi e sodi di tutta la valle? Non vorrai che qual-
cuno mi passi avanti e me li pigli tutti».
«Se è così non fiato più e vado a prenderti il sacchetto, mi
raccomando pigliali tutti, specie le mazze di tamburo».
Tra le risate, la finta moglie era balzata giù dal carro per ri-
salirvi subito dopo con un paio di grandi mutande nere che
porse all'uomo.
«Eccoti marito, eccoti il sacchetto della biada, ho dovuto
cercarlo al buio, ma alla fine l'ho trovato. Vai ora, vai pure a Pi-
glianculo che lì non sarai mai secondo a nessuno».
Accompagnata da nuove, becere risate, la moglie uscì e il
sempliciotto prese a schioccare la lingua imitando il galoppo e
a cavalcare un bastone dalla finta testa di cavallo.
«È ora di mangiare qualche cosa, vecchio mio, eccoti un po'
di biada; ma cos'è questo? Quello che mia moglie mi ha dato

120/156 Alessandro Perissinotto


non è il sacchetto della biada, queste sono mutande nere, mu-
tande di prete. Allora è vero quello che dice la gente, che la mia
Rosina mi fa le corna col signor curato. Sarà meglio che torni
indietro a fare i conti con quella mascalzona».
Spronando la sua improbabile cavalcatura il villano era spa-
rito alla vista degli spettatori divertiti e il carro era stato occu-
pato dai due personaggi femminili.
«Sapessi comare quale sbaglio ho fatto stamane! Quell'alloc-
co di mio marito mi ha chiesto il sacchetto della biada e io gli
ho dato le mutande che padre Aliprando ha dimenticato l'ulti-
ma volta che è venuto a letto con me».
«Non ti preoccupare cara Rosina che a tuo marito ci penso
io, portami solo un altro paio di brache del curato e ti sistemo
tutto».
Rapida come un fulmine, quasi avesse avuto in casa un de-
posito di ecclesiastiche mutande, la moglie fedifraga rientrò,
porse le brache nere alla compagna e se ne andò. L'altro attore
travestito indossò queste nuove mutande sotto l'ampia gonna
e si dispose ad attendere l'arrivo del villano che, naturalmente,
giunse in un attimo.
«Buon giorno Giovantonto. Vi vedo bello agitato, che vi è
successo, avete forse preso troppe mazze di tamburo nel bosco
di Piglianculo?».
«No comare, non vi posso dire, non vi posso dire...»
«Ma almeno fermatevi un attimo e aiutatemi a cogliere que-
sti sassolini miracolosi». E così detto si chinò tanto da scoprire
le gambe pelose e le cosce coperte dalle mutande del prete.
Il Giovantonto, a quella visione, strabuzzò gli occhi e balbet-
tando disse:
«Co... co... comare av... av... avete della roba molto nera tra le
gambe».
«Certo, e anche vostra moglie deve averla, non sapete che
siamo tutte e due della Confraternita delle Brache?».
«Avete ragione, solo che mia moglie me le ha date per isba-
glio questa mattina e io ho pensato che... il curato...»

La canzone di Colombano 156/121


«Ma cosa andate a pensare, le brache sono un segno di de-
vozione, portategliele subito che non abbia a patirne».
Fatto un passo, il villano si imbatté nella propria moglie e le
sventolò sotto il naso le mutande nere.
«Tieni moglie, tieni le tue mutande, che tu non abbia a per-
der la devozione e ringrazia d'avere un marito così furbo e in-
telligente, che un altro non se ne sarebbe accorto, le avrebbe
messe sul muso del cavallo e chissà cosa ti avrebbero detto alla
Confraternita; ringrazia l'intelligenza del tuo Giovantonto che
non ce n'è d'uguali».
La fine della piccola recita fu segnata dalle ovazioni del pub-
blico. Poveri villani! Chissà quanti di loro avrebbero potuto
identificarsi col marito sciocco, se solo avessero avuto l'acume
per farlo. Eppure tutti applaudivano fino a spellarsi le mani, fe-
lici d'essersi burlati di un Giovantonto ch'altri non era se non
un loro gemello. Ma, in fondo, le poche risate alla fiera, le poche
bevute e le ancor più rare mangiate, assieme ai frettolosi pia-
ceri della carne, erano le uniche ragioni per seminare e per
raccogliere, per dissodare la terra e per mungere le capre, in
una parola, per vivere. E, quasi non volendolo, anche Ippolito
aveva riso dell'idiota che si crede furbo, delle mille astuzie del-
le donne e dei preti che si infilano in ogni letto: se il colto sin-
daco Sibille fosse stato lì, aveva pensato, anch'egli avrebbe riso,
magari ricordando Masuccio Salernitano e la sua novella sulle
brache di San Griffone.
Pieno dunque di buon umore, si mescolò nuovamente alla
folla, curioso di vedere ciò che Margherita avrebbe comprato
con i danari che le aveva lasciato nella breve visita della sera
precedente. Gli sarebbe piaciuto acquistarle qualcosa, ma ciò
non poteva farsi senza suscitare voci e illazioni e dovette quin-
di osservare a distanza l'arrivo della vedova e seguirne con di-
screzione le mosse.
La fiera era adesso al suo culmine; sembrava che nessuno,
piccolo o grande che fosse, volesse rimanere escluso dal gran
commercio che vi si faceva: si cantavano ad alta voce le lodi

122/156 Alessandro Perissinotto


delle proprie mercanzie, si contrattava, si misuravano a brente
le granaglie, si pesavano i piccoli animali sulle bilance a due
piatti e di quelli grandi si tastava la consistenza delle carni. Il
baccano era indescrivibile eppure, come per incantamento,
cessò all'istante quando l'uomo degli otto lupi attraversò la
piazza. Sul fondo del carretto che Costante del mulino trainava
osservato da due ali di folla, giacevano le pelli di otto grandi
lupi: merce preziosa per l'inverno in arrivo, i ricchi mercanti di
Susa o di Gap, giunti lì non meno per comprare che per vende-
re, certo non avrebbero perduto quell'occasione tanto straor-
dinaria.
Dopo il primo, muto sbigottimento, la piazza riprese il suo
vociare e il suo muoversi frenetico. Solo Ippolito rimaneva
fermo, pensoso, gli occhi fissi su Costante del mulino. Era dun-
que lui l'uomo che uccideva i lupi senza trappole, lui il caccia-
tore crudele che tanto aveva scosso il fragile Bernardo. Costan-
te, tra i primi ad accusare Colombano, tra i più accesi nel tenta-
tivo di linciarlo. Da quando il mugnaio era diventato un caccia-
tore tanto valente? Da poco prima della morte di Isoardo, a
detta del Selvatico, ma in che modo? E perché era tanto ostile a
Romean?
Tutto questo, pensò il giudice, valeva la pena di essere sco-
perto.

Quante erano le vie per giungere alla verità? Sicuramente


molte e, di tutte, il giudice, nei giorni che seguirono la fiera,
aveva scelto la più inusuale e la più irta. In fondo, sarebbe ba-
stato che egli avesse fatto arrestare Costante e, con qualche
tratto di corda, l'avesse fatto confessare tutto. Ognuno sa che
non v'è strumento più infallibile della tortura per cancellare
ogni menzogna. E invece Ippolito s'era intestardito a voler cer-
care un positivo riscontro alle sue ipotesi o forse, meglio, a vo-
ler trovare nei fatti qualcosa che fosse più di un'ipotesi. La
prodigiosa caccia del mugnaio doveva nascondere qualche se-
greto, ma l'unico modo per scoprirlo era seguire l'uomo in ogni

La canzone di Colombano 156/123


istante. Poteva il giudice del Prevosto acquattarsi dentro i fossi
come un bandito da strada? Poteva spiarlo nascosto dietro gli
alberi o appostato nei pressi del mulino? No, non era quello un
lavoro consono alla dignità d'un giudice; forse non avrebbe
dovuto neppure abbassarsi al pensiero di certe cose, quanto al
farle, quello sicuramente no.
Se invece di Costante, fosse stato Aimerico o Martino o Tu-
rin o qualsiasi altro, di grande giovamento per Ippolito sareb-
bero state le chiacchiere del paese, altra rapida via verso il ve-
ro; ma di Costante non si diceva mai nulla. Viveva solo, nel mu-
lino che era stato del padre e prima ancora degli avi, il grande
mulino sulla Dora, fuori dal villaggio, appartato nel punto più
profondo della valle, dove il sole non faceva che rapide appari-
zioni. Non gli si conoscevano amori, né turpi inclinazioni verso
fanciulli e, seppure non alieno ai modi bruschi e alla violenza,
mai era stato coinvolto nelle molte, sanguinose risse da osteria.
Nessuna delle donne che portavano le loro granaglie per la mo-
litura era mai tornata a casa, come si diceva, troppo infarinata.
Come conoscere dunque i suoi spostamenti? Come sapere
quando avrebbe nuovamente teso l'agguato al lupo? E senza
questo, come capire se il sottile legame che univa le barbe gial-
le degli alberi, le caccie al lupo e le morti della Thullie esisteva
solo nell'universo delle ipotesi oppure era reale?
Seguire una persona: che idea inusitata! Quasi che il sospet-
to potesse divenire certezza senza una confessione adeguata-
mente ottenuta. Seguire una persona; il braccio secolare non
possedeva uomini per una tale impresa, ché non ve n'era uno
cui non difettasse l'astuzia, o l'agilità, o la discrezione e il più
delle volte le tre cose insieme. Di porre fiducia nell'operato del-
le guardie campestri non era neppure questione. Solo dopo
molte congetture la soluzione si profilò al giudice: il Bastardo,
era lui l'individuo adatto alla bisogna.
Era quindi per assicurarsi i servizi del Bastardo che ora Ip-
polito stava salendo verso Champlas dove, gli avevano detto, il
ragazzo stava dissodando un campo di proprietà di Folco Guy.

124/156 Alessandro Perissinotto


Il Bastardo aveva un nome, che però nessuno usava e che egli
stesso aveva finito quasi per dimenticare: si chiamava Gio Bat-
ta come suo padre; almeno, questo era quello che la madre
aveva sempre sostenuto, parlando anche di un mercante tori-
nese, ricco e bello, di passaggio verso la terra di Francia. Nes-
suno, a dire il vero, le aveva mai badato e, fin dalla nascita, il
bambino era per tutti il Bastardo; poi lei era morta e il Gio Bat-
ta, il mercante misterioso che doveva tornare, e tutte le altre
storie erano diventate ricordi vecchi e senza scopo. Orfano a
nove anni, il Bastardo aveva imparato presto a guadagnarsi la
vita, affittando la propria opera a chiunque la domandasse, la-
vorando nei campi fino ad ammazzarsi, in giornate che comin-
ciavano all'alba e terminavano solo quando, ben oltre l'imbru-
nire, si coricava a terra nei capanni o sotto le sporgenze della
roccia, le balme, che davano rifugio indifferentemente a uomini
e bestie. Di anni adesso ne aveva tredici e certo non era più un
fanciullo: le braccia ingrossate dalla fatica, la voce via via sem-
pre più profonda, gli occhi carichi di malizia.
«Salute Bastardo» gli disse Ippolito quando gli si fu avvici-
nato.
« Salute a voi, giudice».
«Quanto ancora di questo lavoro?»
«Al calar del sole» rispose l'altro appoggiandosi alla zappa
«avrò rivoltato ogni zolla e tolto ogni pietra, allora sarà finito».
«Bene, così da domani lavorerai per me».
«E quali prati avete voi, giudice? E bestie, quando mai ne
avete avute di vostre?»
C'era un tono di scherno nella voce del ragazzo, di quel di-
sprezzo che nasce dalla paura e dall'abitudine a ricever calci e
male parole.
«Per i prati della Prevostura ne ho abbastanza dei miei fa-
migli, ma mi serve uno svelto di occhio e di gamba e scarso di
lingua, pensavo che quello potessi essere tu».
«Lo sono, signor giudice».
«Allora siediti e ascoltami».

La canzone di Colombano 156/125


E sedutosi anch'egli sulla terra scura del campo che digra-
dava rapidamente, Ippolito, nella luce un po' livida del mattino
nuvoloso, gli spiegò come avrebbe dovuto spiare Costante del
mulino.
«Appena Costante avrà piazzato l'esca per il lupo verrai a
chiamarmi; hai capito?».
Il Bastardo assentì col capo e Ippolito gli mise in mano una
moneta, poi, salutatolo, si allontanò.
Passarono quattro giorni, durante i quali Ippolito sentì cre-
scere dentro una strana frenesia: quell'assassino che mai, in
verità, aveva desiderato scoprire, ora voleva conoscerlo in fret-
ta, a tutti i costi. Esasperato dall'attesa del maturare degli
eventi, viveva in un tempo separato e vorticosamente accelera-
to, senza vedere nessuno, neppure Margherita, congetturando,
costruendo e demolendo ragionamenti e ipotesi, ma soprattut-
to leggendo libri. Finché, verso l'ora Nona del quarto giorno, il
Bastardo giunse al castello.
«Ha messo l'esca nel bosco sopra le Ramats, lontano dal sen-
tiero e non ha scavato la buca» gli disse d'un fiato il ragazzo.
«Vieni» fece il giudice «e raccontami tutto».
Lo accolse nella spoglia sala da pranzo e gli fece portare un
pane appena sfornato, della frutta e dell'acqua mescolata con il
vino rosso.
«Lo hai seguito?».
« Sì, come mi avete detto».
«Si è accorto di te?»
Il Bastardo assunse la sua peggiore aria di superiorità.
«Credete che la lepre si accorga di me quando le sono dietro
e sto per ucciderla con una pietra? E la trota? Pensate che la
trota capisca che sono lì nella pozza e sto per lanciarla fuori
dall'acqua? Se non se ne accorgono le bestie non se ne accorge
neanche Costante, che è più bestia delle bestie».
C'erano tratti di saggezza nella selvaggia spavalderia di quel
fanciullo che sapeva faticare come un uomo, ma anche muo-
versi leggero come un gatto.

126/156 Alessandro Perissinotto


«Dimmi allora cosa ha fatto».
«Fino a ieri non ha fatto niente, non si è mosso dal mulino. A
macinare ci è andata Maria di Berto, poi Aurora, Bianca, la ser-
va dei Beaudia e altre donne che non mi ricordo. Costante è
sempre rimasto lì».
«E la notte?».
«Ho dormito nel suo fienile e sono sicuro che non è uscito».
«Poi?».
«Ieri, io ero nascosto dietro al roccione grande sulla Dora,
non era ancora il tramonto, ma quasi. Costante esce di casa con
un sacco e va verso il bosco, non quello delle Ramats, quello vi-
cino al mulino. Senza farmi scoprire gli vado dietro e vedo che
lui prende quelle strane piante che crescono sugli alberi, sape-
te quelle cose gialle che sembrano barbe che pendono giù dai
rami, ma che poi, sui pini, ce ne sono anche che crescono sul
tronco. Bene, lui raccoglie ste barbe gialle e le mette nel sacco
fino a che il sacco è pieno, poi torna a casa, ma il sacco non lo
porta dentro, lo lascia su un tavolaccio del porticato, lì dove
aggiusta le cose del mulino quando si rompono, che è così ava-
ro del suo che cerca di fare tutto da solo, senza chiamare Mar-
tino o Aimerico».
Il Bastardo fece una pausa, bevve un po' d'acqua e, dopo che
il pane di cui s'era ingozzato parlando fu sceso per la giusta via,
riprese.
«Lasciato il sacco, prende la vanga, fa il giro del mulino e
scende dove c'è la ruota, fin quasi nell'acqua. Ho pensato che
era scemo a prendere l'acqua colla vanga, ma lui invece piglia
su dal canale del mulino una palata di sabbia e poi torna su e
mette la sabbia vicino al sacco delle barbe gialle».
Ippolito fremeva per giungere al termine del racconto, ma
nel contempo sapeva di non poter chiedere al ragazzo di limi-
tarsi ai fatti salienti, ché, a priori, nessuno, men che meno il
povero Bastardo, avrebbe potuto dire quale dei minuti atti del
mugnaio avrebbe dato conferma o smentita alle confuse intui-
zioni che s'andavano formulando.

La canzone di Colombano 156/127


«Poi» proseguì l'altro «Costante va nel pollaio, tira il collo a
una gallina, la porta anche quella sul tavolaccio e la apre con il
coltello».
«Sei certo che non fosse un gallo nero?»
«No, era una gallina bianca e marrone, perché?»
Benché i suoi sospetti andassero ora in una direzione al-
quanto diversa, Ippolito non poteva impedirsi di pensare a
quanto di diabolico c'era in tutta la storia; ma di questo non
disse nulla.
«Niente, vai pure avanti Bastardo».
«Una volta aperta la gallina, ha preso delle piante gialle dal
sacco e gliele ha ficcate nella pancia, poi ci ha messo anche una
manata di sabbia e poi di nuovo una di barbe gialle: sempre co-
sì, una manata di piante e una di sabbia, una di piante e una di
sabbia. Quando la gallina è stata piena, l'ha richiusa e questa
mattina l'ha sistemata dove vi ho detto, a far da esca per i lupi».
«Adesso mi devi accompagnare lì, ma nessuno ci deve vede-
re».
«Non ci vedrà nessuno, giudice, non ci vedrà nessuno».
«Aspettami un attimo allora».
Ippolito salì nei suoi appartamenti e poco dopo ricomparve
col bastone e col sacco da pellegrino che aveva portato con sé
quando aveva incontrato l'Uomo Selvatico. In mano teneva una
scarsella e, quando la gettò al ragazzo, questi non poté fare a
meno di aprirla e di rovesciare sul tavolo le monete luccicanti,
contemplandole rapito senza contarle, ché forse non ne era ca-
pace.
I due uscirono e si avviarono verso il luogo della caccia al
lupo. Il Bastardo conosceva vie segrete per andare ovunque:
non erano mulattiere né sentieri, ma passaggi nati direttamen-
te dal volere della natura, senza che mai mano d'uomo vi aves-
se contribuito. Con un istinto sconosciuto a chiunque avesse
avuto vita un po' meno dura, egli distingueva, in mezzo alla
corrente del fiume, guadi impensati e sapeva trovare nella fo-
resta i varchi tra la boscaglia e i rovi e poteva risalire le spacca-

128/156 Alessandro Perissinotto


ture della roccia per guadagnare la sommità delle bastionate.
Quando raggiunsero la gallina squartata di Costante, Ippoli-
to si sentì esausto e felice al tempo stesso. Seguire il ragazzo
nel suo animalesco procedere sul monte gli era costato un'im-
mensa fatica, eppure, a mano a mano che diminuiva la sua gof-
faggine nel superare ostacoli che l'altro pareva non vedere
neppure, aveva sentito fluire nelle vene l'energia incontrollata
della sua fanciullezza.
«Adesso tornatene al paese» disse il giudice al Bastardo.
Il ragazzo sembrò aversene a male, ma obbedì senza repli-
care e, dopo aver salutato, corse a valle, di certo pensando a
dove avrebbe potuto nascondere i denari appena guadagnati.
Rimasto solo, Ippolito si guardò intorno: non si poteva im-
maginare luogo più selvaggio. Lì, il bosco era di faggi; le chio-
me, ancora abbastanza folte malgrado la stagione, formavano
un tetto altissimo e l'ultimo sole del pomeriggio filtrava tra i
tronchi nudi con lame di luce nelle quali la polvere e gli insetti
volanti risplendevano per un istante prima di scomparire.
Brutte piante i faggi, coi loro tronchi diritti e puliti che trop-
po in alto concedono spazio ai rami. Nessun rifugio sopra un
faggio, a meno di non essere uno scoiattolo o una gazza.
Ma, tra i faggi, lo scheletro di un albero ucciso dal fulmine in
un'epoca lontana si ergeva ancora diritto, robusto e soprattut-
to ricco di grossi rami lontani da terra quanto bastava perché
le fauci dei lupi non vi potessero giungere, ma non così tanto
da impedire che un uomo agile come Ippolito vi salisse.
Su uno di quei rami dunque si arrampicò, ne saggiò la tenuta
e verificò che l'esca rimanesse nella sua vista; lì avrebbe tra-
scorso la notte, una notte di luna piena: i lupi, si sa, vengono di
notte.
Era quasi il vespro e le foglie ancora sugli alberi, di gialle
stavano diventando brune. A cavalcioni sul suo ramo, la schie-
na appoggiata al tronco, il giudice attendeva, con la speranza
che Costante non comparisse prima dei lupi e con la sola cer-
tezza di dover attendere a lungo. Per tenersi occupato si mise a

La canzone di Colombano 156/129


pensare alle ragioni che lo avevano condotto lì, al precipitare
degli eventi dopo la fiera. Tutto nasceva da un'idea così sem-
plice da non necessitare d'altro che di se stessa: il mugnaio uc-
cideva i lupi con il venefico effetto delle barbe gialle. Ma questa
idea semplice si stagliava nitida su di una confusa nube di mi-
steri e di domande. Chi aveva svelato a Costante il segreto di
quella pianta? Chi gli aveva insegnato quella nuova, straordi-
naria caccia che mai s'era vista nelle terre del Delfino? Persino
Bernardo, che pure dei semplici così come delle altre erbe co-
nosceva le proprietà, aveva confessato di non sapere nulla di
quelle strane barbe gialle, senza radici, senza foglie, simili a
muschi troppo rigogliosi. E perché un mugnaio ignorante, che
nella sua vita non s'era allontanato di casa per più di cinque le-
ghe, aveva accesso a cose che erano oscure ad uno che era sta-
to frate e amico dello speziale dell'abbazia della Novalesa?
In fondo però, tutti questi sarebbero stati interrogativi di
poco peso se l'ombra del veneficio non si fosse stesa fin dal
primo momento sulla morte di Isoardo e delle sue donne.
Un'ombra che, ora Ippolito ne era quasi sicuro, era stata can-
cellata ad arte da illuminazioni fasulle, ma che tornava come
unica, soddisfacente spiegazione di molti accadimenti, anche se
non di tutti. E cosa pensare poi dell'improvviso sorgere in Co-
stante della passione e dell'abilità nella caccia, improvviso e
pressoché concomitante con i luttuosi fatti della Thullie; cosa
pensare? Perversità del fato? Illusorietà dello scorrere del
tempo? Oppure un intimo e profondo legame tra una causa e
un effetto.
Se simili dubbi si fossero fatti spazio più tempestivamente
nell'intelletto del giudice, egli, con i mezzi consueti della giusti-
zia, avrebbe potuto ottenere dal mugnaio risposte dalle quali il
dolore della tortura avrebbe allontanato ogni spettro di men-
zogna; ma ora era troppo tardi o forse era solo che l'apparato
della giustizia non gli era mai parso tanto nemico del vero.
Se dunque il potere non era in grado di condurlo alla verità,
poteva confidare nel sapere, in quei libri dove, all'Università di

130/156 Alessandro Perissinotto


Grenoble, aveva imparato a cercare le soluzioni e i problemi. I
libri; per il grezzo montanaro dell'Oisans erano stati la scoper-
ta più sorprendente. Ciò che l'aveva colpito non era stato il di-
svelarsi dei segreti della scrittura, non il fatto che una catena di
segni d'inchiostro potesse essere tramutata in parola e vice-
versa; quello che affascinava era che il libro potesse condensa-
re, fissare per sempre l'esperienza di un uomo e trasportarla
fuori da lui. Al suo paese e, per la verità, ovunque tra i villani,
l'esperienza e la saggezza erano l'uomo e non esistevano senza
l'uomo. Ciò che un uomo sapeva viveva con lui e moriva con lui,
oppure viveva negli altri uomini a cui lo raccontava, ma in al-
cun modo esisteva il sapere senza il sapiente. Nei libri invece
aveva trovato il deposito di ogni saggezza e di ogni stupidità, di
ogni esperienza insomma, ma senza la corruttibilità della per-
sona.
Era con quel primitivo e ingenuo entusiasmo che Ippolito
s'era dato a cercare la conferma ai propri dubbi nei pochi vo-
lumi di cui disponeva. Ciò che più gli premeva di conoscere era
se la barba gialla, mangiata per errore, oppure mescolata con
intenzione ai cibi, distillata e disciolta in acqua o vino o ancora
introdotta nel corpo con altri arcani sistemi, potesse produrre
negli umani la morte orribile che aveva visto dipinta sul volto
di Isoardo, se provocasse il vomito di sangue e le enfiature alla
bocca e al naso. Ma, forse per la prima volta, i libri lo avevano
deluso. Vi aveva letto della belladonna e di come le sue bacche,
che le dame usavano spremersi leggermente nell'occhio per
ravvivare lo sguardo, provocassero, se mangiate, prima la de-
menza e poi la morte. La loro ingannevole parvenza di more le
rendeva appetitose e i primi assaggi aumentavano la sensibili-
tà dell'olfatto e dell'udito, ma poi, quelle sensazioni divenivano
sempre più violente, i rumori assordanti, i profumi disgustosi,
mentre gli occhi si riempivano di forme indefinite. Interi eser-
citi germanici erano stati decimati dalle bacche di belladonna e
dall'imprudenza dei soldati.
In quei libri, Ippolito aveva letto anche della digitale purpu-

La canzone di Colombano 156/131


rea, che il volgo chiamava guanto di Nostra Signora o coda di
lupo: se raccolta con la mano sinistra nella parte settentrionale
di un bosco, questa pianta era un ottimo rimedio contro l'idro-
pisia e contro i bruschi sbalzi nei battiti del cuore. Si diceva che
i lupi ne mangiassero per accrescere la loro resistenza nella
corsa. Di certo v'era che, smodatamente consumata, la digitale
causava sudorazione fredda e un vomito verdastro, mentre il
cuore batteva impazzito e la mente si riempiva di abominevoli
allucinazioni. E aveva letto dell'elleboro, emetico e purgativo,
ma tossico fino alla morte. E poi tutti i funghi del diavolo e
quelli dalle forme impudiche, dalle cappelle sozze e purulente.
Aveva letto di tante piante in quei libri, ma nulla che riguar-
dasse quegli strani ciuffi gialli e soprattutto nulla che nelle vit-
time determinasse i segni ch'egli aveva visto alla Thullie.
Non v'era dunque stata scelta: impossibilitato all'uso della
ruota e della corda, deluso dalla pochezza dei libri, al giudice
non rimaneva altra via che constatare di persona in che modo
sarebbe morto il lupo che si fosse lasciato sedurre dalla facile
preda, dalla gallina imbottita d'erba probabilmente velenosa.

Nel tempo che Ippolito era stato a pensare a tutte queste co-
se il giorno era svanito e le tenebre erano ora vinte da una
fredda luce lunare. Nella foresta, la notte sembrava una di
quelle albe autunnali, con la neve a terra, gli alberi nudi e scuri
e qualche vapore a metà tra terra e cielo. Non c'erano colori se
non il bianco spettrale della luce e il nero d'ogni oggetto e d'o-
gni ombra. Immobile sul ramo, sentiva il freddo penetrargli fin
dentro alle ossa. Si era atteso un silenzio assoluto e invece con-
statò che il bosco era attraversato da rumori improvvisi: il can-
to d'un uccello notturno, il correre veloce di qualche roditore
tra le foglie secche, lo scricchiolare dei rami. Ogni suono era
come uno squarcio su di una tela tesa e lo faceva trasalire e
palpitare. Ancora una volta desiderò andarsene, fuggire, lascia-
re tutti al loro destino e ancora una volta andò avanti, non per
coraggio, ma per la consapevolezza d'essersi spinto troppo ol-

132/156 Alessandro Perissinotto


tre, là dove nessuna fuga era più possibile. Gli stessi rumori gli
apparivano ora più tranquillizzanti del cupo nulla, ora spaven-
tosi, ma più orribile di tutto gli sembrò il tacersi di ogni anima-
le e lo spandersi nell'aria di ululati sempre più vicini.
I lupi. Erano i lupi. In branco, com'è nella loro natura. Guida-
ti alla gallina sventrata da un olfatto prodigioso? O forse con-
dotti dal capo lungo percorsi invisibili, come selvaggina di pas-
so. Quanti? Impossibile dirlo; troppo distanti ancora. Poi
all'improvviso, quasi fossero sbucati dalle viscere stesse della
terra, argentati nella luce lunare, apparvero cinque grossi lupi.
Lanciati nella loro corsa, davano l'impressione di voler prose-
guire incuranti di tutto, ma, fulmineamente com'erano balzati
fuori, si arrestarono. Fu solo in quel momento che Ippolito
comprese di essere per loro ben più desiderabile d'un misero
volatile stecchito.
Le belve circondarono immediatamente l'albero sul quale
egli era appostato, ululando e latrando con le fauci volte all'in-
sù. Due di loro si erano sedute sulle zampe posteriori, mentre
le altre giravano intorno al tronco per trovarvi un punto d'at-
tacco.
Quanto sarebbe durato l'assedio? Ippolito si era preparato a
resistere per tutta la notte, ché, ne era certo, il sopraggiungere
del giorno avrebbe spinto le bestie più in alto sul monte. Ma
quelle non erano che previsioni fatte al chiuso della propria
stanza; lì, nel bosco, con la luna che faceva risplendere le zanne
lucide di saliva, lo spirito, sbranato dalla paura ancor prima
che il corpo dai denti, avrebbe potuto cedere in ogni istante.
Intanto i lupi si erano fatti più arditi e protendevano le loro
zampe anteriori lungo il fusto dell'albero rinsecchito, verso il
ramo ove era la loro preda. Visto vano ogni tentativo d'arram-
picarsi, due spiccavano, alternativamente, grandi balzi alzando
il muso con la bocca spalancata cercando di afferrare al volo le
carni o quanto meno le vesti del giudice. Questi, dal canto suo,
non pensava più ad altro se non a vibrare colpi con il suo ba-
stone, e i suoi gesti, che in un primo momento erano stati pre-

La canzone di Colombano 156/133


cisi colpendo una delle belve più prossime, divenivano via via
più scomposti, e la rudimentale arma fendeva inutilmente l'a-
ria.
Fu alla ricaduta di uno di quei salti fenomenali che il più
grosso e il più feroce tra i lupi rotolò su un fianco e precipitò di
qualche passo verso valle finendo per urtare l'esca. Malgrado
l'indole sua selvaggia lo spingesse all'assalto della preda uma-
na, il lupo avvertì, più forte dell'istinto, il richiamo dei visceri e
si avventò sulla gallina.
Quello che Ippolito vide e quello che udì negli attimi che se-
guirono gli lasciò una tale sensazione d'orrore e di raccapriccio
che a pena se ne troverebbero di uguali.
Il lupo che aveva inghiottito con rapidi morsi il cadavere
gettato lì dal mugnaio era rimasto per un istante pietrificato,
poi, dalla sua bocca era uscito un lungo lamento che si sarebbe
detto d'un bambino straziato; infine, irrigidite le membra e
sbarrato l'occhio, era crollato a terra, mentre dai denti serrati
colava bile mista a sangue.
Gli altri animali, che ancora davano la caccia al giudice, inte-
so l'urlo del compagno si voltarono nella sua direzione e osser-
varono atterriti ciò che stava accadendo, poi, afferrato coi sensi
loro misteriosi lo stagnare della morte su quella parcella di fo-
resta, si dileguarono correndo come demoni impazziti.
Il giudice rimase sull'albero il tempo necessario perché il
suo respiro si facesse meno convulso e perché l'intero bosco,
allontanatosi il grande pericolo, riprendesse la sua vita e i suoi
rumori. Poi scese e si accostò al lupo incauto che era caduto
nella trappola; ne toccò il corpo ed esso ebbe un sussulto: quel-
la che giungeva improvvisa non era dunque la morte, ma una
parvenza, seguita poi da una lunga, dolorosa agonia. Lo colse
terribile angoscia: Floretta, la sua coscienza era svanita con i
primi tratti dell'avvelenamento, oppure v'erano state lunghe
ore in cui la fanciulla non aveva potuto far altro che soffrire e
guardarsi morire? E così la madre e la nonna e Isoardo. Sì, ora
ne aveva la certezza; osservando la fine del lupo s'era persuaso

134/156 Alessandro Perissinotto


che dietro i delitti della Thullie vi fosse una sola, venefica erba
gialla e dietro quell'erba un'unica mano, quella di Costante.
Le zampe della belva morente tremavano, come quelle di un
cane che sogna. Con l'alba il cacciatore sarebbe arrivato a rac-
cogliere il bottino, ma sarebbe divenuto egli stesso preda:
adesso Ippolito aveva bisogno di una confessione. Nascondersi.
Coglierlo alle spalle. Puntargli lo stiletto al fianco. Magari tra-
mortirlo con un randello. E poi legarlo e farlo parlare; lì, tra gli
alberi, lontano da tutti. Il giudice, in piedi davanti al lupo, ripe-
teva a se stesso, come in una litania, la sequenza dei gesti che
aveva previsto per l'incontro con l'assassino.
Ad un tratto, due braccia sbucate dall'ombra immobilizza-
rono le sue all'altezza dei fianchi cingendogli il corpo e strin-
gendo con forza.
«Vi ho catturato» si sentì gridare nel buio.
La frase era minacciosa, ma non la voce che la pronunciava.
Vi era anzi in essa una nota di entusiasmo e di allegria, quasi
d'amicizia.
La presa delle due braccia ignote si allentò e quando Ippoli-
to poté girarsi si trovò di fronte il volto sorridente del Bastar-
do.
«Ti avevo detto di andare via da qui».
«E io sono sceso in paese, ma poi avevo voglia di vedere co-
sa facevate quando i lupi arrivavano e così sono tornato. Non è
stato molto bello, eh?».
«Hai veduto ogni cosa?».
«Sì, ero nascosto qui vicino».
Com'era irritante quel ragazzo! Eppure così abile e corag-
gioso. Provò un po' d'invidia e un po' d'ammirazione. Tanto va-
leva averlo come alleato.
«Ascolta Bastardo, adesso ti dico cosa devi fare quando vie-
ne qui Costante».
«Mi darete altre monete?» chiese il ragazzo che forse co-
minciava a comprenderne il valore.
«No, se vuoi rimanere qui fai quello che ti dico, ma niente

La canzone di Colombano 156/135


danaro; se no te ne vai via».
«Resto, mi piace aiutarvi». Accettare quel compito, qualun-
que esso fosse, per il Bastardo era come vestire la veste virile e
nella sua voce vibrava l'orgoglio.
Si intesero senza tante parole, da persone pratiche e spicce,
e quel poco che rimaneva della notte lo trascorsero in silenzio,
l'uno accanto all'altro, proteggendosi dal freddo con la coperta
di Ippolito.
Coll'alba, l'algida luce lunare si mutò in azzurra e quindi
cominciò a tendere all'arancio. Nuovi rumori presero il posto
di quelli notturni e i canti degli uccelli si fecero più squillanti,
più gioiosi; o forse a farli apparire tali era solo il sollievo per la
scomparsa delle tenebre.
Rami spezzati e calpestio di foglie secche. Qualcuno si avvi-
cinava.
«Giù le mani da quel lupo, Bastardo: è roba mia».
«Questa bestia è morta da sola, non ci sono buche qui intor-
no, né lacci, come fai a dire che è tuo».
«È mio perché ho messo io l'esca con il…»
Forse avrebbe voluto dire la parola «veleno», forse il nome
della pianta dalle barbe gialle, forse qualche altra cosa, ma non
disse niente perché alle sue spalle qualcosa si mosse e, quando
egli si voltò per capire di cosa si trattasse, un pugno violentis-
simo lo colpì tra la bocca e il naso facendolo barcollare e poi
accasciare. Con la sua prontezza d'animale, il Bastardo, in un
attimo, fu sopra all'uomo e gli legò gambe e polsi con la corda
che il giudice gli aveva dato, poi, insieme, lo voltarono: i linea-
menti erano quasi completamente cancellati dalla grande mac-
chia di sangue che dal naso e dal labbro s'era allargata fulmi-
neamente e a stento si poteva riconoscere in quel viso l'imma-
gine del mugnaio Costante. Ippolito stesso si sorprese della fu-
ria con cui aveva colpito; la certezza di trovarsi di fronte all'as-
sassino di Isoardo, la rabbia e la paura gli avevano molti-
plicato le forze.
Adagiarono Costante con la schiena contro un albero e pro-

136/156 Alessandro Perissinotto


varono a detergergli il viso, anche se il sangue continuava pia-
no a uscire dal naso fracassato. Il giudice prese una pezzuola e
fece per inumidirla con l'acqua del piccolo otre che aveva con
sé, ma questo era ormai quasi vuoto.
«Vallo a riempire» ordinò al ragazzo.
Senza replicare l'altro obbedì.
Come il Bastardo si fu allontanato, il giudice iniziò ad inter-
rogare il suo prigioniero assumendo un tono pacato e sarcasti-
co.
«Dimmi Costante, perché hai ucciso la famiglia di Isoardo?».
«Io non ho ucciso nessuno, è stato quel diavolo di Colomba-
no».
«Allora è lui che ti ha insegnato ad adoperare questi muschi
gialli per cacciare i lupi. Siete dunque compagni di stregone-
rie?».
«No, io non so niente, io non ci parlavo mai con Colombano,
non sono mica uno stregone io...»
«Qui sbagli Costante, ché i bravi cristiani non vanno in giro
per i boschi a raccogliere erbe maledette».
«Non è maledetta, serve solo per prendere i lupi».
«Chi te lo ha detto?».
Il mugnaio non rispose; per quanto ferito, manteneva un'a-
ria ostinata e risoluta.
«Chi ti ha detto» ripeté il giudice «che quelle erbe sono ve-
lenose?».
Nessuna risposta.
Forse la lama del coltello lo avrebbe indotto a parlare, o ma-
gari le urla e gli insulti, o, perché no, un altro pugno. Ma la ma-
no gli doleva ancora, e poi no, c'erano altre possibilità.
Ippolito raccolse nel suo sacco le cose che aveva sparpaglia-
to a terra e fece per andarsene, il Bastardo lo avrebbe incontra-
to per via.
«Giudice, dove andate?».
«Giacché non hai niente da dirmi, torno al castello».
«Non potete lasciarmi qua legato».

La canzone di Colombano 156/137


«Credi che non passerà nessuno a liberarti?».
«E chi mai viene fino a qui?».
«I lupi, ad esempio. Io questa notte ne ho contati cinque, ma
uno è morto, quindi dovrebbero tornarne solo quattro. O ma-
gari chissà, l'odore del tuo sangue ne può richiamare un più
gran numero».
Fece nuovamente mostra di volersene andare. «Vi prego
giudice Ippolito, non mi abbandonate». Ma il giudice era già
lontano di qualche passo.
«Non mi lasciate ai lupi!».
Ippolito proseguiva.
«Me lo ha insegnato un cavaliere; è stato un cavaliere a mo-
strarmi le barbe gialle e a dirmi cosa dovevo farne...»
Ippolito si voltò e avvicinandosi nuovamente al mugnaio gli
intimò:
«Raccontami tutto ciò che avvenne».
«È stato ai primi di agosto» cominciò. «Un giorno è arrivato
un cavaliere...»
«Da che parte, da Oulx o da Susa?».
«Non lo so, io stavo alla macina, ho sentito fuori il verso di
un cavallo e quando sono uscito c'era un uomo alto, col mantel-
lo bianco; era appena smontato. Non so chi era, ma lui cono-
sceva il mio nome. Ha preso la borsa che aveva alla cintura e
l'ha vuotata sul tavolo del portico. C'erano quaranta pezzi d'o-
ro. Mi ha detto che me li dava se facevo una cosa per lui. Da sot-
to la sella ha preso una di quelle barbe gialle di muschio e mi
ha chiesto se le avevo già viste e se crescevano lì vicino. Gli ho
detto di sì. Allora mi ha spiegato che lontano lontano, al nord,
le usavano per ammazzare i lupi».
«Ma quei soldi lui non te li dava per cacciare i lupi, vero?».
«No, era per Isoardo; quando la moglie veniva a macinare la
segale dovevo mischiare la polvere delle barbe gialle alla farina
e anche un po' di sabbia, che graffia e fa entrare meglio il vele-
no, ma poca la sabbia, che se no se ne accorgevano».
«E tu lo hai fatto?».

138/156 Alessandro Perissinotto


«Sì».
«E poi, visto che il sistema lo conoscevi, ne hai approfittato
per cacciare».
«Sì».
«Ma perché dovevi uccidere Isoardo?».
«Non lo so, non me lo ha detto».
«Glielo hai chiesto?».
«No».
«Chi era quel cavaliere?».
«Non lo so».
Tumefatto, sanguinante, lacero, Costante appariva ora come
una vescica svuotata. Le sue risposte, biascicate in modo peno-
so, divenivano sempre più brevi, sempre più inutili. Inutile an-
che il porgli altre domande; Ippolito vi rinunziò. D'altro canto,
Costante non aveva più nulla da dire: le ultime risposte il giu-
dice avrebbe dovuto cercarle altrove, ma nel profondo del suo
animo era certo di conoscerle già.
La vista di quella carcassa umana colpita nel corpo e morti-
ficata nello spirito avrebbe dovuto condurre il giudice sulla via
dell'indulgenza; al contrario però, raggiunta la positiva certez-
za delle colpe di Costante, egli provò fortissimo il desiderio di
infierire sulle sue membra. Per vendetta, per rabbia, per disgu-
sto di chi faceva commercio della vita, di una vita buona, come
quella di Isoardo, di una vita ingenua, come Floretta. Già vede-
va i lupi famelici pascersi delle carni del mugnaio; ascoltava il
loro ringhiare rabbioso e le grida impotenti del mugnaio sbra-
nato. Non sarebbe intervenuto, non l'avrebbe aiutato, ma
avrebbe goduto di ogni morso, di ogni lacerazione, fino a che le
ossa spolpate dell'altro non avrebbero biancheggiato sul tap-
peto di foglie morte.
La sua macabra e immaginaria vendetta fu interrotta dal ri-
torno del Bastardo con l'acqua. Bevvero, lavarono il volto del
prigioniero e infine, scioltegli le gambe dai legacci, lo condus-
sero al castello passando per uno dei segreti e deserti percorsi
del ragazzo.

La canzone di Colombano 156/139


Infine, rinchiuso in cella Costante e congedato il Bastardo,
Ippolito si gettò vestito sul pagliericcio della sua camera per
dormire qualche ora nel pomeriggio: la notte, lo sapeva, sareb-
be stata di nuovo insonne, perché anche il secondo dei consigli
del sindaco Sibille, quello di cercare nuovi documenti, valeva
ora la pena di essere seguito.

140/156 Alessandro Perissinotto


IX Chiusa

E Culumban l'an liberà,


cun or e arzan a l'an pagà.
Ma vui chi sente, scuteme mi
9
l'onur 'd n'om a val 'd pi.

Il mattino del 20 ottobre del 1533, i soldati che sorveglia-


vano la frontiera tra Chiomonte e Gravere, tra le terre del re di
Francia e quelle del Duca di Savoia, assistettero attenti ad una
cerimonia carica di tensione. I protagonisti s'erano disposti
lungo la linea che, arbitraria e innaturale, segnava la separa-
zione, altrimenti inavvertibile, tra i due paesi: da una parte,
quella francese, v'erano due uomini col mantello rosso e le in-
segne della Prevostura di Oulx; dall'altra, quella savoiarda, un
giovane di bell'aspetto, anch'egli col mantello sulle spalle, e un
uomo forse solo di poco più vecchio, ma infinitamente più
stanco.
Una cerimonia silenziosa, uno scambio. I cavalieri della Pre-
vostura depositarono oltre la linea di confine uno scrigno; in
cambio, il giovane del versante savoiardo diede loro una lette-
ra. I soldati dell'uno e dell'altro Stato, avvertiti di quanto sa-
rebbe accaduto e convenientemente prezzolati, badavano a che
nulla di imprevisto o di violento turbasse quel misterioso
commercio: lo scrigno contro la lettera, niente di più.
9 E Colombano han liberato, | con oro e argento l'hanno pagato. | Ma voi
che ascoltate, ascoltate me | L'onore di un uomo vale di più.

La canzone di Colombano 156/141


La lettera era indirizzata al Segretario del Consiglio Delfina-
le a Grenoble ed era fatta di poche righe:

Eccellenza,
il fuoco distrugga il documento che vi inviai con la
mia ultima missiva pregandovi di mantenerlo sigilla-
to fino al giorno in cui aveste avuto notizia della mia
morte. La mia vita non è più in pericolo e quello scrit-
to tratta di fatti che ormai è bene dimenticare: di-
struggetelo.
Vostro devotissimo.
Ippolito Berthe

Nello scrigno c'erano monili e oro. Il giovane lo prese, lo


aprì, ne valutò sommariamente il contenuto e, richiudendolo,
lo legò alla sella del proprio cavallo.
La cerimonia era finita e coloro che vi avevano partecipato,
spronando le loro cavalcature, si allontanarono in fretta in due
opposte direzioni.

«Fermiamoci qui, Colombano; ora siamo al sicuro» disse il


giovane scendendo dal cavallo ed afferrando lo scrigno.
«Come voi volete, giudice Ippolito» rispose l'altro.
Non avevano fatto molta strada dal luogo dello scambio, ma
adesso che erano definitivamente nel paese del Duca di Savoia,
il giudice si sentiva molto più tranquillo. Avevano legato i ca-
valli ad un albero e sedevano sull'erba di un poggio dal quale si
dominava la città di Susa e la larga valle scavata dalla Dora nel
suo percorso verso il Po.
Ippolito esaminava i preziosi del cofanetto con molta più cu-
ra di quanta avesse potuto impiegare prima. Colombano invece
guardava le montagne d'intorno come se mai prima ne avesse
vedute di simili: dopo due mesi di cella nei quali non aveva
contemplato altro che le pietre dei muri, l'improvvisa e inatte-
sa libertà gli dava un senso di stordimento. Sentiva il vento sul-

142/156 Alessandro Perissinotto


la pelle, vedeva il sole, seppure un po' pallido, toccava l'erba,
annusava la terra: da prigioniero era tornato uomo.
Già da qualche giorno, con l'arrivo di un occupante per la
cella attigua alla sua, lo scalpellino aveva compreso che v'era
del nuovo, ma che quelle novità significassero per lui la libera-
zione l'aveva intuito solo quel mattino stesso, quando il giudice
in persona aveva aperto la porta della sua segreta. Anzi, forse
non l'aveva intuito affatto; semplicemente si era trovato fuori;
prima su di un cavallo, poi alla frontiera e infine lì, a contem-
plare il paesaggio.
«Dove andiamo, giudice Ippolito?».
«Ovunque noi vogliamo; con quello che c'è in questa casset-
ta possiamo andare dove più ci piace».
«Ma quando torniamo a Chiomonte?».
Aveva il tono lamentoso di un bambino, Colombano. Né pe-
raltro gli era dato sapere più di quanto fosse dato a un bambi-
no trascinato per mano dai genitori, ché tutto si era svolto so-
pra di lui e senza di lui.
«Non torneremo mai» gli rispose il giudice «almeno se t'è
cara la vita».
«Che cosa vuoi dire?».
«Vuoi dire che sei scampato a un avvelenamento, a un'im-
piccagione e a un rogo. Credi d'aver ancora voglia di tornare
lassù?»
«Non capisco, non capisco...»
Come un insensato, Colombano Romean volgeva intorno gli
occhi interrogativi; si sentiva straniero a quelle terre che pure
erano a due leghe da casa sua, straniero alla sua stessa vita: la
prigionia nelle segrete del castello gli pareva ormai come una
sorta di lungo sonno durante il quale qualcuno si era impos-
sessato del suo corpo e ora lo menava per contrade sconosciu-
te mentre la sua anima lo osservava impotente.
Ippolito, in orgasmo per l'improvvisa ricchezza, ascoltava
con insofferenza le domande dell'altro; eppure, in fondo, quella
era soprattutto la storia di Colombano e si dispose a raccontar-

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gliela, almeno per quanto poteva.
«Vedi Colombano, Isoardo e i suoi non sono morti per la se-
gale cornuta, né per un maleficio o per i briganti: qualcuno li ha
uccisi col veleno».
«Chi?».
«Costante, il mugnaio. Ha macinato una pianta velenosa as-
sieme alla segale che la moglie di Isoardo gli aveva dato per fa-
re la farina. Con quella farina avvelenata loro hanno fatto il pa-
ne, lo hanno mangiato e sono morti. Quando erano già morti,
pecore e capre sono entrate in casa, hanno rovesciato tutto e
hanno mangiato la farina che era rimasta nella madia, così so-
no morte anche loro».
«Allora voglio tornare indietro per vedere Costante sulla
forca».
«Costante ha preso il tuo posto in prigione e le torture
dell'inquisitore saranno tutte per lui. Lo metteranno alla ruota,
gli strapperanno i denti e le dita e alla fine lui dirà d'aver fatto
un patto col demonio. Dirà che il diavolo si è presentato a lui
sotto forma di cavaliere dal mantello bianco e gli ha proposto
un affare che lui ha accettato. Alla fine lo metteranno sul rogo,
ma tu non potrai vederlo».
«Perché?».
«Colombano» gridò esasperato il giudice «se tu dovessi ri-
mettere piede a Chiomonte, a Exilles, a Salbertrand o a Oulx
verresti ucciso dalla stessa volontà omicida che ha decretato la
morte di Isoardo: quella farina avvelenata era destinata a te.
Isoardo, Floretta e le altre dovevano morire, ma solo perché
morissi anche tu. Ti faccio ancora una volta la domanda: quanti
sapevano che tu non mangiavi più lo stesso pane di Isoardo?».
«Nessuno» rispose lo scalpellino senza capire.
«Proprio questo ti ha salvato la vita. Chi voleva ucciderti
pensava che il tuo cibo fosse lo stesso di quelli che vivevano al-
la Thullie e per questo ha messo il veleno proprio lì».
«Ma se adesso Costante è rinchiuso...» obiettò Colombano.
«Costante ha fatto ciò che altri hanno voluto e quegli altri

144/156 Alessandro Perissinotto


sono ancora liberi; più poveri, ma liberi» e sorrise il giudice Ip-
polito pronunciando queste ultime parole.
«Chi sono?».
«Questo non te lo posso dire. Era qualcuno che non voleva
che tu finissi il buco dei Quattro Denti».
Il buco, la galleria, l'acquedotto, otto anni di vita, l'opera più
grande che un uomo solo potesse realizzare. All'improvviso, il
dolore sordo che Colombano si portava dentro da quando ave-
vano lasciato Chiomonte si risvegliò urlando.
«Io devo tornare indietro, giudice. Io devo finire la mia gal-
leria. Ci ho lavorato otto anni, adesso la devo finire e devo
prendermi la ricompensa».
«La tua ricompensa» disse Ippolito indicando lo scrigno «è
già qui. L'ho ottenuta io per te e quando vorrai ti darò la tua
parte. C'è più oro qui di quanto tu possa immaginarne».
Sbigottito, Colombano si tacque. Rimase fermo, seduto
sull'erba, masticando pensieri che affioravano alle labbra in un
biascicare coperto dal rumore del vento. Giù, in basso, a Susa,
si vedevano i villani uscire dalla città per andare negli orti, si
vedevano i carri accanto a ciò che rimaneva dell'antico arco
romano, in una parola, si vedeva la vita.
Ippolito intanto contava le monete, ma poi perdeva il conto
e ricominciava da capo, con un gioco che sembrava divertirlo
molto.
Fu dopo un lungo pensare che Colombano levò il capo verso
Ippolito per parlargli.
«Giudice Ippolito, io credo che l'uomo che voleva uccidermi
e che ha ammazzato Isoardo si sia comprata la libertà con il
denaro di quello scrigno».
Ippolito fu un po' sorpreso e un po' sollevato del fatto che
l'altro avesse finalmente capito, e gli rispose:
«Quell'uomo può comprare molte cose, anche senza monete,
questi preziosi sono solo la tua ricompensa».
«Non sono forse anche il prezzo del vostro silenzio?»
«Sì, ma il mio silenzio vale poco, ché se anche avessi parlato,

La canzone di Colombano 156/145


non so quale corte mai l'avrebbe condannato. Forse solo se mi
fossi fatto uccidere da lui il mondo mi avrebbe creduto. Ma lui
ha preferito pagarmi, non per paura, ma per comodità».
«Voi, giudice, gli avete venduto ciò che non vi appartiene. Gli
avete venduto la giustizia per Isoardo, gli avete venduto la mia
vita e la mia opera».
«Gli ho venduto solo quello che altrimenti si sarebbe preso
da sé».
«No, la mia dignità non avrebbe potuto prenderla e la vostra
neppure».
«Di quale dignità parli?».
«Parlo di uomini che si fanno pagare per fare un lavoro, non
per non farlo; il vostro lavoro era la giustizia, ma qualcuno vi
paga per il contrario, il mio era scavare la montagna e voi avete
preso dei soldi perché la montagna resti così com'è. Andrete
via senza di me, giudice Ippolito. Io torno a Chiomonte, torno ai
Quattro Denti e finisco la mia galleria. Quando l'avrò finita
prenderò la mia ricompensa, ma quella rimarrà sempre la mia
galleria. Nessuno può portarmi via la mia galleria perché io l'ho
già pagata con ogni oncia di terra che ho tolto di lì. Addio Ippo-
lito, che Iddio vi accompagni e vi aiuti a cancellare il rimorso».
Detto così risalì in sella e, al galoppo, tornò verso Chiomon-
te.
Ma quale rimorso? Nessun rimorso per chi ha come unica
colpa quella di aver liberato un uomo innocente. O forse il ri-
morso potrebbe proprio essere quello d'averlo lasciato andar
via, verso il proprio carnefice. Quanto a quello, al carnefice,
davvero un misero giudice della più remota delle province
avrebbe potuto farlo condannare? Quando la giustizia era stata
tanto forte? Aveva detto bene prima, l'altro aveva pagato solo
per comodità, perché un nuovo omicidio e un'assoluzione del
Consiglio Delfinale gli sarebbero costati di più, ma certo non
erano cose che egli non potesse acquistarsi. Rimorso allora
d'aver tratto profitto dall'ingiustizia. Ma se la metà dell'oro che
aveva pattuito con l'assassino era destinata proprio a Colom-

146/156 Alessandro Perissinotto


bano. Era una colpa assicurare all'operaio la giusta mercede?
Era turbato il giudice e, prima di muoversi da quel pezzo di
prato affacciato sulla valle, voleva capire se nelle decisioni sue
precipitose degli ultimi giorni vi fosse qualcosa di errato, qual-
cosa di cui provare rimorso. Né passare in rassegna quelle scel-
te era poi un compito tanto arduo, dal momento che ogni even-
to era dipeso dalla lettera che aveva inviato al Prevosto. Da una
sacca che portava a tracolla trasse fuori il calepino sul quale
aveva scritto la brutta copia di quell'ultima, fatale missiva ed
iniziò a leggere.

Al Reverendissimo ed Eccellentissimo Prevosto


della Prevostura di Oulx

Eccellenza,
da due giorni colui che levò la sua mano assassina
sul buon Isoardo e sulla sua famiglia è prigioniero
nelle segrete del castello di Chiomonte dal quale vi
scrivo; colui che armò quella mano è però libero, ché
Costante, l'assassino, non seppe indicarne il nome.
Ma quel nome, voi e io lo conosciamo.
Per settimane vi siete preso gioco di me e mi avete
usato quale strumento del vostro perverso disegno.
Fallito il tentativo di uccidere Colombano con il
pane avvelenato che ha dato la morte agli altri, avete
tramato nell'ombra e, con i vostri oscuri lacchè, avete
agitato gli animi contro Romean confidando nel lin-
ciaggio. Mentre a me raccomandavate il silenzio e la
discrezione, dai champiers facevate spargere la voce
delle uccisioni della Thullie. Tutto era pronto, ma an-
cora una volta Colombano è sfuggito alla morte e af-
ferrando l'anello di salvezza si è affidato alla giu-
stizia della chiesa.
Non vi siete perduto d'animo, anche perché aveva-
te in pugno l'arma migliore: cosa c'era di meglio di

La canzone di Colombano 156/147


un giudice giovane e inesperto, di un montanaro
ignorante che il destino aveva innalzato indegna-
mente al suo ufficio. Novello Minotauro, edificaste ad
arte un labirinto di denunce nel quale avrei dovuto
perdermi: confuso da tutto quel querelare, avrei fini-
to per cedere di fronte alle accuse più gravi e sarei
stato io stesso, malleabile creta nelle vostre abili ma-
ni, a decretare per Colombano la morte per impicca-
gione. Ma questa volta foste più lungimirante e con-
templaste anche l'insuccesso; se il processo non si fos-
se concluso con la forca ci sarebbe sempre stato un
rogo al quale io, vittima della credulità che sempre
mi avete rimproverato, non avrei saputo né voluto
oppormi.
Di fronte a me affermavate l'assoluta necessità di
salvare la vita dello scalpellino, ma nel segreto ordi-
vate trame di morte.
Fu eccesso di zelo o gusto della burla quello che vi
fece sbagliare? Fu per sviarmi completamente o per
mettermi alla berlina che m'induceste a seguire le
impossibili tracce del Roi des Ribauds e dei suoi acco-
liti che da un secolo marcivano nelle fosse? O forse so-
lo per tenermi impegnato in attesa dell'inquisitore?
Se non vi foste spinto tanto avanti, lo stregone Co-
lombano, il diavolo Colombano sarebbe pronto per le
fiamme. Adesso però i miei occhi sono aperti sulla ve-
rità e l'istrumento che ho ritrovato svaligiando que-
sta notte lo stipo del notaio Chalvet conferma ogni
mio sospetto: nessuno più di voi traeva vantaggio
dalla fine di Colombano Romean. In quell'atto, stipu-
lato da oltre un anno e conservato senza troppa cura
da Chalvet, si concorda tra la vostra persona e i pare-
rii che per primi avevano dato avvio ai lavori della
Thullie che metà degli oneri spettanti primitivamente
a detti parerii, cioè a maggiorenti della comunità, sa-

148/156 Alessandro Perissinotto


rebbe stata presa in carico dalla Prevostura e ciò per
porre fine alle annose diatribe che rischiavano di in-
terrompere per sempre l'esecuzione dell'acquedotto.
Quella galleria vi era indispensabile per accrescere il
valore delle vostre terre esposte a mezzogiorno; con
le nuove acque i raccolti sarebbero aumentati smisu-
ratamente e con essi le decime: valeva dunque la pe-
na di accollarsi quelle spese che le comunità non vo-
levano più affrontare, valeva la pena promettere il
pagamento di metà della ricompensa di Colombano.
Valeva la pena soprattutto perché già allora sapeva-
te che quella ricompensa non avrebbe mai raggiunto
il suo beneficiario; forte della vostra impunità, già
preparavate i veleni.
Avete atteso pazientemente che l'insostituibile Co-
lombano giungesse quasi al termine della sua opera.
A sua insaputa avete fatto più volte misurare e calco-
lare la lunghezza della galleria e quando avete com-
preso che di roccia non rimaneva che un esile dia-
framma avete assoldato il vostro sicario. Ora che per
completare la galleria bastava un qualunque bruto
armato di mazza e scalpello da pagare con poche
monete d'argento, Romean poteva volare nel regno
dei più, povero com'era quand'era giunto di Proven-
za.
Adesso che i miei occhi vedono la verità, sento il
mio animo devastato dall'ira. Se fossi certo della riu-
scita, giungerei a voi nottetempo e infierirei sulle vo-
stre carni per vendicare l'innocenza di Floretta e del
suo corpo virginale, ché di vedervi impiccato dopo un
equo giudizio non ho speranza. Tuttavia so che avete
buone guardie fuori e dentro quel tempio che avete
ridotto a mercato e tentare di penetrare sino a voi
sarebbe come regalarvi la mia vita e il mio silenzio;
meglio dunque vendervelo il mio silenzio.

La canzone di Colombano 156/149


Mentre voi leggete queste righe, un messo ha già
consegnato nelle mani del Segretario del Consiglio
Delfinale una mia missiva e un documento sigillato
nel quale vi accuso come ho fatto qui: se il Segretario
non riceverà mie notizie entro il formarsi della luna
nuova o se saprà della mia morte, egli aprirà quel
documento e l'accusa sarà pubblica.
Domani, all'ora Terza, due vostri cavalieri si tro-
veranno alla frontiera con il Ducato di Savoia e por-
teranno uno scrigno...

No, non c'erano errori; tutto era stato inevitabile, conse-


quenziale, logico: questo era ciò che egli credeva.
Chiuse il calepino e assicurò nuovamente il suo prezioso ba-
gaglio alla sella, poi montò la sua cavalcatura e si volse a guar-
dare verso occidente; con gli occhi della mente rivide la via ac-
ciottolata, la piazza, il castello, le case addossate e da ultima, un
poco fuori il paese, l'umile casa di Margherita, il bambino sulla
soglia e la donna a petto nudo che si lavava alla fontana. Ebbe
ancora voglia di lei e delle sue labbra, di quelle labbra che la
sera prima, quando egli le aveva annunciato che mai si sareb-
bero rivisti, si erano solo leggermente increspate in una smor-
fia che tratteneva le lacrime e che si erano poi distese in un
sorriso spento quando le aveva consegnato la scarsella delle
monete: tutto ciò che possedeva.
Ebbe ancora voglia di Margherita il giudice Ippolito, ebbe
voglia di tranquillità e della monotonia del suo vecchio ufficio;
ma ora era ricco, ricco e giovane, e la valle di Susa che si apriva
sotto il poggio e sotto il suo sguardo gli parve il segno di un
mondo che si distendeva ai suoi piedi: il giudice Ippolito spro-
nò il cavallo e vi corse incontro.



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Epilogo

I IV
Di la da cui boscagi «Culumban a l'a massà!»
j'è quat mort da suterè. siur giüdise pende lo farà
E 'l pare e la mare «Con 'l diau a l'a giügà!»
e la veja l'an massà; Culumban a l'è përzuné
e na fia d' quìndes ani «Con le masche a l'a dansà!»
ch'a smija penha endurmentà. siur giüdise lo farà brüsé

II Rit
Quand la gent a l'è muntà 'l bun Culumban (2 volte)
per andeje a suteré, a porta l'éigua dal mont al pian
a l'a vist Culumban 'I bun Culumban (2 volte)
ch'a fasia so mesté. a fura la pe(y)ra cun la sua man
A l'an vist Culumban
a l'an falu përzuné. V

Rit
'l bun Culumban (2 volte) VI
a porta l'éigua dal mont al pian Per pié 'l lüv a fan 'l pan
'l bun Culumban (2 volte) a fan 'l pan envelenà.
a fura la pe(y)ra cun la sua man. Chi ch'a na mangia 'n toc
a va a ciamé 'l consur.
III Chi ch'a na mangia dui toc
Anans al giüdise a va a ciamé 'l sotrur.
a j'è tüt 'l pais
… VII
E Culumban l'an liberà,
cun or e arzan a l'an pagà.
Ma vui chi scute, scuteme mi
l'onur 'd n'om a val 'd pi.

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La canzone si ferma qui e altro non dice sulla sorte dei due prota-
gonisti, perché forse Ghitin, ultima custode di questa tradizione, la ab-
breviò oltre misura confondendone il finale con quello di altri canti
della sua giovinezza. Ciò che la canzone omette può però essere facil-
mente ritrovato nei libri di storia locale, perché di certo Colombano fu
personaggio storico.
Il Chiapusso, nel suo saggio Il traforo della Thullie e Colombano
Romean (Susa 1879), afferma senza ombra di dubbio che: «Dai regi-
stri poi esistenti negli archivi di Chiomonte risulta come il Colombano
Romean avesse un fratello nato e dimorante in Chiomonte dove morì
in tarda età nell'ultimo quarto del secolo XVI. Il Romean moriva poco
prima del suo fratello pianto da tutti lasciando ai posteri un'opera in-
cancellabile che desta tuttora meraviglia ma quel che è più lasciando
impresso nel cuore dei suoi compaesani il sentimento il più nobile quel-
lo della gratitudine».

Con eguale sicurezza il De Lavis-Trafford giunge a conclusioni di


segno opposto: «Son travail fini il fut remis solennellement à la Com-
munauté au cours de grandes festivités; Romean fut à l'honneur. Mais
bientót après... il mourait empoissonné!» (M.A. De Lavis-Trafford, L'i-
dentification Topographique du Col Alpin franchi par Hannibal,
1956).

Dunque, secondo il De Lavis-Trafford, Colombano ebbe appena il


tempo di festeggiare la conclusione dell'opera prima di essere avvele-
nato. Questo è anche ciò che dice la leggenda locale, mentre altre voci
parlano sì di una morte prematura, ma dovuta all'idropisia e agli stra-
vizi che seguirono la fine dei lavori.
Informazioni più certe non ne esistono.
Ancor più scarsi sono i dati riguardanti Ippolito Berthe. C'è da pre-
sumere che, dopo i fatti narrati, il giudice, abbandonate le sue funzioni,
si sia stabilito da qualche parte nel Ducato di Savoia; ma dove?
Un manoscritto tardo ottocentesco segnala la presenza di un Ippo-
lito Berta a Cantoira, in Valle di Lanzo, e lo descrive come un esiliato;
un uomo triste e ricco, forse nobile, che pareva custodire un gran se-
greto o una grande pena. Altre storie parlano di una sua conversione e
di un tesoro nascosto nei sotterranei del suo palazzo. Per la verità,
queste fonti fanno risalire la morte di tale Ippolito, una morte violenta

152/156 Alessandro Perissinotto


in combattimento, ad una data posteriore al 1584, il che renderebbe
difficile, seppure non impossibile, supporre che si tratti del nostro giu-
dice, poiché egli sarebbe stato all'epoca quasi ottuagenario; tuttavia,
si sa, le date delle vecchie cronache non sono mai completamente at-
tendibili ed è affascinante immaginare che Ippolito, il montanaro
dell'Oisans, abbia stabilito la sua definitiva dimora tra le montagne.
Forse si potrebbero fare indagini più accurate, ma credo che sia me-
glio attenerci ai consigli che quello stesso manoscritto rivolge ai suoi
lettori:
«Non credo che sarà dato ad alcuno di rispondere con certezza a
quest'interrogazioni, ed è meglio così, perché se avvenisse di conoscere
la verità, questo forse toglierebbe alla figura d'Ippolito il fascino che il
mistero e la leggenda le mettono intorno; e parmi che il miglior partito
sia di non più interessare il passato e di ripetere semplicemente quan-
to ancora di lui si narra in Val Grande, e si narrerà ancora nei secoli
che verranno; finché nelle veglie, quando la neve coprirà i tetti bigi, i
fanciulli impareranno dai nonni le vecchie tradizioni, queste ci raccon-
tano pure in due modi diversi la causa che trasse a morte Ippolito e
sono concordi solo nel dire che precipitò al Roc Berton; alta rupe che
prese questo nome dopo la morte del giovane principe, e vedesi dalla
via di Val Grande. Sorge nera e minacciosa dalla Stura, non lungi dal
monte Bastia sotto Sant'Ignazio, e l'acqua verde e profonda le spu-
meggia intorno.
«Sull'alto di quella rupe vedesi uno strano pilastro con antichi di-
pinti, e questo ci prova che realmente un fatto tragico accadde sul Roc
Berton; perché è costume in Val Grande di erigere, specialmente lungo
le strade, dei pilastri in onore della Madonna o dei Santi, per ricordare
una morte violenta avvenuta; e chi ha sentito la leggenda d'Ippolito
Berta, non può guardare quella rupe nera, l'acqua profonda, il pae-
saggio così triste in quel sito senza essere profondamente commosso.
«Alcuni dicono che mentre Ippolito ritornava in Cantoira vittorioso
e vestito di rosso come aveva promesso, fu assalito vicino al Roc Berton
da masnadieri, che facilmente si potevano incontrare in quel tempo,
essendo mal sicure le vie, spesso tarda o impotente la giustizia, e non
avendo potuto egli liberarsi da quei nemici in una lotta furiosa fu da
essi precipitato dall'alto della rupe nella Stura, ove morì, altri narrano
che incontrò vicino alla grossa rupe un incognito cavaliere che era for-
se suo nemico, e che un feroce combattimento ebbe luogo fra i massi

La canzone di Colombano 156/153


scuri delle montagne; né la voce del torrente copriva il suono delle ar-
mi cozzanti, finché Ippolito ferito a morte cadde e balzando da roccia
a roccia precipitò nel fiume, ove morì fra quell'acqua verde che forse
tante volte egli aveva guardato con invidia nei giorni tristi dell'esilio,
mentre essa correva libera, sempre verso la pianura e l'orizzonte scon-
finato».

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