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Note di storiografia

Carlo Ginzburg: Il formaggio e i vermi, Torino, Einaudi, 1976

1) Chi costruì Tebe dalle sette porte?

Il problema posto da Ginzburg è quello della cultura delle classi


subalterne: una ricerca frustrata dalla scarsezza delle testimonianze
sui comportamenti e gli atteggiamenti di questi ceti.
Nel momento in cui per effetto dell'influenza esercitata sulle
discipline storiche dall'antropologia culturale, si è riconosciuto il
possesso di una cultura autonoma anche a quelli che un tempo
venivano paternalisticamente definiti «volghi dei popoli civilizzati» si
è aperta la discussione sul rapporto tra la cultura delle classi
subalterne e quella delle classi dominanti. Ginzburg si chiede
1) fino a che punto la prima è subalterna alla seconda
2) In che misura esprime contenuti almeno parzialmente alternativi
3) Se è possibile parlare di una circolazione tra i due livelli di cultura.

La diffidenza degli storici nei confronti di queste problematiche è di


ordine, oltre che ideologico, metodologico. Infatti lo storico si trova
di fronte a un problema insormontabile: la scarsezza e il carattere
doppiamente indiretto delle fonti. La cultura dei ceti popolari era
infatti una cultura di tradizione essenzialmente orale: un ostacolo
sormontabile solo attraverso l'esame di fonti scritte doppiamente
indirette perché scritte e perché elaborate da individui appartenenti
per lo più ai ceti dominanti. Un doppio filtro che determina una
inevitabile deformazione del messaggio originario.

2) Mandrou, Bollème e la letteratura di colportage: problema della


qualità della fonte utilizzata per la ricostruzione di una cultura orale:

Il problema appare diverso se ci si propone, come fa R. Mandrou di


studiare non la cultura prodotta dalle classi subalterne, ma la cultura
imposta alle classi subalterne. Mandrou sfrutta una fonte fino ad
allora poco usata la letteratura di colportage, cioé i libretti da pochi
soldi, e rozzamente stampati (contenenti almanacchi, cantari,
ricette, racconti di prodigi o vite di santi) che venivano smerciati
nelle fiere o venduti nella campagne da merciai ambulanti. Questa
letteratura avrebbe alimentato per secoli una visione del mondo
intrisa di fatalismo di determinismo, di meraviglioso e di occulto che
avrebbe impedito ai suoi fruitori di prender coscienza della propria
condizione di classe. Ginzburg critica Mandrou, osservando come
egli attribuisca alle masse popolari una completa passività culturale
e alla letteratura di colportage un'importanza spropositata. L'errore
commeso dallo storico francese è quello di aver identificato «la
cultura prodotta dalle classi popolari» con con la «cultura imposta
alle masse popolari». Decifrare la fisionomia della cultura popolare
attraverso le massime e le novelline della letteratura destinata al
popolo è assurdo. La scorciatoia suggerita da Mandrou per aggirare
le difficoltà legate alla ricostruzione di una cultura orale,
rappresenta in realtà un aggiramento dell'ostacolo. La stessa
scociatoia è stata presa con notevole ingenuità da G. Bollème.

3) Bachtin: dicotomia e circolarità


Ginzburg rileva come, in contrasto con le sdolcinature di Mandrou e
Bollème, assai più interessante ed efficace si riveli il metodo seguito
da Bachtin nel suo celebre studio sui rapporti tra Rabelais e la
cultura popolare del suo tempo.
Secondo Bachtin il libro di Rabelais (Gargantua o Pantagruel) fa
comprendere più cose sulla cultura popolare dell'Almanch des
bergers, che pure dovette avere larga diffusione nelle campagne
francesi. La comicità di cui è pervaso il libro di Rabelais diventa
comprensibile solo se considerata alla luce di quella cultura
carnascialesca elaborata nel corso dei secoli dalla cultura popolare
che si contrappone frontalmente al dogmatismo e alla seriosità
propria della cultura delle classi dominanti.
Dicotomia culturale, dunque, ma anche circolarità,
influsso reciproco, particolarmente intenso nella prima
metà del Cinquecento, tra cultura subalterna e cultura
egemonica.

Il limite del libro di Bacthin è forse che gli artigiani e i contadini che
egli ha cercato di descrivere parlano esclusivamente attraverso le
parole di Rabelais. Il problema è quello di elaborare un'indagine
frontale che cerchi di eleminare i filtri.

4) Ginzburg ricorda, tuttavia, come quando si parla di filtri e


intermediari deformanti non occorra esagerare. Il fatto che una
fonte non sia «oggettiva» (ma nemmeno un inventario lo
è) non significa che sia inutilizzabile. Una cronaca ostile può
offrire testimonianze preziose sui comportamenti di una comunità
contadina in rivolta. Esemplare in tal senso appare l'analisi del
«carnevale di Romans» compiuta da E. Le Roy Ladurie. E di fronte
alla incertezza metodologica e alla povertà di risultati della maggior
parte di studi dedicati alla definizione di quella che era la cultura
popolare dell'Europa preindustriale, spicca il livello di ricerche che
analizzano aspetti particolari di quella cultura come l'ottimo studio
di Davis-Thompson sul «charivari». Anche una documentazione
esigua, dispersa e riluttante può essere messa a frutto.
Ginzburg osserva a questo punto come la paura di cadere nel
famigerato positivismo ingenuo, unita alla esasperata
consapevolezza della violenza ideologica che si può nascondere
dietro la più innocente operazione conoscitiva, induce oggi molti
storici a un atteggiamento nichilista, in cui il rifiuto nei confronti di
una documentazione deformante si tramuta in una rinuncia a
qualsiasi tentativo di conoscenza delle culture subalterne.
Ginzburg critica duramente la posizione assunta in merito da Focault
e l'inarrestabile deriva dello studioso francese verso
un'irrazionalismo estetizzante.

5) Ginzburg prosegue osservando come alle classi subalterne delle


società preindustriali viene attribuito ora un passivo adeguamento ai
sottoprodotti culturali elargiti dalle classi dominanti (Mandrou), ora
una tacita proposta di valori almeno parzialmente autonomi rispetto
alla culture di queste ultime (Bollème), ora un'estraneità assoluta
che si pone addirittura al di là, o meglio al di qua della cultura
(Foucault).
Ben più fruttuosa appare l'ipotesi formulata da Bachtin di
un influsso reciproco tra la cultura delle classi subalterne
e la cultura dominante.
Precisare i modi e i tempi di questa relazione, di questo reciproco
influsso ( Le Goff ha iniziato a farlo con buoni risultati), significa fare
i conti con la documentazione che, nel caso della cultura orale, è
quasi sempre indiretta.
Ginzburg si chiede, quindi, fino a che punto gli eventuali
elementi di cultura egemonica riscontrabili nella cultura
popolare siano frutto di una più o meno deliberata
acculturazione, di una più o meno spontanea convergenza
e non invece un'inconsapevole deformazione della fonte,
incline a ricondurre l'ignoto al noto e al familiare.
[Un siffatto atteggiamento è visibile nell'articolo di Leech
Wilkinson su Zorzi: l'autore nel ricondurre la notazione e
la condotta dei contrappunti di Zorzi a quelli canonici,
parla di errori, non rendendosi conto che proprio quelle
presunte mende, sono rivelatrici di una prassi, e di una
cultura musicale altra, che su conoscenze e procedure di
tradizione orale basava la sua forza e il suo carattere].
Ginzburg è incline a riconoscere alle classi subalterne un livello di
elaborazione autonomo.
Le confessioni di Menocchio costituiscono un caso
esemplare di circolazione culturale, così come ipotizzato
da Bachtin. Soltanto una parte dei discorsi di Menocchio appare
rinconducibile a schemi noti, il resto lascia intravedere uno strato
non ancora scandagliato di credenze popolari, e di oscure mitologie
contadine. Ma ciò che complica il caso di Menocchio è che questi
oscuri elementi popolari sono innestati in un complesso di idee
estremamente chiaro e conseguente, che vanno dal radicalismo
religioso, a un naturalismo tendenzialmente scientifico, ad
aspirazioni utopistiche di rinnovamento sociale. L'impressionante
convergenza tra le posizioni di un ignoto mugnaio
friulano e quelli dei gruppi intellettuali più raffinati e
consapevoli del suo tempo ripropone con forza il problema
della circolazione culturale formulato da Bachtin.

A questo punto Ginzburg si chiede che rilevanza possano avere su


un piano generale le idee e le credenze di un singolo individuo in un
momento in cui intere équipes di studiosi si lanciano in imprese
vastissime di storia quantitativa delle idee o di storia religiosa
seriale.
E' sintomatico che Furet abbia sostenuto che la reintegrazione delle
classi inferiori nella storia generale può avvenire soltanto sotto il
segno del numero e dell'anonimato, attraverso la demografia e la
sociologia, «lo studio quantitativo delle società del passato».
Dunque, per quanto non più ignorate dagli storici, le classi inferiori
sarebbero comunque condannate a rimanere «silenziose».
Ginzburg controbatte a questa tendenza rinunciataria, osservando
che se la documentazione offre la possibilità di ricostruire non solo
masse indistinte ma personalità individuali, è assurdo scartarla.
Ampliare verso il basso la nozione storica di individuo
non è un obiettivo di poco conto. E' un obiettivo che merita di
essere perseguito anche se c'è il rischio di cadere nella famigerata
histoire événementielle (che non è solo e necessariamente storia
politica). Il rischio del resto si può evitare. Alcuni studi biografici
hanno dimostrato come in un individuo mediocre, di per sé
privo di rilievo e per questo poco rappresentativo, sia
possibile scrutare come in un microcosmo le
caratteristiche di un intero strato sociale (la nobiltà
austriaca o il basso clero inglese del Seicento).

Certo -continua Ginzburg- non è questo il caso di


Menocchio. Questi non può infatti essere considerato un
contadino tipico (nel senso di «medio», statisticamente
più frequente) del suo tempo. Il suo isolamento all'interno del
villaggio parla chiaro. Egli era un contadino diverso dagli altri, ma
questa singolarità aveva dei limiti ben precisi. Le confessioni di
Menocchio contengono in una forma netta, quasi
esasperata, una serie di elementi convergenti che si
possono rintracciare in forma dispersa o appena
accennata in una documentazione simile coeva o
successiva. In conclusione anche un caso limite può
rivelarsi rappresentativo. Esso consente infatti di circoscrivere
le possibiltà latenti di qualcosa (la cultura popolare) che ci è noto
solo attraverso documenti frammentari e deformati provenienti
quasi tutti dagli archivi della repressione.
Ginzburg rileva tuttavia come lo scopo non sia quello di
contrapporre indagini qualitative a indagini quantitative; ma che per
quel che riguarda la storia delle classi subalterne, il rigore esibito
dalle indagini quantitative non può fare a meno del famigerato
impressionismo delle indagini qualitative. Ginzburg rileva inoltre
come la storia quantitativa delle idee, così come viene condotta,
abbia dei punti deboli. In generale questo tipo di studi (vedi la
colossale ricerca sulla produzione libraria del Settecento francese
sorta dalla necessità di allargare il quadro della tradizionale storia
delle idee attraverso il censimento di una gran massa di titoli finora
sistematicamente ignorati dagli studiosi) ostenta un approccio
ancora eccessivamente verticistico. Tali ricerche partono infatti dal
presupposto che non solo i testi ma i titoli forniscano indicazioni
inequivoche. Ora ciò è sempre meno vero quanto più il livello sociale
del lettore si abbassa. Gli almanacchi, i cantari, le vite dei santi ci
appaiono oggi inerti sempre uguali a sé stessi, ma come venivano
letti dal pubblico dell'epoca. In che misura la cultura
prevalentemente orale di artigiani e contadini interferiva nella
fruizione del testo, modificandolo, riplasmandolo, fino magari a
snaturarlo? Le confessioni di Menocchio ci forniscono una
esemplificazione eloquente di questo rapporto col testo,
diversissimo di quello dei lettori colti di oggi. Esse ci consentono di
misurare lo scarto, giustamente ipotizzato da Bollème, tra i testi
della letteratura popolare e il modo in cui venivano letti da contadini
e artigiani. Certo nel caso di Menocchio questo scarto appare
profondissimo. Nel caso della storia quantitativa delle idee, per
esempio, soltanto la consapevolezza della variabilità, storica, sociale
della figura del lettore potrà davvero portare le premesse di una
storia delle idee anche qualitativamente diversa.
A questo punto Ginzburg si chiede se ciò che emerge dai discorsi
di Menocchio non sia una mentalità più che una storia della cultura.
Le sopravvivenze, gli arcaismi, l'affettività, l'irrazionale: tuttto ciò
delimita il campo specifico della storia della mentalità,
distinguendola abbastanza nettamente da discipline parallele come
la storia delle idee e della cultura. Ginzburg osserva come ricondurre
il caso di Menocchio nella storia della mentalità significa non
considerare la componente fortemente razionale del suo pensiero.
Inoltre c'è un altro fatto: la connotazione decisamente interclassista
della storia delle mentalità: essa studia infatti ciò che hanno in
comune «Cesare con l'ultimo soldato delle sue legioni, San Luigi e il
contadino che coltivava le sue terre». In questo senso l'appellativo
«collettiva» il più delle volte aggiunta alla storia delle mentalità
appare pleonastico. Ginzburg critica il libro di Lucien Febvre su
Rabelais in cui egli cercò di risalire dall'indagine su una figura, sia
pure eccezionale come Rabelais, alla ricognizione delle coordinate
mentali di un'intera epoca. Ginzburg non condivide alcune delle
conclusioni di Febvre («la religione esercitava sugli uomini del
Cinquecento un influsso insieme capillare e schiacciante a cui era
impossibile sottrarsi, come non potè sottrarvisi Rabelais») rilevando
come l'indagine su un sottilissimo strato della società francese
venga allargato interclassisticamente a tutti gli strati sociali.
Nonostante questi limiti, il modo in cui Febvre è riuscito a dipanare
i molteplici fili che legano un individuo a un ambiente a una società
storicamente determinati, rimane esemplare.

Ginzburg conclude osservando che due grandi eventi resero


possibile un caso come quello di Menocchio: l'invenzione della
stampa e la Riforma.
Le gigantesche rotture determinate dalla fine del monopolio dei
dotti sulla cultura scritta e del monopolio dei chierici sulle questioni
religiose avevano creato una situazione nuova ed esplosiva.

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