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Tommaso Guariento, Antropocene: il lato oscuro della modernità

Introduzione

Siamo stati abituati dalla filosofia della storia di Hegel a pensare la modernità come un progetto di
liberazione progressiva dell’uomo dalla rigida gerarchica sociale dell’Ancient Régime. I gender ed i
postcolonial studies hanno messo in crisi quella narrazione euro-centrica ed eteronormata, introducendo
un modello di interpretazione storiografica differenziale: non ovunque e non per chiunque la modernità ha
avuto gli stessi esiti. Si deve parlare di una pluralità di tempi, di corpi e di spazi, così come è necessario
riconoscere delle differenze nell’attuazione dei processi di liberazione dallo stato di servitù. Ma nel corso
del processo che ha portato all’istituzione dei diritti dell’uomo e della donna, all’autonomia delle regioni
soggiogate dal colonialismo, ci siamo scordati un fattore essenziale: le fonti energetiche che hanno
contribuito a questi processi molteplici e differenziali di liberazione. Nell’epoca del nascente capitalismo e
delle rivoluzioni industriali si compiva la prima e più ingente trasformazione delle strutture geologiche e
climatiche della terra attuata della specie umana. L’uso dei combustibili fossili (prima il carbone, poi il
petrolio) ha innescato un processo accumulativo ed apparentemente irreversibile di deterioramento delle
condizioni ecologiche necessarie per la nostra sopravvivenza.

Definizione e cronologia

Quando negli anni 2000 il chimico Paul Crutzen ed il biologo Eugene Stoermer coniano il termine
“Antropocene”, la loro intenzione era quella di proporre una nuova partizione del tempo geologico. La
precedente cronologia denominava “Olocene” il periodo che va dall’ultima glaciazione dell’emisfero
settentrionale sino ad oggi. Nonostante le divergenze di climatologi e geologi nella determinazione di
questa nuova era, è rilevante considerare l’importanza culturale e sociale dell’utilizzo del prefisso “–
antropo-”. Volendo essere più specifici: le date previste per la datazione dell’Antropocene mostrano una
relazione di co-implicazione di scienze naturali processi culturali, sociali e politici. Antropocene indica
letteralmente “l’epoca dell’uomo”, ovvero il tempo nel quale l’uomo, come specie, è in grado di alterare i
cicli ecologici della totalità delle specie naturali. Delle molte proposte di datazione, tre in particolare sono
state considerate unanimemente rilevanti:
(a) La prima è situata circa 11.000 anni avanti Cristo, nel periodo della stabilizzazione climatica chiamato
Olocene, il quale coincide con quella che Claude Lévi-Strauss ha chiamato “rivoluzione neolitica”, ovvero
con la nascita del pensiero simbolico, dell’agricoltura e di quel complesso di conoscenze di base che hanno
portato l’homo sapiens allo sviluppo delle facoltà cognitive e tecniche che costituiscono il sostrato comune
della nostra specie. L’antropologo francese Philippe Descola, allievo di Lévi-Strauss, afferma che non solo
all’inizio dell’Olocene si sono perfezionate le facoltà mentali e tecniche della specie umana, ma è anche
avvenuta la prima e più importante alterazione ecologica del pianeta. Recenti studi di archeologia ed
antropologia hanno dimostrato come prima dell’arrivo dei colonizzatori europei la foresta Amazzonica
fosse densamente popolata e che la sua attuale conformazione sia dovuta all’azione addomesticatrice
dell’uomo.
(b) La seconda data corrisponde alla scoperta e colonizzazione delle Americhe nel 1492: anche in questo
caso si verifica una commistione di cause politiche ed ecologiche. Il contatto fra europei ed amerindiani ha
prodotto un’ecatombe (si calcolano 50 milioni d’indiani morti fra il 1492 ed il 1610), ed allo stesso tempo ha
avuto un esito ecologico, ovvero la riforestazione di 50 milioni di ettari di foresta amazzonica. La conquista
dell’America rappresenta non solo un evento cruciale dal punto di vista antropologico, politico ed
economico, ma lascia importanti tracce a livello atmosferico e biologico: la riforestazione amazzonica ha
infatti ridotto la concentrazione globale di anidride carbonica.
(c) L’ultimo (e più probabile) periodo designato come possibile inizio dell’Antropocene è quello che
l’antropologo Karl Polanyi ha chiamato “grande accelerazione”, e cioè dalla fine del XVIII secolo sino al 1950.
Un periodo caratterizzato dall’espansione demografica, economica, commerciale; ma anche dalla
rivoluzione francese, americana e haitiana, dal colonialismo, dai totalitarismi e dalle due guerre mondiali.
La data simbolica che segna l’inizio di questa epoca è 1784, anno di invenzione della macchina a vapore di
James Watt.

Natura e cultura

Seguendo lo storico Dipesh Chakrabarty ed il sociologo Bruno Latour possiamo sviluppare alcune
considerazioni di carattere più teorico sulle conseguenze della definizione dell’Antropocene come epoca
nella quale la specie umana assume il ruolo di potenza geo-storica. Innanzitutto le tre date proposte come
inizio dell’era dell’uomo (Rivoluzione neolitica, Conquista dell’America e Grande accelerazione) mettono
assieme elementi di storia delle variazioni atmosferiche e geologiche con la storia degli eventi umani.
Questo comporta una ridistribuzione delle competenze delle scienze umane e naturali, riscrivendo una
tradizionale dicotomia che procede dalla partizione lockiana fra matters of fact e matters of concern.
Secondo Latour l’Antropocene designa una questione allo stesso tempo scientifica e politica che mette in
discussione il nostro comune modo di intendere l’operare politico ed il processo di produzione e veridizione
dei fatti scientifici. Di Antropocene si è infatti parlato a Parigi nel corso della recente conferenza
internazionale sui cambiamenti climatici (COP21, dal 30 novembre al 12 Dicembre 2015), in termini
sostanzialmente preventivi. Nonostante ci sia una condivisa valutazione scientifica sulle cause antropiche
del cambiamento climatico, le grandi compagnie petrolifere continuano a pagare un nutrito team di
sedicenti esperiti (detti anche scettici climatici) che interviene regolarmente nei dibattiti pubblici per
negare la realtà di questo fenomeno. Latour ha sottolineato lo strano chiasmo epistemologico che si viene a
produrre in questa disputa fra interessi politici, economici e scientifici: da un alto abbiamo climatologi e
geologi, che proseguono il loro lavoro di ricerca secondo le norme interne della veridizione degli enunciati
nelle loro discipline, dall’altro abbiamo grandi capitali economici e interessi politici che negano la
scientificità di questi enunciati perché configgono con la naturale tendenza del capitalismo all’espansione. Il
punto centrale, afferma Latour, è la partizione fra responsabilità politico-economiche e scientifiche: così
come non esiste una produzione di fatti scientifici che non mobiliti assieme un insieme di valori etici, allo
stesso modo non esistono decisioni politiche che non intervengono a governare in una direzione o nell’altra
la ricerca scientifica.

Clima e finanza

Quando lo studioso di environmental science Johan Rockström introduce il concetto di planetary


boundaries, ovvero la definizione dei parametri biologici di sopravvivenza della specie umana (aumento
della temperatura globale, concentrazione di anidride carbonica, acidificazione degli oceani, tasso di
biodiversità, utilizzo dell’acqua, etc…), il risultato delle sue ricerche è immediatamente scientifico, etico e
politico. Alcuni di questi limiti sono già stati superati, e, nonostante alla COP21 si sia fissato un termine di
1.5 gradi per l’aumento della temperatura, e siano stati stanziati milioni di dollari per incentivare l’uso di
energie rinnovabili nei paesi in via di sviluppo, lo strumento più potente per arrestare gli effetti catastrofici
del cambiamento è stata l’introduzione di un operatore finanziario che regola lo scambio delle emissioni di
anidride carbonica come merce nel mercato internazionale. Al di là della creazione di un vero e proprio
settore di mercato per tentare di governare la crisi ecologica, esiste un progetto ancora più intrecciato con
la logica di previsione probabilistica dei mercati finanziari: si tratta della geo-ingegneria. Secondo questo
progetto, gli attuali limiti ecologici stabiliti da climatologi e geologi come soglie invalicabili al di sopra delle
quali la sopravvivenza della specie umana sarebbe compromessa possono essere facilmente governati
mediante l’istituzione a scala globale di un vasto dispositivo di controllo del clima. Ma entrambe queste
prospettive operano in una scala di previsione “troppo umana”, obliterando il fatto che le attuali condizioni
di deterioramento climatico hanno già da ora effetti per migliaia di anni a venire. Il futuro che la logica della
previsione finanziaria rappresenta e costruisce, è completamente cieco: l’abbiamo visto nel caso della crisi
dei subprime del 2008, e lo vediamo ancora oggi con la sussunzione capitalistica della crisi ecologica.

I limiti della modernità

L’autonarrazione che la modernità europea si è raccontata a partire dal XV e XVI secolo è stata quella di una
progressiva rottura di limiti:
(i) Limiti geografici, innanzitutto, con il passaggio attraverso le Colonne d’Ercole dello Stretto di Gibilterra
che segna il momento originario della globalizzazione e della storia del colonialismo;
(ii) Limiti cosmologici, con quella rivoluzione scientifica che da Cusano a Keplero ha portato alla distruzione
del modello spaziale aristotelico delle sfere concentriche verso l’universo infinito e la molteplicità dei
mondi;
(iii) Limiti politici: con la Rivoluzione Francese che smantella la gerarchia sociale fondata sulla
naturalizzazione dell’ordine sociale dell’Ancient régime;
(iv) Limiti epistemologici: Facciamo riferimento a quel processo di “disincanto del mondo” che Descartes e
Bacon invocano dal punto vista scientifico ed Hobbes e Bodin per ciò che concerne la riflessione politica.
Metodo scientifico e scienza politica rompono i ponti con quell’arcipelago di pratiche magiche, credenze
irrazionali, riti e miti che costituivano il campo epistemico dell’Europa medievale e delle società di interesse
etnografico. Una netta partizione fra scienza (unificata, universale, e vera) e sistemi di credenze (molteplici
e tutti ugualmente falsi) permette ai moderni di innalzarsi al di sopra di ogni altra civiltà (sia essa
geograficamente o storicamente lontana).
Allo stesso tempo, la modernità europea rinchiudeva ed escludeva quel lato oscuro dalla quale pensava di
essersi definitivamente separata. Gli studi di Michel Foucault sui sistemi disciplinari (Surveiller et Punir) e
sulla costruzione della follia come categoria medica e politica (Naissance de la clinique, Histoire de la folie)
possono essere letti come la genealogia di un processo di reclusione e messa al valore di quelle forze
irrazionali ed inassimilabili rappresentante da selvaggi, non-moderni, pazzi, criminali, o semplicemente
esclusi dalla sfera immunitaria della societas civilis.

Il progetto dell’ecologia politica

Nell’introduzione ad Ecologia e Libertà di Andrè Gorz, Emanuele Leonardi ha giustamente sottolineato


come il problema ecologico, da un punto di vista marxista, non significa solamente un interesse per le sorti
dell’ambiente naturale, ma innanzitutto implica il progetto di una forma di vita comunitaria che si opponga
all’apparato di cattura capitalistico. Non bisogna infatti scordare che una certa corrente di comunismo
utopico (a partire da Fourier) ha sviluppato il progetto di una modernità alternativa fondato sull’istituzione
di forme di vita comuni che innanzitutto sostengono uno stile di vita regolato dalla promozione delle
passioni felici. Ecologia politica indica in questo senso un progetto di modernità alterativa nella quale il
rapporto dell’uomo con l’ambiente occupa solo un livello. Per questo è necessario pensare ad una
definizione intersezionale dell’ecologia. In uno degli ultimi lavori di Félix Guattari, Les trois écologies,
venivano proposti tre settori di lotta: il mentale, il sociale e l’ambientale. L’avvento dell’Antropocene non
sposta l’ago della bilancia dei movimenti politici dalle lotte sociali alle lotte per l’ambiente, ma investe
direttamente il concetto di natura. Il lato oscuro della modernità che l’Antropocene mette in luce è il
tentativo di costruzione, controllo e messa al valore delle molteplici declinazioni del concetto moderno di
natura. Vorremo quindi concludere con una breve lista dei nodi problematici che il progetto per una
ecologia politica profonda dovrà affrontare:
1. Ecologia dell’attenzione. Si tratta delle questioni legate all’economia dell’attenzione sviluppate
recentemente (fra gli altri) da Yves Citton (Pour une écologie de l’attention) e Jonathan Crary (24/7). La
natura in questione è qui delineata come la riduzione al neurologico di tutti i settori dell’esistenza. Nella
frammentazione fra lavoro materiale e cognitivo, tempo di lavoro e tempo libero, la progressiva
algoritmizzazione e digitalizzazione delle forme di vita ci coglie impreparati. Siamo passati da una
soggettività alienata ad una quasi-soggettività, che scompone le singole esperienze ed operazioni della
nostra vita in frammenti inconciliabili. La flessibilità delle forme di lavoro si accompagna alle ricerche sulla
plasticità del cervello. Questo capitalismo digitale che rimpiazza la società dello spettacolo, impone una
certa forma della natura umana, de-storicizzando la sua genealogia ed assolutizzando gli esiti della ricerca
neuroscientifica. Contro questo modello è necessario opporre una culturalizzazione della natura ed una
lotta per una diversa politica della tecnologia. Contrariamente ai tecnofobi, vorremmo affermare che la
tecnologia è innanzitutto una tecnica del corpo, un prodotto collettivo e sociale, e non un destino
predeterminato in senso catastrofico o escatologico.
2. Intesezionalità. L’ecologia politica determina innanzitutto un problema di riproduzione sociale. Autrici
come Isabelle Stengers, Donna Haraway, Catherine Malabou e Giovanna di Chiro hanno da un lato messo in
discussione il modello eteronormativo della ricerca biologica e dall’altro hanno posto il problema della
giustizia riproduttiva. Con questo termine si intende delineare l’insieme delle pratiche di
autodeterminazione dei corpi, come diritto di non avere figli, ma anche di come diritto di poterne avere,
nelle condizioni necessarie all’educazione, alla sanità ed allo sviluppo delle piene facoltà affettive e mentali.
Quando vengono proposte delle tecniche di governance demografica che stabiliscono le soglie per
l’aumento della popolazione globale, i paesi designati per l’applicazione sono nuovamente gli stessi colpiti
dal colonialismo (India e Africa). Infine, le attuali discussioni in Francia ed Italia contro la possibilità di
attribuire uguali diritti alle coppie omosessuali impongono un modello completamente destoricizzato di
famiglia “naturale”, assieme ad uno strumentale interesse per l’intangibilità del corpo femminile (la
questione dell’“utero in affitto”). Contro queste pericolose destoricizzazioni è necessario ancora una volta
ritornare ad una critica del concetto moderno di natura, ma soprattutto ad una decisa opposizione politica.
2. Etnografia. Le lotte ambientali contro l’appropriazione dei territori ricchi di risorse energetiche in Canada,
Amazzonia ed in Australia vedono in prima linea rappresentati delle popolazioni indigene che lottano per la
loro autodeterminazione. Su questo segnaliamo il recente lavoro di Naomi Klein sul cambiamento climatico
(This changes everything) e quello di decolonizzazione del pensiero di Viveiros de Castro e Deborah
Danowski (Há mundo por vir? Ensaio sobre os medos e os fins). I modelli epistemologici e cognitivi di queste
popolazioni contestano direttamente la previsione a breve termine della mentalità finanziaria ed il
comando capitalistico di distruzione ed assoggettamento delle strutture sociali e simboliche. L’articolazione
delle lotte per l’autodeterminazione dei popoli unite contro la crisi ambientale rappresenta un esito
positivo della globalizzazione, nella proposizione di un fronte comune contro la devastazione dei sistemi
epistemologici, sociali ed ecologici.

Conclusione
Il lato oscuro della modernità è quello che è stato catturato, escluso, ignorato, colonizzato, schiavizzato. Si
compone di elementi eterogenei, umani e non umani, cognitivi e corporei, materiali ed immateriali. È
innanzitutto la natura, intesa non come una semplice utopia retrospettiva di un età dell’oro armoniosa:
questa è una fantasia gerarchica e destoricizzante che lasciamo volentieri ai fascisti. La natura che ci
interessa è invece l’insieme contradditorio ed eterogeneo delle esclusioni inclusive che la modernità ha
occultato ed assoggettato nel suo cammino devastante verso il progresso. È l’insieme delle conoscenze del
pensiero selvaggio, catturate e screditate dalla scienza moderna; sono i corpi e le menti delle donne e delle
popolazioni colonizzate; è infine l’ambiente naturale stesso, trattato come un fondo infinito di ricchezze da
estrarre. C’è una macro-narrazione che descrive l’Antropocene come il compimento della modernità, da un
lato come pessimismo apocalittico che immagina un futuro “senza di noi”, e dall’altro prevede una
rivoluzione tecnologica che ci salverà tutti. Non ci interessano queste distopie escatologiche, se non come
narrazioni da contestare, ciò che ci interessa è invece la possibilità di riattuare quel progetto utopico di
ecologia profonda delle relazioni sociali, cognitive, affettive ed ambientali di cui abbiamo provato a
descrivere alcune possibili declinazioni.
Così come la rottura di uno solo dei limiti planetari individuati da Rockström conduce all’alterazione di tutti
gli altri (per cui, ad es. l’aumento della temperatura è un effetto della concentrazione di anidride carbonica,
e tutto questo viene a riflettersi nella riduzione della biodiversità in alcune zone del pianeta), allo stesso
modo un modello intersezionale di analisi ci permette di legare fra loro le questioni coloniali con quelle
femministe, le trasformazioni del lavoro con quelle della sfera affettiva. Potremmo infine dire con Benjamin
che l’Antropocene è un’immagine dialettica che sorge nel momento del pericolo: è una narrazione che
svela l’occultamento di un processo storico e ci permette di redimerlo, ma allo stesso tempo è anche il
tentativo di arrestare il tempo presente, erodendo le possibilità imprevedibili del futuro.

“Articolare storicamente il passato non significa riconoscerlo “come è stato veramente”. Significa
impadronirsi del ricordo che lampeggia nell’attimo del pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare
un’immagine del passato come all’improvviso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo. Il
pericolo minaccia sia la consistenza della tradizione sia chi la riceve. Per entrambi è uno solo e lo stesso:
prestarsi come strumento della classe dominante. In ogni epoca si deve tentare di strappare la tradizione
dal conformismo, che è sul punto di sopraffarla” (Walter Benjamin, Tesi sul concetto di storia, VI)

Bibliografia di riferimento

Il presente testo usufruisce liberamente degli articoli e delle monografie citate. Questi costituiscono allo
stesso tempo una breve introduzione al dibattito sull’Antropocene fra scienze umane e naturali

Chakrabarty, Dipesh «The climate of history: Four theses», Critical Inquiry, vol. 35, fasc. 2, 2009, pp. 197–
222.
-, «Climate and Capital: On Conjoined Histories», Critical Inquiry, vol. 41, fasc. 1, 2014, pp. 1–23.
Citton, Yves, Pour une cologie de l aaenbon, Paris, Seuil, 2014.
Crary, Jonathan, 24/7 : late capitalism and the ends of sleep, London-New York, Verso, 2013.
Descola, Philippe, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005.
Edwards, Paul, A vast machine: computer models, climate data, and the politics of global warming,
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Foucault, Michel, olie et d raison : histoire de la folie l ge classique, Paris, Plon, 1961.
-, Naissance de la clinique : une arch ologie du regard m dical., Paris, Presses universitaires de France, 1963.
- , Surveiller et punir : naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.
Gorz, André, Ecologia e libertà, (traduzione e curatela di) Emanuele Leonardi, Orthotes, 2015.
Guattari, Félix, Les trois écologies, Galilée, 2008.
Hache, milie (a cura di), De l’univers clos au monde infini, Paris, Dehors, 2014.
Haraway, Donna, Simians, cyborgs, and women: the reinvention of nature, New York, Routledge, 1991.
- , When species meet, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2008.
Klein, Naomi, This changes everything: capitalism vs. the climate, New York, Simon & Schuster, 2015.
Latour, Bruno, ace a a : huit conf rences sur le nouveau r gime climabque, Paris, La DĠcouverte, 2015.
Leonardi, Emanuele, “Per una critica del Carbon Trading Dogma”, Commonware, 14 Dicembre 2015,
http://www.commonware.org/index.php/cartografia/636-critica-carbon-trading
Lévi-Strauss, Claude, La pensée sauvage, Paris, Plon : Presses Pocket, 1990.
Lewis, Simon, Maslin Mark, «Defining the Anthropocene», Nature, vol. 170-171, fasc. 519, 2015.
Malabou, Cathérine, Que faire de notre cerveau ?, Montrouge, Bayard, 2011.
Rockström, Johan, et al., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, Institute
for Sustainable Solutions Publications, 2009.
Sloterdijk, Peter, Im Weltinnenraum des Kapitals: für eine philosophische Theorie der lobalisierung,
Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2006.
Stengers, Isabelle, Au temps des catastrophes r sister la barbarie qui vient, Paris, La DĠcouverte, 2009.
Wark, McKenzie, Molecular red : theory for the Anthropocene, London, Verso, 2015.

Documentari e video

- Sono qui raccolti i video della conferenza “Comment penser l’anthropocene?”, tenutasi al Collège de
rance il 5 ed il 6 novembre 2015: http://www.fondationecolo.org/l-anthropocene/video

- Segnaliamo inoltre due video che introducono la questione dell’antropocene da parte di Catherine
Malabou e Donna Haraway:

Catherine Malabou “Anthropocene, a new history? (2015)” https://www.youtube.com/watch?v=eDdTqr-


5APg
Donna Haraway “Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene: Staying with the Trouble (2014)”
https://vimeo.com/97663518

- Infine, indichiamo due documentari, che, a nostro avviso, trattano la questione del cambiamento
climatico nel modo più esaustivo:

Avi Lewis, “This changes everything (2015)”, tratto dall’omonimo libro di Naomi Klein
https://youtu.be/IpuSt_ST4_U
Robert Kenner, “Merchants of Doubt (2014)”, tratto dall’omonimo libro di Naomi Oreskes ed Erik Conway
https://www.youtube.com/watch?v=j8ii9zGFDtc

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