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Introduzione
Siamo stati abituati dalla filosofia della storia di Hegel a pensare la modernità come un progetto di
liberazione progressiva dell’uomo dalla rigida gerarchica sociale dell’Ancient Régime. I gender ed i
postcolonial studies hanno messo in crisi quella narrazione euro-centrica ed eteronormata, introducendo
un modello di interpretazione storiografica differenziale: non ovunque e non per chiunque la modernità ha
avuto gli stessi esiti. Si deve parlare di una pluralità di tempi, di corpi e di spazi, così come è necessario
riconoscere delle differenze nell’attuazione dei processi di liberazione dallo stato di servitù. Ma nel corso
del processo che ha portato all’istituzione dei diritti dell’uomo e della donna, all’autonomia delle regioni
soggiogate dal colonialismo, ci siamo scordati un fattore essenziale: le fonti energetiche che hanno
contribuito a questi processi molteplici e differenziali di liberazione. Nell’epoca del nascente capitalismo e
delle rivoluzioni industriali si compiva la prima e più ingente trasformazione delle strutture geologiche e
climatiche della terra attuata della specie umana. L’uso dei combustibili fossili (prima il carbone, poi il
petrolio) ha innescato un processo accumulativo ed apparentemente irreversibile di deterioramento delle
condizioni ecologiche necessarie per la nostra sopravvivenza.
Definizione e cronologia
Quando negli anni 2000 il chimico Paul Crutzen ed il biologo Eugene Stoermer coniano il termine
“Antropocene”, la loro intenzione era quella di proporre una nuova partizione del tempo geologico. La
precedente cronologia denominava “Olocene” il periodo che va dall’ultima glaciazione dell’emisfero
settentrionale sino ad oggi. Nonostante le divergenze di climatologi e geologi nella determinazione di
questa nuova era, è rilevante considerare l’importanza culturale e sociale dell’utilizzo del prefisso “–
antropo-”. Volendo essere più specifici: le date previste per la datazione dell’Antropocene mostrano una
relazione di co-implicazione di scienze naturali processi culturali, sociali e politici. Antropocene indica
letteralmente “l’epoca dell’uomo”, ovvero il tempo nel quale l’uomo, come specie, è in grado di alterare i
cicli ecologici della totalità delle specie naturali. Delle molte proposte di datazione, tre in particolare sono
state considerate unanimemente rilevanti:
(a) La prima è situata circa 11.000 anni avanti Cristo, nel periodo della stabilizzazione climatica chiamato
Olocene, il quale coincide con quella che Claude Lévi-Strauss ha chiamato “rivoluzione neolitica”, ovvero
con la nascita del pensiero simbolico, dell’agricoltura e di quel complesso di conoscenze di base che hanno
portato l’homo sapiens allo sviluppo delle facoltà cognitive e tecniche che costituiscono il sostrato comune
della nostra specie. L’antropologo francese Philippe Descola, allievo di Lévi-Strauss, afferma che non solo
all’inizio dell’Olocene si sono perfezionate le facoltà mentali e tecniche della specie umana, ma è anche
avvenuta la prima e più importante alterazione ecologica del pianeta. Recenti studi di archeologia ed
antropologia hanno dimostrato come prima dell’arrivo dei colonizzatori europei la foresta Amazzonica
fosse densamente popolata e che la sua attuale conformazione sia dovuta all’azione addomesticatrice
dell’uomo.
(b) La seconda data corrisponde alla scoperta e colonizzazione delle Americhe nel 1492: anche in questo
caso si verifica una commistione di cause politiche ed ecologiche. Il contatto fra europei ed amerindiani ha
prodotto un’ecatombe (si calcolano 50 milioni d’indiani morti fra il 1492 ed il 1610), ed allo stesso tempo ha
avuto un esito ecologico, ovvero la riforestazione di 50 milioni di ettari di foresta amazzonica. La conquista
dell’America rappresenta non solo un evento cruciale dal punto di vista antropologico, politico ed
economico, ma lascia importanti tracce a livello atmosferico e biologico: la riforestazione amazzonica ha
infatti ridotto la concentrazione globale di anidride carbonica.
(c) L’ultimo (e più probabile) periodo designato come possibile inizio dell’Antropocene è quello che
l’antropologo Karl Polanyi ha chiamato “grande accelerazione”, e cioè dalla fine del XVIII secolo sino al 1950.
Un periodo caratterizzato dall’espansione demografica, economica, commerciale; ma anche dalla
rivoluzione francese, americana e haitiana, dal colonialismo, dai totalitarismi e dalle due guerre mondiali.
La data simbolica che segna l’inizio di questa epoca è 1784, anno di invenzione della macchina a vapore di
James Watt.
Natura e cultura
Seguendo lo storico Dipesh Chakrabarty ed il sociologo Bruno Latour possiamo sviluppare alcune
considerazioni di carattere più teorico sulle conseguenze della definizione dell’Antropocene come epoca
nella quale la specie umana assume il ruolo di potenza geo-storica. Innanzitutto le tre date proposte come
inizio dell’era dell’uomo (Rivoluzione neolitica, Conquista dell’America e Grande accelerazione) mettono
assieme elementi di storia delle variazioni atmosferiche e geologiche con la storia degli eventi umani.
Questo comporta una ridistribuzione delle competenze delle scienze umane e naturali, riscrivendo una
tradizionale dicotomia che procede dalla partizione lockiana fra matters of fact e matters of concern.
Secondo Latour l’Antropocene designa una questione allo stesso tempo scientifica e politica che mette in
discussione il nostro comune modo di intendere l’operare politico ed il processo di produzione e veridizione
dei fatti scientifici. Di Antropocene si è infatti parlato a Parigi nel corso della recente conferenza
internazionale sui cambiamenti climatici (COP21, dal 30 novembre al 12 Dicembre 2015), in termini
sostanzialmente preventivi. Nonostante ci sia una condivisa valutazione scientifica sulle cause antropiche
del cambiamento climatico, le grandi compagnie petrolifere continuano a pagare un nutrito team di
sedicenti esperiti (detti anche scettici climatici) che interviene regolarmente nei dibattiti pubblici per
negare la realtà di questo fenomeno. Latour ha sottolineato lo strano chiasmo epistemologico che si viene a
produrre in questa disputa fra interessi politici, economici e scientifici: da un alto abbiamo climatologi e
geologi, che proseguono il loro lavoro di ricerca secondo le norme interne della veridizione degli enunciati
nelle loro discipline, dall’altro abbiamo grandi capitali economici e interessi politici che negano la
scientificità di questi enunciati perché configgono con la naturale tendenza del capitalismo all’espansione. Il
punto centrale, afferma Latour, è la partizione fra responsabilità politico-economiche e scientifiche: così
come non esiste una produzione di fatti scientifici che non mobiliti assieme un insieme di valori etici, allo
stesso modo non esistono decisioni politiche che non intervengono a governare in una direzione o nell’altra
la ricerca scientifica.
Clima e finanza
L’autonarrazione che la modernità europea si è raccontata a partire dal XV e XVI secolo è stata quella di una
progressiva rottura di limiti:
(i) Limiti geografici, innanzitutto, con il passaggio attraverso le Colonne d’Ercole dello Stretto di Gibilterra
che segna il momento originario della globalizzazione e della storia del colonialismo;
(ii) Limiti cosmologici, con quella rivoluzione scientifica che da Cusano a Keplero ha portato alla distruzione
del modello spaziale aristotelico delle sfere concentriche verso l’universo infinito e la molteplicità dei
mondi;
(iii) Limiti politici: con la Rivoluzione Francese che smantella la gerarchia sociale fondata sulla
naturalizzazione dell’ordine sociale dell’Ancient régime;
(iv) Limiti epistemologici: Facciamo riferimento a quel processo di “disincanto del mondo” che Descartes e
Bacon invocano dal punto vista scientifico ed Hobbes e Bodin per ciò che concerne la riflessione politica.
Metodo scientifico e scienza politica rompono i ponti con quell’arcipelago di pratiche magiche, credenze
irrazionali, riti e miti che costituivano il campo epistemico dell’Europa medievale e delle società di interesse
etnografico. Una netta partizione fra scienza (unificata, universale, e vera) e sistemi di credenze (molteplici
e tutti ugualmente falsi) permette ai moderni di innalzarsi al di sopra di ogni altra civiltà (sia essa
geograficamente o storicamente lontana).
Allo stesso tempo, la modernità europea rinchiudeva ed escludeva quel lato oscuro dalla quale pensava di
essersi definitivamente separata. Gli studi di Michel Foucault sui sistemi disciplinari (Surveiller et Punir) e
sulla costruzione della follia come categoria medica e politica (Naissance de la clinique, Histoire de la folie)
possono essere letti come la genealogia di un processo di reclusione e messa al valore di quelle forze
irrazionali ed inassimilabili rappresentante da selvaggi, non-moderni, pazzi, criminali, o semplicemente
esclusi dalla sfera immunitaria della societas civilis.
Conclusione
Il lato oscuro della modernità è quello che è stato catturato, escluso, ignorato, colonizzato, schiavizzato. Si
compone di elementi eterogenei, umani e non umani, cognitivi e corporei, materiali ed immateriali. È
innanzitutto la natura, intesa non come una semplice utopia retrospettiva di un età dell’oro armoniosa:
questa è una fantasia gerarchica e destoricizzante che lasciamo volentieri ai fascisti. La natura che ci
interessa è invece l’insieme contradditorio ed eterogeneo delle esclusioni inclusive che la modernità ha
occultato ed assoggettato nel suo cammino devastante verso il progresso. È l’insieme delle conoscenze del
pensiero selvaggio, catturate e screditate dalla scienza moderna; sono i corpi e le menti delle donne e delle
popolazioni colonizzate; è infine l’ambiente naturale stesso, trattato come un fondo infinito di ricchezze da
estrarre. C’è una macro-narrazione che descrive l’Antropocene come il compimento della modernità, da un
lato come pessimismo apocalittico che immagina un futuro “senza di noi”, e dall’altro prevede una
rivoluzione tecnologica che ci salverà tutti. Non ci interessano queste distopie escatologiche, se non come
narrazioni da contestare, ciò che ci interessa è invece la possibilità di riattuare quel progetto utopico di
ecologia profonda delle relazioni sociali, cognitive, affettive ed ambientali di cui abbiamo provato a
descrivere alcune possibili declinazioni.
Così come la rottura di uno solo dei limiti planetari individuati da Rockström conduce all’alterazione di tutti
gli altri (per cui, ad es. l’aumento della temperatura è un effetto della concentrazione di anidride carbonica,
e tutto questo viene a riflettersi nella riduzione della biodiversità in alcune zone del pianeta), allo stesso
modo un modello intersezionale di analisi ci permette di legare fra loro le questioni coloniali con quelle
femministe, le trasformazioni del lavoro con quelle della sfera affettiva. Potremmo infine dire con Benjamin
che l’Antropocene è un’immagine dialettica che sorge nel momento del pericolo: è una narrazione che
svela l’occultamento di un processo storico e ci permette di redimerlo, ma allo stesso tempo è anche il
tentativo di arrestare il tempo presente, erodendo le possibilità imprevedibili del futuro.
“Articolare storicamente il passato non significa riconoscerlo “come è stato veramente”. Significa
impadronirsi del ricordo che lampeggia nell’attimo del pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare
un’immagine del passato come all’improvviso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo. Il
pericolo minaccia sia la consistenza della tradizione sia chi la riceve. Per entrambi è uno solo e lo stesso:
prestarsi come strumento della classe dominante. In ogni epoca si deve tentare di strappare la tradizione
dal conformismo, che è sul punto di sopraffarla” (Walter Benjamin, Tesi sul concetto di storia, VI)
Bibliografia di riferimento
Il presente testo usufruisce liberamente degli articoli e delle monografie citate. Questi costituiscono allo
stesso tempo una breve introduzione al dibattito sull’Antropocene fra scienze umane e naturali
Chakrabarty, Dipesh «The climate of history: Four theses», Critical Inquiry, vol. 35, fasc. 2, 2009, pp. 197–
222.
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Documentari e video
- Sono qui raccolti i video della conferenza “Comment penser l’anthropocene?”, tenutasi al Collège de
rance il 5 ed il 6 novembre 2015: http://www.fondationecolo.org/l-anthropocene/video
- Segnaliamo inoltre due video che introducono la questione dell’antropocene da parte di Catherine
Malabou e Donna Haraway:
- Infine, indichiamo due documentari, che, a nostro avviso, trattano la questione del cambiamento
climatico nel modo più esaustivo:
Avi Lewis, “This changes everything (2015)”, tratto dall’omonimo libro di Naomi Klein
https://youtu.be/IpuSt_ST4_U
Robert Kenner, “Merchants of Doubt (2014)”, tratto dall’omonimo libro di Naomi Oreskes ed Erik Conway
https://www.youtube.com/watch?v=j8ii9zGFDtc