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Oltre Lepanto, dallo scontro di ieri all'intesa di domani


Atti del Convegno Venezia-Trento 11-12 novembre 2011
Pergine V.S., 2012

estratto
R.G. Ridella, Il concorso genovese, in galee e artiglierie, alla vittoria di Lepanto pp. 147-173

Sezione storica
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Renato Gianni Ridella

Il concorso genovese, in galee e artiglierie,


alla vittoria di Lepanto

di Renato Gianni Ridella


Archeologo, docente a contratto e collaboratore
dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea

Premessa
Osservando superficialmente l’ordine di battaglia della flotta della Lega
Santa schierata a Lepanto nell’ottobre del 1571, apparirebbe che l’apporto
della Repubblica di Genova al vittorioso scontro navale contro la potenza
turca, sia stato veramente limitato; le tre galee pubbliche Capitana, Patrona
e Diana, che presero parte all’impresa, erano infatti pari per numero a
quelle messe in campo dal Duca di Savoia, le cui potenzialità marinare
erano limitate agli approdi minori della Contea di Nizza marittima. Qual-
cuno potrebbe essere quindi portato a pensare che in quel periodo, l’antica
repubblica marinara doveva essere diventata veramente l’ombra di se
stessa, se non era in grado di schierare più che quel piccolo stuolo di rap-
presentanza. Tale considerazione sembra poi trovare sostanza anche negli
scritti di alcuni storici genovesi dei due secoli scorsi, dai quali si trae l’im-
pressione che nel Cinquecento, passati i fasti delle crociate, della colo-
nizzazione nel Mar Nero e dell’infinita lotta contro Venezia, le energie
della sua classe dirigente si fossero del tutto spostate verso l’impiego frut-
tifero dei grandi capitali, dati a prestito principalmente alla Corona di Spa-
gna: tesi dalle quali si arriva facilmente all’estrema conclusione che i Ge-
novesi in quel periodo non andassero più per mare.
In effetti, questa sensazione sembrerebbe avvalorata proprio dalla
limitata consistenza della flotta pubblica genovese che schierava allora
soltanto quelle poche galee1, destinate prevalentemente al pattuglia-
mento antibarbaresco delle due Riviere liguri, ai collegamenti con la

1
La flotta pubblica venne formata solo nel 1559, con l’istituzione del Magi-

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Corsica e al trasporto in patria delle rimesse in argento che dalla Spagna


tornavano a compensare i prestiti dei quali abbiamo detto sopra. Esi-
guità che risalta ancor più nel confronto con il numero veramente no-
tevole di imbarcazioni a remi da combattimento, che la sua antica rivale
manteneva in servizio ed era in grado di incrementare quantitativa-
mente in tempi abbastanza ristretti.
Ma questa disparità risale da una profonda differenza politico-strut-
turale allora esistente tra le due repubbliche marinare: Venezia nel XVI
secolo si presentava come un vero e proprio stato nazionale, politica-
mente ben strutturato e dotato di un ampio e popoloso retroterra pro-
duttivo, agricolo e forestale, con alcuni poli di eccellenza industriale
nel bresciano e nella bergamasca.
Genova al contrario, dilaniata dalle lotte di fazione e datasi più volte
in soggezione a Francesi e Milanesi già dal XIV secolo, non era stata in
grado di ampliare la sua base territoriale, rimanendo il suo dominio ri-
stretto al solo arco ligure, montuoso, poco fertile e scarsamente abitato2.
Inoltre, la sua debole vocazione a dotarsi di un’organizzazione gover-
nativa stabile ed efficiente le derivava manifestamente anche da un vizio
originario: la sua costituzione politica iniziale era sorta, infatti, da un
moto associativo di iniziativa privata, promosso da un gruppo di casate
aristocratiche e mercantili cittadine che nel 1099 avevano giurato in-
sieme al popolo la Compagna Communis Januensis. L’istituto giuridico
della compagna, già adottato autonomamente dalle tre circoscrizioni del
Castrum, della Civitas e del Burgus, nelle quali si articolava la città,
altro non era che un consorzio commerciale privato in accomandita sem-
plice, nato originariamente per gestire intraprese di mercanzia marit-

strato delle Galee e poteva contare all’inizio su quattro imbarcazioni, ridottesi


a tre nel 1564 per un naufragio e salite a sei nel 1586. Cfr. V. Borghesi, Il ma-
gistrato delle Galee (1559-1606), in Guerra e commercio nell’evoluzione
della marina genovese, Genova, 1973, II, pp. 187-223 ; L. Lo Basso, Uomini
da remo. Galee e galeotti del Mediterraneo in età moderna, Milano, 2003,
pp. 206-207.
2
A proposito di questo mancato ampliamento territoriale si veda. G. Serra,
La storia della antica Liguria e di Genova, Torino, 1834, III, pp. 5-7.

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tima. Quindi, nella percezione generale del tempo era pacifico che l’in-
teresse pubblico dovesse sempre fare i conti con quello delle consorterie
mercantili prevalenti e questo ci spiega il fatto che durante tutto il Medio
Evo, Genova, a differenza di Venezia, non ebbe mai una flotta statale;
nei momenti di necessità bellica, infatti, gli armatori privati furono sem-
pre perfettamente in grado di allestire e di noleggiare al governo comu-
nale le adeguate quantità di imbarcazioni necessarie3.
Anche dopo la definitiva cacciata dei Francesi nel 1528, promossa
da Andrea Doria e la costituzione della Repubblica aristocratica, ispi-
rata al modello veneziano, quello genovese rimase sempre uno stato
“leggero”4, con un bilancio pubblico che non rispecchiava assoluta-
mente le disponibilità dei suoi ricchissimi finanzieri; anche se, nei mo-
menti di necessità, come in occasione delle tre guerre difensive contro
gli attacchi sabaudi del 16255, del 1672 e del 17476 si riuscirà sempre
a far fronte al pericolo allestendo in tempi strettissimi corpi armati
all’altezza del compito, grazie proprio al pronto e generoso concorso
di detti finanzieri e alla ampia liquidità resa disponibile dal Banco di
San Giorgio. Un esempio significativo di questi positivi sussulti pa-
triottici, lo possiamo osservare nella costruzione delle “nuove mura”,
lunghe oltre diciannove chilometri e completate in soli tre anni tra il
1630 e il 1633; tale cinta, assieme a quella più interna del 1538, rese
Genova una delle città meglio fortificate in Europa7 e ne garantì la si-
curezza fino alla caduta della repubblica oligarchica, avvenuta nel
1797.

3
Ad esempio nel 1295 vennero velocemente armate 165 galee, con un volume
complessivo di 36.000 uomini imbarcati, tra vogatori, marinai e combattenti
(E. Grendi, La Repubblica aristocratica dei Genovesi, Bologna, 1987, p. 56).
4
E. Grendi, La Repubblica aristocratica, cit.
5
G. Casanova, La Liguria centro-occidentale e l’invasione franco-piemontese
del 1625, Genova, 1983.
6
A. Ronco, Balilla e il suo tempo, Genova, 1977.
7
L.C. Forti, Le fortificazioni di Genova, Genova, 1971; R. Dellepiane, Mura
e fortificazioni di Genova, Genova, 1984.

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Galee e cannoni genovesi a Lepanto


Tornando a Lepanto e analizzando in dettaglio la composizione
dell’armata navale cristiana che schierava 204 galee, rileviamo che
quelle fornite da armatori genovesi assommavano a 28, oltre alle tre
citate sopra8. Quindi un totale di 31 imbarcazioni da guerra, che pone-
vano il concorso genovese in questo campo al terzo posto dopo quello
veneziano (105) e quello spagnolo (50): ho voluto sottolineare questo
dato che sembra riequilibrare un poco la situazione, a fronte anche della
esigua consistenza territoriale e demografica della Repubblica di San
Giorgio, di cui abbiamo già accennato, al confronto con quelle delle
due potenze appena nominate. In realtà, dobbiamo riconoscere che le
28 galee di cui abbiamo detto sopra militavano al soldo della Corona
Spagnola, sotto la condotta di asiento9 gestita da nobili genovesi, come
Gio. Andrea Doria (11 galee), Nicolò Lomellini (4), Gio. Ambrogio
Negroni (4), Giorgio Grimaldi (2), Davide Imperiale (2), Nicolò Doria
(2), Stefano de Mari (2) e Bendinelli Sauli (1); gli scafi, l’armamento
e gli equipaggi erano sicuramente di provenienza ligure.
Un’altra tradizione vuole che le navi genovesi non avessero quasi
partecipato allo scontro, trovandosi tutte sull’ala destra al comando di
Gio. Andrea Doria che, secondo i suoi detrattori, si sarebbe allontanato
verso il largo per sottrarsi al combattimento e salvare così le sue pre-
ziose galee; in realtà un buon numero di esse, con più della metà di
quelle appartenenti al Doria, erano schierate sull’ala sinistra e al centro
dove si trovarono impegnate nei combattimenti più intensi. Come la

8
Questo dato e i nomi dei rispettivi armatori che elenchiamo di seguito nel
testo, sono tratti da A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Bari,
2010, app. II, pp. 625, 628-629.
9
Asiento è termine spagnolo che si riferisce ad un incarico statale di fornitura.
Nella forma contrattuale dell’asiento-noleggio di galea, ideata dagli armatori
genovesi a partire da Andrea Doria, questi imprenditori marittimi si impegna-
vano a mettere a disposizione della corona un certo numero di tali imbarca-
zioni, completamente equipaggiate e armate, a fronte del pagamento di un
cannone a cadenza mensile (per il XVI secolo cfr. L. Lo Basso, Uomini da
remo, cit., pp. 267-288).

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Capitana di Genova comandata da Ettore Spinola, che aveva a bordo


Alessandro Farnese, il futuro generale di Spagna nelle Guerre di Fian-
dra e che stava di fianco all’ammiraglia di don Giovanni d’Austria.
Quest’ultimo riconosce il merito allo stesso Doria di avergli consi-
gliato di far tagliare gli speroni delle galee cristiane, elementi che es-
sendo inclinati verso l’alto ostacolavano il tiro delle artiglierie a breve
distanza10.
Un aspetto finora quasi del tutto sconosciuto è rappresentato dal
fatto, ormai accertato grazie anche alle mie ricerche, che nella seconda
metà del XVI secolo Genova si poneva come uno dei maggiori centri
produttivi nel Mediterraneo di artiglierie navali in bronzo, essendo
probabilmente seconda solo a Venezia11; le sue fonderie, che a metà
secolo erano sette (tav. 7), oltre a rifornire di bocche da fuoco le navi
e le fortezze della Repubblica e gli armatori privati di galee e velieri
mercantili, sia genovesi che esteri, furono impegnate in importanti
commesse per le dotazioni dei possedimenti spagnoli in Italia. Nel
1558-1559 vi si fusero ben 142 pezzi per la fortezza e le mura di Mi-
lano, nel 1572 un numero imprecisato per le fortificazioni di Porto Er-
cole all’Argentario, e nel 1575-’76 una cinquantina di bocche da fuoco
per le difese di Palermo12 (Fig. 1). Abbiamo poi la notizia che nel 1579

10
A. Barbero, Lepanto, cit. p. 551; L. Serrano, La liga de Lepanto entre
España, Venecia Y la Santa Sede (1570-1573), I, Madrid ,1918, p. 133. Se-
condo un documento trovato da Marco Morin, sembra invece che le galee ve-
neziane avessero già adottato tale accorgimento, giungendo a Messina con gli
speroni accorciati (cfr. M. Morin, supra, p. 111).
11
R.G. Ridella, Genoese ordnance aboard galleys and merchantmen in the
16th-century, in C. Beltrame – R.G. Ridella (a cura di), Ships and Guns,
The sea ordnance in Venice and in Europe between the 15th and the 17th
century, Atti del Convegno Venezia 11-12 dicembre 2008, Oxford, 2011,
pp. 54-55.
12
R.G. Ridella, Fonditori italiani di artiglierie, in trasferta nell’Europa del
XVI secolo, in N. Labanca – P.P. Poggio (a cura di), Storie di Armi, Atti del
convegno Brescia 8-10 novembre 2007, Milano, 2009, pp. 15-42.

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vennero prodotti a Genova cinque grossi Cannoni da batteria destinati


a Napoli, persi in mare per il naufragio contro il promontorio di Por-
tofino della nave ragusea13 Santo Spirito, che li stava trasportando a
destinazione14.
Stabilito questo importante fattore sulle potenzialità produttive, pas-
siamo ora ad esaminare la composizione degli equipaggiamenti di ar-
tiglieria che armavano le galee genovesi a Lepanto.
Ricordiamo ancora, per chi non ne fosse a conoscenza, che su questo
tipo di imbarcazioni da guerra mosse da remi, l’armamento principale
doveva essere per forza di cose piazzato in prossimità della prua, da
dove poteva unicamente eseguire un tiro frontale (Fig. 2); la presenza
dei banchi di voga che occupavano l’intera lunghezza della galea su
entrambi i lati, non consentivano, infatti, altre soluzioni. Essendo poi
quasi del tutto impossibile brandeggiare i pezzi per lo spazio limitato
disponibile, il puntamento in direzione poteva essere eseguito soltanto
ruotando l’asse dell’imbarcazione verso il bersaglio, un po’ come suc-
cede negli odierni aerei da caccia.
Una fonte documentale abbastanza importante a proposito delle do-
tazioni genovesi di secondo Cinquecento risale al 1560, quindi a poco
più di una decina di anni prima della battaglia: si tratta dell’inventario
della galea capitana della Repubblica, venduta al Duca di Toscana,
completa di attrezzature ed artiglierie e consegnata ai suoi incaricati
sulla spiaggia di Bibbona, qualche decina di chilometri a sud di Li-
vorno15. L’inventario dovette essere stato redatto da uno scrivano pub-
blico poco esperto di cose militari, infatti, le denominazioni dei pezzi
che vi compaiono sono quasi tutte incongrue e, solo grazie alle anno-

13
In questo periodo la marineria mercantile di Ragusa di Dalmazia (attuale
Dubrovnik) era dotata di grandi e numerose navi, spesso partecipate anche da
armatori genovesi, che venivano sovente noleggiate o requisite dagli Spagnoli
per le loro imprese militari, come trasporti truppe e rifornimenti.
14
Notizie su questo naufragio si trovano nelle filze del notaio genovese Do-
menico Tinello.
15
Archivio di Stato di Genova (da ora ASGe), Magistrato delle Galee, f. 1,
18.VII.1560.

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tazioni del loro peso e al tipo di munizioni, sono riuscito a correggerle


su questo disegno ricostruttivo (Fig. 3).
Da alcune informazioni precedenti si può altresì dedurre che le galee
ordinarie, compresa la Patrona ovvero la vice-capitana, avevano un ar-
mamento ridotto, mancando dei due Falconetti; situazione confermata
proprio per la Patrona da un inventario di sei mesi precedente a Le-
panto16, cioè del 9 marzo 1571; mentre in un analogo documento, da-
tato 31 agosto 1570, vediamo che la nuova Capitana aveva incremen-
tato la propria dotazione con l’aggiunta di altri due Smerigli17.
Vediamo ora di capire nel dettaglio in cosa consistessero questi di-
versi tipi di bocche da fuoco:
Il pezzo principale, denominato “corsiere” perché piazzato in punta
al lungo corridoio che separava i banchi di voga dell’uno e dell’altro
bordo, che si chiamava appunto “corsia”, sulle galee genovesi già nella
prima metà del XVI secolo era generalmente rappresentato da un Can-
none comune da 50 libbre di palla (tav. 8), che sparava cioè un proiettile
sferico in ferro colato pesante poco meno di 16 chilogrammi. La termi-
nologia del tempo definiva “comune” un pezzo che aveva le pareti della
canna di spessore intermedio tra quello delle artiglierie cosiddette “sot-
tili” e quello delle “rinforzate”18: naturalmente tali misure influivano
sul peso di queste armi e perciò il nostro Cannone comune aveva una
massa di 44-45 Cantara (circa 2100 chilogrammi) a fronte dei 53-55
(circa 2600 chili) di un pezzo rinforzato dello stesso calibro. Infatti, que-
st’ultimo, essendo destinato al tiro sostenuto e prolungato in operazioni
di assedio, doveva essere necessariamente più robusto. Sulla galea, al
contrario, si poteva usare un’arma più leggera, perché le possibilità di

16
ASGe, Magistrato delle Galee, f. 1, 9.III.1571.
17
ASGe, Magistrato delle Galee, f. 1, 31.VIII.1570.
18
Per la comprensione di queste definizioni terminologiche, oltre alle infor-
mazioni d’archivio è stata utile la consultazione di A. Angelucci, Inventario
di artiglierie della fortezza Paolina, Roma, 1886, estratto dal Giornale di Eru-
dizione Artistica (di Perugia), vol. I, fasc. II-III (Nuova Serie), Nov.-Dic. 1883.
19
Sulle considerazioni circa l’efficacia del tiro alle varie distanze, delle arti-
glierie montate sulle galee, si veda A. Barbero, Lepanto, cit.

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far fuoco nell’ambito della gittata utile di 3-400 metri, prima dello scon-
tro di arrembaggio, si riduceva ad uno o al massimo a due colpi19.
Dato che, come abbiamo visto, valutando la massa di una bocca da
fuoco se ne può desumere la categoria e la potenza, vorrei sottolineare
l’importanza per chi cita queste quantità al fine di trarne conclusioni
oggettive, di padroneggiare perfettamente le unità di misura in uso nelle
diverse entità territoriali di cui si tratta. Se ad esempio, come ha fatto
uno studioso, consideriamo erroneamente il Cantaro di Genova, che è
composto da 150 libbre e vale Kg 47,650, come un Quintale da 100
libbre (Kg 31,800), traiamo delle conclusioni completamente sbagliate
sulle prestazioni dell’equipaggiamento d’artiglieria delle galee geno-
vesi. E ancora, non si possono unificare con il termine inglese di Pound
le libbre italiane da 12 once, oscillanti da 300 a 350 grammi, con quelle
inglesi, spagnole e francesi da 16 once che equivalgono rispettivamente
a 453, 460 e 490 grammi20.
I pezzi che affiancavano il corsiere sulle galee genovesi erano due
Sagri medio-leggeri da 6 libbre di palla (Kg 1,900), aventi un calibro
di circa 85 millimetri e un peso di 12-13 Cantara (Kg 600); di questa
tipologia è sopravvissuto fino ai nostri giorni solo un esemplare un po’
più lungo e pesante, destinato all’armamento dei velieri mercantili (Fig.
4), rinvenuto negli anni passati in Adriatico presso Dubrovnik (Croa-
zia), l’antica Ragusa di Dalmazia21. Quelli piazzati sulle galee, detti
anche Moiane dal francese Moyenne, presentavano dimensioni conte-
nute in lunghezza, poco più di due metri, per adattarsi a spazi limitati;
inoltre, poiché essi non potevano rinculare essendo montati su affusti
fissati allo scafo, a differenza del pezzo principale che al momento
dello sparo slittava all’indietro sulla corsia, per poter essere ricaricati
le loro bocche non dovevano sporgere troppo in fuori dalla prua. Ri-

20
N. Capponi, Victory of the West, Oxford, 2006, pp.185-186.
21
R.G. Ridella, Genoese ordnance, cit., pp. 44-45, f. 6.5.c.
22
In direzione, orientandosi sul piano orizzontale solidalmente alla bocca da
fuoco e in elevazione, permettendo la rotazione della stessa sull’asse trasver-
sale degli orecchioni.

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manendo sull’argomento affusti, ovvero su quegli apparati in legno che


sostenevano la bocca da fuoco e ne permettevano il puntamento22, sap-
piamo che sulle galee genovesi erano tutti del tipo a slitta, cioè privi di
ruote; come abbiamo appena accennato, l’unico avente la possibilità
di arretrare per assorbire il violento rinculo era quello del corsiere (Fig.
5), mentre quelli dei pezzi minori erano saldamente vincolati alle strut-
ture dello scafo, non potendo assolutamente muoversi all’indietro per
la stretta vicinanza con i primi banchi di voga.
Tra queste artiglierie minori a canna lunga, i Falconetti e i Falconi
(Fig. 6), con un calibro di 60-65 millimetri e un peso di 250-350 chi-
logrammi, furono i primi pezzi in bronzo ad avancarica a sostituire
sulle galee genovesi i passavolanti e le spingarde in ferro fucinato di
tradizione medievale; come questi, all’inizio, essi utilizzavano un pro-
iettile di piombo contenente un cubetto di ferro, ma passarono ben
presto ad impiegare una palla tutta di ferro da 2-3 libbre (650-950
grammi) che offriva maggiori capacità distruttive e di penetrazione.
Incrementando il proprio peso e calibro, questo tipo di bocche da
fuoco entrarono in seguito anche nelle dotazioni difensive dei velieri
mercantili (Fig. 7).
I pezzi più leggeri in dotazione alle galee venivano chiamati a Ge-
nova Smerigli: si trattava di piccole bocche da fuoco, lunghe da un
metro a un metro e mezzo, che venivano caricate dal retro attraverso
un contenitore della polvere amovibile, il cosiddetto “mascolo”, ed
erano postate su di un supporto a forcella che ne permetteva il veloce
puntamento in tutte le direzioni, attraverso l’azione esercitata su una
lunga impugnatura posteriore (“coda”). Ne esistevano due categorie:
gli Smerigli da piombo, corrispondenti ai Moschetti da mascolo vene-
ziani, che tiravano appunto la palla di piombo e avevano un calibro di
40-50 millimetri e gli Smerigli petrieri, detti a Venezia Petriere da ma-
scolo, con un calibro di 75-95 millimetri, che sparavano invece un pro-
iettile di pietra o una mitraglia di pallottole da archibugio (Fig. 8). Ab-
biamo già visto che sulle galee genovesi e in generale su quelle del
Mediterraneo occidentale, gli Smerigli si limitavano ad una o due cop-
pie, mentre sulle veneziane erano di gran lunga più numerosi. Ciò si

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può spiegare con il fatto che, essendo queste armi impiegate contro i
combattenti imbarcati sulle galee nemiche, il loro ruolo poteva essere
surrogato da una maggior presenza a bordo di tiratori armati di archi-
bugio: infatti, Venezia aveva equipaggi di fanti di marina in numero li-
mitato rispetto a quelli delle galee ponentine, che potevano invece di-
sporre in sufficiente quantità di esperti archibugieri spagnoli.
I documenti a cui abbiamo accennato sopra, sembrerebbero con-
fermare la tesi espressa da Niccolò Capponi nel suo accurato lavoro
sulla battaglia23, dove sostiene che le galee genovesi, ed in genere
quelle delle altre potenze del Mediterraneo occidentale, Spagna, To-
scana e Papato, schieravano a Lepanto una dotazione media basata
solo su tre pezzi principali: il Cannone di corsia e i due Sagri che lo
affiancavano. Quindi tutte queste, ovvero le ponentine, risultavano
meno armate rispetto a quelle veneziane che, come abbiamo appena
visto, le surclassavano anche dal lato dei pezzi leggeri brandeggiabili.
Tuttavia, prendendo in esame altre fonti d’archivio, non sembra che
la situazione fosse esattamente quella. Se osserviamo ad esempio la
ricostruzione dell’armamento della galea Donzella (Fig. 9), che com-
batté nell’ala destra, basata sul suo inventario redatto in occasione
della vendita di dieci galee di Gio. Andrea Doria al re di Spagna24
nel 1582, vi notiamo che, oltre ai tre pezzi canonici e ai due Smerigli,
essa ne porta due in più definiti Pedreros, pesanti ognuno quasi 4 Can-
tara (circa 185 chilogrammi). Essi rappresentano un particolare tipo
di bocca da fuoco che era allora già abbastanza diffuso sui velieri mer-
cantili genovesi; i documenti li definiscono Petrieri e non si devono
confondere con i pezzi brandeggiabili di cui abbiamo detto sopra,
chiamati a Venezia Petriere, correttamente nominati nel citato inven-
tario come Esmeriles. Infatti, poiché in quest’ultimo vengono elencati
anche gli affusti in legno dei Pedreros, ed è chiaro che i medesimi
non erano piazzati su forcelle. Si tratta in questo caso della categoria

23
N. Capponi, Victory of the West, cit., pp. 185-187.
24
Gli inventari vennero redatti in Spagnolo a Genova dal notaio Domenico
Tinello: ASGe, Notai Antichi, f. 3156, 3.I.1582.

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leggera (Fig. 10), avente un calibro di 100-120 millimetri e un peso


di 4-5 Cantara.
I Petrieri erano bocche da fuoco in bronzo ad avancarica, compatte
e non troppo pesanti, con pareti relativamente sottili, ma che nel settore
in cui alloggiava la carica di lancio avevano il diametro interno del-
l’anima ridotto rispetto al calibro; questo restringimento assicurava pa-
reti sufficientemente spesse nel segmento posteriore della canna per
resistere alla pressione dei gas di sparo e, per la presenza di questa ca-
mera destinata a contenere la polvere, li si definiva pezzi incamerati
(Fig. 11). Essi rappresentavano la versione minore dei Cannoni petrieri
di primo Cinquecento e sulle navi mercantili avevano progressivamente
sostituito le vecchie bombarde in ferro fucinato (Fig. 12), mantenute
in servizio come pezzi di seconda linea per il tiro ravvicinato ben oltre
la metà del XVI secolo.
Questa tendenza ad un incremento della potenza di fuoco delle galee
ponentine alla vigilia dello scontro di Lepanto, la si può rilevare in una
notizia recentemente presentata da Alessandro Barbero nel suo apprez-
zabile volume dedicato a questa battaglia epocale: egli segnala, infatti,
che per la dotazione d’artiglieria di dieci nuove galee napoletane ven-
nero incaricati i fonditori genovesi25.
L’unica informazione archivistica di fonte genovese riguardante que-
sta fornitura, che ho finora rinvenuto, è contenuta in una supplica in-
dirizzata dal fonditore Dorino II Gioardi al governo della Repubblica.
25
A. Barbero, Lepanto, cit., p. 646 che cita G. Fenicia, Il Regno di Napoli e
la difesa del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1556 - 1598). Organizzazione
e finanziamento, Bari, 2003, p. 136. Secondo quest’ultimo autore la fornitura
si sarebbe limitata solo all’armamento di due di otto galee nuove, ma da una
corrispondenza gentilmente segnalatami da Barbero, si capisce chiaramente
che l’intera dotazione venne fabbricata a Genova (Cfr. R. Vargas-Hidalgo,
Guerra y diplomacia en el Mediterraneo: Correspondencia inedita de Felipe
II con Andrea Doria y Juan Andrea Doria, Madrid, 2002, p. 723).
26
R.G. Ridella, Produzione di artiglierie nel XVI secolo. I fonditori genovesi
Battista Merello e Dorino II Gioardi, in L. Gatti (a cura di), Pratiche e Lin-
guaggi – Contributi a una Storia della Cultura tecnica e scientifica, (I.S.E.M.-
C.N.R.), Genova-Cagliari-Torino, 2005, pp. 77-134.

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Il documento risale al 1587 quando questo personaggio si trovava in


carcere per debiti verso lo stato26 e in esso egli afferma tra l’altro di
aver gettato quatro pezzi di Cannoni che si accomodorno al Serenis-
simo Don Gio. d’Austria27; sicuramente il Gioardi si riferisce qui alla
produzione della primavera-estate del 1571 per l’equipaggiamento
delle galee napoletane, in vista della spedizione contro i Turchi che
culminerà qualche mese dopo nella battaglia di Lepanto. Infatti, Don
Juan in persona era passato da Genova, provenendo da Barcellona con
il resto della flotta spagnola, arrivando in città il 26 Luglio e da lì era
poi ripartito per Napoli il primo di Agosto28. Sappiamo che le galee di
Napoli, al comando del Marchese di Santa Cruz, si erano in precedenza
portate a Barcellona dopo lo scalo a Genova, per imbarcarvi truppe.
Quindi, dovevano avere già a bordo gran parte delle bocche da fuoco
prodotte dai fonditori genovesi, in quanto queste erano state consegnate
prima del 28 Maggio; essendo però stati scartati al collaudo un Can-
none, due Sagri e un certo numero di pezzi minori, con l’obbligo con-
seguente per i produttori di rifonderli a loro spese, l’intera commessa
fu completata intorno a metà Luglio29, giusto in tempo per l’arrivo di
Don Juan.
Analizzando e interpretando i dati pubblicati al proposito, i pezzi
prodotti per ogni galea possono essere così sintetizzati:
• n. 1 Mezzo Cannone di corsia da 25 libbre di palla, lungo cm 300,
pesante Kg 1800;
• n. 2 Sagri corti (sacres) da ? libbre, lunghi cm 210, pesanti Kg 400
(più probabili 600);
• n. 2 Petrieri medi (pedreros) da 12 libbre, lunghi cm 160, pesanti Kg
625;
• n. 4 Smerigli da piombo (esmeriles) da 1 libbra, lunghi cm 130, pe-
santi Kg 115;

27
ASGe, Camera di Governo e Finanza, Atti non spediti, f. 457, senza data
(1587).
28
A. Barbero, Lepanto, cit., pp. 432-434.
29
R. Vargas-Hidalgo, Guerra y diplomacia, cit, pp. 732, 740.

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• n. 4 Smerigli petrieri (buzacos) da 3 libbre, lunghi cm ? , pesanti Kg


100 c.a;
quindi un totale di 130 bocche da fuoco, tra grandi e piccole, per un
peso complessivo di 51 tonnellate di bronzo. Le quattro artiglierie for-
nite da Dorino II Gioardi, verosimilmente pezzi di corsia, pesando
complessivamente circa 7200 chilogrammi vengono a rappresentare
un settimo dell’intera fornitura e questa quota si attaglia perfettamente
al numero di titolari di fonderia allora operanti in Genova; sappiamo
infatti che l’anno seguente Alessandro, Dorino II, Gregorio II e Stefano
Gioardi, Giacomo Merello, Gio. Battista Gandolfo e Bartolomeo Som-
mariva si erano consorziati in una società di produzione che prevedeva
una ripartizione egualitaria all’interno di una commessa30. Tale ripar-
tizione si riferisce, non al numero di pezzi da produrre ma al peso di
bronzo risultante dalle artiglierie finite, dato che il compenso dei fon-
ditori era commisurato a questa grandezza31.
Per concludere, il dato che emerge da questa fornitura è che in
campo spagnolo le galee di nuova costruzione vengono armate più pe-
santemente rispetto agli anni precedenti: i pezzi principali passano in-
fatti da tre a cinque e anche gli Smerigli aumentano di numero pas-
sando da due a otto. Dal punto di vista quantitativo, ricaviamo poi che
gli equipaggiamenti di artiglieria di origine genovese impiegati nella
battaglia di Lepanto assommavano a 41 complessi, con oltre 200 boc-
che da fuoco principali e 140-150 Smerigli di vario genere, per un
peso totale di circa 180 tonnellate di bronzo e il cui costo doveva as-
sommare a oltre 40.000 Scudi d’oro d’Italia.

30
R.G. Ridella, Fonditori italiani di artiglierie, cit.
31
Secondo il documento citato in G. Fenicia, Il Regno di Napoli, cit. p. 136
(Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1059/78-80), gli Spagnoli paga-
rono le artiglierie prodotte a Genova per le galee napoletane 12 scudi a Cantaro
genovese (Kg 47,649); un prezzo, equivalente a circa 50 Lire di conto, abba-
stanza vantaggioso rispetto a quello praticato in quegli anni dai fonditori locali
agli armatori marittimi privati, che si aggirava sulle 60 Lire (ASGe, Notai An-
tichi, f. 1873, notaio Pantaleone Lomellino Fazio, 26.VIII.1569).

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Sembrerebbe anche, alla luce a quanto pubblicato da Antonino Palaz-


zolo, che le altre galee meno equipaggiate conoscessero, in preparazione
alla battaglia, un simile incremento nella potenza di fuoco ricevendo al-
cuni pezzi aggiuntivi. Ne traiamo infatti notizia che alcune di esse, mentre
si trovavano nel porto di concentramento della flotta a Messina nell’Aprile
1571, ricevettero da due a quattro “mortaretti” con i rispettivi proiettili in
pietra; questo dato e il peso individuale di tali pezzi, che si aggirava in-
torno ai 6 Cantara di Sicilia (circa 480 chilogrammi), ci indicano che si
trattava anche qui di Petrieri medi; inoltre, altre galee ricevettero, insieme
a proiettili in ferro per Cannoni e Sagri, anche palle di pietra, segno che
esse erano già dotate con quel tipo di artiglierie. In particolare, per quanto
riguarda le galee genovesi, Giorgio Grimaldi riceve due mortaretti con le
rispettive munizioni in pietra e a Gio. Ambrogio Negroni vengono asse-
gnati proiettili di questo tipo per il “cannone petrero”32 .
I dati sopra esposti, sono secondo me abbastanza chiarificatori sui
motivi della disparità nella dotazione di bocche da fuoco tra le galee
veneziane e quelle ponentine: queste ultime, spagnole, genovesi, to-
scane e pontificie, si trovavano infatti normalmente a confrontarsi, nel
Mediterraneo occidentale, con le veloci ma poco armate fuste o galeotte
degli stati barbareschi nordafricani. È quindi naturale che in esse si pri-
vilegiasse la velocità di manovra rispetto alla potenza di fuoco, alleg-
gerendone l’equipaggiamento d’artiglieria33; in questo teatro, salvo che
nelle grosse operazioni di sbarco ed invasione da parte degli Spagnoli,
come quelle di Tunisi nel 1535 e di Mahdia nel 1550, la guerra tra galee
era una continua rincorsa tra le flottiglie di inseguitori e chi fuggiva,

32
A. Palazzolo, Carlo Aragona e la difesa del Regno di Sicilia nell’età di Fi-
lippo II (1573-1574), in A. G. Marchese (a cura di) Manierismo Siciliano, Atti
del Convegno Giuliana 18-20 ottobre 2004, Palermo, 2010, pp. 255-256, n.
5. L’Autore mi ha informato che queste notizie forniscono solo un piccolo in-
dizio di quanto si verificò globalmente, in quanto i Registri di Tesoreria della
Corte Viceregia di Palermo, che dovevano contenere tutte le relative scritture,
sono andati persi nel bombardamento dell’Archivio di Stato di questa città
durante la Seconda Guerra Mondiale.
33
N. Capponi, Victory of the West, cit., pp. 185-186.

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generalmente perché si trovava in inferiorità numerica. Un buon co-


mandante, di entrambe le parti, non accettava infatti il combattimento,
se non si trovava in condizione di soverchiare numericamente le im-
barcazioni avversarie: lo scontro alla pari presentava infatti un rischio
di sconfitta, che né i responsabili militari né i proprietari di galee pri-
vate erano disposti a correre. Per fare un esempio di ciò, ricordiamo la
sfortunata vicenda del capitano genovese Visconte Gigala che, al co-
mando di una galea e di una galeotta, nel 1561 si era scontrato con tre
galeotte barbaresche di Uluç Alì presso l’isola di Marettimo (Egadi)34;
a causa della poca propensione a combattere del suo equipaggio aveva
infatti perso le navi e la libertà assieme al figlio Scipione, passato poi
al nemico e alla storia con il nome di Sinan Kapudan Pascià35.
Dall’altra parte invece, le galee veneziane dovevano continuamente
vedersela con quelle turche nel Mar Egeo ed è quindi naturale che cer-
cassero di superarle pure nella potenza di fuoco esprimibile da ogni
singola unità, anche alla luce della loro relativa scarsità in fanterie im-
barcate, di cui abbiamo già accennato.
Le notizie riguardanti la fornitura di artiglierie genovesi per le galee
di Napoli, ci indicano anche che in ambito spagnolo, la tipologia del
pezzo di corsia si stava da qualche tempo orientando verso il Mezzo Can-
none da 25 libbre (Fig. 13), in sostituzione del Cannone da 50 e questa
tendenza è confermata pure da altri documenti di fonte siciliana messi
in luce da Palazzolo36. Tale mutazione dovette essere determinata dalla
maggiore gittata e rapidità di ricaricamento di queste bocche da fuoco di

34
V. BORGHESI (a cura di), Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta
da lui medesimo incompleta, Genova, 1997, pp. 153-155.
35
Scipione Cigala non era un semplice marinaio e non si era affatto arreso
senza combattere, anzi aveva ucciso di suo pugno due suoi uomini che si vo-
levano sottrarre allo scontro.
36
A. Palazzolo, Carlo Aragona, cit., p. 255, n. 4. Il dato si riferisce al luglio
1572, ma la data di produzione dei pezzi è senz’altro precedente; il peso uni-
tario dei pezzi corsieri citati si aggira sui 28,5 Cantara di Palermo pari a circa
2250 chilogrammi, vicino a quello del Mezzo Cannone siciliano del 1553 pre-
sentato in figura 13 (Kg 2350).

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minor calibro (135 millimetri rispetto a 170). Anche in ambito genovese


si avverte un simile cambiamento con l’introduzione dei primi pezzi di
questo tipo nella versione di medio peso; innovazione che troverà com-
pimento soltanto negli anni Novanta del XVI secolo e che sarà caratte-
rizzata anche dalla comparsa del più pesante Mezzo Cannone rinforzato,
destinato ad armare le galee di Genova fino al Settecento (Fig. 14).
In conclusione dobbiamo anche ricordare che la presenza nell’evento
di Lepanto di bocche da fuoco prodotte a Genova, non si limitò soltanto
a quelle effettivamente impiegate in combattimento dalle galee, ma
comprendeva anche quelle imbarcate su molte della 24 navi a vela da
carico, genovesi, spagnole e ragusee, oltre alle veneziane, che, prese a
noleggio, assicuravano il supporto logistico alla flotta da battaglia; in
caso di ritirata da parte di quest’ultima esse si sarebbero sicuramente
trovate sotto attacco e obbligate a difendersi con le loro artiglierie. Oltre
ai pezzi di calibro medio e piccolo presenti anche sulle galee, come i
Sagri, i Falconi, i Petrieri e gli Smerigli, in quel periodo i velieri mer-
cantili schieravano come bocche da fuoco maggiori le Mezze Colubrine
bastarde da 12-15 libbre (Kg 3,800-4,800); queste artiglierie di bronzo
pesavano intorno ai 1200 chilogrammi, erano lunghe intorno ai due
metri e mezzo ed avevano un calibro di 110-115 millimetri (Fig. 15).
La presenza di cannoni prodotti a Genova anche su navi da trasporto
spagnole e ragusee, ci viene confermata non solo dalle risultanze d’ar-
chivio37 ma pure dai rinvenimenti operati dagli archeologi subacquei

37
Nel 1535 Luchino II Gioardi, aveva fornito due Sagri da circa 12 cantari,
per la dotazione della nave Santa Maria de bisogno (del Bisssone) del capitano
Pedro Gilet di Maiorca (ASGe, Notai Antichi, f. 1739, Notaio Bernardo Uso-
dimare Granello, 22.V.1535). Suo figlio Dorino nel 1577 fonde un certo nu-
mero di pezzi per il raguseo Nicolò Alegretti, patrono della nave Santa Maria
della Grazia (ASGe, Notai Antichi, f. 3147, notaio Domenico Tinello,
20.VII.1577). Infine nel 1581 Gregorio II Gioardi vende due Petrieri medi e
due Smerigli da piombo per rinforzare la dotazione della nave ragusea Santa
Maria Maddalena [PAD (Povijesni Arhiv u Dubrovniku), Libro delle spese
della nave Santa Maria Maddalena, 1.VII.1581].

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in relitti di questo periodo: mi limito qui a citare il Sagro e i due Petrieri


(Fig. 16) recuperati dalla nave barcellonese Juliana38, naufragata sulle
coste irlandesi nel settembre del 1588 e i pezzi di queste due categorie
trovati in acque croate e appartenenti con molta probabilità a imbarca-
zioni di Ragusa di Dalmazia, l’odierna Dubrovnik39.

38
McElvogue, D.M. A description and appraisal of ordnance from three Spa-
nish Armada transports c 1588, in “Journal of the Ordnance Society”, 14,
2002, pp. 31-50; R.G. Ridella, Dorino II Gioardi: A 16th century Genoese
gunfounder, in “Journal of the Ordnance Society”, 16, 2004, pp. 27-41.
39
Si tratta di due Petrieri medi (vedi fig. 11) rinvenuti presso l’isolotto di Gre-
beni (Isola di Lissa) e di un Sagro (vedi fig. 4) e alcuni Petrieri frammentari
recuperati di fronte alla spiaggia di Brsecine, vicino a Dubrovnik: cfr. R.G.
Ridella, Bronze cannons of Genoese manufacture from the Croatian seas.
Identification and dating methods of the pieces of ordnance recovered from
wrecks, in Ars Nautica, Atti del Convegno Dubrovnik 7-9 settembre 2009,
c.d.s.

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ARTICOLAZIONE E CLASSIFICAZIONE DELLE ARTIGLIERIE


IN ITALIA E NELL’EUROPA MEDITERRANEA NEL XVI SECOLO

Passata l’era delle bombarde, con la rivoluzione tecnologica e operativa di fine Quat-
trocento si iniziarono a produrre bocche da fuoco in bronzo, diversificate e specializzate
per i particolari compiti cui dovevano assolvere: dai pezzi pesanti da batteria per aprire
brecce nelle fortificazioni nemiche, scendendo fino a quelli più maneggevoli da utilizzare
nelle battaglie in campo aperto. A Genova e in quasi tutta Italia si adottò la classificazione,
poi pubblicata nel 1540 nel trattato del Biringuccio De la Pirotechnia, secondo la quale il
pezzo immediatamente inferiore portava un proiettile pesante la metà di quello utilizzato
dal maggiore, facendo precedere il nome del pezzo dagli attributi Mezzo, Quarto (es. Can-
none da 60 libbre, Mezzo Cannone da 30, Quarto di Cannone da 15 ecc.). A Venezia si pre-
ferì invece basare il riconoscimento dei pezzi, all’interno delle categorie generali (Cannoni
e Colubrine), sulla semplice definizione delle libbre di palla che essi impiegavano; i pezzi
dalle 12 libbre in giù, utilizzavano in realtà una palla di ferro pesante un terzo in meno di
quanto indicato (misura in neretto tra parentesi), poiché la loro designazione riguardava
il proiettile di piombo, impiegato unicamente durante il loro collaudo.
In ambito europeo la Spagna, sicuramente per influsso dei suoi vasti domini e interessi
nella penisola, mutuò il sistema italiano, così come l’Inghilterra, mentre la Francia con-
seguì già prima della metà del secolo un suo ordinamento, sicuramente molto razionale,

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che riduceva il numero dei pezzi principali in organico a soli cinque (Calibres de France).
Questi sistemi durarono con qualche variazione, fino ai primi decenni del Settecento,
quando si ridussero in generale le lunghezze delle bocche da fuoco, abbandonando il ter-
mine di Colubrina, e si definirono i pezzi unicamente con il nome di Cannone seguito dal
numero delle libbre di palla (es. Cannone da 24, Cannone da 12 ecc.).

Le misure dei calibri e delle lunghezze sono state desunte dalla documentazione d’ar-
chivio, dai trattati d’epoca e dalle rilevazioni sui pezzi giunti fino ai nostri tempi; quelle
dei calibri sono arrotondate per eccesso ai 5 o 10 millimetri superiori, quelle delle lun-
ghezze ai 10 centimetri. I dati mancanti sono stati ricavati con calcoli volumetrico/pon-
derali e per interpolazione. L'apparente squilibrio delle portate di palla tra i pezzi italiani
e quelli Spagnoli e Francesi è dovuto al fatto che le libbre sottili di Venezia (g 301,22) e
quelle di Genova (g 317,66) erano composte da 12 once, mentre le spagnole (g 460) e le
francesi (g 489,11) erano invece composte da 16.
Marco Morin – Renato Gianni Ridella

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Fig. 1 - Pezzi prodotti da fonditori genovesi per le mura di Palermo nel 1575-’76.
In alto: Sagro fuso da Dorino II Gioardi, ora nel Castillo de la Mota a San
Sebastian in Spagna (Foto: José Manuel Matés Luque).
In basso: Mezza Colubrina extraordinaria, gettata probabilmente da Gregorio
II Gioardi, conservata nel Museo del Ejercito a Madrid (Foto: Museo)

Fig. 2 - Posizionamento delle artiglierie a bordo di una galea


(Disegno: da Konstam & Bryan 2002)

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Fig. 3 - Disegno ricostruttivo dell’artiglieria che equipaggiava la galea Capi-


tana della Repubblica di Genova, al momento della sua vendita al Duca di To-
scana nel luglio del 1560 (da Ridella 2011). Le galee ordinarie non portavano i
due Falconetti

Fig. 4 - Sagro navale prodotto dal fonditore genovese Gio. Battista Gandolfo
nell’ultimo ventennio del XVI secolo. È stato recuperato nel Mare Adriatico a
Brsecine presso Dubrovnik (Croazia), l’antica Ragusa di Dalmazia
(Foto: Renata Andjus)

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Fig. 5 - Disegno dell’affusto in legno a slitta che sosteneva il cannone di corsia,


in un trattato d’epoca (da Sardi 1621)

Fig. 6 - Falconetto genovese a sezione ottagonale di primo Cinquecento


rinvenuto nel mare di Favignana (Isole Egadi - TP), in località Lido Burrone.
La marca di peso Cantara 6 - Rotoli 74 corrisponde a Kg 321
(Foto: Antonino Palazzolo)

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Fig. 7 - Falcone navale prodotto intorno al 1555


dai fonditori genovesi Battista Merello ( 1510 c.a - 1564)
e Dorino II Gioardi (1518 c.a - 1587),
rinvenuto nel Relitto di Sciacca (Foto: Lillo Santangelo)

Fig. 8 - Diversi tipi di Smerigli a retrocarica del XVI secolo:


a) Smeriglio da piombo in bronzo, mancante del mascolo, conservato nel Museo
Nazionale d’Artiglieria a Torino (Foto: Autore);
b) Smeriglio da piombo in ferro fucinato, completo di mascolo e forcella,
rinvenuto nel relitto di Sciacca
(Foto: Riccardo Mancinelli);
c) Smeriglio petriere in
bronzo con mascolo, di
produzione genovese,
rinvenuto a Carloforte
(Sardegna); si trova ora nel
Museo della Guerra di
Rovereto (TN) (Foto: Museo).
d) Riproduzione con le vedute
della forcella di brandeggio di
uno Smeriglio (da Martin &
Parker 1988)

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Fig. 9 - Ricostruzione grafica dell’artiglieria a bordo della galea Donzella, di


proprietà di Gio. Andrea Doria, nei primi anni Ottanta del XVI secolo; molto
probabilmente la stessa impiegata nella battaglia di Lepanto (da Ridella 2011)

Fig. 10 - Coppia di Petrieri leggeri (ultimi decenni XVI secolo?), rivenuti in


mare all’esterno del Molo Vecchio a Genova nel 1907, attualmente esposti nel
Museo del Mare “Galata”(Foto: Autore)

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Fig. 11 - In alto: coppia di Petrieri medi genovesi, gettati dal fonditore


Francesco Sommariva nell’ultimo decennio del XVI secolo, recuperati da un
relitto presso l’isolotto di Grebeni (Isola di Lissa, Croazia).
In basso: schizzo con la composizione della carica di un Petriere
(Foto: Boris Cargo - Disegno: Autore).

Fig. 12 - Una delle bombarde in ferro fucinato recuperate dal relitto del veliero
mercantile genovese “Lomellina”, naufragato nel settembre del 1516 nella rada
di Villafranca presso Nizza (da Guérout et al. 1989)

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Fig. 13 - Mezzo Cannone da galea prodotto a Palermo dal fonditore Federico


Musarra nel 1553. Si trova ora nell’Askeri Müzesi a Istanbul
(Foto: Carlo Beltrame)

Fig. 14 - Mezzi
Cannoni
genovesi
cinquecenteschi
da galea.
In alto: pezzo
comune gettato
intorno al 1560,
attualmente
esposto
nell’Askeri
Müzesi
a Istanbul
Foto: Kahraman
Sakul).
In basso: pezzo
rinforzato
prodotto da Francesco Sommariva nell’ultimo decennio del XVI secolo,
conservato nel Museo del Ejercito a Madrid (Foto: Museo)

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Fig. 15 - Esempi di Mezze Colubrine bastarde navali, di produzione genovese.


In alto: pezzo gettato da Bartolomeo Sommariva intorno al 1565, recuperato in
mare di fronte a San Leone (costa agrigentina - Sicilia), si trova esposto nel
parco della Valle dei Templi (Foto: Alessandra Nobili).
In basso: pezzo databile ai primi anni Sessanta del XVI secolo, conservato
nell’Askeri Müzesi a Istanbul (Foto: Ruth Brown & Robert Smith)

Fig. 16 - Due bocche da fuoco


in bronzo – a sinistra un
Sagro pesante e a destra un
Petriere medio – prodotte dal
fonditore genovese Dorino II
Gioardi nel 1570, recuperate
dal relitto della nave
barcellonese Juliana,
naufragata sulla costa
occidentale dell’Irlanda
nel settembre del 1588
(Foto: Jim Stapleton –
Disegni: da McElvogue 2002)

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