Possibile che un uomo accorto, avveduto e diligente impazzisca, tutt’a un tratto, per un semplice fischio di treno? Tutt’altro, anzi: è naturalissimo. Con il fare quasi investigativo dello psicanalista, Pirandello affronta nella sua novella più famosa un caso studio solo all’apparenza complicato, ma che è in realtà persino troppo logico perché davvero di pazzia si possa parlare. Il signor Belluca, casellario ambulante, era sempre stato un gran lavoratore, rispettoso ai limiti del servilismo: più bestia che uomo, egli è un somaro, sempre pronto a lavorare coi paraocchi attorno al muso, che tutti provocano con la bieca curiosità di chi vuol vedere se mai l’animale avrà il coraggio di ribellarsi. Eppure: principio di febbre cerebrale, dicono i dottori, non appena giunge per Belluca il momento della rivalsa morale, della pazzia reazionaria al folle razionalismo di una vita impossibile. Il narratore, suo vicino di casa, dopo averci presentato la malattia procede a ritroso, descrivendone i sintomi e ricercandone l’eziologia. La sera prima del momento della narrazione, il signor Belluca ha sentito un treno fischiare dal suo piccolo appartamento; il giorno dopo, al lavoro, già arrivato con mezz’ora di ritardo, aveva passato la giornata a non far nulla. Ai giusti rimproveri del capoufficio rispondeva, con sorriso sfrontato: il treno ha fischiato; sicché, giustamente, era stato malmenato e legato, pronto per esser spedito al manicomio. Afferma di essere andato in Congo, in Siberia; di aver viaggiato col treno. Si fa in un attimo, signor Cavaliere! C’è poco, tuttavia, di che meravigliarsi: circoscritto nel grigiore alienante del suo ufficio, lo aspetta saldamente l’angustia del modesto appartamento in cui vive con tre donne cieche (moglie, suocera e sorella della suocera) perennemente bisognose di un aiuto che né le due figlie vedove, né i loro sette figli hanno interesse a dare. A sfamare una famiglia tanto grande c’è solo il suo lavoro: tant’è che ha dovuto trovarne un altro, da fare a casa, di sera, tra i litigi e gli schiamazzi di donne e bambini finché essi, dodici quanti sono, vanno a dormire nei soli tre letti della casa, lasciando finalmente il signor Belluca alla sua misera occupazione di copista. Il fischio del treno è stato un naturalissimo richiamo al mondo: la pazzia del Belluca è un esito così lineare da non essere, affatto, folle. La sua non è, per il narratore, nient’altro che un’ “assennata ebrezza”, quale è quella di un bambino appena nato che s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutto intorno. La coda di un mostro, scrive Pirandello: il fatto è inspiegabile se non lo si cala nel suo contesto, nella sua propria realtà, nella quale solo assume un senso. Così si realizza, tramite la figura del narratore, il relativismo pirandelliano, che da premesse tutte filosofiche giunge a una manifestazione letteraria nella pluralità dei punti di vista. All’Ipotesi del narratore, contro la diagnosi dei medici, è portato a credere il lettore, a cui sono naturalmente invise la rabbia del capoufficio da un lato, che liquida l’insolito atteggiamento del Belluca come pigrizia, e l’indifferenza dei suoi colleghi dall’altro, che solo paiono compiacersi del pettegolezzo e della loro capacità di attenersi – non importa quanto sinceramente – alle buone norme sociali, allorquando fanno visita al pover’uomo. Anche in questo (non solo nel dilemma se si tratti o no di vera pazzia) prende vita il contrasto tra vita e forma: l’una impenetrabile, laddove l’altra dà troppo comodamente un’apparenza di verità. Come s’è detto, appunto, il lettore è dolcemente sospinto verso la forma del narratore. Il quale – si badi bene – necessariamente modifica i fatti (la sua versione non è meno autorevole, a rigor di logica, da quella dei colleghi o del capoufficio, che pure egli stesso si premura di citare); ma li modifica pur sempre in buona fede, cercando di approfondire la questione, dove può, con l’obiettività che le circostanze e la sua stessa natura gli concedono. Così, per esempio, le previsioni del vicino sul futuro di Belluca sono esposte con tanta fermezza da parere una prolessi: riuscirà a domare quella che nulla è se non una rinata immaginazione, e dopo la “sbornia” iniziale riuscirà a conciliare tale nuova scoperta con la vita di tutti i giorni, così facendosi schermo da un altrimenti inevitabile collasso… Pazzia, dunque, solo a patto che così si definisca un modo come un altro, pur sempre con una sua propria coerenza, di vedere il mondo. Il riso ubriaco della frustrazione e del nervosismo sull’orlo del baratro la contraddistingue: in questo senso tragicomico, il signor Belluca è l’emblema assoluto della molle e leggera inquietudine che l’umorismo pirandelliano, pur sempre comico, tanto spesso sottende.