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Simone Galluccio IIIA 10/03/2020

L. Pirandello, “Il treno ha fischiato” – analisi


Possibile che un uomo accorto, avveduto e diligente impazzisca, tutt’a un tratto, per un semplice
fischio di treno? Tutt’altro, anzi: è naturalissimo. Con il fare quasi investigativo dello psicanalista,
Pirandello affronta nella sua novella più famosa un caso studio solo all’apparenza complicato, ma
che è in realtà persino troppo logico perché davvero di pazzia si possa parlare. Il signor Belluca,
casellario ambulante, era sempre stato un gran lavoratore, rispettoso ai limiti del servilismo: più
bestia che uomo, egli è un somaro, sempre pronto a lavorare coi paraocchi attorno al muso, che
tutti provocano con la bieca curiosità di chi vuol vedere se mai l’animale avrà il coraggio di
ribellarsi. Eppure: principio di febbre cerebrale, dicono i dottori, non appena giunge per Belluca il
momento della rivalsa morale, della pazzia reazionaria al folle razionalismo di una vita impossibile.
Il narratore, suo vicino di casa, dopo averci presentato la malattia procede a ritroso,
descrivendone i sintomi e ricercandone l’eziologia.
La sera prima del momento della narrazione, il signor Belluca ha sentito un treno fischiare dal suo
piccolo appartamento; il giorno dopo, al lavoro, già arrivato con mezz’ora di ritardo, aveva passato
la giornata a non far nulla. Ai giusti rimproveri del capoufficio rispondeva, con sorriso sfrontato: il
treno ha fischiato; sicché, giustamente, era stato malmenato e legato, pronto per esser spedito al
manicomio. Afferma di essere andato in Congo, in Siberia; di aver viaggiato col treno. Si fa in un
attimo, signor Cavaliere! C’è poco, tuttavia, di che meravigliarsi: circoscritto nel grigiore alienante
del suo ufficio, lo aspetta saldamente l’angustia del modesto appartamento in cui vive con tre
donne cieche (moglie, suocera e sorella della suocera) perennemente bisognose di un aiuto che né
le due figlie vedove, né i loro sette figli hanno interesse a dare. A sfamare una famiglia tanto
grande c’è solo il suo lavoro: tant’è che ha dovuto trovarne un altro, da fare a casa, di sera, tra i
litigi e gli schiamazzi di donne e bambini finché essi, dodici quanti sono, vanno a dormire nei soli
tre letti della casa, lasciando finalmente il signor Belluca alla sua misera occupazione di copista.
Il fischio del treno è stato un naturalissimo richiamo al mondo: la pazzia del Belluca è un esito così
lineare da non essere, affatto, folle. La sua non è, per il narratore, nient’altro che un’ “assennata
ebrezza”, quale è quella di un bambino appena nato che s’era ritrovato a spaziare anelante nel
vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutto intorno. La coda di un mostro, scrive
Pirandello: il fatto è inspiegabile se non lo si cala nel suo contesto, nella sua propria realtà, nella
quale solo assume un senso. Così si realizza, tramite la figura del narratore, il relativismo
pirandelliano, che da premesse tutte filosofiche giunge a una manifestazione letteraria nella
pluralità dei punti di vista. All’Ipotesi del narratore, contro la diagnosi dei medici, è portato a
credere il lettore, a cui sono naturalmente invise la rabbia del capoufficio da un lato, che liquida
l’insolito atteggiamento del Belluca come pigrizia, e l’indifferenza dei suoi colleghi dall’altro, che
solo paiono compiacersi del pettegolezzo e della loro capacità di attenersi – non importa quanto
sinceramente – alle buone norme sociali, allorquando fanno visita al pover’uomo. Anche in questo
(non solo nel dilemma se si tratti o no di vera pazzia) prende vita il contrasto tra vita e forma: l’una
impenetrabile, laddove l’altra dà troppo comodamente un’apparenza di verità. Come s’è detto,
appunto, il lettore è dolcemente sospinto verso la forma del narratore. Il quale – si badi bene –
necessariamente modifica i fatti (la sua versione non è meno autorevole, a rigor di logica, da quella
dei colleghi o del capoufficio, che pure egli stesso si premura di citare); ma li modifica pur sempre
in buona fede, cercando di approfondire la questione, dove può, con l’obiettività che le circostanze
e la sua stessa natura gli concedono. Così, per esempio, le previsioni del vicino sul futuro di Belluca
sono esposte con tanta fermezza da parere una prolessi: riuscirà a domare quella che nulla è se
non una rinata immaginazione, e dopo la “sbornia” iniziale riuscirà a conciliare tale nuova scoperta
con la vita di tutti i giorni, così facendosi schermo da un altrimenti inevitabile collasso…
Pazzia, dunque, solo a patto che così si definisca un modo come un altro, pur sempre con una sua
propria coerenza, di vedere il mondo. Il riso ubriaco della frustrazione e del nervosismo sull’orlo
del baratro la contraddistingue: in questo senso tragicomico, il signor Belluca è l’emblema assoluto
della molle e leggera inquietudine che l’umorismo pirandelliano, pur sempre comico, tanto spesso
sottende.

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