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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Studi Umanistici


Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche
(Classe LM-78)

GALILEO GALILEI E IL TEMA


COSMOGONICO DELLA CREAZIONE DEL MONDO

Relatore:
Chiar.mo Prof. Elio NENCI
Correlatore:
Chiar.mo Prof. Luca BIANCHI

Tesi di Laurea di:


Ivan Giuseppe MALARA
Matr. n. 865521

Anno Accademico 2015-2016


INDICE

INTRODUZIONE 3

I. L’ORIGINE DEL MONDO NELLA TRACTATIO PRIMA DE MUNDO 5


I.1 Premessa. Il manoscritto 46 e la Tractatio prima de mundo 5
I.2 «De Platone, quid senserit dubium est inter philosophos». Esposizione e critica
dell’opinione degli «antichi filosofi» sull’origine del mondo 9
I.3 Cosmogonia platonica e concezione cristiana di Creazione: due diverse
interpretazioni. Un breve confronto tra il De communibus di Perera e la Tractatio
prima de mundo 14
I.4 Il «primum ens» e la creazione del mondo «secundum veritatem» 30
I.5 Alcune ipotesi sul Ms. 46: fonti e datazione 34

II. IL TEMA COSMOGONICO NEI DE MOTU ANTIQUIORA 44


II.1 Premessa. I De motu antiquiora fra scienza e teologia 44
II.2 Corpi pesanti e leggeri, corpi celesti e corpi in equilibrio. I De motu
antiquiora nel solco della controversia de motu elementorum 49
II.3 Perché la Terra è al centro del mondo? 59
II.4 «Contra Platonem, et Hermetem Trismegistum, qui Chaos illud antiquum
finxerunt». La critica di Borri al mito del caos primigenio 70
II.5 La cosmogonia dei De motu antiquiora: mito o ‘storia’ dell’origine del
mondo? 76
II.6 La creazione del mondo nelle Metamorfosi di Ovidio e nelle Trasformationi di
Lodovico Dolce: spunti poetici e iconografici per la cosmogonia dei De motu
antiquiora? 81

1
III. LA COSMOGONIA DOPO LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVI 92
III.1 Dalla legge di caduta alla caduta dei pianeti 92
III.1.2 I calcoli cosmogonici contenuti nel Ms. 72 98
III.1.3 Dall’utilizzo dei dati di Keplero al rifiuto dell’orbita ellittica. Sul ruolo
dei dati astronomici nei calcoli cosmogonici di Galileo 105
III.1.4 Brevi considerazioni sulla ricorrenza del tema cosmogonico
in Galileo 110
III. 2 La virtù motrice del Sole nell’esegesi galileiana di Giosuè 10, 12-13 (e nel
Dialogo?) 111
III.3 Galileo e la cosmogonia platonica 134

CONCLUSIONI 143

BIBLIOGRAFIA 147

RINGRAZIAMENTI 158

TAVOLA DELLE COLLAZIONI

Coll.1: De communibus, XV.5, p. 495B-C / Iuv. C4 15-16

Coll.2: De communibus, XV.5, p. 496A / Iuv. C4 17

Coll.3: De communibus, XV.5, p. 497A / Iuv. C4 18

Coll.4: Contra Proclum VI.27, 211.5-212.2 / De communibus, XV.5, p. 495B 20-21

Coll.5: Comm. Phys. [l. VIII, cc. I-II, q. III, a. I], p. 716 / Iuv. C4 39-40

Coll.6: In sacram Iosue historiam, p. 338 / Lettera a Cristina, OG, V, p. 337 118

2
INTRODUZIONE

L’oggetto di studio del presente lavoro riguarda principalmente il tema della co-
smogonia in Galileo Galilei. L’obiettivo è tentare di comprendere in parte il ruolo che
questo tema svolge all’interno dell’opera galileiana, in parte i motivi che spinsero Ga-
lileo a riflettere sulla creazione divina del mondo. A tal fine, si è deciso di impostare
l’indagine partendo da alcuni testi specifici di Galileo in cui il tema cosmogonico è
discusso e trattato, cercando poi di contestualizzarli cogliendone e approfondendone
alcuni richiami impliciti o espliciti ad altre opere. In questo modo, si è tentato allo
stesso tempo di lasciare emergere sullo sfondo un pur sempre aleatorio quadro storico
all’interno del quale la questione dell’origine divina dell’universo potesse finalmente
riacquisire, almeno in parte, quel senso e forse anche quell’importanza scientifica oggi
andati perduti. Questa impostazione ha dato inoltre spazio alla discussione di temi col-
laterali, certamente secondari nella presente tesi, ma molto interessanti a livello sto-
riografico.
Nella prima parte di tesi, per esempio, l’esame di alcuni passi del Ms. Gal. 46, in
cui è discussa l’opinione degli antichi filosofi sulla creazione del mondo, ha permesso
di toccare anche un punto su cui non vi è ancora accordo fra gli studiosi del pensiero
galileiano, quello cioè riguardante le fonti e la datazione da attribuire a tale mano-
scritto. Allo stesso modo nella seconda parte, là dove si è cercato invece di meglio
comprendere il significato filosofico e scientifico della cosmogonia presente in una
serie di manoscritti galileiani sul moto, ai quali solitamente ci si riferisce col titolo di
De motu antiquiora, sono state individuate alcune narrazioni da cui Galileo avrebbe
potuto trarre spunto per redigere quello che si potrebbe considerare il suo primo rac-
conto cosmogonico. Breve spazio è stato dato anche al dibattito pisano della seconda
metà del Cinquecento sul moto degli elementi. Infine, nella terza parte, oltre a ricor-
dare la cosmogonia ‘platonica’ esposta nel Dialogo e nei Discorsi, e a prendere in
considerazione i calcoli cosmogonici condotti da Galileo e conservatisi in alcune carte
del Ms. 72, altri temi sono stati toccati, come l’avversione dello scienziato pisano nei

3
confronti dell’orbita ellittica, il ricorso alla virtù motrice del Sole nelle Lettere coper-
nicane e nel Dialogo, la possibilità o meno di giustificare il resoconto galileiano della
cosmogonia platonica mettendolo a confronto con altre interpretazioni di alcuni passi
del Timeo.
Tutto ciò è servito a chiarire ulteriormente alcuni aspetti della ricerca. Ricerca che
inizialmente era stata impostata nella convinzione di poter approfondire certi ‘motivi’
platonici della filosofia galileiana, ma che alla fine ha portato invece da tutt’altra parte,
cioè verso la considerazione di questioni che trovano origine nei libri di Aristotele, in
particolare nell’ottavo della Fisica e, in parte, nel primo del De caelo.
Se è vero che Galileo ha dato un enorme contribuito allo sviluppo della meccanica
classica e della scienza moderna, essendo in un certo senso il ‘padre’ fondatore di
quest’ultima, non va comunque dimenticato che egli recepiva ancora, e inevitabil-
mente, i dubbi e le questioni sollevati da un dibattito scientifico basato in primo luogo
sullo spoglio e la comprensione quanto più possibile coerente dell’opera aristotelica.
Detto questo, ovviamente non si tratta, come invece è stato fatto in passato, di livellare
le novità della scienza galileiana facendole derivare, per esempio, dalla filosofia natu-
rale dei pensatori medievali parigini o da quella dei gesuiti. Si tratta invece di com-
prendere che Galileo, in alcuni casi, pur accogliendo questioni sorte in seno all’aristo-
telismo accademico, ha poi proposto soluzioni che nulla avevano di aristotelico. In
questo senso, la presente tesi intende far notare che anche il tema cosmogonico preso
in considerazione da Galileo potrebbe essere pensato come parte integrante di un di-
battito tardorinascimentale non solo filosofico e teologico, ma anche e soprattutto
‘scientifico’, riguardante cioè quella che un tempo veniva chiamata «filosofia natu-
rale», e che oggi chiameremmo «fisica».

4
I. L’ORIGINE DEL MONDO NELLA TRACTATIO PRIMA DE MUNDO

I.1 Premessa. Il manoscritto 46 e la Tractatio prima de mundo

Due manoscritti a noi pervenuti, conservati nel Fondo Galileiano della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze e corrispondenti ai codici 27 e 46, sembrano restituirci
la testimonianza dello zelo con cui Galileo si dedicò allo studio della filosofia naturale
di tradizione aristotelico-scolastica1. Per chi si appresta ad analizzare le riflessioni ga-
lileiane sul tema della creazione dell’universo, di particolare interesse risulta una parte
del Ms. 46 intitolata Tractatio prima de mundo, in cui vengono proposte, aderendo a
un modello tipicamente scolastico, alcune quaestiones, due delle quali relative all’ori-
gine del mondo2. Prendendo in considerazione alcune parti di tali quaestiones, tenterò
nelle seguenti pagine di comprendere e sviscerare le caratteristiche principali dell’idea
di creazione dell’universo esposta da Galileo nella Tractatio prima de mundo.
Bisogna però fin da subito notare che un’operazione del genere richiede di essere
condotta con cautela, suggerita e in un certo senso imposta dalle peculiarità del Ms.

1
Nell’Edizione Nazionale delle opere galileiane, che d’ora innanzi citerò come OG seguita dall’in-
dicazione del volume in cifre romane e dalle pagine in cifre arabe, il Ms. 46 compare in tutta la sua
interezza, registrato da Favaro sotto il titolo di Iuvenilia (cfr. OG, I, pp. 8-177). Il Ms. 27, invece, dedi-
cato perlopiù alla logica aristotelica, non è presente nell’Edizione Nazionale, se non in piccola parte.
Wallace notò, a tal proposito, che «Antonio Favaro reguarded this as a “scholastic exercise” of Galileo
and only transcribed its titles and a sample question in the national Edition» (W.A. Wallace, Galileo’s
Pisan Studies in Science and Philosophy, in The Cambridge Companion to Galileo, ed. by P. Macha-
mer, Cambridge University Press, Cambridge 1998, p. 31). Corrado Dollo segnalò erroneamente la
completa esclusione dall’Edizione Nazionale del Ms. 27 (cfr. C. Dollo, Galileo e la fisica del Collegio
Romano, in Id., Galileo Galilei e la cultura della tradizione, a cura di G. Bentivegna, S. Burgio, G.
Magnano San Lio, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, p. 87, nota 2).
2
Cfr. Iuvenilia, OG, I, pp. 22-37 per quanto riguarda la Tractatio prima de mundo. In essa sono
discusse quattro questioni principali: 1) De opinionibus veterum philosophorum de mundo; 2) Quid
sentiendum sit de origine mundi secundum veritatem; 3) De unitate mundi et perfectione; 4) An mondus
potuerit esse ab aeterno. Per alcune brevi informazioni sul genere delle quaestiones, cfr. M.O. Helbing,
La Filosofia di Francesco Buonamici, professore di Galileo a Pisa, Nistri-Lischi, Pisa 1989, p. 26.

5
46, il quale, pur essendo certamente autografo di Galileo3, presenta aspetti tali che
hanno invitato e tuttora invitano a mettere in dubbio la paternità galileiana delle tesi
ivi sostenute, comprese quelle contenute nella Tractatio prima de mundo. Infatti, come
rilevò per la prima volta Antonio Favaro, il riscontro di significativi omeoteleuti in
molti punti del Ms. 46 lascia pensare che Galileo, quando si apprestò a redigere tale
manoscritto, si comportasse da «amanuense», o, come successivamente ebbe a defi-
nirlo Corrado Dollo, da «fedele epitomatore» che trascrive e parafrasa dottrine altrui4.
Se Favaro però suggerì l’ipotesi di un’ascendenza buonamiciana5, le importanti ricer-
che di Alistar C. Crombie e Adriano Carugo hanno consentito di individuare in alcune
opere gesuite le più probabili fonti del Ms. 466. Successivi studi condotti dal padre

3
Gli Iuvenilia, come scrisse Favaro, «sono dalla prima all’ultima linea autografi di Galileo» (Av-
vertenza Iuvenilia, OG, I, p. 10).
4
Antonio Favaro è stato il primo a dubitare che le pagine del Ms. 46, «quantunque stese di pugno
di Galileo, siano parto della sua mente, non mancando anzi gravi indizi per credere che in essi non
aspetti al nostro Filosofo se non la troppo modesta parte di amanuense», adducendo a favore di questa
ipotesi i «chiari segni di trascrizione» presenti nel manoscritto (Cfr. ivi, pp. 10-11). Dello stesso parere
Corrado Dollo, che, in merito al Ms. 46, così scrisse: «Niente ci fa supporre che egli [Galileo] vi esponga
pensieri suoi propri. Ma mentre per i manoscritti 27 e 46 a Galilei non tocca altro merito che quello
attribuibile ad un fedele epitomatore, nel man. 71, cioè nel De motu, metodo e contenuti cambiano
radicalmente» (C. Dollo, L’egemonia dell’archimedismo in Galilei, in Id., Galileo Galilei e la cultura
della tradizione, cit., p. 67; cfr. anche Id., Galilei e la fisica del Collegio Romano, cit., p. 92). Anche
Camerota converge con le indicazioni di Favaro e ribadisce che «alcune caratteristiche materiali e for-
mali delle scritture – ad esempio, la presenza nel testo di omeoteleuti e di altri errori tipici delle trascri-
zioni, come pure l’occorrere di forme argomentative cattedratiche – convergono nell’attestare che siamo
di fronte a una copia (intervallata da spunti parafrastici) di un lavoro erudito, redatto, presumibilmente,
per l’insegnamento universitario» (M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della
Controriforma, Salerno Editrice, Roma 2004, p. 41). Wallace aveva tentato di confermare le medesime
osservazioni facendo un confronto paleografico tra il manoscritto 46 e quello del Sidereus nuncius (cfr.
W.A. Wallace, Prelude to Galileo. Essays on Medieval and Sixteenth-Century Sources of Galileo’s
Thought, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1981, pp. 209-211).
5
Cfr. Avvertenza Iuvenilia, OG, I, p. 12, nota 4.
6
Cfr. A. Carugo, A. Crombie, The Jesuit and Galileo’s Idea of Science and of Nature, in “Annali
dell’istituto e museo di storia della scienza di Firenze”, n. 8 (1983), pp. 3-68. In questo articolo i due
autori inizialmente riportano e riassumono i risultati conseguiti nei lavori precedenti: «We showed that
the two autograph treatises on natural philosophy which he [Favaro] published as Juvenilia were based
on textbooks, sometimes copied word for word, by three well-known Jesuit professors at the Collegio
Romano. […] Carugo then established during 1968-69, while revising parts of the monograph on Gali-
leo’s natural philosophy for which we were awarded the Galileo Prize in 1969, that the Tractatus de
alteratione et de elementis and the Tractatio prima de mundo were based on Benito Pereira’s De com-
munibus omnibus rerum naturalium principiis et affectionibus libri quindecim and Francisco de Toledo
or Toletus’s commentaries on Aristotle’s Physics and De generatione et corruptione. […] Crombie
discovered Christopher Clavius as a third source in June 1971, showing that important parts of the
Tractatio de caelo all came from his In Sphaeram Ioannis de Sacro Bosco commentarius» (ivi, pp. 5-

6
domenicano William A. Wallace sulla base dei risultati ottenuti da Carugo e Crombie7
hanno permesso, inoltre, di mettere in luce le grandi similarità tra alcune reportationes
manoscritte di lezioni gesuite tenute presso il Collegio Romano e molti passi del Ms.
468. Sebbene queste scoperte non abbiano favorito l’emergere tra gli studiosi di un’in-
tesa riguardo al significato e al senso dell’azione compilatoria intrapresa da Galileo,
né, tantomeno, rispetto al periodo in cui essa venne realmente compiuta, vi è però
generale accordo nel ritenere il Ms. 46 un’opera in cui lo scienziato pisano mise di suo
solamente la grafia. Tenendo dunque presente il carattere compilatorio del Ms. 46, sarà
bene accostarsi a una sua piccola parte, e, nella fattispecie, ad alcuni passi della Trac-
tatio prima de mundo, senza presumere di intravedere in essi l’opinione di Galileo, di
chi cioè solamente di nome ne è l’autore.
Eppure, nonostante le tesi sostenute nel Ms. 46 non siano, con molta probabilità,
autentiche di Galileo, bensì, come si crede, di derivazione gesuita, esse offrono tuttavia
allo storico la possibilità di dare uno sguardo diretto a ciò che lo scienziato pisano ebbe
certamente modo di conoscere della filosofia naturale circolante in ambiente accade-
mico negli ultimi decenni del Cinquecento9. Questo, se da un lato ha consentito di
mettere bene in luce le differenze tra il pensiero filosofico propriamente galileiano
(maturato inizialmente sotto l’influenza del «divinissimo» e «superumano» Archi-
mede, mai citato nel Ms. 46) e la filosofia ‘tradizionale’, avente cioè ancora un’ossa-
tura tipicamente aristotelica, dall’altro ha anche permesso di speculare sulla possibile

6). I due autori riuscirono a rintracciare anche la probabile fonte del Ms. 27 in un testo di Ludovico
Carbone edito per la prima volta nel 1597 (cfr. ivi, p. 7).
7
Inizialmente Wallace sembrò addirittura fare un uso ai limiti del plagio delle ricerche di Carugo e
Crombie (cfr. ivi, pp. 10-12, nota 11).
8
Wallace racconta le proprie scoperte in W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks: The Physical
Questions. A Translation from the Latin, with Historical and Paleographical Commentary, University
of Notre Dame Press, Notre Dame-London 1977, pp. VI-VII.
9
Secondo Michele Camerota, le tesi sostenute nel Ms. 46 e le modalità con cui esse vengono
espresse potrebbero essere in linea con quanto veniva insegnato non solo al Collegio Romano, ma anche
all’Università di Pisa: «E invero, il problema della determinazione delle scritture da cui gli Juvenilia
presero le mosse meriterebbe uno scrutinio più esteso ed approfondito, soprattutto in direzione dell’ac-
certamento di una possibile matrice pisana (echeggiante certamente motivi presenti nella manualistica
gesuita), un’eventualità, quest’ultima, che, a nostro avviso, resta, nonostante la attuale vaghezza dei
riscontri, ancora da esplorare in modo appropriato» (M. Camerota, Galileo Galilei, cit., p. 43). Galileo
frequentò l’Università di Pisa, senza completarne gli studi, tra il 1580 e il 1585, nonostante una volta si
credesse che l’immatricolazione fosse avvenuta solamente nel 1581 (cfr. R. Del Gratta, A proposito
della data d’iscrizione di Galileo Galilei all’università di Pisa [1580 settembre 5; e non 1581!], in
“Bollettino storico pisano”, v. 46 (1977), pp. 556-558).

7
influenza delle idee contenute nel Ms. 46, oltre a quelle presenti nel Ms. 27, nel deter-
minare l’itinerario scientifico di Galileo Galilei10.
Lungi dal riprendere un dibattitto certamente importante sulle origini della scienza
galileiana, nella prima parte della presente tesi la mia intenzione sarà solamente quella
di analizzare alcuni passi molto circoscritti del Ms. 46, in quanto in essi è possibile
individuare un’attenzione particolare verso il tema della creazione del mondo, atten-
zione che, indotta o meno dalle fonti gesuite, fece costantemente parte del pensiero di
Galileo, il quale nei De motu antiquiora, nel Ms. Gal. 72, nel Dialogo e ancora nei
Discorsi, si preoccupò di comprendere cosa accadde ab origine mundi11. Prima di stu-
diare il ruolo della cosmogonia all’interno dell’opera scientifica galileiana e le ragioni
per cui Galileo ritornò più volte sul tema della creazione del mondo, sarà dunque inte-
ressante vedere se una parte del materiale esemplato dallo scienziato pisano nel Ms.
46 abbia potuto influenzare, direttamente o indirettamente, la formazione delle conce-
zioni cosmogoniche e di creazione del mondo che compaiono in altre parti del corpus
galileiano.

10
Principale esponente dell’ultimo indirizzo di pensiero è Wallace, il quale, in breve, propose una
tesi continuista di ispirazione duhemiana (cfr. P. Duhem, Le Système du Monde, Hermann, Paris 1913-
1959, 10 voll., vol. VIII, p. 200; o, ancora, Id., Etudes sur Léonard de Vinci, Hermann, Paris 1906-
1913, 3 voll., Vol. III (Les precurseurs parisiens de Galileleé), pp. VII, 248-249, 582-583), seppur
poggiando su argomentazioni differenti. Per un breve riepilogo, a tal proposito, di quanto sostenuto da
Duhem e da Wallace, nonché per una critica generale di chi intravede una continuità tra lo sviluppo del
pensiero scientifico medievale e quello moderno, si vedano le puntuali osservazioni di Maurice Clavelin
recentemente pubblicate in Galilée, cosmologie et science du mouvement suivi de Regards sur l’empi-
risme au XXe siècle, CNRS Éditions, Paris 2016, pp. 47-85. In generale, Clavelin sostiene che qualsiasi
forma di continuismo non tenga in debito conto gli effetti che il copernicanesimo ebbe sul pensiero
scientifico di autori come Galileo e Keplero. Corrado Dollo, invece, al contrario di Wallace, si preoc-
cupò di effettuare con estrema lucidità e rigore analitico un confronto tra i manoscritti 27 e 46 e i De
motu antiquiora, mettendo in luce la discontinuità e lo iato stilistico-contenutistico che separa queste
opere (un’analisi di questo tipo è rintracciabile, in misura diversa, nei seguenti articoli: L’uso di Platone
in Galileo, L’egemonia dell’archimedismo in Galilei, Galilei e la fisica del Collegio Romano, Le ra-
gioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), tutti ora contenuti in C. Dollo, Galileo Ga-
lilei e la cultura della tradizione, già citato).
11
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 344; Ms. Gal. 72, ff. 134-135 e 146; Dialogo, OG, VII, pp. 43-
53; Discorsi, OG, VIII, pp. 283-284. Queste parti dell’opera galileiana verranno prese in considerazione
nelle sezioni II e III della tesi.

8
I.2 «De Platone, quid senserit dubium est inter philosophos». Esposizione e critica
dell’opinione degli «antichi filosofi» sull’origine del mondo

In tutto il Ms. 46 Galileo adotta un ordine espositivo ben preciso, che consiste, una
volta posta la questione da discutere, nella presentazione delle opinioni filosofiche più
influenti al riguardo, nell’analisi critica di tali opinioni, e, infine, nell’esposizione di
ciò che è indubitabilmente vero. Il medesimo modus argomentandi si riscontra facil-
mente nella Tractatio prima de mundo, dove lo stesso problema de origine mundi
viene scomposto in due apparentemente differenti quaestiones: una riguardante l’opi-
nione degli «antichi filosofi» sull’origine del mondo; l’altra circa l’opinione che, sem-
pre in merito alla genesi del mondo, andrebbe invece sostenuta «secundum verita-
tem»12.
Nella prima questione, intitolata «De opinionibus veterum philosophorum de
mundo», Galileo procede inizialmente dando una breve precisazione terminologica ri-
guardo alla nozione di «mondo». Platone, scrive Galileo, impiegò questo termine rife-
rendosi al mondo «ideale o intelligibile, sensibile magnus o sensibile parvus»13. Ciò
di cui però si appresta a trattare Galileo non è il mondo delle idee, nemmeno quello
«parvus» in cui vive l’uomo14, bensì il mondo «magnus» cui Pitagora, per la prima

12
Cfr. Iuvenilia, OG, I, pp. 22 e 24.
13
«Triplex, ut docuit Plato, cum reperiatur mundus; idealis sive intelligibilis, sensibilis sed magnus,
sensibilis sed parvus; hic in praesenti, est disputatio de mundo sensibilis magno» (ivi, p. 22).
14
Accolgo l’interpretazione di Wallace, basata su una spiegazione di Menu, secondo cui il mondo
«parvus» si riferisce a quello degli uomini. Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, cit., p. 257.
Aggiungo inoltre che una classificazione di questo tipo è ricontrabile anche nel commentario di Henri
de Monantheuil alle Questioni meccaniche pseudoaristoteliche. Nell’Epistola dedicatoria che precede
il commentario, de Monantheuil introduceva un tema diventato poi assai comune, che consisteva nel
paragonare il mondo, cioè l’universo intero, a una macchina perfetta, e Dio, il Creatore di questa ma-
gnifica macchina, a un «Geometra», oltre che a un sapientissimo ‘ingegnere’: «Deus igitur, praeterquam
quod est accuratissimus, assiduusque Geometra, divini Platonis sententia, est etiam nostra, et operum
tot magnificorum evidentia, sapientissimus, optimus, potentissimus µηχανικός, et µηχανοποιός. Ipse
idem, qui µακρόκοσµον magnum mundum fecit, fecit et µικρόκοσµον parvum mundum, hominem scil-
icet» (Aristotelis Mechanica Graeca, emendata, Latina facta, et Commentariis illustrata ab Hencrico
Monantholio…, Apud Ieremiam Perier, Parigi 1599, pp. 4-5 dell’Epistola dedicatoria, corsivo mio).
Come si può notare, il mondo «parvus», il ‘microcosmo’, è associato anche da Henri de Monantheuil al
mondo degli uomini. Può darsi dunque che una distinzione tra macrocosmo (mundus magnus) e micro-
cosmo (parvus), tra l’universo nella sua totalità e il mondo degli uomini, fosse un luogo comune.

9
volta, si riferì adottando il termine «universo», ripreso poi anche da Aristotele15. Que-
sta breve precisazione terminologica serve dunque a chiarire ulteriormente l’oggetto
della prima questione, il cui titolo potrebbe lasciare adito a fraintendimenti. Al centro
del dibattito non è infatti il significato cui gli antichi filosofi allusero parlando del
«mondo», bensì ciò che essi pensarono circa la sua origine. Ciò rende ragione del mo-
tivo per cui Galileo, poco dopo aver chiarito l’accezione di «mondo» alla quale egli
intende riferirsi, afferma che «quasi tutti i fisici antichi», con l’eccezione di Senofane,
ritennero che l’universo fosse stato generato:

Quasi tutti gli antichi fisici ritennero che una volta il mondo fosse stato creato e
avesse avuto un’origine temporale, come testimonia Aristotele nel primo libro del
De caelo, testo 102, e nell’ottavo libro della Fisica, testo 10, sebbene Galeno, nel
libro De claris physicis, affermi che Senofane ritenne che il mondo fosse eterno.16

Per quanto riguarda Platone e Aristotele, Galileo riferisce che, se è possibile affer-
mare con sicurezza che lo Stagirita sostenne l’eternità del mondo, non è invece facile
intendere ciò che Platone volle affermare nel Timeo: «De Platone, quid senserit du-
bium est inter philosophos»17. Vi sono infatti due interpretazioni contrastanti del pen-
siero platonico, che Galileo riepiloga brevemente18. La prima, sostenuta da Lucio Cal-
visio Tauro, Proclo, Plotino, Alcino e Simplicio, vede espressa nel Timeo l’opinione
di un mondo «sempiterno»: anche là dove Platone fa esplicito riferimento alla genera-
zione del mondo, egli intenderebbe dire con ciò qualcosa di diverso da un inizio tem-
porale dell’universo19. Diversamente, «alii doctissimi viri» ritengono invece che Pla-
tone avesse effettivamente fatto appello a un’origine temporale del mondo, il quale si

15
Cfr. Iuvenilia, OG, I, p. 22.
16
Ibid. («Hunc aliquando incepisse et factum esse in tempore, veteres fere omnes physici, teste
Aristotele in primo Caeli textus 102 et 8 Physicorum textus 10, senserunt; quamvis Galenus, in libro De
Claris Physicis, asserat Xenohanem existimasse fuisse ab aeterno».) Se non segnalato diversamente,
d’ora in poi le traduzioni dal latino sono sempre mie.
17
Ivi, p. 23.
18
Sulla presunta fonte spogliata da Galileo per stilare il compendio circa le due maggiori opinioni
riguardanti la creazione del mondo secondo Platone, si veda infra, cap. I.3. Per ora, mi limito sempli-
cemente a esaminare il testo galileiano lasciando in sospeso la questione sulle fonti del Ms. 46. Que-
stione che invece avrò modo di discutere brevemente una volta portata a termine la mia analisi, molto
circoscritta, della Tractatio prima de mundo (vedi infra, cap. I.5).
19
«Taurus in Timaeo Platonis, Porphyrius, Proclus, Plotinus, Alcinous et Simplicius, 8 Physicorum
textus 3o et 10o, putarunt, ex Platone, mundum esse sempiternum. Quod si illis obiciatur authoritas
Platonis, in Timaeo conceptis verbis docentis mundum fuisse genitum, respondet genitum vario modo
usurpari a Platone; ibi autem pro illo quo constat ex pluribus partibus componentibus» (ibid.). («Tauro,

10
compose inizialmente di una materia muoventesi in modo disordinato. Il passo in cui
viene esposta quest’ultima interpretazione merita di essere riportato per intero perché
costituirà un tassello importante per poter confrontare in modo attendibile l’uso della
cosmogonia platonica nella Tractatio prima de mundo e quello che invece ne farà Ga-
lileo in altre opere:

Al contrario, molti altri dottissimi uomini sostengono che Platone ritenesse che il
mondo fosse stato fatto nel tempo [scil. avesse avuto un’origine temporale] da una
materia che inizialmente si mosse di un certo moto disordinato, e che, nonostante
[il mondo] sia per sua natura corruttibile, per volontà di Dio non perisca mai. Che
questa fu l’opinione di Platone, lo insegna Aristotele nell’ottavo libro della Fisica
(testo decimo e altrove), Alessandro, come ricordato da Filopono nella soluzione
del sesto argomento di Proclo, Teofrasto, Temistio, e quasi tutti i commentatori di
Aristotele; Plutarco, Cicerone, Diogene Laerzio, Attico, Seleuco e Pletone plato-
nico; a questi seguono San Basilio nel suo Hexameron, Giustino martire, Clemente
di Alessandria, Eusebio di Cesarea, Teofilatto, Sant’Agostino, e tutti gli scolastici.20

La sfilza di autori, o sarebbe meglio dire di auctoritates, citati alla fine del passo
suggerisce il motivo per cui nella Tractatio prima de mundo venga prediletta la se-
conda interpretazione del Timeo, tanto che l’opinione di Platone viene accomunata a
quella di Anassagora, Empedocle, Leucippo e Democrito, cioè dei «fisici antichi» che
credettero nell’origine temporale del mondo. Secondo quanto riportato da Galileo,
questi pensatori, incluso Platone, compresero rispetto ad Aristotele che il mondo fu
veramente generato, ma postularono inspiegabilmente l’esistenza di una materia ini-
ziale, sulla cui natura non mostrarono peraltro accordo, e ritennero inoltre senza ra-

nel [commento al] Timeo di Platone, Porfirio, Proclo, Plotino, Alcino e Simplicio, nel [commento]
all’ottavo libro della Fisica, testo terzo e decimo, pensarono che per Platone l’universo fosse sempi-
terno. Se si mostrasse loro il luogo del Timeo in cui Platone insegna solennemente che l’universo fu
generato, essi risponderebbero che “generato” venne inteso in un altro modo da Platone, e che in quel
luogo egli si riferisce a ciò che è formato e composto di molte parti».)
20
Ibid. («E contra vero plerique alii doctissimi viri arbitrantur, Platonem existimasse mundum fuisse
factum in tempore, ex materia quae antea movebatur motu quodam inordinato; et suapte quidem natura
corruptibilem esse, Dei tamen voluntate numquam corruptum iri. Hanc fuisse Platonis sententiam, docet
Aristoteles 8o Physicorum textus 10 et alibi, Alexander, referente Philopono in solutione 6i argumenti
Procli, Theophrastus, Themistius, et omnes fere interpretes Aristotelis, Plutarchus, Cicero, Diogenes
Laertius, Atticus, Seleucus, Pleto platonicus; quos secuntur D. Basilius in suo Hexamero, Iustinus mar-
tyr, Clemens Alexandrinus, Eusebius Caesariensis, Theophilactus, D. Augustinus, et omnes schola-
stici».)

11
gione che, nonostante fosse stato creato, l’universo non avrebbe mai potuto corrom-
persi21. Quest’ultima critica si muove, in particolare, sul piano dell’esperienza co-
mune: i sensi testimoniano che qualsiasi cosa nasca inevitabilmente perisce, di conse-
guenza anche l’universo, se ha avuto un’origine nel tempo, è destinato a corrompersi22.
La critica così costruita non colpisce però l’opinione di Platone, il quale, come ripor-
tato dallo stesso Galileo, si rifece all’onnipotenza divina («Dei voluntate») per giusti-
ficare l’incorruttibilità del mondo una volta creato. Pare dunque che in queste pagine
della Tractatio sia sufficiente includere l’opinione di Platone nella prima critica, rela-
tiva al ruolo della materia all’origine del mondo, per inficiare così la cosmogonia espo-
sta nel Timeo. Infatti, con tale critica viene portata a contraddizione l’opinione di tutti
coloro che riconducono la creazione del mondo a un principio materiale:

L’opinione degli antichi filosofi sulla creazione del mondo, se è veritiera quando
asserisce che l’universo ebbe un principio, ciononostante è contraria alla verità in
due aspetti. In primo luogo, perché afferma che l’universo fu generato ex materia.
Per questo [l’opinione degli antichi] è confutabile col seguente argomento: se il
mondo fu generato da una certa materia, o quest’ultima fu generata da un’altra ma-
teria, o ci fu da sempre. Nel primo caso, si darebbe un regresso all’infinito nella
materia; nel secondo, o ci fu, insieme alla materia, un qualche principio effettivo fin
dall’inizio, oppure no: se non ci fu, allora tutto venne generato casualmente da que-
sta materia, il che è assurdo; se invece vi fu, allora questa materia esistette per l’eter-
nità senza alcun motivo: perciò [il mondo non fu generato da alcuna materia].23

Una critica del genere riguarda sia l’opinione di chi crede in una causa efficiente
che dispone secondo un ordine razionale una materia già esistente e non creata, sia

21
Cfr. ivi, p. 24.
22
«Si mundus fuit genitus, ergo vel aliquando corrumpetur, vel non: si primum, ergo non est incor-
ruptibilis; si non corrompetur, contra, omne, quod genitum est in tempore, est corruptibile, ut patet
experientia et inductione: ergo [etc.]» (ibid., corsivo mio). («Se il mondo fu creato, dovrà quindi prima
o poi corrompersi, oppure no: nel primo caso, allora esso non è incorruttibile; se non si corrompe, al
contrario, tutto ciò che è generato nel tempo è corruttibile, come mostra l’esperienza e l’induzione,
quindi [l’universo è corruttibile]».)
23
Ibid. («Veterum philosophorum opinio de mundi procreatione, et si faveat veritati in hoc, quod
asserit mundum habuisse principium, adversatur tamen in duobus. Et primo quidem in hoc, quod dicit
factum esse ex materia, et ideo confutatur hac ratione: si mundus fuisset genitus ex aliqua materia, aut
ista fuisset ex alia genita, aut fuisset ab aeterno: si primum, ergo datur processus in infinitum in materiis
etc.; si secundum, aut simul cum illa fuit a principio aliquod principium effectivum, aut non: si non,
ergo casu omnia facta sunt ab ista materia, quod absurdum est; si fuit, ergo ista materia in tota aeternitate
fuit frustra: ergo [etc.]».)

12
quella di chi ritiene la materia capace di acquisire di per sé e in modo casuale un ordine.
È dunque nella critica alle teorie antiche sull’origine del mondo che viene accomunata
nella Tractatio prima de mundo l’opinione di Platone a quella di Anassagora, Empe-
docle, Leucippo, Democrito e, in generale, dei «fisici antichi». Questa constatazione
non dovrebbe apparire superflua, se si considera che nei De motu antiquiora è proprio
rifacendosi anche a un’opinione degli «antichi filosofi» sulla pesantezza dei corpi che
Galileo costruisce una narrazione cosmogonica in cui Dio dà ordine a una massa di
materia pesante e confusa24. Nel Dialogo, invece, è la materia che, dopo una prima
fase di moto disordinato, dà corpo ai pianeti, i quali vengono dal Sommo Artefice
disposti secondo un ordine ben preciso25. In quest’ultima opera citata e nei Discorsi,
inoltre, il richiamo alla cosmogonia di Platone è esplicito, proposto, da parte di Gali-
leo, senza alcuna intenzione critica negativa.
Può dunque fin da ora risultare interessante sottolineare che Galileo non accoglie,
quando si appresta a delineare una propria concezione cosmogonica sull’origine del
mondo, le obiezioni mosse nella Tractatio prima de mundo ai «veteres philosophi» e,
in particolare, a Platone. Bisognerebbe a questo punto tentare di capire se fu seguendo
una particolare fonte che Galileo venne indotto nel Ms. 46 a criticare la cosmogonia
platonica. Per far ciò, prenderò in considerazione una parte del De communibus om-
nium rerum naturalium principiis, un testo gesuita che, allo stato attuale delle ricerche,
si crede sia stato una delle fonti principali della Tractatio prima de mundo. Eppure,
come farò notare nel prossimo capitolo, ricondurre la Tractatio galileiana al De com-
munibus è operazione non priva di grandi difficoltà.

24
Cfr. De motu, OG, I, p. 344. Sull’influenza degli «antichi filosofi» (chiamati non più, come nella
Tractatio, «veteres», ma «antiqui») e di Platone nei De motu antiquiora, cfr. A. De Pace, Galileo lettore
di Girolamo Borri nel De Motu, in Università degli Studi di Milano. Dipartimento di Filosofia, De
motu. Studi di storia del pensiero su Galileo, Hegel, Huygens e Gilbert, Cisalpino, Milano 1990, pp. 3-
69, in particolare pp. 8-19. Nella sezione II mi occuperò della cosmogonia dei De motu antiquiora,
dando anche una descrizione molto generale di questi scritti galileiani rimasti inediti (cfr. infra, cap.
II.1).
25
Cfr. Dialogo, OG, VII, pp. 43-44 e la spiegazione di questi passi presente in A. De Pace, Galileo,
Ficino e la cosmologia. Ordine, moti ed elementi in due diverse interpretazioni platoniche, in “Rivista
di storia della filosofia”, 3 (2006), pp. 470-507, in particolare pp. 473-483.

13
I.3 Cosmogonia platonica e concezione cristiana di Creazione: due diverse inter-
pretazioni. Un breve confronto tra il De communibus di Perera e la Tractatio
prima de mundo

L’analisi che qui intendo condurre sulle probabili fonti della Tractatio prima de
mundo è estremamente circoscritta: essa riguarda il passo discusso nel paragrafo pre-
cedente sull’opinione di Platone circa l’origine temporale del mondo. Un’analisi di
questo tipo, come si vedrà, offrirà l’occasione di dare uno sguardo, seppur veloce, ad
alcune interpretazioni riguardanti la cosmogonia del Timeo e la sua possibile concilia-
bilità con la concezione cristiana di Creazione.
In un lavoro di traduzione e commento del Ms. 46, Wallace suddivise ciascuna parte
del manoscritto in questioni e paragrafi, indicando ogni questione con una lettera e
numerando i relativi paragrafi26. Farò anche io appello a questa suddivisione e, per
comodità, adotterò la sigla Iuv. C4 tutte le volte che tratterò del passo presente a pagina
23, righe 13-23, del primo volume dell’Edizione Nazionale delle opere di Galileo, in
cui il Ms. 46 appare sotto il titolo, attribuito da Favaro, di Iuvenilia27.
Wallace ricondusse Iuv. C4 a due fonti precise: le reportationes di Antonio Menu
e il De communibus di Perera28. Per quanto riguarda la prima, l’assenza di alcune in-
formazioni che tuttavia compaiono in Iuv. C4 indusse Wallace in un secondo momento

26
Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, già citato.
27
Cfr. supra, nota 1.
28
Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, cit., p. 257. Benedictus Pererius (1535-1610), in
catalano Benet Perera, fu un gesuita professore dal 1556 di filosofia e in seguito di teologia presso il
Collegio Romano. Celebre è la disputa che egli ebbe intorno allo statuto delle matematiche con un altro
professore del Collegio Romano, il matematico Clavio (per la posizione di Perera, cfr. A. De Pace, Le
matematiche e il mondo. Ricerche su un dibattito in Italia nella seconda metà del Cinquecento, Fran-
coAngeli, Milano 1993, pp. 75-120). Nonostante nella letteratura su Galilei si legga spesso “Pereira” o
“Pereyra”, si è preferito qui seguire la lezione dei lavori più recenti dedicati proprio al pensiero del
gesuita spagnolo (si veda, ad es., M. Lamanna e M. Forlivesi (a cura di), Quaestio. Benet Perera (Pe-
rerius 1535-1610). A Renaissance Jesuit at the Crossroads of Modernity, Brepolis Publishers, Turnhout
2014). Ringrazio molto Marco Lamanna per avermi aiutato a reperire alcuni articoli dedicati a Perera,
e, in generale, per i consigli elargiti a proposito di questa tesi. L’edizione del De communibus cui farò
riferimento è la stessa che adottò Wallace, cioè quella del 1576, Romae, apud Franciscum Zanettum, &
Bartolomaeum Tosium socios. D’ora in poi citerò questa edizione come De communibus, seguita da un
numero in cifre romane indicante il libro, dal capitolo del libro in cifre arabe e, infine, dalle pagine. Il
De communibus di Perera era ben conosciuto tra XVI e XVII secolo: venne usato, per esempio, anche
da Giordano Bruno, il quale probabilmente vide nel testo del gesuita «un manuale utile dal quale attin-
gere, in modo affidabile e puntuale, le principali tesi proposte dall’aristotelismo fisico» (cfr. la voce

14
a dubitare che le reportationes di Menu potessero essere la fonte effettiva di questo
preciso passo del Ms. 4629. D’altro canto, il De communibus di Perera si attaglia molto
meglio delle reportationes di Menu a Iuv. C4. Come infatti notò ancora Wallace, gli
autori citati da Galileo in Iuv. C4 sono nominati da Perera nel capitolo quinto dell’ul-
timo libro del De communibus30; capitolo che riporta il seguente titolo: «An Plato sen-
serit Mundum ortum esse, et aliquando coepisse, an potius sempiternum esse, atque
ortu, interituque carere»31. Studiando per intero questo capitolo del De communibus,
mi è sembrato però possibile trovare alcuni luoghi affini a Iuv. C4 di cui Wallace non
fece menzione. Egli segnalò infatti solamente un passo del De communibus, che io
presenterò qua sotto forma di collazione con Iuv. C4 (d’ora innanzi, numererò ogni
collazione in modo da renderne più agevole, in seguito, il riferimento):

Coll.1
PERERA GALILEO
De communibus, XV.5, p. 495B-C. Iuv. C4.
Verum postquam eorum, qui contra sentiunt in- E contra vero plerique alii doctissimi viri arbi-
terpretationes futiles, et a sensu Platonis alienas trantur, Platonem existimasse mundum fuisse
esse ostendimus, testimoniis aliorum Philoso- factum in tempore, ex materia quae antea mo-
phorum id ipsum Platonem sensisse demonstre- vebatur motu quodam inordinato; et suapte qui-

«Perera» redatta da Marco Lamanna, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, a cura di M. Ci-
liberto, Edizioni della Normale, Pisa 2014, vol. II, pp. 1464-65). Rimandi all’opera di Perera anche da
parte di Buonamici (cfr. M.O. Helbing, La filosofia di Francesco Buonamici, cit., p. 67, nota 133). Sulla
diffusione del De communibus e altre informazioni relative a questo importante testo, cfr. A. De Pace,
Le matematiche e il mondo, cit., pp. 76-77, nota 121. Antonio Maria Menu fu anch’egli insegnante di
logica, filosofia naturale e metafisica presso il Collegio Romano tra il 1577 e il 1582. Secondo Wallace,
la Tractatio prima de mundo potrebbe essere tratta dalle reportationes di Menu intitolate Quaestiones
in philosophiam naturalem, stilate tra il 1577 e il 1579. L’unica copia manoscritta di queste reportatio-
nes si trova nella Leopold-Sophien-Bibliothek di Überlingen, corrispondente al manoscritto cod. 138.
Per alcune brevi informazioni su tale manoscritto, cfr. http://bilder.manuscripta-mediaevalia.de/hs//ka-
taloge/ueberlingen.pdf (10 novembre 2016).
29
Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, cit., p. 257: «Menu cites only Aristotle, Alexander,
Theophrastus, Plutarch, St. Basil, Clement of Alexandria, and Eusebius, and adds to this “all peripatetics
with the exception of Simplicius.”» (corsivo mio).
30
Cfr. Ibid.
31
Cfr. De communibus, XV.5, pp. 492-499. In questo capitolo Perera riferisce prima l’opinione di
coloro che videro affermata nel Timeo l’eternità del mondo e, in un secondo momento, quella di chi, al
contrario, ritenne che Platone avesse sostenuto la tesi di un’origine temporale dell’universo. Quest’ul-
tima interpretazione sarà quella accolta dallo stesso Perera.

15
mus et in praesentia quidem Plutarchum, Atti- dem natura corruptibilem esse, Dei tamen volun-
cum, Severum, Diogenem Laertium, Plhetonem tate numquam corruptum iri. Hanc fuisse Plato-
Platonicum, et ex Latinis Ciceronem, atque alios nis sententiam, docet Aristoteles 8o Physicorum
nostrae Religionis clarissimos Philosophos, ut textus 10 et alibi, Alexander, referente Philopono
Iustinum Martyrem, Eusebium Caesariensem, D. in solutione 6i argumenti Procli, Theophrastus,
Augustinum, Clementem Alexandrinum, Theo- Themistius, et omnes fere interpretes Aristotelis,
doretum, atque alios missos faciamus; Aristote- Plutarchus, Cicero, Diogenes Laertius, Atticus,
lem, qui totos viginti annos Platonem audivit, a Seleucus, Pleto platonicus; quos secuntur D. Ba-
quo, ob ingenij eius praestantiam, mens suae silius in suo Hexamero, Iustinus martyr, Clemens
scholae appellabatur, in hanc rem testem adhi- Alexandrinus, Eusebius Caesariensis, Theophi-
beamus, et verborum ipsius, Alexandrum Aphro- lactus, D. Augustinus, et omnes scholastici.33
disaeum antiquissimum, et fidissimum interpre-
tem afferamus, ea quae refert Philoponus, nam
Alexandri scripta interciderunt, memorantes, ut
utriusque testimonio, sententia nostra confirme-
retur.32

Wallace riuscì con Coll.1 a rintracciare in una pagina del De communibus gran parte
degli autori citati da Galileo, a volte trascritti da quest’ultimo con qualche variazione34.
Per questo motivo, Wallace probabilmente non ritenne opportuno cercare oltre. Mi
pare, però, che un’altra pagina del capitolo quinto dell’ultimo libro del De communibus

32
«Proprio dopo aver mostrato le interpretazioni futili, estranee all’opinione di Platone, di coloro
che invece le sostengono, dimostreremo, grazie alla testimonianza di altri filosofi, ciò che lo stesso
Platone sostenne. Porteremo inoltre a testimonianza Plutarco, Attico, Severo, Diogene Laerzio, Pletone
platonico, e, tra gli scrittori latini, Cicerone, nonché altri illustri filosofi della nostra religione, come
Giustino martire, Eusebio di Cesarea, Agostino, Clemente alessandrino, Teodoro, e altri che non ci-
tiamo. Ci avvarremo della testimonianza delle parole di Aristotele, il quale per vent’anni ascoltò Pla-
tone, da cui venne chiamato la “mente” della sua Scuola, per il vigore della sua intelligenza. Ci rifaremo
ad Alessandro di Afrodisia, antichissimo e fedelissimo commentatore, ricordando ciò che riferisce Fi-
lopono – gli scritti di Alessandro sono infatti andati perduti –, affinché, per mezzo di entrambe le testi-
monianze, sia confermata la nostra ipotesi».
33
La traduzione di questo passo è già stata data: cfr. supra, nota 20.
34
Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, cit., p. 257: «All of the authors cited, however,
are to be found in Pererius, De communibus, p. 495B-C, with the exception of Apicus (cf. Pererius’s
Atticus), Seleucus (cf. Pererius’s Severus), and Theophilactus (cf. Pererius’s Theodoretus). For Pleto
Pererius gives Plheto; Galileo writes this as Fleto here, but later, as Pleto». Wallace legge direttamente
dal manoscritto 46, senza rifarsi alla trascrizione datane da Favaro, in cui «Fleto» compare come «Pleto»
e «Apicus» come «Atticus». In ogni caso, Wallace però dimentica di ricordare che «Theophrastus»,
«Themistius» e «D. Basilius» non vengono citati da Perera nel passo del De communibus da lui segna-
lato.

16
di Perera sia molto più vicina alla lezione di Iuv. C4 riguardante Aristotele, Alessandro
di Afrodisia e Filopono:
Coll.2
PERERA GALILEO
De communibus, XV.5, p. 496A Iuv. C4
Praeter illa testimonia Aristotelis, quae supra ci- […]
tavimus, est aliud luculentissimum in octavo li- Hanc fuisse Platonis sententiam, docet Aristote-
bro Physicorum textus 10: Omnes, inquit, tempus les in 8° Physicorum textus 10 et alibi36, Alexan-
natum esse negant: solus Plato ipsum ortum esse der, referente Philopono in solutione sexti argu-
asseverat; una enim cum caelo ortum esse, menti Procli […].
caelum vero natum fuisse affirmat. Haec testimo-
nia Aristotelis et Alexandri quae adduximus, si
quis latius videre cupit, legat Philoponum in so-
lutione sexti argumenti Procli.35

Coll.2 ha il vantaggio, rispetto a Coll.1, di poter spiegare l’origine del riferimento


preciso al De aeternitate Mundi contra Proclum di Filopono e alla Fisica di Aristotele.
Infine, sempre all’interno del quinto capitolo dell’ultimo libro del De communibus,
credo sia possibile rintracciare un’altra informazione che compare in Iuv. C4, seppure
con una leggera ma significativa variazione che renderò evidente in corsivo:

35
«Oltre alle testimonianze di Aristotele già citate, ve n’è un’altra chiarissima nell’ottavo libro della
Fisica, testo decimo [scil. Phys. 251b 14-18]: “Tutti, dice Aristotele, negano che il tempo sia nato:
soltanto Platone lo fa nascere: egli asserisce che esso è nato insieme al cielo [scil. l’universo], e che il
cielo è stato generato”. Se si desidera vedere qualcosa di più a proposito di queste testimonianze di
Aristotele e quelle che abbiamo riportato di Alessandro, si legga la soluzione di Filopono al sesto argo-
mento di Proclo».
36
Se Galileo avesse realmente copiato le pagine del De communibus, allora avrebbe potuto proba-
bilmente aggiungere «et alibi» perché consapevole del fatto che Perera cita anche altre opere aristoteli-
che: cfr. Perera, De communibus, XV.5, pp. 495B-496B.

17
Coll.3
PERERA GALILEO
De communibus, XV.5, p. 497A Iuv. C4
Planum igitur est ac luce clarius, Platonem non E contra vero plerique alii doctissimi viri arbi-
obscure, vel ambigue, sed aperte, et indubitato trantur, Platonem existimasse mundum fuisse
sensisse, Mundum ita ortum esse, ut aliquando factum in tempore, ex materia quae antea mo-
coeperit: et per se mortalem, et caducum esse, vebatur motu quodam inordinato; et suapte qui-
consilio tamen, voluntate, et potentia Opifici sui, dem natura corruptibilem esse, Dei tamen volun-
37
in perpetuum conservari. tate nunquam corruptum iri.

Le collazioni 1-3 mostrano che è possibile accostare a precisi luoghi dello stesso
capitolo del De communibus molte delle informazioni esposte in Iuv. C4. L’eccezione
più evidente è costituita dall’inciso, evidenziato in corsivo in Coll.3, in cui Galileo
riporta che, secondo Platone, la materia si mosse ab origine mundi di moto disordinato.
Quest’ultima informazione, da cui, peraltro, a parere di Corrado Dollo, Galileo
avrebbe potuto trarre informazioni importanti sul «passaggio dal moto rettilineo al cir-
colare» nella situazione precosmica descritta da Platone nel Timeo38, non è presente
nel capitolo del De communibus dal quale Galileo, stilando Iuv. C4, sembra del resto
attingere a piene mani.
Vi sono almeno due motivi che giustificano tale assenza. Per cominciare, nel capi-
tolo quinto dell’ultimo libro del De communibus, Perera precisa fin dall’inizio di voler
discutere un passo particolare del Timeo. Si tratta di Tim. 28b-c, che il gesuita spagnolo
si premura di riportare per intero in traduzione latina, e dove non è possibile leggere
alcuna allusione al moto disordinato della materia39. Il problema esegetico relativo a

37
«Dunque è lampante e più chiaro della luce che Platone, senza essere oscuro o ambiguo, ma in
modo aperto e indubitabile ritenne quindi che il mondo sia nato e abbia avuto un tempo origine; ritenne
inoltre che, per volontà, potenza e deliberazione di Dio, il mondo si conservi in eterno, nonostante sia
di per sé mortale e caduco».
38
Cfr. Cfr. C. Dollo, L’uso di Platone in Galileo, cit., p. 29, nota 21. Dopo aver analizzato alcuni
passi del Timeo (in particolare, 30a, 34a, 38c-d), Corrado Dollo concludeva inoltre che, della «esistenza
di un movimento prima della formazione del cosmo», già «troviamo nota fin dalla lettura delle repor-
tationes gesuite [cioè il Ms. 46, e in particolare la Tractatio prima de mundo]» (ivi, p. 49).
39
Cfr. De communibus, XV.5, p. 492B-C: «Verba Platonis in Timaeo, ubi de procreatione Mundi
loquitur, haec sunt: De quo primum consideremus, quod in quaestione de Universo ante omnia investi-
gari debet, utrum ne semper fuerit sine ullo generationis principio, an genitum sit, ab aliquo principio
sumens exordium. Id profecto cernitur, tangiturque, et corpus habet, omnia vero huiusmodi, sensus

18
Tim. 28b-c riguarda infatti solamente la possibilità di trovare espressa in tale passo
l’opinione dell’eternità del mondo o, al contrario, quella di una sua origine temporale.
Perera si pone nettamente a favore dell’interpretazione creazionista, appellandosi, per
avallarla, ad alcune testimonianze di Aristotele e ai rispettivi commenti di Alessandro
di Afrodisia40. Egli ricava queste informazioni dal De aeternitate Mundi contra Pro-
clum di Filopono, opera in cui vengono confutati i diciotto argomenti avanzati da Pro-
clo a favore dell’eternità del mondo41.
Come mostrato in Coll.2, Galileo, in modo simile a Perera, cita in Iuv. C4 l’ottavo
libro, testo decimo, della Fisica di Aristotele, che corrisponde a Phys. 251b, 14-1842.

movent, quae sensus movent, opinione per sensum percipiuntur, haec vero talia esse constat, ut gignan-
tur, et genita sint; quidquid autem gignitur, necessario ab aliqua caussa gigni asseruimus». («Le parole
di Platone nel Timeo dove si parla della creazione del mondo, sono queste: “Si consideri, riguardo
all’universo, ciò che prima di ogni altra cosa deve essere esaminato: se cioè l’universo esista da sempre
senza alcun principio di generazione, o se sia stato generato prendendo inizio da un altro principio. Ciò
che è visibile e tangibile e ha un corpo, come tutte le cose che così sono, è certamente sensibile. È chiaro
che il sensibile, che si coglie attraverso l’opinione percepita con la sensazione, si sia generato e sia nato.
Inoltre, affermiamo che ciò che si è generato è nato necessariamente da un’altra causa”»).
40
Cfr. ivi, pp. 495B-496B.
41
Il De aeternitate Mundi contra Proclum venne scritto nel 529 da Filopono per difendere l’idea
cristiana di Creazione. Vissuto probabilmente tra ultimi anni del 400 e gli anni Settanta del 500, Filo-
pono studiò ad Alessandria sotto la tutela di Ammonio, maestro anche di Simplicio. A quell’epoca, uno
dei modi più diffusi di fare filosofia era dedicarsi alla scrittura di commentari delle opere di Aristotele
e Platone. Risale al 517, probabile data di composizione di un commentario di Filopono alla Fisica di
Aristotele, la prima testimonianza del Grammatico a favore di una creazione temporale dell’universo.
L’opera di Filopono venne pienamente conosciuta, studiata e assimilata dalla cultura occidentale attra-
verso le traduzioni latine del Rinascimento. Per altre informazioni su Filopono, vedi R. Sorabji, John
Philoponus, in Philoponus and the Rejection of Aristotelian Science, ed. by R. Sorabij, Cornell Univer-
sity Press, Ithaka (New York) 1987, pp. 1-40. Nello stesso volume, per quanto riguarda il pensiero
cristiano di Filopono, cfr. H. Chadwick, Philoponus the Christian Theologian, pp. 41-56; R. Sorabji,
Infinity and the Creation, pp. 164-178; L. Judson, God or Nature? Philoponus on Generability and
Perishability, pp. 179-196.
42
«Ma, riguardo al tempo, fatta eccezione di un solo filosofo, tutti sembran d’accordo nel pensare
allo stesso modo, in quanto affermano che esso è ingenerato. E proprio per questo Democrito dimostra
l’impossibilità che tutte le cose siano generate, dal momento che è ingenerato il tempo. Soltanto Platone
lo fa nascere: egli asserisce che esso è nato in uno col cielo, e che il cielo è stato generato» (Aristotele,
La Fisica, trad. it. a cura di Antonio Russo, Laterza, Bari 1968, p. 212). Cfr. con la traduzione latina
offerta da Perera in De communibus, XV.5, p. 496A (vedi supra Coll.2). Faccio notare che questo stesso
passo era già stato usato da Galileo nella Tractatio prima de mundo per ricordare che tutti i «fisici
antichi» credettero che il mondo avesse avuto un’origine temporale (cfr. supra, nota 16): «Hunc ali-
quando incepisse et factum esse in tempore, vetere fere omnes physici, teste Aristotele in primo Caeli
textus 102 et 8 Physicorum textus 10, senserunt» (Iuvenilia, OG, I, p. 22, corsivo mio). È probabile,
credo, che Galileo non conoscesse ancora in modo diretto l’opera di Aristotele quando scrisse il Ms. 46,
ma che, come già sostenne Favaro, si basasse su fonti secondarie, magari modificandone il contenuto
mentre tentava di riassumerlo. Infatti, in Phys. 251b, 14-18, non si afferma che tutti gli antichi filosofi

19
Anch’egli fa inoltre riferimento ad Alessandro di Afrodisia e alla confutazione di Fi-
lopono al sesto argomento di Proclo. Effettivamente, nel testo 27 annesso alla confu-
tazione del sesto argomento di Proclo, Filopono riporta, nel De aeternitate Mundi con-
tra Proclum, sia il passo della Fisica di Aristotele corrispondente a Phys. 251b, 14-18,
sia alcune interpretazioni di Alessandro di Afrodisia concernenti De caelo 279b10-
280a35, dove Aristotele esamina l’opinione degli antichi filosofi sulla creazione del
mondo43. Ciò però non basta ad affermare che Galileo lesse il Contra Proculm.
Al contrario, è invece molto probabile che Perera avesse letto direttamente il testo
27 annesso alla confutazione del sesto argomento procliano presente in Contra Pro-
clum. Infatti, anche a prescindere dal fatto che Perera ammetta esplicitamente di se-
guire l’esposizione di Filopono, vi sono alcune spie testuali che sembrerebbero con-
fermare una lettura diretta, da parte del gesuita spagnolo, di almeno un luogo
dell’opera del famoso Grammatico, e, in particolare, del sopracitato testo 27. Nella
seguente collazione, in cui ho deciso di adottare una traduzione latina del Contra Pro-
clum condotta nel 1557 da Ioannes Mahotius44, sembra possibile intravedere una filia-
zione diretta di una parte del capitolo quinto dell’ultimo libro del De communibus da
un passo dell’opera scritta da Filopono contro Proclo:

Coll.4
FILOPONO PERERA
Contra Proclum VI.27, 211.5-212.2 De communibus, XV.5, p. 495B
Quoniam igitur nostra satis comprobavit oratio, Verum postquam eorum, qui contra sentiunt in-
quod penes tempus Mundum ortum fuisse voluit terpretationes futiles, et a sensu Platonis alienas

furono d’accordo nel ritenere che il mondo avesse avuto un’origine «in tempore», bensì che tutti, eccetto
Platone, negavano l’origine del tempo. Un discorso simile vale anche per il testo 102 del De caelo, ossia
De caelo 279b, 12-18, in cui Aristotele ricorda solamente che tutti i filosofi antichi, compreso Platone,
ritennero che il mondo fosse stato generato, ma alcuni lo stimarono eterno e altri caduco.
43
Cfr. Contra Proclum VI.27 211.20-223.1.
44
Cfr. Ioannes Grammaticus Philoponus Alexandrinus in Procli Diadochi duodeviginti argumenta
De Mundi aeternitate. Opus varia multiplicique Philosophie cognitione refertum. Ioanne Mahotio Ar-
gentenaeo interprete…, apud Balthasarem, Henricum et Barptolomaeum de Gabiano, Lione 1557. Ho
deciso di adottare questa traduzione innanzitutto perché più chiara di quella di Gaspare Marcello Mon-
tagnese del 1551, e poi perché più vicina all’esposizione di Perera, il quale avrebbe comunque potuto
direttamente leggere la versione greca originale. Per informazioni sulla traduzione latina e i codici greci
del De aeternitate Mundi contra Proclum, cfr. Proclus, On the Eternity of the World (De Aeternitate
Mundi), Greek text with Introduction, Translation, and Commentary by Helen S. Lang and A. D. Macro,
University of California Press, Los Angeles 2001, pp. 34-35.

20
Plato, hoc est, principium aliquod habuisse, quo esse ostendimus, testimoniis aliorum Philoso-
esse coeperit, cum nullus esset, antequam fuisset phorum id ipsum Platonem sensisse demonstre-
procreatus, iam tempus esse videtur, ut deinceps mus et in praesentia quidem Plutarchum, Atti-
Philosophorum super hac re testimonia profera- cum, Severum, Diogenem Laertium, Plhetonem
mus Plutarchum autem et Atticum preatermit- Platonicum, et ex Latinis Ciceronem, atque alios
tam, ut quos apud omnes satis in confesso est nostrae Religionis clarissimos Philosophos, ut
aperte pronuntiare Platonem in ea fuisse senten- Iustinum Martyrem, Eusebium Caesariensem, D.
tia, ut Mundum in aliquo tempore procreatum Augustinum, Clementem Alexandrinum, Theo-
fuisse existimasset: atque adeo iis contradixerit, doretum, atque alios missos faciamus; Aristote-
qui contra sentiunt. Iam vero et qui nostra aetate lem, qui totos viginti annos Platonem audivit, a
verbi fuerunt interpretes, prolixa horum frag- quo, ob ingenij eius praestantiam, mens suae
menta in suis scriptis produxerunt: in quorum nu- scholae appellabatur, in hanc rem testem adhi-
mero est Caesariensi Ecclesiae praefectus Euse- beamus, et verborum ispius, Alexandrum Aphro-
bius. Unde hos ego in praesenti missos facio. Ve- disaeum antiquissimum, et fidissimum interpre-
rum Platonis auditorem huic nostrae orationi te- tem afferamus, ea quae refert Philoponus, nam
stem adhibebo. Quis enim Aristotele certioris fi- Alexandri scripta interciderunt, memorantes, ut
dei testis in Platonis sententia explicanda adhi- utriusque testimonio, sententia nostra confirme-
beri possit? qui totos viginti annos Platoni ope- retur.
ram dedisse traditur, quique viribus ingenii, et
acumine omnes quotquot ante ipsum apud Grae-
cos vixerunt, longe superavit, et apud Platonem
ob ingenii vim in tanta admiratione fuit, ut ab
ipso diatribae et scholae suae mens appellaretur.
In huius autem verbis proferendis una etiam Ale-
xandri Aphrodisiensis commentationes produ-
cam […].45

45
Ioannes Grammaticus Philoponus Alexandrinus in Procli Diadochi duodeviginti argumenta De
Mundi aeternitate…, cit., pp. 95-96. («Poiché il nostro discorso ha sufficientemente confermato che
Platone ritenne che il mondo avesse avuto un inizio nel tempo, cioè che ebbe un’origine a partire dalla
quale cominciò a esistere, e che nulla vi fu prima che fosse creato, è allora giunto il tempo, a tal propo-
sito, di addurre una dopo l’altra le testimonianze dei filosofi, tralasciando però quelle di Plutarco e
Attico, dato che è sufficientemente riconosciuto da tutti che essi credettero che il mondo, secondo Pla-
tone, avesse avuto un inizio nel tempo, e perciò si opposero a coloro che la pensavano diversamente.
Numerosi frammenti delle loro testimonianze [di Attico e Plutarco] sono già stati offerti nella nostra
epoca negli scritti di coloro che furono interpreti del Verbo, tra cui Eusebio, capo della Chiesa di Cesa-
rea. Di conseguenza, non citerò in questa occasione Attico e Plutarco. Porto invece a testimonianza di
questo nostro discorso un discepolo di Platone. E chi meglio di Aristotele, il quale per vent’anni si
dedicò a Platone e alla sua opera – e che, per di più, di gran lunga superò l’ingegno e l’acume di tutti
gli uomini che vissero fra i Greci, ammirato per il vigore della sua intelligenza da Platone, che lo chiamò
la “mente” della sua scuola e Accademia–, può essere chiamato in causa per dare certa testimonianza

21
Nonostante Perera decida di citare anche altri autori rispetto a quelli che Filopono
indica solamente con un breve e generico richiamo, anche il gesuita spagnolo, proprio
come il Grammatico, si curerà in seguito di riportare alcune testimonianze di Aristotele
e di Alessandro a conferma dell’interpretazione creazionista del Timeo46. Per questo
motivo, dunque, nel capitolo del De communibus da cui sembrano provenire le infor-
mazioni riportate da Galileo in Iuv. C4 non compare alcun accenno al moto precosmico
e disordinato della materia: un’opinione del genere, al contrario di quanto scrive Gali-
leo in Iuv. C4, non è infatti ricavabile né da Phys. 251b, 14-18, né dai commenti di
Alessandro di Afrodisia citati da Filopono nella confutazione al sesto argomento di
Proclo. Là dove Alessandro parla di un primigenio moto inordinato in riferimento alla
dottrina platonica, tale moto è immediatamente attribuito a generici «corpi», non alla
materia47.
Il secondo motivo per cui nel capitolo quinto dell’ultimo libro del De communibus
Perera non menziona il moto inordinato della materia è che, anche in merito a questa
opinione, apparentemente rintracciabile in Tim. 30a48, non vi era fra gli interpreti di
Platone alcuna certezza. Il problema esegetico relativo a Tim. 30a viene infatti trattato
da Perera in un altro luogo dell’ultimo libro del De communibus, cioè nella confuta-
zione a due delle venti argomentazioni che il gesuita spagnolo ricava dai diciotto ar-
gomenti di Proclo sull’eternità del mondo49. Le confutazioni di Perera alla tredicesima

dell’opinione di Platone? Proporrò, insieme alle parole di Aristotele, i commenti di Alessandro di Afro-
disia […]»). Per una traduzione inglese dal greco del passo appena citato, cfr. Philoponus, Against Pro-
clus On the Eternity of the World (6-8), translated by Michael Share, Duckwort, London 2005, pp. 67-
68.
46
Cfr. De communibus, XV.5, pp. 495B-496B. Perera cita inoltre passi di altre opere platoniche per
corroborare l’interpretazione creazionista di Tim. 28b-c. Filopono riporta anche due testimonianze di
Calvisio Tauro (Cfr. Contra Proclum VI.27 223.1-224.15).
47
Cfr. Contra Proclum VI.27 221.5.
48
«Poiché la divinità voleva che tutte le cose fossero buone, e che nessuna, per quanto possibile, si
rivelasse imperfetta, avendo preso così quanto era visibile, che non si trovava in quiete, ma in un movi-
mento senza ordine né regola, lo condusse dal disordine all’ordine, considerando che questo è in tutto
migliore di quello» (Platone, Timeo, trad. it. a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2001, p. 185).
49
Cfr. Perera, De communibus, XV.4 («Viginti argumenta Procli de mundi, et solutiones eorum»),
pp. 468A-492A.

22
e sedicesima argomentazione di Proclo restituiscono in modo chiaro l’interpretazione
cui il gesuita aderì riguardo a Tim. 30a50.
In primo luogo, nella confutazione alla sedicesima argomentazione di Proclo51, Pe-
rera rifiuta in modo netto la tesi procliana secondo cui il soggetto del moto disordinato
descritto in Tim. 30a è la «materia prima», la «χώρα»52. Per il gesuita spagnolo, Platone
si riferì in quel luogo al moto disordinato dei «corpi naturali», cioè quei corpi natural-
mente inclini al movimento:

Ma è falso dire che secondo Platone ciò che si mosse di moto disordinato fu la
materia prima. Porfirio dice infatti che devono con ciò intendersi i corpi naturali

50
Il riferimento a Tim. 30a, come si vedrà a breve, è reso esplicito dalla citazione inserita nella
confutazione alla sedicesima argomentazione di Proclo: cfr. Perera, De communibus, XV.4, p. 487B.
51
La sedicesima argomentazione proclania è così riportata da Perera: «Materia sempiterna est, et
per se habilis ad suscipiendas formas; vel igitur formae in ea semper extiterun, et semper erunt, et sic
Mundus principius, et fine carebit; vel non semper fuerunt, aut erunt; quod est absurdum: quomodo
enim materia ex aeternitate formis caruit, ad quas suscipiendas semper fuit habilis? Sed forte dices, ab
aeterno materiam habuisse formas vagas, imperfectas, et inordinatas; postea vero, productas fuisse for-
mas perfectas. Verum id dici nequit, cum enim materia per se, ac semper habilis sit ad suscipiendas
formas perfectas, nulla potest reddi caussa, cur non ab aeterno illas habuerit. Deinde, quid opus fuit
prius habere formas imperfectas, ut deinde perfectas habere posset? Quod autem Plato, materiam prius
immoderate, ac inordinate motam fuisse dicit, id non ita accipiendum est, ut prius fuerit inordinata,
deinde ordinata; sed cogitare debemus, eum illis verbis exprimere voluisse, qualisnam materia ex se, et
suapte natura esset, nisi ab opifice Mundi distincta, et exornata fuisset» (De communibus, XV.4, p.
487B).
52
Sul concetto di materia prima secondo Proclo, Attico, Plutarco, Porfirio ma soprattutto Filopono,
cfr. F.A.J. De Haas, John Philoponus’ New Definition of Prime Matter. Aspects of Its Background in
Neoplatonism and the Ancient Commentary Tradition, E.J. Brill, Leiden 1997. Dandone una descrizione
generale, De Haas sostiene che «in Late Antiquity the name of ‘prime matter’ was attached to the uni-
que, formless and (hence) incorporeal matter of the universe which most Neoplatonists regarded as the
most basic level of the physical realm. Needless to say, this notion of prime matter, which I shall hen-
ceforth call ‘traditional’, was much indebted to the receptacle of Plato’s Timaeus» (ivi, p. XI). Per
quanto riguarda Filopono, quest’ultimo rifiutò l’idea «tradizionale» di materia, sostenendo, proprio nel
De aeternitate mundi contra Proclum, una nuova concezione di materia prima intesa come estensione
tridimensionale indefinita, non più pensata, quindi, come l’oscuro sostrato incorporeo di qualità, forme
e sostanze, dei corpi (cfr. ivi, pp. XII-XIII). Una descrizione della materia prima secondo Simplicio e
Filopono è riassunta in modo chiaro e puntuale da Anna De Pace (cfr. A. De Pace, Le matematiche e il
mondo, cit., p. 81-83; la studiosa precisa le differenze tra le posizioni di Filopono e Simplicio in nota
135), che allo stesso tempo individua le caratteristiche principali della concezione di Perera, secondo
cui la materia prima, pur essendo indeterminata e imperfetta, non è un mero ente di ragione, ma «una
“quasi sostanza” dotata di esistenza autonoma, cui ab aeterno inerisce immediatamente la quantità: per
rendersene conto, basta ricondursi con la mente ai primordi della creazione, quando Dio pose un’esten-
sione immutabile e definita, la cui privazione di forme fosse la condizione necessaria e la garanzia
dell’ordinata e perenne costituzione dell’universo» (cfr. ivi, pp. 83-86).

23
con cui fu costruito il mondo, i quali, essendo naturali, certamente si muovono. In-
vero, se non fossero stati ordinati e collocati nel loro proprio sito e luogo dal Crea-
tore e Architetto del mondo, essi si agiterebbero con un moto indistinto e burra-
scoso, come una nave senza timoniere o un carro senza auriga. Che così Platone
dunque pensasse, lo indicano le seguenti parole: “Ciò che infatti era visibile, né
tranquillo né quieto, ma immoderatamente agitato e ondeggiante, egli [il demiurgo]
lo prese e lo portò dal disordine all’ordine” [scil. Tim. 30a]. Che cosa sono, dice
Porfirio, le cose percepibili coi sensi se non i corpi? La materia infatti, che secondo
Platone è difficilmente o a fatica colta attraverso un ragionamento bastardo [cfr.
Tim. 52b], non può essere enumerata tra ciò che cade sotto i sensi.53

Due riferimenti permettono di comprendere cosa intenda effettivamente dire Perera


con «corpi naturali». Innanzitutto, la metafora del timoniere e dell’auriga rimanda
molto probabilmente a Tim. 53c, passo in cui Platone descrive lo stato caotico degli
elementi «prima che si generasse da essi l’universo», «quando il dio è assente»54. L’al-
tro riferimento, quello a Porfirio, consente di accreditare con una certa sicurezza sia
l’ipotesi che Perera alluda agli elementi parlando dei «corpi naturali», sia che egli con-
sideri gli elementi il soggetto del moto disordinato descritto in Tim. 30a. Porfirio for-
mulò la propria opinione in contrasto con quella di Attico e Plutarco, i quali rintrac-
ciarono proprio in Tim. 30a – dove si legge che il demiurgo mise in ordine «quanto

53
«Sed illud falsum est, Platonem, per id, quod inordinate movebatur, intellexisse materiam primam;
Porphyrius enim ait intelligenda esse corpora naturalia, ex quibus Mundus coagmentatus est; quae quo-
niam naturalia sunt, moventur illa quidem, verum nisi ab opifice Mundi in ordinem digesta essent, et
suum quodque situm, et locum ab Architecto Mundi accepissent, turbato, et vago motu agitata fuissent;
ut navis dum gubernatore, et currus cum auriga destituitur. Id autem Platonem sensisse, illa verba indi-
cant: Quidquid enim erat, quod sub cernendi sensum caderet, id sibi assumpsit, non tranquillum et
quietum, sed immoderate agitatum et fluitans, idque ex inordinato in ordinem adduxit. Quenam, inquit
Porphyrius, sunt, quae sub sensum cadunt, nisi corpora? Materiam enim, cum secundum Platonem vix
aut ne vix quidem spuria cogitatione comprehendatur, in iis quae sub sensum cadunt, numerari debet».
Il riferimento di Perera alla «cogitiatio spuria» rimanda, come segnalato, a Tim. 52B. In questo luogo
Platone sostiene che vi è un genere di realtà, la «χώρα», che «può essere colto attraverso un ragiona-
mento bastardo che non deriva dalla sensazione e che è a stento credibile, al quale guardiamo come
sognando» (Platone, Timeo, cit., p. 275).
54
«E prima di ciò [prima che si generasse dagli elementi l’universo ordinato], tutti gli elementi erano
disposti senza ragione né regola; ma quando l’universo prese a essere ordinato, il fuoco innanzitutto e
poi l’acqua, la terra e l’aria, pur conservando delle tracce di se stessi, si trovarono comunque nella
condizione in cui è verosimile che si trovi il tutto quando il dio è assente; e queste cose, che allora si
trovavano appunto in tale condizione naturale, egli le configurò innanzitutto secondo forme e numeri»
(Platone, Timeo, cit., pp. 279 e 281).

24
era visibile, che non si trovava in quiete, ma in un movimento senza ordine né re-
gola»55 – la prova che secondo Platone la materia fosse preesistente alla generazione
del cosmo, e che essa sia stata, in origine, il soggetto di un moto confuso56. Al contra-
rio, secondo Porfirio la materia cui si riferisce Platone nel Timeo, la «χώρα», conte-
nendo solamente le tracce delle idee che successivamente accoglierà, non può essere
corporea, perciò nemmeno «visibile»57. Di conseguenza, Porfirio afferma che, se-
condo Platone, non fu la materia a muoversi disordinatamente, bensì i corpi visibili,
cioè gli elementi58.
Forse Perera ebbe modo di leggere l’opinione di Porfirio nelle confutazioni di Fi-
lopono al sesto e al quattordicesimo argomento di Proclo59. Ciò che però qui più inte-
ressa mettere in evidenza è la pluralità delle interpretazioni con cui fin dall’antichità

55
Ivi, p. 185, corsivo mio.
56
Cfr. F.A.J. De Haas, John Philoponus’ New Definition of Prime Matter, cit., pp. 14. Per quanto
riguarda Plutarco, cfr. Plutarco, La generazione dell’anima nel Timeo, Introduzione, testo critico, tra-
duzione e commento a cura di F. Ferrari e L. Baldi, M. D’Auria Editore, Napoli 2002-2006, pp. 118-
125, specialmente il commento esplicativo in nota 128).
57
Cfr. Tim. 50e.
58
Cfr., per esempio, Porfirio, I frammenti dei commentari al Timeo di Platone, trad. it. a cura di
A.R. Sodano, Centro Bibliotecario per la Diffusione della Cultura, Napoli 1974, pp. 42-50, in particolare
il Fr. LI, in cui compare un’interpretazione molto interessante di Tim. 30a: «“Ab aeterno” dunque il
Mondo fu Ordine e il Demiurgo costituì l’assetto della natura “difettosa e senza ordine”. Ma allora
perché Platone ha immaginato il disordine di cui parla? Probabilmente, per farci vedere la differenza
tra la produzione dei corpi e il loro ordinamento, una volta che essi sono stati creati, bisogna supporre i
corpi esistenti, ma moventisi senza ordine: poiché è impossibile ai corpi di mettersi essi stessi in ordine.
Quindi, siccome Platone vuole mostrare che l’ordine viene ai corpi dall’esterno e non da essi stessi, egli
ha fatto vedere che il disordine è intimamente legato ai loro movimenti per tutto il tempo in cui sono
privati della Causa divina». Come si nota, Porfirio parla di «corpi», non di «materia». Inoltre, Porfirio
non legge nel Timeo l’origine temporale del mondo.
59
Cfr. i frammenti di Porfirio in Contra Proclum. VI.14, 164.18-165.6 e XIV.3, 546.5-547.19. In
particolare, mi pare che il frammento contenuto nel testo 14 allegato alla confutazione del sesto argo-
mento di Proclo sia quello in cui il tema venga trattato in maniera più estesa. Ne riporto perciò la tradu-
zione inglese di Michael Share contenuta in Philoponus, Against Proclus On the Eternity of the World,
cit., pp. 39-40: «The problem as to whether it [scil. l’universo] is constructed of matter and form is not
one that is peculiar to the universe (that is, the world) qua universe but one that arises in relation to any
and every individual corporeal object that is generated and perishable, as for instance a particular vo-
lume of water or earth. Porphyry himself is a witness that this is true. Although he has previously stated
that the world is said to be generated in that it is composed of matter and form, later, when commenting
on the words ‘the god, taking over all that was visible, not at rest but moving in a discordant and disor-
derly manner’ [si tratta di Tim. 30a], he, to quote his exact words, writes this: The making of the world
and the creation of body are not the same thing, nor are the beginnings of body and of the world the
same. For the world to come to be, both bodies and God must exist, for bodies too, there must be matter,
God, and supervening [form] (one lot so that the matter may have become body). All of these always
come into existence at once and not separately over time, but instruction necessarily separates them so

25
veniva letta la cosmogonia platonica: diverse interpretazioni di cui Galileo, nella Trac-
tatio prima de mundo, non rende conto, riportando, tra l’altro, solo l’opinione plutar-
chea sul moto disordinato della materia che Perera non accolse.
Diversa, inoltre, è la lettura critica che Galileo, nella Tractatio prima de mundo, e
Perera, nel De Communibus, danno della cosmogonia platonica. Galileo riconosce a
Platone il merito di aver creduto all’opinione vera di un’origine temporale del mondo,
ma di non essere tuttavia stato in grado di argomentare correttamente in suo favore:
l’Ateniese postulò infatti la presenza di una materia precosmica che è in contrasto con
l’idea stessa di origine, nascita e creazione del mondo60. Perera, invece, legge nella
cosmogonia platonica l’effettiva creatio ex nihilo dell’universo, del tutto in linea con
la rappresentazione cristiana di Creazione. Confutando la tredicesima argomentazione
di Proclo61, Perera asserisce infatti che, a suo dire, non vi sono motivi sufficienti per
vedere affermata nel Timeo l’eternità della materia:

Da nessuna parte si legge che Platone affermi la materia essere sempiterna. Al con-
trario, egli dice a chiare lettere che il mondo è generato. Chi dunque si confà meglio
alle parole di Platone: Proclo, che vuole il mondo eterno (cosa che Platone nega
apertamente) e la materia sempiterna (cosa che Platone in nessun luogo afferma); o
noi, che facciamo nascere la materia insieme al mondo? Delle due [opinioni], una è
esplicitamente affermata da Platone e una in nessun luogo negata.62

as to be able to explain that which comes to be accurately. The beginnings of body are God, who is the
begetter, matter, and the shapes that [Plato] will tell us about later, the things from which bodies are
composed being begotten of God; those of the world are bodies, which already exist through the agency
of God, and God, who gives the order. And a bit later: It should be taken as evidence that the framing
of the body and that of the world are not in Plato’s view the same thing and that at this point [the
creator] takes over not matter but bodies that have been produced from matter, that he says that what
is taken over is visible – and what could visible things be other than bodies? Matter in his view is
invisible and formless, being apprehended only with difficulty by [a kind of] spurious reasoning – and
that he goes on to show the generation of bodies even though he has [already] shown the framing of
the world in this passage. After the generation of the world he returns to the generation of body» (cor-
sivo mio per mettere bene in luce le parole di Porfirio riportate da Filopono).
60
Cfr. Iuvenilia, OG, I, p. 24.
61
La tredicesima argomentazione è così presentata nel De communibus: «Materia prima, est pro-
creationis et interitus expers; aliquin alterius materiae indigeret. Illud autem, cuius gratia materia est,
est ipsa procreatio; et materia refertur ad formam, relativa autem simul sunt: relinquitur igitur, ut sit
materia aeterna est, procreatio quoque, cuius gratia illa est, aeterna sit, et sint formae in ipsa, ex aeter-
nitate» (De communibus, XV.4, p. 481D).
62
Perera, De communibus, XV.4, p. 482B. («Nusquam legitur Plato dixisse materiam sempiternam
esse. Mundum autem ortum esse, clara voce pronunciat. Uter igitur magis consentanea Platoni dicit,
Proclus, qui vult mundum aeternum esse (quod aperte negat Plato) eoque sit materia sempiterna, quod

26
In conclusione, almeno due, per ora, sono le considerazioni che è possibile fare
rispetto a quanto emerso nelle pagine precedenti:
1) in primo luogo, una considerazione riguardo alle fonti di Iuv. C4. Se, come è
stato osservato da Carugo e riproposto da Wallace, il De communibus di Perera
è con grande probabilità annoverabile tra le fonti di questa parte del Ms. 46,
bisognerebbe tuttavia comprendere perché, nonostante vi siano notevoli somi-
glianze testuali, è comunque presente una forte differenza di contenuto, soprat-
tutto in merito alla cosmogonia platonica, tra quanto espresso dal gesuita spa-
gnolo nell’ultimo libro del De communibus e quanto riportato da Galileo nella
Tractatio prima de mundo. Forse Galileo integrò alcune informazioni mancanti
nelle reportationes di Antonio Maria Menu (altra fonte rintracciata da Wallace
per Iuv. C4) ricavandole dalla lettura del De communibus. Questa ipotesi è tanto
probabile quanto quella dell’esistenza di un’altra fonte, non ancora trovata,
della Tractatio63. Quel che è certo, è che nella Tractatio prima de mundo Gali-
leo si rifà, in modo coerente con quanto discusso anche nella seconda quae-
stio64, a un indirizzo di pensiero distante da quello di Perera, sia riguardo all’in-
terpretazione di Tim. 30a, sia riguardo alla possibilità di armonizzare la cosmo-
gonia di Platone con la dottrina cristiana. Il problema sarebbe allora capire se
Galileo abbia fatto ciò a propria discrezione, conservando cioè una certa auto-
nomia interpretativa, o, più probabilmente, se si sia servito di un’altra fonte,
senza avere a che fare direttamente col De communibus;
2) la seconda considerazione, invece, concerne un aspetto più teorico. Nella Trac-
tatio prima de mundo, come si è visto, la cosmogonia platonica è criticata per-
ché in contrasto con l’idea di una genesi temporale del mondo e, in breve, con
l’idea stessa di creazione dell’universo. La particolare connessione tra il pro-
blema cosmogonico e quello relativo all’eternità o meno del mondo, però, è del
tutto assente nelle opere propriamente galileiane. Il problema della durata del

nusquam Plato dixit; an nos, qui materiam una cum Mundo coepisse volumus, quorum alterum Plato
manifeste scribit, alterum nusquam aperte negat?»)
63
Non andrebbe dunque esclusa a priori l’ipotesi riproposta da Michele Camerota sull’esistenza di
una fonte di matrice pisana (cfr. M. Camerota, Galileo Galilei, cit., p. 43 e supra, nota 9).
64
La seconda quaestio verrà discussa brevemente nel capitolo seguente.

27
mondo non assilla la mente di Galileo, il quale è più interessato a comprendere
come Dio dispose e ordinò il mondo. Per Galileo, affermare, per esempio, che
all’origine del mondo andavano «indistinte materie vagando» non avrebbe do-
vuto destare alcun sospetto di empietà o di lontananza dalla dottrina cattolica65.
La cosmogonia platonica poteva essere perfettamente letta, secondo lo scien-
ziato pisano, in accordo con la concezione cristiana di Creazione, proprio come
fece Perera nel De communibus e al contrario di quanto esposto nella Tractatio
prima de mundo. Non si cura dunque Galileo di cimentarsi nella risoluzione di
problemi che allora venivano comunque stimati di una certa importanza66. Ciò

65
Nel Dialogo, in cui compare il riferimento alle «indistinte materie» sopracitato (cfr. Dialogo, OG,
VII, p. 43), Galileo assume implicitamente che il mondo sia stato creato. Rimando, a tal proposito, alle
considerazioni di Giorgio Spini: «Galileo went as far as to discuss – in a fascinating page of the Dialogo
dei massimi sistemi – the hypothesis that the planets could have been pushed by God into their present
places with a linear movement and then they could have started their present circular movements. Such
a hypothesis presumes evidently that the work of the world’s divine artificier was not limited to the
creation; it allows the possibility of God’s intervention to shape the universe even after its creation, or,
better, an infinite possibility of interventions» (G. Spini, The Rationale of Galileo’s Religiousness, in
Galileo Reappraised, ed. by C.L. Golino, University of California Press, Berkeley and Los Angeles
1966, pp. 44-66, qui p. 61). Nello stesso articolo, Spini, in modo molto generico e assumendo, sulla
scorta di Favaro, che il Ms. 46 fosse stato stilato durante gli anni del discepolato pisano, notò che Galileo
fu introdotto in gioventù a discussioni riguardanti l’eternità e la creazione del mondo, evidentemente di
non poca importanza all’interno dell’ambiente accademico: «Among Galileo’s earliest papers, there are
notes of the lectures in natural philosophy that he heard in Pisa, in 1584. These contain ample discussion
of whether the world is eternal or was created by God. They are an interesting evidence of the kind of
problems that Galileo could be initiated at Pisa. But they conclude in favor of the orthodox doctrine»
(ivi, p. 57).
66
Una lettera inviata da Benedetto Castelli a Galileo Galilei nel 1607 ci dà cognizione delle impli-
cazioni teologiche che una teoria del moto avrebbe potuto avere: «Dalla dottrina di V. S., che a princi-
piar il moto è ben necessario il movente, ma a continuarlo basta il non aver contrasto, mi vien da ridere
quando esaltano questa dottrina come quella che mi faccia venir nella cognitione dell’esistentia di Dio;
conciosiaché se fusse vero che il moto fusse eterno, io potrei doventar ateista e dire che Dio non havemo
bisogno, bestemia scelerata» (OG, X, p. 170). Castelli deride coloro che «esaltano» le conclusioni gali-
leiane sul moto per poi servirsene come dimostrazione dell’esistenza di Dio. La lagnanza di Castelli ha
un motivo ben preciso: coloro che così fanno si basano ancora su un tipo di argomentazione sviluppato
da Aristotele ma niente affatto cogente, con cui si legava a doppio filo la questione del moto dei corpi
a quella della «produttione universale»: «Supposto donque da Aristotele che a principiar il moto è ne-
cessario che preceda la essistentia del movente e mobile, segue dicendo: O questi sono fatti, o eterni: se
eterni, perché non si faceva il moto? se fatti, adonque per moto: talché era il moto avanti il moto. Che
questa sia una conseguenza stroppiata, io lo provo, proposti prima e confirmati doi lemmi, verissimi
non solo da sé, ma nella dottrina istessa d’Aristotele. Il primo è, che se il tutto si facesse, saria impos-
sibi[le] farsi con moto. La ragione è, perché ricercandosi, per la definitione del moto, qualche cosa a
rispetto della quale si faccia la mutatione, et essendo da noi proposta la poduttion del tutto, niente si
ritrova: adonque non si fa con moto, che era il proposito nostro. Il secondo è, che non sarebbe un assurdo
quello che per tale si va predicando da’ Peripatetici, che se il tutto si facesse, si farebbe di niente, poiché

28
non dovrebbe apparire scontato, se si pensa che anche Perera scrisse, all’inizio
dell’ultimo libro del De communibus (da cui sono state tratte tutte le citazioni
finora riportate), che «idem autem est de motus, atque de mundi aeternitate di-
sputare»67, e se si considera che Galileo si occupò con costanza dello studio del
moto dei corpi. Le questioni e i problemi sollevati nella Tractatio prima de
mundo sembrano in ogni caso perdere di attrattiva e mordente nell’opera pro-
priamente galileiana, in cui, nonostante ciò, viene riposta un’attenzione parti-
colare verso la cosmogonia intesa come una fase successiva alla creazione di-
vina del mondo. Bisognerebbe allora comprendere perché Galileo, pur met-
tendo da parte i problemi relativi alla durata del mondo, non si esima, nelle
proprie opere scientifiche, dal prendere in considerazione un tema, quello co-
smogonico, apparentemente più affine a un tipo di speculazione teologica anzi-
ché scientifica.

non solo non è inconveniente, ma saria necessario che, facenodosi il tutto, di niente si facesse: talché
potiamo dire che l’axioma Ex nihilo nihil va inteso e limitato a forza (se però have spetie di verità) alle
prodottioni particolari, non a quella del tutto (se si facesse). Hora, come può inferire quest’huomo da
bene: Se son fatti, adonque per moto? se né lui né altri, che abbiano solo un puoco di lume di intelligenza
di parole, ponno dire che la prodottione universale si faccia (se si fa) con moto? Non vede egli che,
mentre mi dona, non concede, questo passo si facta, che imediate da sé stesso si tronca la strada, come
nel primo lemma, di poter dire: ergo per motum? Io non dico né che sia fatto né che non sia fatto, ma
che il progresso suo non mi fa guadagnar niente» (cfr. ibid.). Secondo Castelli, dunque, non vi è nessuna
possibilità di dedurre, a partire da considerazioni attinenti al moto, l’eternità o meno del mondo, nonché
– e ciò lo si legge nel passo finale della stessa lettera riportato all’inizio di questa nota – l’esistenza di
Dio. Può darsi che Galileo, condividendo l’opinione del suo allievo, non abbia mai tentato di usare le
proprie conclusioni sul moto per confermare l’esistenza di Dio e la creazione dell’universo. È certo però
che egli se ne servì piuttosto per comprendere attraverso quali modalità il mondo venne ordinato da
Dio, elaborando cioè una propria cosmogonia (come si vedrà, Galileo elaborò non una, ma ben due
cosmogonie).
67
De communibus, XV, p. 460C. Perera giunse a tale conclusione dopo aver introdotto l’ultimo libro
del De communibus ricordando brevemente quanto esposto nei precedenti libri: «Duobus proxime su-
perioribus libris dictum est de natura motus, et de multiplici eius varietate, ac divisione: hoc libro, qui
extremus erit huius operis, agendum est de duratione motus, de quas duas quaestiones explicare volu-
mus; unam, an motus sit aeternus; alteram, ut motus non fuerit aeternus, an tamen aeternus esse potuerit.
Idem autem est de motus, atque de mundi aeternitate disputare. Nam utrumvis ponatur aeternum, aut
non aeternum, alterum quoque aeternum, aut non aeternum necesse est» (Ibid.). Vedi anche la nota
precedente riguardo alle relazioni tra moto e durata del mondo. Bisogna inoltre fin da ora notare che fu
Aristotele stesso ad associare nell’ottavo libro della Fisica le due questioni circa la genesi del mondo e
il movimento dei corpi (cfr. Phys. 250b, 11 e segg.).

29
I.4 Il «primum ens» e la creazione del mondo «secundum veritatem»

Dopo aver esposto e criticato le teorie degli antichi filosofi sull’origine dell’uni-
verso, Galileo riporta, nella seconda questione della Tractatio prima de mundo, la vera
opinione de origine mundi. Il titolo della seconda questione è di per sé molto sugge-
stivo: «Quid sentiendum sit de origine mundi secundum veritatem»68.
Proprio come nella prima questione della Tractatio Galileo si dedicò a una precisa-
zione terminologica, così nella seconda egli cerca fin dall’inizio di precisare la neces-
sità di porre un certo «primum ens» che, eterno e increato, diede origine all’universo:

Dico, in primo luogo, che necessariamente vada posto un certo primo ente increato
e sempiterno, dal quale tutte le altre cose dipendano e a cui tutte le cose siano ordi-
nate come a un fine ultimo.69

Galileo riferisce che un ente di questo tipo deve esistere necessariamente, «poiché
l’ordine [d’indagine] corretto richiede che si parta dalle cose inferiori per arrivare al
Cielo, e dal Cielo fino al primo motore, cioè questo primum ens; e che si dia inoltre un
fine universale di ogni cosa, che non può essere altro che il detto ente»70. L’associa-
zione del primum ens al «primo motore» e alla causa finale dell’universo potrebbe
lasciar credere che in questo passo Galileo stia facendo riferimento a una concezione
di Dio molto vicina a quella, per esempio, sostenuta da Buonamici, il quale pensò a
Dio come alla causa finale del mondo71. In realtà, continuando la lettura della seconda

68
Iuvenilia, OG, I, p. 24, corsivo mio.
69
Ivi, pp. 24-25. («Dico, primo, necessario esse poni aliquod primum ens increatum et sempiternum,
a quo caetera omnia dependeat et ad quod tanquam ad ultimum finem ordinetur.»)
70
Ivi, p. 25. («Quia rectus ordo exigit, ut ab inferioribus ad caelum, et a caelo ad primum motorem,
deveniamus, qui est hoc ens increatum; et preterea, ut detur unus finis omnium universalis, qui non
potest esse nisi dictum ens.»)
71
Cfr. la voce «Dio» nell’Indice delle cose notevoli in M.O. Helbing, La filosofia di Francesco
Buonamici, cit., p. 452. Buonamici riconosce a Dio il ruolo di causa finale del mondo, non efficiente o
«effettiva». Helbing sottolinea che la concezione buonamiciana di Dio è distante da quella che Galileo
espone nelle proprie opere più mature, citando implicitamente un luogo dei Diversi frammenti attenenti
al trattato delle cose che stanno sull’acqua (cfr. OG, IV, p. 52, in cui Galileo riporta un passo biblico
tratto dal Libro della Sapienza 11, 21: «posuit Deus omnia in numero, pondere et mensura»), e conclu-
dendo dunque che «la nozione galileiana di Dio, che ha un ruolo non indifferente nelle sue opere, non
ha niente a che vedere con quella epicurea del Buonamici. Dio è, per Galileo, l’onnipotente Architetto
Geometra, che ha regolato il tutto secondo il peso e la misura con sapere infinitamente infinito, ed è il
solo che possiede tutto il sapere» (M.O. Helbing, La filosofia di Francesco Buonamici, cit., p. 361).

30
quaestio della Tractatio prima de mundo, si scopre che la concezione di Dio ivi esposta
è antitetica a quella buonamiciana. Galileo, infatti, prima di definire questo primum
ens «Deus», precisa che esso non è solo la causa finale dell’universo, ma anche e so-
prattutto «effettiva»:

Dico, in secondo luogo, che questo ente eterno e increato non è solo la prima causa
finale di tutte le cose, ma anche quella effettiva di tutto l’essere in modo assoluto
[…].72

La concezione di primum ens che emerge da queste pagine del Ms. 46 è pertanto in
linea con quella cristiana di Dio Creatore dell’universo. A ben vedere, è proprio attra-
verso la rappresentazione cristiana di Dio che Galileo giunge infine alla conclusione
«secundum veritatem» sull’origine del mondo. Tale rappresentazione risulta, nella
Tractatio prima de mundo, la chiave di volta con cui risolvere un quesito su cui si
erano interrogati anche i «veteres philosophi», compresi Platone e Aristotele, i quali
evidentemente non poterono arrivare a una conclusione corretta perché ancora ignari
degli attributi veri di Dio, elencati invece uno dopo l’altro da Galileo:

Dico, in terzo luogo, che questo ente primo e increato ha l’essere per essentiam:
pertanto è infinito e ha virtù e potenza infinite.73

Dico, in quarto luogo, che questo ente, primo, increato e infinito, opera liberamente
e in modo incondizionato ad extra.74

Dico, in quinto luogo, che questo primo ente, increato, infinito e libero, avrebbe
potuto fin dal principio creare il mondo, e de facto lo creò.75

Dico, in sesto luogo, che il mondo deve essere stato creato da Dio nel tempo, così
che si vedesse che esso dipende da Dio e in modo tale che noi potessimo compren-
dere che Dio, essendo perfettissimo, non avendo bisogno di niente e possedendo
un’infinita potenza, è libero nel proprio agire; ma anche affinché la mente umana,

72
Iuvenilia, OG, I, p. 25. («Dico, 2o, hoc ens aeternum et increatum non solum esse primam causam
finalem omnium rerum, sed etiam esse effectivam totius esse simpliciter […]».)
73
Ibid. («Dico, 3o, hoc ens primum et increatum habere esse per essentiam, ac proinde esse infini-
tum, et habere virtutem ac potentiam infinitam».)
74
Ivi, p. 26. («Dico, 4o, hoc ens, primum increatum et infinitum, libere et contingenter operari ad
extra».)
75
Ibid. («Dico, 5o, hoc primum ens, increatum, infinitum et liberum, potuisse de novo creare mun-
dum, et de facto creasse».)

31
commossa da tanta bontà, potenza e libertà, fosse maggiormente incline al culto di
Dio.76

La nozione di «primum ens» svolge dunque un ruolo di particolare importanza


all’interno dell’impianto argomentativo di questa parte della Tractatio: una volta enu-
cleatene le caratteristiche principali, e mostrato che esse corrispondono agli attributi
di Dio, Galileo è in grado di fondare su tale nozione la corretta opinione riguardo alla
creazione dell’universo. Solamente dopo aver compreso che Dio, eterno e increato, è
anche onnipotente, Galileo riferisce allora che il primum ens, non soltanto avrebbe
potuto creare il mondo ex nihilo77, fin dal principio («de novo»), ma perfino che «de
facto» così fece. La locuzione «de facto» indica in questo caso l’effettiva manifesta-
zione e la concreta materializzazione di un potere assoluto che, in quanto tale, è sciolto
da qualsiasi vincolo di necessità. Dio, come scrive Galileo, «libere et contingenter
operari ad extra», non è cioè costretto da un’azione necessaria a creare il mondo, a
esteriorizzare la propria infinita potenza in un atto. Eppure, riferisce ancora Galileo,
Egli ha «de facto» creato l’universo; o, sarebbe meglio dire, ha «de facto» scelto di
crearlo. La libertà dell’azione creatrice divina è rimarcata anche dopo aver affermato
e concluso che il mondo dovette essere stato generato nel tempo da Dio, dovette cioè
avere un inizio e una genesi temporale.
Rispetto al problema della creazione dell’universo la nozione di primum ens appare
dunque risolutiva nelle pagine della Tractatio prima de mundo. Va tuttavia notato che
una nozione del genere non entrerà mai più a far parte del vocabolario galileiano, né
latino né volgare. Nelle opere di cui Galileo fu certamente l’autore, infatti, Dio non è
mai descritto come «primum ens», nemmeno là dove lo scienziato pisano prende in
considerazione la creazione divina del cosmo. Forse, scrivendo il Ms. 46, Galileo

76
Ivi, p. 27. («Dico, 6o, debuisse mundum a Deo in tempore procreari; tum ut ostenderetur illum a
Deo pendere, Deum autem nullius rei indigum, perfectissimum, et infinitam virtutem habentem, in sui-
sque operibus liberum esse, intellegeremus; tum etiam, ut mens humana ad Dei cultum, tanta eius bo-
nitate liberalitate potestateque commota, magis excitaretur».)
77
Cfr. ivi, p. 25: «Et hinc colligitur, primum ens posse res de nihilo procreare: nam si agens, quo
habet perfectiorem virtutem, ex remotiori potentia potest effectum producere, cum ens primum habeat
infinitam virtutem, non erit mirum si ex remotissima potentia, hoc est ex nihilo, poterit producere ef-
fectum». («E da ciò si deduce che il primo ente può creare cose dal nulla: infatti, se un agente può
produrre un effetto da una potenza più remota nella misura in cui ha una potenza più perfetta, dato che
il primo ente ha una potenza infinita, non sorprenderà se da una potenza remotissima, cioè dal nulla,
potrà produrre un effetto».)

32
esemplò una fonte in cui la concezione di primum ens, a sua volta ricavata, probabil-
mente, dall’opera di Tommaso d’Aquino78, viene adottata eludendo qualsiasi pro-
blema di ordine metafisico. Nella Tractatio prima de mundo vengono infatti accolte
alcune definizioni ontologiche e metafisiche senza specificarne il senso: per esempio,
quando viene detto che il primum ens «ha l’essere per essentiam», tale constatazione
non è fatta seguire da alcun ragguaglio teorico sui concetti di “essere” ed “essenza”,
né viene data importanza alla distinzione che l’Aquinate pose tra l’essere per essen-
tiam o per participationem79. Questa distinzione è assunta come se non vi fosse alcun
bisogno di ricordarne il significato. In generale, è la nozione stessa di primum ens che
è data per scontata: le sue caratteristiche vengono semplicemente elencate, non spie-
gate, per risolvere un problema attinente alla cosmologia e alla fisica.
Proprio riferendosi a questi passi della Tractatio prima de mundo, Corrado Dollo
osservò che «nelle dimostrazioni fisiche vengono congiunti – di diritto e di fatto
– “dati”, teologia naturale, autorità della teologia e delle Scritture e perfino richiami
alle prescrizioni della dottrina cattolica»80. Già a partire dai De motu antiquiora non si
assiste però più a niente di tutto ciò81. Se dunque Galileo, nelle proprie opere, al con-
trario di quanto si legge nel Ms. 46, farà attenzione a non confondere mai l’ambito
teologico con quello scientifico, lascerà inoltre cadere del tutto la nozione non più
dirimente, in confronto ai nuovi metodi della scienza galileiana, di primum ens, e si
curerà bene di non discutere problemi fuori della portata della propria scienza, come
quello relativo all’eternità o meno del mondo, rimane, però, da comprendere perché
egli ritenne comunque necessario in più di una occasione riflettere ancora sulla genesi
divina del cosmo.

78
Cfr. Summa Th., q. 2, a. 3 e segg.
79
Cfr. I Sent., dist. 8, q. 5, art. 2: «Nihil habet esse, nisi inquantum partecipat divinum esse, quia
ipsum est primum ens, quare cause est omnis entis»; o anche: «Si igitur non sit suum [scil. di Dio] esse,
erit ens per participationem, et non per essentiam. Non ergo erit primum ens: quod absurdum est dicere.
Est igitur Deus suum esse, et non solum sua essentia» (Summa Th., q. 3, a. 4).
80
C. Dollo, Galilei e la fisica del Collegio Romano, cit., p. 94.
81
Cfr. ivi, p. 95 e segg.

33
I.5 Alcune ipotesi sul Ms. 46: fonti e datazione

Da un punto di vista complessivo, l’esame da me condotto su alcune parti molto


circoscritte del Ms. 46 ha messo in evidenza ancora una volta quanto già sottolineato
da molti studiosi: gli Iuvenilia, all’interno del corpus galileiano, occupano una posi-
zione a sé stante, sembrano cioè non avere nulla a che fare con il resto della produzione
dello scienziato pisano. Si è visto, per esempio, che un concetto come quello di primum
ens, così importante nell’impianto argomentativo della Tractatio prima de mundo, non
trova più alcuno spazio di riflessione nell’opera originale di Galileo Galilei. Inoltre,
anche la cosmogonia di Platone, che nella Tractatio subisce le critiche di chi, a forza
di sillogismi, è portato a espungerla dal novero delle narrazioni de origine mundi se-
cundum veritatem, riceve invece accoglienza favorevole tra le pagine dei due capola-
vori della ‘maturità’ galileiana, cioè il Dialogo e i Discorsi. Che relazione c’è, dunque,
tra il Ms. 46 – ma lo stesso discorso vale anche per il Ms. 27, che ho preferito non
prendere in considerazione perché poco attinente al tema di questa tesi –, e le altre
opere galileiane? Per risolvere tale quesito bisognerebbe essere in grado di dare prima
una risposta almeno alle seguenti domande: quando Galileo scrisse il Ms. 46? Perché
lo fece? Quali furono le sue fonti?
Finora, sono almeno cinque le ipotesi con cui si è tentato di rispondere alle suddette
questioni. Cercherò di riassumerle brevemente:

1) L’ipotesi con cui voglio cominciare è quella di Favaro. Nel formularla, egli si
basò su due ‘evidenze’ estrapolabili dal testo del Ms. 46. La prima è che il ma-
noscritto presenta, come si è già ricordato, molti errori di trascrizione, nonché
un uso cattedratico del latino, che non si ritrova in altri scritti latini di Galileo82.
La seconda evidenza riguarda invece un preciso passo della Tractatio prima de
mundo, dal quale si ricava che il manoscritto venne stilato nel 1584, quando

82
Cfr. supra, nota 4 e Avvertenza Iuvenilia, OG, I, p. 11: «E poiché l’esame di queste scritture
scolastiche pone in evidenza che non differiscono di molto dai consueti commentari coi quali a que’
tempi si esponevano le dottrine d’Aristotele, ci parve, fino a prova contraria, di poter assumere che tale
origine sia ad esse da attribuirsi, come conforterebbero a credere un “ut videtis”, e un “adverte me
loqui”, cattedratico per eccellenza, che vi si riscontrano» (corsivo mio).

34
cioè Galileo era ancora studente universitario a Pisa83. Favaro ritenne dunque
probabile che il Ms. 46 consistesse in una serie di appunti scolastici redatti da
un Galileo ventenne durante il discepolato pisano, perciò decise di intitolare il
manoscritto «Iuvenilia». Per confermare tale ipotesi, dato che non si è conser-
vato il testo delle lezioni che Galileo probabilmente ebbe modo di seguire a
Pisa, Favaro suggerì di mettere a confronto il Ms. 46 con il De motu di Buona-
mici, vale a dire uno dei professori di Galileo a Pisa84.
2) Come seconda ipotesi, invece, riporto quella avanzata da Pierre Duhem. Lo stu-
dioso francese ritenne che il Ms. 46 fosse a tutti gli effetti una produzione ori-
ginale di Galileo, condotta sulla base di un volume cinquecentesco delle opere
di George Lokert, filosofo e teologo nato nel 1485 in Scozia, che studiò e inse-
gnò all’Università di Parigi fino al 152185. Duhem era convinto che Galileo
avesse estrapolato da questa fonte le informazioni sulla filosofia di Doctores
Parisienses come Giovanni Buridano e Alberto di Sassonia, spesso citati nel
Ms. 4686. Nel Ms. 46 sarebbe così contenuta la prova che Galileo prese spunto
dalla filosofia dei Doctores Parisienses per l’elaborazione delle proprie teorie
scientifiche: in breve, gli Iuvenilia non sarebbero altro che una sorta di ‘anello
di congiunzione’ tra la scienza medievale e quella moderna, partendo ovvia-
mente dall’idea che l’evoluzione del pensiero scientifico sia stata lineare e con-
tinua, senza forti scarti, cesure o mutazioni contingenti87. In ogni caso, anche
secondo Duhem, il Ms. 46 sarebbe una produzione giovanile di Galileo.

83
Cfr. ivi, p. 12. Nel Ms. 46 infatti si legge: «anni ab ortu Christi usque ad excidium Hierosolymo-
rum, 74; illinc usque ad praesens tempus, 1510» (Iuvenilia, ivi, p. 27).
84
Favaro vide, ad es., una affinità tra una parte del Ms. 46 (cfr. ivi, pp. 119-122) e i capitoli XXII e
XXIII dell’ottavo libro del De motu di Buonamici (cfr. Avvertenza Iuvenilia, ivi, p. 12, nota 4).
85
Cfr. P. Duhem, Etudes sur Léonard de Vinci, cit., Vol. III, pp. 582-583.
86
Cfr. ibid. È possibile inoltre leggere un riassunto del dibattito che sorse tra Favaro e Duhem sul
Ms. 46 in W.A. Wallace, Prelude to Galileo, cit., pp. 192-194.
87
Sul continuismo, cfr. supra, nota 10. Va sottolineato che secondo Duhem la vera ‘rivoluzione
scientifica’ ebbe inizio dopo l’editto che Étienne Tempier, vescovo di Parigi, promulgò nel 1277 contro
alcune tesi averroiste. Ciò, a parere di Duhem, permise ai filosofi naturali di superare gradualmente
certe interpretazioni restrittive del testo aristotelico e di elaborare nuove ipotesi sul mondo facendo leva
su una concezione cristiana di Dio (cfr. P. Duhem, Etudes sur Léonard de Vinci, cit., Vol. III, pp. VII e
248-249). Una tesi di questo tipo non è stata abbandonata. Pur essendo stata rimodulata, essa è ad esem-
pio fortemente presente nell’opera di Funkestein intitolata Theology and Scientific Imagination from
the Middle Ages to the Seventeeth Century, e pubblicata per la prima volta nel 1986 (cfr. l’edizione
italiana, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, tr. it. di A. Serafini, Einaudi,

35
3) Proseguo riportando l’ipotesi di Carugo e Crombie. La loro ipotesi poggia su
alcune scoperte concernenti le fonti dei Mss. 46 e 27. Essi ritennero, per esem-
pio, come ho già ricordato, che la Tractatio prima de mundo fosse stata redatta
da Galileo esemplando anche alcune parti dell’ultimo libro del De communibus
di Perera88. Ma la scoperta più interessante riguardava la fonte di alcune parti
del Ms. 27, rintracciata nell’opera di Ludovico Carbone, intitolata Additamenta
ad F. Toleti Commentaria una cum Quaestionibus in Aristotelis Logicam, pub-
blicata per la prima volta nel 159789. Constatando che Galileo utilizzò fonti ge-
suite sia nei Mss. 46 e 27 che nei De motu antiquiora, e perfino nella Lettera a
Cristina di Lorena scritta intorno al 1615, Carugo e Crombie ipotizzarono che
gli scritti appena citati fossero stati redatti presumibilmente nell’arco dello
stesso periodo, e dunque ritennero che il loro terminus a quo non potesse essere
anteriore al 1597, cioè l’anno di pubblicazione degli Additamenta di Carbone.
Probabilmente, sostennero ancora i due studiosi, Galileo si cimentò nella ste-
sura del Ms. 46 dopo aver pubblicato il Sidereus nuncius (1610), al fine di ri-
spondere alle obiezioni contro le proprie scoperte, e per chiarire, partendo
dall’esame delle fonti gesuite, la propria idea di scienza e di natura90.
4) La quarta ipotesi venne formulata da Wallace, il quale integrò le scoperte di
Carugo e Crombie affrontando un’indagine sulle reportationes del Collegio Ro-
mano, cioè su documenti manoscritti in cui sono riportate le lezioni di alcuni
professori gesuiti a Roma. Wallace si accorse che molte delle informazioni con-
tenute negli Additamenta di Carbone, presenti anche nel Ms. 27, erano in realtà
rintracciabili anche in alcune reportationes gesuite. Nelle reportationes di
Paolo Valla, risalenti a un corso tenuto tra il 1588 e il 1589, compaiono affer-
mazioni identiche a quelle che, secondo Carugo e Crombie, Galileo avrebbe

Torino 1996, pp. 12-13, in cui si sostiene che «le speculazioni medievali sulla possibile esistenza di
ordini naturali controfattuali spianarono la strada alla formulazione delle leggi naturali da Galileo in
poi», e che, in breve, «l’immaginazione teologica preparò la strada a quella scientifica»). Per una breve
ma puntuale critica a questo tipo di tesi, cfr. L. Bianchi, Uccelli d’oro e pesci di piombo: Galileo Galilei
e la potentia Dei absoluta, in Sopra la volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di Dio tra
Medioevo e Età Moderna, Lubrina, Bergamo 1986, pp. 139-146: 139-140.
88
Cfr. supra, nota 6.
89
La scoperta è di Carugo. Cfr. A. Carugo, A. Crombie, The Jesuit and Galileo’s Idea of Science
and of Nature, cit., pp. 6-7.
90
Cfr. ivi, pp. 65-67.

36
ricopiato dagli Additamenta. Inoltre, nel Ms. 27 vi sono delle parti riconducibili
alle reportationes di un corso che Muzio Vitelleschi tenne tra il 1589 e il 1590:
quelle stesse parti non trovano però alcun riscontro nell’opera di Carbone. Dato
che alcune parti delle reportationes di Valla e Vitelleschi sembrerebbero molto
simili ad alcuni luoghi del Ms. 46, Wallace si sentì allora in grado di provare
che i manoscritti galileiani 46 e 27 hanno fonti comuni, la più tarda delle quali
risalente al 1589-90, quando cioè Galileo cominciò la propria carriera di do-
cente universitario a Pisa. Il 1590 dovrebbe perciò costituire, secondo l’ipotesi
di Wallace, il termine a quo della composizione di entrambi i manoscritti gali-
leiani. Wallace sostenne infine che Galileo si fosse servito delle fonti gesuite
per fondare il proprio metodo d’indagine scientifica.
5) Infine, riporto e raggruppo due ipotesi, entrambe basate sulle indagini di Wal-
lace. La prima, proposta da Wisan, con cui si sostiene che Galileo avrebbe co-
minciato a copiare le reportationes gesuite al fine di acquisire una migliore pre-
parazione filosofica. Lo scopo sarebbe stato inizialmente quello di ottenere una
cattedra di filosofia naturale, perché meglio remunerata di quella di matematica
occupata da Galileo a Pisa. L’interesse puramente venale si sarebbe poi trasfor-
mato in vera passione91. L’altra ipotesi, avanzata invece da Fredette, è che Ga-
lileo, dopo aver abbandonato gli studi universitari nel 1585 e aver intrapreso lo
studio della matematica, avesse probabilmente intenzione di smantellare e con-
futare la filosofia naturale aristotelica, prettamente qualitativa. Un tentativo di
questo genere, verrà messo in pratica nei De motu antiquiora, redatti, secondo
Fredette e la maggior parte degli studiosi, tra il 1590 e il 1592. Il Ms. 46, dun-
que, sarebbe la prova che Galileo, prima di criticare la filosofia aristotelica, si
impegnò a conoscerla attentamente92.

91
Cfr. W.L. Wisan, Galileo and God’s Creation, in “Isis”, v. 77, n. 3 (1986), pp. 473-486, in parti-
colare p. 474.
92
Cfr. R. Fredette, Galileo’s De Motu Antiquiora Notes for a Reappraisal, in Largo campo di filo-
sofare. Eurosymposium Galileo 2001, a cura di J. Montesinos e C. Solis, Fundacion Canaria Orotava
de Historia de la Ciencia, La Orotava 2001, pp. 165-181, in particolare pp. 177-178.

37
Le ipotesi elencate sono tutte plausibili, anche se a mio avviso ve ne sono alcune
poco probabili. In particolare, l’ipotesi di Wisan risulta la meno convincente, soprat-
tutto perché Galileo continuò a insegnare matematica anche dopo il 1592, quando si
trasferì da Pisa a Padova, e perché non è rimasta alcuna traccia della presunta volontà
galileiana di insegnare filosofia naturale. Anche l’ipotesi di Fredette è poco persuasiva.
In particolare, lo studioso canadese, dicendo che Galileo stilò il Ms. 46 per meglio
conoscere le teorie aristoteliche poi confutate nei De motu antiquiora, sembra
anch’egli peccare di quel tipico psittacismo che, a parere dello stesso Fredette93, in
alcuni casi impedisce di raggiungere nuovi risultati in ambito storiografico. Infatti,
leggendo in modo accurato anche una piccola parte del Ms. 46, si intuisce immediata-
mente che Galileo avesse raccolto le proprie informazioni sull’opera di Aristotele da
fonti secondarie94. Nei De motu antiquiora, invece – come si vedrà nella seconda se-
zione della tesi – i rimandi ai testi aristotelici e anche platonici sono puntuali, segno
che, rispetto al Ms. 46, prima di scrivere i De motu antiquiora Galileo ebbe modo di
studiare con attenzione certamente il De caelo, e molto probabilmente anche la Fisica.
Poco plausibile e alquanto forzata, infine, è l’ipotesi di Wallace, secondo cui Galileo
si sarebbe dedicato allo studio della interpretazione gesuitica di Aristotele per derivare
da quest’ultima il proprio metodo scientifico. Come ho già fatto notare sulla scorta di
Corrado Dollo, già nei De motu antiquiora, ossia nei primi scritti galileiani sul moto
(sia che li si collochi nei primi anni Novanta del ‘500, sia che li si faccia risalire a un
periodo successivo al 1597), il metodo e lo stile argomentativo di Galileo differiscono
non poco da quelli utilizzati nel Ms. 4695. La stessa critica, con alcune calibrate varia-
zioni, si potrebbe perfettamente applicare anche all’ipotesi di Duhem.
Qualunque sia la plausibilità di tutte le ipotesi sopra elencate, è comunque possi-
bile notare che per ognuna di esse l’elemento chiave riguarda la datazione del Ms. 46.
È infatti a partire da una precisa datazione che vengono poi elaborate varie ipotesi per
comprendere il ruolo del Ms. 46 all’interno della biografia intellettuale di Galileo. Se,

93
Cfr. ivi, p. 165.
94
Cfr. supra, nota 42.
95
Si vedano inoltre anche le critiche di Alfredo Damanti (cfr. A. Damanti, Libertas philosophandi.
Teologia e filosofia nella Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena di Galileo Galilei, Storia e Let-
teratura, Roma 2010, p. 187, nota 1), il quale si rifà anche a considerazioni di Anna De Pace (cfr. A. De
Pace, Le matematiche e il mondo, cit., pp. 321-324).

38
per esempio, si accetta la datazione di Favaro, cioè il 1584, è facile spiegare perché il
Ms. 46 presenti caratteristiche atipiche per un testo galileiano: esso è semplicemente
la copia rimastaci degli appunti di uno scolaro che ancora non ha cominciato a elabo-
rare un pensiero filosofico autonomo e peculiare. Al contrario, spostando più avanti il
termine a quo, diventa allora necessario comprendere perché Galileo, già insegnante a
Pisa, o addirittura dopo il 1610, decidesse di dedicarsi alla stesura del Ms. 46.
Si può aggiungere, inoltre, che un altro elemento importante per la formulazione
delle suddette ipotesi, nonché di nuove supposizioni, siano le fonti del Ms. 46, a partire
dalle quali è stato infatti possibile mettere in discussione la datazione che Favaro ri-
cavò da un passo della Tractatio prima de mundo. È proprio sulle presunte fonti del
Ms. 46 che vorrei spendere ulteriori parole. Infatti, mi pare che un confronto detta-
gliato tra le fonti finora emerse e il Ms. 46 non sia ancora stato fatto. Qualora lo si
facesse, si aprirebbero forse nuovi scenari di riflessione.
Il breve esame da me condotto sul De communibus di Perera e il passo Iuv. C4 della
Tractatio prima de mundo suggerisce, per esempio, che l’ascendenza pereriana di al-
cune pagine del Ms. 46 non possa considerarsi assodata96. Aggiungo ora che, sempre
riguardo a Iuv. C4, si potrebbe chiamare in causa almeno un'altra fonte non ancora
menzionata, cioè un commentario conimbricense del 1592 alla Fisica di Aristotele97:

Coll.5
COLLEGIUM CONIMBRICENSIS GALILEO
Comm. Phys. [l. VIII, cc. I-II, q. III, a. I], p. 716 Iuv. C4
Alij, in quibus sunt Philo Iudaeus Platonis simia, E contra vero plerique alii doctissimi viri arbi-
Laertius in vita Platonis, Cicero in Tusculanis trantur, Platonem existimasse mundum fuisse

96
Cfr. supra, cap. I.3.
97
Si tratta di: Commentarii Collegi Conimbricensis Societatis Iesu, In octo libros Physicorum Ari-
stotelis Stagiritae. Conimbricae, typis et expensis Antonij a Mariz Universitatis Typographi, Cimbra
1592. Nelle note seguenti mi riferirò a questa opera con la sigla Comm. Phys., segnalando di seguito,
tra parentesi quadre, il libro (l.) e il capitolo (c.) della Fisica commentato, e infine la questione (q.) e
l’articolo (a.) proposti nel commentario. In particolare, prenderò in considerazione soltanto l’articolo
primo della terza questione sollevata intorno al primo e al secondo capitolo del libro VIII della Fisica
(che corrispondono cioè a Phys. 250b11-253a20). Il titolo della questione è: «Fuerit ne mundus ex ae-
ternitate procreatus, an non»; mentre il titolo del primo articolo è: «Quid veteres philosophi in proposita
quaestione senserint». In questo articolo compaiono informazioni assimilabili anche a Iuv. C3, ma per
evitare di appesantire ulteriormente questa parte di tesi, mi limito a mostrare solamente le somiglianze
con Iuv. C4.

39
quaestionibus, Atticus, Severus, Plutarchus, factum in tempore, ex materia quae antea mo-
Aphrodisaeus, et alij mundi aeternitatem prorsus vebatur motu quodam inordinato; et suapte qui-
negari a Platone arbitrantur. Quae sane est ger- dem natura corruptibilem esse, Dei tamen volun-
mana Platonici dogmatis interpretatio, ut eius Ti- tate numquam corruptum iri. Hanc fuisse Plato-
maeum, Critiam, et libros de Republica accura- nis sententiam, docet Aristoteles 8o Physicorum
tius intuenti patebit: quam proinde Aristoteles textus 10 et alibi, Alexander, referente Philopono
hoc in libro, caput I textus 10 de sui praeceptoris in solutione 6i argumenti Procli, Theophrastus,
mente esse, et ab ipsa Academia fluxisse nequa- Themistius, et omnes fere interpretes Aristotelis,
quam dubitavit. Licet quod ad mundi materiam Plutarchus, Cicero, Diogenes Laertius, Atticus,
spectat, eam Plato infinitis seculorum aetatibus Seleucus, Pleto platonicus; quos secuntur D. Ba-
ultro citroque temere discurrentem fecerit, tum silius in suo Hexamero, Iustinus martyr, Clemens
Deum ex confusione illa deformi ipsam in pulch- Alexandrinus, Eusebius Caesariensis, Theophi-
rum ordinem revocasse, numerisque decentibus, lactus, D. Augustinus, et omnes scholastici.
et figuris eius partes undique decorasse, atque ita
demum mundum compegisse.98

In una didascalia a margine del passo del commentario appena citato, si legge «Ut
D. Ambrosius, D. Augustinus, D. Iustinus martyr, D. Damascius, Clemens Alexandri-
nus, Theodoretus, Eusebius Caesariensis, Theophrastus, Septimius»99. Più avanti, nel
testo, viene citato anche «Basilius», proprio come in Iuv. C4100. Inoltre, un’altra dida-
scalia, a fianco del passo riguardante il moto confuso e disordinato all’origine del

98
«Altri, tra cui vi sono Filone di Alessandira (imitatore di Platone), Laerzio, nella [sua testimo-
nianza riguardo alla] vita di Platone, Cicerone nelle Tuscolane, Attico, Severo, Plutarco, Alessandro di
Afrodisia, e altri ancora, hanno sostenuto che l’eternitaà del mondo è senz’altro negata da Platone. Que-
sta, senza dubbio, è la vera interpretazione della filosofia platonica, come sarà evidente a chi esaminasse
con più attenzione il Timeo di Platone, il Crizia e i libri della Repubblica. Allo stesso modo, Aristotele,
nel capitolo primo, testo decimo, di questo libro [scil. del libro VIII della Fisica, in aprticolare Phys.
251b, 14-18] non ha in alcun modo dubitato che la suddetta interpretazione fosse quella accolta dal suo
maestro [Platone] e insegnata nell’Accademia. Però, per quanto riguarda la materia del mondo, Platone
suppose che essa andasse muovendosi casualmente di qua e di là da un’infinità di secoli [infinitis
s(a)eculorum aetatibus], finché Dio non le diede un ordine bello, togliendola da quello stato di deforme
confusione, e abbellendola in ogni parte con proporzioni e figure matematiche. Così, dunque, Dio diede
forma al mondo». Si noti che, rispetto a Iuv. C4, in questo passo, giustamente, non si sostiene che
Aristotele abbia discusso, in Phys. 251b, 14-18, del moto disordinato della materia secondo Platone.
Questa teoria di Platone viene infatti poco dopo attribuita, nel commentario, a Eraclide Pontico (cfr.
infra, nota 99).
99
Comm. Phys. [l. VIII, cc. I-II, q. III, a. I], p. 716.
100
Ibid. Riporto per intero il passo perché, a mio parere, offre alcune informazioni molto interes-
santi: «Libet vero, quae in hanc sententiam ab Heraclide Platonis discipulo tradita sunt hic conscribere.
Erat, inquit, olim mundus informis, et coenosus, nondum discretis rerum notis integritatem suae formae
adeptus. Nam neque dum tellus centrum suum pro fundamento rerum omnium stabili erat, neque caeli

40
mondo, recita: «Platonis error de aeternitatis materiae»101. Ciò è in linea con quanto
sostenuto da Galileo nella Tractatio prima de mundo, e contrario, come si è visto102, a
quanto afferma Perera nell’ultimo libro del De communibus.
Tuttavia, non è mia intenzione utilizzare Coll. 5 per presentare il commentario co-
nimbricense del 1592 come fonte della Tractatio prima de mundo. Nel passo citato in
Coll.5, infatti (e giustamente), non vi è alcun riferimento alla confutazione di Filopono
al sesto argomento di Proclo a proposito del moto inordinato della materia; riferimento
che però compare in Iuv. C4. Il Contra Proclum, lo si ricorderà103, è invece citato da
Perera, anche se quest’ultimo, al contrario di Galileo (e giustamente), non associa la
confutazione del sesto argomento di Proclo alla presunta teoria platonica del moto
confuso della materia ab origine mundi. Questa teoria, infatti, secondo Perera non era
esatta, perché fondata su un’interpretazione sbagliata del Timeo.
Ciò che intendo mettere bene in luce con Coll.5 è che, per un singolo passo del Ms.
46 esistono almeno tre possibili fonti, nessuna delle quali combacia perfettamente con
quanto riportato da Galileo. Oltre al commentario dei gesuiti di Coimbra, oltre al De
communibus di Perera, vanno infatti considerate anche le reportationes di Antonio
Menu, che Wallace accostò a Iuv. C4, preferendo poi la lezione di Perera, giudican-
dola, sbagliando, perfettamente assimilabile al testo galileiano104.

perpetuus motus certa sede voluebatur; sed omnia sine solis usu immota, tristique silentio depressa
languebant; aliud extabat nihil, quam informis diffusae materiae segnities, antequam principium illud,
a quo producta, et constituta sunt omnia, salubrem vitae modum depromens mundum mundo redderet,
caelumque a terra, et pelagus a continente distingueret. Quo tempore primum elementa quatuor, ex qui-
bus ceu radice, ac generis principio nihil non gignitur, ordinem suum, et formam propriam acceperunt.
Haec ille Lege Basilium homil.2 Hexam. ubi hunc Platonicorum errorem de materiae aeternitate, quo
etiam Pythagorici et Stoici imbuti fuere, credit occasionem sumpsisse ex verbis illis Geneseos, Terra
autem inanis erat, et vacua, quem errorem confutat Tertullianus adversus Hermogenem, et Lactantius
lib. 2 cap. 9. Hoc igitur modo sese habuerunt philosophantium placita de mundi creatione; etsi alia
quoque inter eos fuerint certamina dum hi unum, illi plures, aut etiam infinitos mundos constituunt. Qua
de re D. Augustinus, 18 de civitate Dei, c. 41, et libro ad Quod vult deum de haeresibus, Theodoretus
in libro de materia, et mundo, Cyrillus Alex. lib.2, contra Iulianum, Clemens Alex. 5, Stromatum,
alijque complures».
101
Ibid.
102
Cfr. supra, cap. I.3.
103
Cfr. ibid.
104
Cfr. supra, note 29 e 34.

41
Ritengo che tutto ciò mostri quanto fosse ampia la circolazione di almeno alcune
delle informazioni trascritte e riportate da Galileo nel Ms. 46. A sua volta, questo si-
gnifica che non è del tutto lecita la pratica di attribuire una datazione al Ms. 46 sulla
base delle sue solamente possibili fonti. Lo stesso discorso potrebbe a mio avviso ap-
plicarsi anche al Ms. 27: credo non si debba escludere, per esempio, che le informa-
zioni presenti negli Additamenta di Carbone e nelle reportationes di Vitelleschi potes-
sero trovarsi anche in altre opere non ancora consultate o forse a noi non pervenute.
Considerando poi che i testi gesuiti erano con molto probabilità conosciuti, studiati e
utilizzati anche dai professori di Galileo a Pisa105, l’ipotesi di Favaro non andrebbe del
tutto abbandonata, ma meriterebbe anzi più attenta considerazione. Ritengo infatti che
essa, fino a prova contraria (ricordo che la vera e propria fonte del Ms. 46 non è ancora
stata trovata), sia la supposizione più fondata, poiché basata su evidenze interne al
manoscritto.
Certo, anche l’ipotesi di Carugo e Crombie resta del tutto plausibile, ma essa pre-
senta la grandissima difficoltà di dover ripensare in toto quella che tuttora viene rite-
nuta una ricostruzione storica ben fondata del lavoro intellettuale di Galileo106. L’ipo-
tesi, infine, secondo cui Galileo avrebbe scritto il Ms. 46 quando insegnava matema-

105
Cfr. M. Camerota, Galileo Galilei, cit., p. 43 (passo già ricordato supra, nota 9).
106
In generale, si ritiene infatti che i De motu antiquiora siano stati scritti tra il 1589 e il 1592,
mentre Le mecaniche intorno al 1592-1593 (cfr. G. Galilei, Le mecaniche, edizione critica e saggio
introduttivo di R. Gatto, Olschki, Firenze 2002, pp. LIII-LXX). Essendo impossibile, per evidenze in-
terne ai testi citati (ad es., l’utilizzo del termine «momento» nella versione lunga de Le mecaniche, che
invece è assente nei De motu antiquiora, sebbene in entrambe le opere vi sia una trattazione del piano
inclinato sul modello della bilancia), alterare l’ordine di composizione di queste due opere manoscritte,
e volendo spostare il termine a quo delle loro composizioni a dopo il 1597, Carugo e Crombie sono stati
costretti a immaginare che Galileo avesse scritto Le mecaniche addirittura dopo essersi trasferito da
Padova nel Granducato di Firenze (1610), il che è altamente improbabile. Inoltre, essi pensarono che i
De motu antiquiora potessero essere stati scritti dopo il Discorso intorno alle cose che stanno in su
l’acqua, del 1612 (cfr. A. Carugo, A. Crombie, The Jesuit and Galileo’s Idea of Science and of Nature,
cit., p. 65). Eppure, mentre il termine «gravità in specie» è usato in quest’ultima opera, nei De motu
antiquiora non lo è, comparendo invece il semplice termine «gravitas» per intendere anche la ‘gravità
in specie’. Questo sarebbe il probabile indizio che la terminologia scientifica galileiana nei De motu
antiquiora, essendo ancora carica di ambiguità, si trovava in una sorta di ‘stato embrionale’ (cfr. P.
Galluzzi, Momento. Studi galileiani, edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, p. 196 e G. Galilei,
Le mecaniche, cit., pp. XCI-CI), e che sarebbe dunque molto improbabile porre la composizione di
quest’opera dopo quella del Discorso.

42
tica a Pisa rimane anch’essa aperta, ma andrebbe meglio giustificata, con argomenta-
zioni differenti sia da quelle proposte da Wallace, che da quelle avanzate da Wisan e
Fredette.
Per concludere, vorrei ricordare che, dato che pare non sia possibile attribuire una
datazione certa al Ms. 46 attraverso l’esame delle sue possibili fonti, diventa allora
ancora più difficile eludere il passo della Tractatio prima de mundo da cui si evince
che Galileo scrisse gli Iuvenilia nel 1584. Su questo punto, Carugo e Crombie non si
sono soffermati. Solamente Wallace avanzò profondi dubbi sull’affidabilità di quel
passo della Tractatio prima de mundo per una datazione del Ms. 46. Le sue argomen-
tazioni, però, furono labili e per certi versi anche contraddittorie.
In generale, secondo Wallace, la cronologia biblica si presterebbe a svariate inter-
pretazioni107. Considerando che l’assedio di Tito a Gerusalemme avvenne nel 70, e
non nel 74, come invece scrive Galileo nel passo già menzionato della Tractatio prima
de mundo («anni ab ortu Christi usque ad excidium Hierosolymorum, 74; illinc usque
ad praesens tempus, 1510»), Wallace sostenne che Favaro assunse illecitamente l’anno
0 come nascita di Cristo, piuttosto che il 4. A partire da ciò, Wallace arguì che l’anno
di composizione del Ms. 46 ricavabile da quel passo della Tractatio fosse il 1580, visto
che andrebbero aggiunti 70 anni, invece di 74, ai 1510 che Galileo afferma siano pas-
sati dall’assedio di Gerusalemme fino ai suoi giorni. Molto probabilmente, a parere di
Wallace, Galileo non seppe aggiustare i calcoli ripresi da un testo altrui, limitandosi a
copiare i dati dalla fonte esemplata. In alternativa, sempre secondo Wallace, si po-
trebbe sostenere che Galileo, sbagliando i calcoli, invece di scrivere 1590, scrisse
1580. In entrambe le argomentazioni di Wallace, però, faccio notare che si attribui-
scono a Galileo delle elementari deficienze matematiche che sarebbe difficile conce-
dere a un professore universitario di matematica, quale fu appunto Galileo nel 1590,
quando, stando all’ipotesi di Wallace, si sarebbe dedicato alla stesura del Ms. 46108.

107
Cfr. W.A. Wallace, Galileo’s Early Notebooks, cit., pp. 258-259.
108
Sul problema della cronologia biblica, cfr. anche W.A. Wallace, Prelude to Galileo, cit., pp. 219-
225.

43
II. IL TEMA COSMOGONICO NEI DE MOTU ANTIQUIORA

II.1 Premessa. I De motu antiquiora fra scienza e teologia

Il divino Creatore, dopo la meravigliosa costruzione della sfera celeste, forse per
non urtare la vista degli spiriti beati e immortali, allontanò gli scarti [excrementa]
dalla vastissima sfera celeste e li nascose nel centro di quest’ultima.1

Comincia così quello che forse fu il primo racconto cosmogonico di Galileo, la-
sciato inedito per volontà del suo stesso autore ma fortunatamente conservatosi fino a
oggi tra le carte del Ms. 71, un documento prezioso in quanto testimonianza delle
prime riflessioni galileiane sul moto dei corpi, conosciuto per questo anche col titolo
De motu antiquiora2.
I De motu antiquiora sono costituiti di due parti ben definite: una, in cui la discus-
sione sul moto dei corpi è presentata mediante un dialogo tra due personaggi, Alessan-
dro e Domenico, alla quale perciò mi riferirò anche col termine latino dialogus; l’altra,
svolta invece in forma di trattato, venne forse abbandonata una volta completata, ma

1
De motu antiquiora, OG, I, p. 344: «Vastissimae caelestis excrementa sphaerae, post illius mira-
bilem compaginem, divinus Opifex, ne forte immortalium beatorumque spirituum offenderent intuitum,
in eiusdem globi centrum extrusit atque abscondidit».
2
Favaro inserì il Ms. 71 nell’Edizione Nazionale delle opere di Galilei intitolandolo semplicemente
«De motu», dato che la coperta originale del manoscritto non è stata trovata. Il titolo «De motu anti-
quiora» è però ricavabile dalla descrizione che Viviani diede del Ms. 71: «un manoscritto del Galileo
in più quinternetti in ottavo intitolato fuori sulla coperta De Motu antiquiora, il quale si riconosce esser
de’ primi giovenili studj di Lui, e per i quali nondimeno si vede, che fin da quel tempo non sapev’egli
accomodare ‘l libero intelletto suo all’obbligato filosofare della comune delle Scuole» (V. Viviani,
Quinto libro degli Elementi d’Euclide, ovvero scienza universale delle proporzioni spiegata colla dot-
trina del Galileo…, Alla Condotta, Firenze 1674, pp. 104-105). Fredette ha ipotizzato che il titolo ori-
ginale non fosse altro che l’abbreviazione di De motu antiquiora scripta mea (cfr. R. Fredette, Galileo’s
De Motu Antiquiora, in “Physis”, v. 14, n. 4 (1972), pp. 321-348, in particolare p. 327). Il manoscritto
è attualmente consultabile online al seguente indirizzo: http://bibdig.museogalileo.it/Teca/
Viewer?an=20053 &lang=en (14 dicembre 2016).

44
sicuramente fu più volte revisionata e, in alcune sue parti, anche riscritta3. La cosmo-
gonia è presente solo all’inizio della versione probabilmente più tarda del trattato, il
quale a sua volta si ritiene sia stato scritto dopo il dialogus4. Se dunque vi è stato un
processo di revisione e rielaborazione delle teorie esposte nei De motu antiquiora, la
cosmogonia pare possa inserirsi nella fase più tarda e matura di tale processo.
La particolarità del racconto cosmogonico esposto nei De motu antiquiora è che
esso riguarda solamente la genesi degli elementi e l’origine della loro disposizione
ordinata attorno al centro del mondo. Il cosmo di cui Galileo narra la genesi è infatti
esplicitamente geocentrico5. Queste caratteristiche contribuiscono a rendere la cosmo-
gonia dei De motu antiquiora assai differente dalla narrazione cosmogonica che Gali-
leo pubblica per la prima volta nel 1632, inserendola fra le pagine della Giornata Prima
del Dialogo.
Mentre la cosmogonia descritta nel Dialogo e nei Discorsi ha ricevuto l’attenzione
di molti studiosi, quella presente nei De motu antiquiora non è stata ancora oggetto di
uno studio approfondito che cercasse di chiarirne il significato tenendo conto del con-

3
Sono state individuate, prima da Favaro e poi anche da Drabkin, tre versioni del trattato: le ultime
due non sarebbero altro che la rielaborazione, con aggiunte e omissioni, della prima versione (cfr. Av-
vertenza De motu, OG, I, pp. 247-248 e G. Galilei, On Motion and On Mechanics, comprising De Motu
(ca. 1590), Translated with Introduction and Notes by I.E. Drabkin, and Le Meccaniche (ca. 1600),
Translated with Introduction and Notes by S. Drake, The University of Wisconsin Press, Madison 1960,
p. 4). Mentre sia Favaro che Drabkin ritennero il trattato incompleto in tutte le sue versioni, Fredette
ha mostrato che con molta probabilità la terza versione del trattato sia invece da considerarsi completa
e pronta per la pubblicazione. Il dialogus, al contrario, è certamente incompleto (cfr. R. Fredette, Gali-
leo’s De Motu Antiquiora, cit., p. 328 e segg.). Le considerazioni di Fredette sono state accolte, per
esempio, sia da Paolo Galluzzi (cfr. P. Galluzzi, Momento. Studi galileiani, cit., pp. 167-168), che da
Jürgen Renn, il quale ha affermato che il trattato De motu antiquiora è «coerente e completo» e ha
tentato allo stesso tempo di spiegarne l’abbandono enucleando i paradossi e le contraddizioni della teo-
ria de motu ivi esposta da Galileo (cfr. J. Renn, Proofs and Paradoxes: Free Fall and Projectile Motion
in Galileo’s Physics, in Exploring the Limits of Preclassical Mechanics, ed. by P. Damerow, G. Freu-
denthal, P. McLaughin, J. Renn, Springer-Verlag, New York 1992, pp. 126-276, la parte sui De motu
antiquiora alle pp. 126-149).
4
Solamente Favaro, che io sappia, ha implicitamente sostenuto che il dialogo fra Alessandro e Do-
menico sia stato scritto dopo il trattato (cfr. Avvertenza De motu, OG, I, p. 248).
5
Nonostante sia stata intravista nelle pagine dei De motu antiquiora la prima tendenza di Galileo a
sbilanciarsi a favore del sistema copernicano, soprattutto per alcune considerazioni avanzate sul moto
circolare perpetuo (cfr. N. Badaloni, Il periodo pisano nella formazione del pensiero di Galileo, in Saggi
su Galileo, Barbera, Firenze 1965, pp. 1-38, in particolare p. 36), Galileo non afferma mai, nei De motu
antiquiora, di condividere l’opinione copernicana. Al contrario, egli fa spesso riferimento alla centralità
della Terra nel mondo.

45
testo teorico in cui essa è inserita, e che si ponesse al contempo l’obiettivo di rintrac-
ciarne le probabili fonti, qualora ve ne fossero state6. Sarebbe certo superfluo consta-
tare il poco interesse finora mostrato nei confronti della cosmogonia dei De motu an-
tiquiora, se esso non avesse però portato, in ambito storiografico, a dare credito in
alcune occasioni a un’opinione a mio avviso non del tutto corretta. Si tratta, in parti-
colare, dell’opinione secondo cui Galileo, prima di essere stato costretto a ‘entrare in
sacrestia’, prima cioè di essere stato coinvolto, suo malgrado, in una disputa su coper-
nicanesimo ed esegesi biblica sfociata poi nelle famose Lettere copernicane, non
avrebbe lasciato che uno spazio marginale, nei propri pensieri, a questioni concernenti
la teologia naturale, e, nella fattispecie, la creazione divina del mondo7.
In generale, si ritiene che le riflessioni cosmogoniche di galileo siano figlie
dell’adesione alla cosmologia copernicana, alla quale lo scienziato pisano tentò di as-
sicurare una fondatezza fisica andando a inerpicarsi, in modo quasi inevitabile, in spe-
culazioni teologiche intorno alla creazione del mondo. Infatti, come ricorda Massimo
Bucciantini, «dopo Tycho non bastava più invocare, come aveva fatto Copernico, il
moto naturale della rotazione dei pianeti», dato che la misurazione della parallasse di

6
Winifred Lovell Wisan ha richiamato l’attenzione su alcuni passi dei De motu antiquiora per di-
scutere il tema della creazione divina nel pensiero di Galileo (cfr. W.L. Wisan, Galileo and God’s Crea-
tion, cit., pp. 474-477). La studiosa però cita solo parzialmente il ‘mito’ dei De motu antiquiora. Una
piccolissima parentesi sulla cosmogonia dei De motu venne aperta anche da Corrado Dollo, ma solo per
evidenziare una «presenza teologica» negli scritti giovanili di Galileo (cfr. C. Dollo, Galilei e la fisica
del Collegio Romano, cit., p. 104). Anche Pietro Redondi ha brevemente ricordato la cosmogonia dei
De motu antiquiora, paragonandola a quella di Lucrezio (cfr. P. Redondi, From Galileo to Augustine,
in The Cambridge Companion to Galileo, cit., pp. 175-210, in particolare pp. 176-177). Infine, segnalo
le pagine dedicate da Galluzzi al mito cosmogonico dei De motu antiquiora in P. Galluzzi, Tra atomi e
indivisibili. La materia ambigua di Galileo, Olschki, Firenze 2011, pp. 14-19.
7
Questa opinione venne sostenuta, per esempio, da Giorgio Spini: «Things are not made better for
us by the fact that Galileo was neither suspected by the Church before 1612, when the Dominicians of
Florence started their campaign against him, nor did he write on topics connected with religion before
his letters to Castelli in 1613 and to Christine of Lorraine in 1615. In other words, our main sources of
information about his attitude toward Christianity concern only the last part of his life, from his forty-
eight year onward» (G. Spini, The Rationale of Galileo’s Religiousness, cit., p. 45). Ultimamente, anche
Pietro Redondi sembra aver escluso i De motu antiquiora dagli scritti in cui Galileo riflette sul tema
della creazione: «Dal 1616 il discorso di Galileo abbandona il terreno dell’esegesi biblica per riapparire
a tratti su altri piani, come la provvidenza e la creazione. […] A grandi linee, si può dire che dal Sidereus
Nuncius (1611) [sic!] alle Due nuove scienze (1638) non c’è libro in cui Galileo si astenga dal parlare
di Dio. Il Discorso sulle cose che stanno in sull’acqua (1612) è l’eccezione che conferma la regola. Ma
solo per quanto riguarda il suo testo a stampa» (P. Redondi, Natura e Scrittura, in Il caso Galileo. Una
rilettura storica, filosofica, teologica. Convegno internazionale di studi Firenze, 26-30 maggio 2009, a
cura di M. Bucciantini, M. Camerota e F. Giudice, Olschki, Firenze 2011, pp. 153-162, qui p. 155).

46
novae e comete, che invitava a propendere per una loro collocazione al di là dell’orbe
lunare, aveva ormai reso illusoria l’idea che potessero esistere orbi cristallini entro cui
fossero incastonati i pianeti8. Pertanto, è molto probabile che Galileo, volendo dare
una dimensione fisica e reale alla cosmologia copernicana, ma incapace di farlo ba-
sandosi unicamente sulla propria scienza de motu, sia stato costretto in un certo senso
a ricorrere a un racconto sulle origini divine del cosmo, all’intervento di Dio che, negli
istanti appena successivi la creazione del mondo, tutto dispose secondo un ordine ben
preciso9.
Da quanto detto sin qui sembrerebbe che le riflessioni cosmogoniche di Galileo,
tutt’altro che meri esercizi retorici, scaturissero dalla volontà di rispondere a ben pre-
cise istanze cosmologiche, al fine di dare concretezza fisica al systema mundi di Co-
pernico, perciò solamente dopo che lo scienziato pisano abbracciò l’eliocentrismo.
Tali considerazioni – di cui non si vuole assolutamente negare la validità e la capacità
di rendere conto, grazie alla puntuale e precisa conoscenza del contesto storico e scien-
tifico in cui operò Galileo, delle più che probabili motivazioni che indussero lo scien-
ziato pisano a muoversi sul terreno della speculazione teologica dopo aver condiviso
la teoria eliocentrica – se messe però a confronto con i De motu antiquiora, in cui

8
Cfr. M. Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell’Età della Controri-
forma, Einaudi, Torino 2007 (20001), p. 299. Sulla stessa questione è messo l’accento in modo perspi-
cuo già nella parte introduttiva del libro: «Dopo Tycho, la spiegazione fornita da Copernico nel Libro I
del De revolutionibus, ancora fondata sulla credenza negli orbi solidi, non era più sufficiente: occorreva
costruirsi una via d’uscita dall’impasse in cui alla fine del secolo la nuova astronomia era stata cacciata.
Così per chi come Galileo si professava già allora copernicano, il tentativo di fondare una nuova con-
cezione della gravità che spiegasse il moto dei pianeti dopo gli sconvolgimenti apportati dall’astronomo
danese – a meno di fare ricorso a un principio interno di movimento (anima motrice) o ad altre soluzioni
extrascientifiche come l’infinita potenza di Dio – diventava una necessità impellente» (ivi, pp. XVII-
XVIII).
9
Bucciantini, riprendendo alcune analisi di Galluzzi, sottolinea che, per Galileo, tale ricorso a Dio
nasce dopo aver abbandonato l’idea che la gravità, ossia il peso dei corpi, sia il principale fattore dina-
mico nonché causa del movimento: «Il ricorso a Dio nasce dunque da uno scacco, dall’incapacità di
elaborare una fisica (e una cosmologia) delle cause. Certo, anche per Galileo, come per Keplero, Dio è
il demiurgo, è il creatore dell’universo. Tuttavia, Keplero tenta fin dal Mysterium di sviluppare un’or-
ganica teologia naturale che conduca alla costruzione di una fisica celeste, Galileo rinvia alla creazione
divina alla fine del proprio percorso speculativo: la sua spiegazione, insomma, nasce da una rinuncia e
dalla difficoltà di costruire una scienza de motu e de motu terrae fondata sulla gravità come causa del
moto» (ivi, p. 301). Nel dire che «Galileo rinvia alla creazione alla fine del proprio percorso specula-
tivo», Bucciantini sembra non accorgersi che già nei De motu antiquiora, all’inizio del proprio percorso
speculativo (se si accetta la datazione ‘tradizionale’ delle opere galileiane: cfr. supra, I, nota 106), Ga-
lileo riflette sulla creazione divina del mondo.

47
compare una cosmogonia che non sembra avere nulla a che fare col copernicanesimo
e che non riguarda in alcun modo i pianeti, risultano perlomeno parziali, non riuscendo
a dare una spiegazione del perché Galileo, in generale, si dimostrasse sinceramente
interessato a riflettere sull’origine del mondo anche a prescindere dal sistema cosmo-
logico scelto e al netto di preoccupazioni riguardanti la consistenza degli orbi celesti.
In breve, se ci si dimentica dei De motu antiquiora, si ha quasi l’impressione che
sia stata principalmente una particolare visione cosmologica, cioè quella copernicana,
a stimolare le speculazioni teologiche di Galileo, a portare lo scienziato pisano verso
un’indagine più attenta, e forse addirittura imprescindibile, del mistero della creazione
del mondo10. Invece, esaminando i De motu antiquiora, ci si rende conto Galileo svi-
luppò anche una cosmogonia completamente estranea al copernicanesimo.
Dunque, sebbene sia innegabile il vincolo che unisce la cosmogonia del Dialogo al
sistema copernicano, l’attenzione galileiana riposta verso un tema di matrice teologica
come quello della creazione dell’universo potrebbe tuttavia dipendere solo in parte
dalla volontà di giustificare sotto il profilo fisico il sistema elaborato dall’astronomo
polacco. Ritengo infatti che una nuova lettura dei De motu antiquiora, di un testo cioè
scritto quando ancora inconcepibile sarebbe stato il progetto di offrire una fisica ade-
guata al sistema copernicano, potrebbe mostrare proprio questa blanda dipendenza tra
cosmogonia e copernicanesimo, e, allo stesso tempo, permetterebbe anche di mettere
in luce una ricorrente e più basilare promiscuità, nel pensiero galileiano, tra due am-
biti, quello scientifico e quello teologico, che oggi siamo portati a demarcare e a man-
tenere distinti, ma che vediamo invece ricongiungersi ogniqualvolta Galileo, conside-
rato il ‘padre’ fondatore della scienza moderna, si cimenta con vero interesse filosofico
e scientifico nella descrizione dell’azione creatrice di Dio.
Prendendo dunque in considerazione i De motu antiquiora e la cosmogonia in essi
contenuta, tenterò nelle seguenti pagine di allentare il laccio che lega la cosmologia

10
Massimo Bucciantini ha parlato di un «grande progetto galileiano, e cioè del tentativo di inventare
una nuova scienza del movimento capace di accordarsi con la nuova cosmologia copernicana» (M.
Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., p. 115). Galluzzi ha inoltre ricondotto la cosmogonia dei De motu
antiquioria all’«ambizioso progetto di riforma» di Galileo: le riflessioni cosmogoniche sarebbero ser-
vite a rendere compatibile il «progetto» galileiano e il racconto del Genesi (cfr. P. Galluzzi, Tra atomi
e indivisibili, cit., p. 65). Qui non si vuole insinuare che un «progetto» galileiano di riforma culturale e
scientifica non sia mai esistito, ma solo cercare di comprendere se l’interesse mostrato da Galileo per il
tema cosmogonico della creazione del mondo sia nato unicamente come parte di questo progetto, o se
possano esservi state anche altre ragioni.

48
copernicana alle riflessioni cosmogoniche di Galileo, senza tuttavia volerlo recidere
del tutto, mostrando al contempo che è possibile istituire un altro legame, molto più
generico e basilare, che unisce fisica, cosmologia e cosmogonia nella prima ‘fase’, se
così si può dire, dello studio galileiano del moto dei corpi. Sarà soprattutto interessante
far notare che non è insolito riscontrare questo legame tra le opere di chi si dedicava,
nell’ambiente accademico pisano della seconda metà del Cinquecento, all’esame del
moto dei corpi gravi e leggeri. Per far ciò, mi dedicherò in un primo momento alla
descrizione di alcune particolarità della fisica dei De motu antiquiora, sottolineando
che essa prese probabilmente forma nel tentativo di rispondere a ben precise istanze
scientifiche. Questo significherà anche provare a contestualizzare i De motu antiquiora
in rapporto ad altre opere coeve, per poter comprendere, in un secondo momento, se
la questione cosmogonica sia nata da interessi strettamente personali di Galileo o, se,
al contrario, essa sia stata parte integrante del dibattito scientifico tardo-cinquecente-
sco sul moto dei corpi. Infine, proverò a rintracciare alcune probabili fonti della co-
smogonia dei De motu antiquiora.

II.2 Corpi pesanti e leggeri, corpi celesti e corpi in equilibrio. I De motu antiquiora
nel solco della controversia de motu elementorum

Mario Otto Helbing e Michele Camerota hanno mostrato che l’interesse galileiano
verso lo studio del moto non nacque indipendentemente dal contesto culturale e acca-
demico in cui Galileo visse studiò e insegnò tra il 1580 e il 159211. Nel milieu accade-
mico pisano, infatti, i problemi relativi al moto dei corpi erano molto discussi e dibat-
tuti, arrivando a coinvolgere anche esponenti importanti del pensiero scientifico di al-
lora, come i professori di filosofia naturale Girolamo Borri e Francesco Buonamici, i

11
Cfr. M. Camerota–M.O. Helbing, Galileo and Pisan Aristotelianism: Galileo’s «De motu anti-
quiora» and the Quaestiones de Motu Elementorum of the Pisan Professors, in “Early Science and
Medicine”, v. 5, n. 4 (2000), pp. 319-365. La stessa opinione è sostenuta da Domenico Bertoloni Meli:
cfr. D. Bertoloni Meli, Thinking with Objects. The Transformation of Mechanics in the Seventeeth Cen-
tury, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006, p. 51. Ricordo che Galileo studiò a Pisa dal
1580 al 1585, quando decise di tornare a Firenze. Nel 1589, grazie anche alle raccomandazioni di Gui-
dobaldo del Monte, Galileo ottenne la cattedra di matematica all’Università di Pisa, dove insegnò fino
al 1592.

49
quali, proprio nella diversità dell’approccio ai testi aristotelici, e pur sostenendo tesi a
volte divergenti, mostravano comunque di condividere un indirizzo di pensiero co-
mune, fondato sulla lettura e la comprensione delle opere di Aristotele12. Una delle
questioni più sentite che animavano le disputationes circulares, cioè quei particolari
momenti didattici in cui alunni e professori universitari avevano l’opportunità di con-
frontarsi e vicendevolmente interrogarsi, era la quaestio de motu gravium et levium, o,
come veniva anche definita, de motu elementorum13.
La occasio scribendi del ponderoso trattato De motu di Buonamici venne offerta
proprio dalla «controversia» sorta in seno allo Studio Pisano e concernente il moto
degli elementi. È lo stesso Buonamici a ricordarlo all’inizio del Libro Primo del De
motu:

L’occasione di scrivere questo libro è stata data da quella controversia sul moto
degli elementi che è sorta nell’Accademia Pisana tra i nostri alunni e colleghi.14

Anche Borri, nel proprio libro De motu gravium et levium, pubblicato ben prima di
quello di Buonamici, mostra fin dal titolo di essere interessato alla querelle che ri-
guarda il moto locale dei corpi pesanti e leggeri «in Almo Pisano publice profitente
disputata»15. Il professore aretino ci tiene inoltre a precisare e chiarire che i corpi al
centro del dibattito non sono altro che gli elementi, i quali si trovano tutti in un luogo
ben preciso dell’universo, al di sotto della Luna. Rimangono pertanto fuori dal campo
d’indagine i corpi celesti e il loro moto perpetuo:

12
Cfr. M. Camerota, M.O. Helbing, Galileo and Pisan Aristotelianism, cit., p. 325-329. L’approccio
di Borri ai testi di Aristotele dava credito alle interpretazioni di Averroè; Buonamici, invece, fondava
la propria lettura dell’opera aristotelica sui commenti dell’antichità ‘classica’.
13
Inoltre, come ricorda Helbing, «la quaestio aveva anche per titolo de motu inanimorum, inten-
dendo sia il moto degli elementi che dei misti» (M.O. Helbing, La filosofia di Francesco Buonamici,
cit., p. 145, nota 15).
14
F. Buonamici, De motu libri X, apud Bartholomaeum Sermartellium, Firenze 1591, p. 3A: «Oc-
casio vero scribendi voluminis ab ea controversia sumpta est, quae in Academia Pisana inter nostros
collegarumque auditores exorta est de motu elementorum».
15
G. Borri, De motu gravium et levium, in Officina Georgii Marescotti, Firenze 1576, p. 1.

50
Lasciato dunque da parte il corpo Divino e il suo perenne movimento, qui ci occu-
piamo, o semplicemente o comparativamente, di quei corpi semplici, gravi o leg-
geri, che riempiono questo luogo dell’universo posto sotto la Luna, e ricerchiamo
le cause dei loro moti.16

Una precisazione del genere è condotta anche da Buonamici17. La questione sul


moto dei corpi gravi e leggeri era sorta infatti per comprendere in primo luogo la causa
del moto ascensionale o di caduta degli elementi e, in secondo luogo, dei corpi misti.
Helbing fa notare che tale problema era legato alla lettura del testo 32 dell’VIII libro
della Fisica di Aristotele (Phys. 255a30-255b30), in cui si afferma che ciò che si
muove è sempre mosso da qualcos’altro: dunque da cosa sono mossi gli elementi? La
causa del loro moto è interna o esterna?18
Borri, dopo aver ricordato che il «caelo», inteso come «causa universale» del moto,
va lasciato da parte nell’indagine di chi si appresta a comprendere il «principio proprio
e particolare» da cui sono mossi i corpi pesanti e leggeri, riassume in modo chiaro i
termini della quaestio:

Quest’altro principio particolare e proprio del moto è quello che cerchiamo di tro-
vare in questo nostro trattato. Per mezzo di questo principio, le nature e i moti dei
corpi semplici – nature e moti attraverso cui i corpi semplici sono mossi verso l’alto
o verso il basso – differiscono dalle nature e dai moti dei [corpi] misti. Per mezzo
di questo principio, i corpi semplici naturali pesanti e leggeri si muovono di un moto
loro proprio. Questo principio proprio e particolare è quello che è chiamato in causa
nell’odierna questione, quando ci si chiede se i corpi degli elementi siano mossi da
un principio proprio e particolare, o piuttosto da un altro [principio] estrinseco.19

16
Ivi, p. 63: «Derelicto ergo Divino corpore, illiusque perenni motione, de iis corporibus simplici-
bus, quae locum hunc universum, qui sub luna est, implent quae vel gravia sunt vel levia, sive absolute,
sive comparate hic agimus, et eorundem motionum causas hoc loco investigamus».
17
Cfr. F. Buonamici, De motu, cit., p. 752GH.
18
Cfr. M.O. Helbing, La filosofia di Francesco Buonamici, cit., p. 146. Vedi anche p. 154: «Il nucleo
della quaestio sul moto degli elementi riguarda lo spostamento locale del corpo elementare o del corpo
misto completamente e definitivamente prodotto. Ciò avviene quando l’elemento perfettamente costi-
tuito, essendo stato tolto l’ostacolo che lo tratteneva lontano dal suo luogo naturale, si muove per rag-
giungerlo. […] E il problema è di cercare la causa di questo movimento; è di vedere se, anche in questo
caso, si possa sostenere che il corpo è mosso da un altro (ab alio) e non muove se stesso».
19
G. Borri, De motu gravium et levium, cit., p. 61. «Hoc alterum est particulare illud, et proprium
motionis principium, quod in hac nostra disputatione invenire contendimus; per quod corporum simpli-
cium naturae, ac motiones, quibus simplicia corpora aut sursum, aut deorsum concitantur, a mixtorum
naturis, ac motionibus discrepant: quo principio simplicia corpora gravia, et levia naturali, ac proprio

51
Sebbene la questione restasse aperta a differenti soluzioni, di cui purtroppo non è
stata ancora offerta una rassegna esauriente, va notato che i contendenti si muovevano
ancora tutti all’interno di un quadro epistemologico simile, in cui pesantezza e legge-
rezza figurano come qualità proprie dei corpi sublunari. Non era messa in dubbio l’idea
che nell’universo vi fossero luoghi naturali verso cui gli elementi spontaneamente, e
assecondando la propria natura, si dirigono. A ogni elemento veniva infatti associato
un luogo naturale situato tra il centro dell’universo e il concavo dell’orbe lunare.
Stando alla cosmologia aristotelica, il fuoco, elemento assolutamente leggero, è situato
appena sotto il concavo lunare, in una regione chiamata da alcuni anche ippecauma,
mentre la terra, pesante simpliciter, occupa il centro del mondo. Acqua e aria, relati-
vamente pesanti e leggere rispetto a terra e fuoco, si trovano invece in una posizione
intermedia tra centro e periferia del mondo sublunare: l’acqua appena sopra la terra e
l’aria appena sotto il fuoco. Qualora l’elemento igneo si trovi sulla Terra, perché ge-
nerato, per esempio, da un processo di combustione, esso è subito portato a ricongiun-
gersi al proprio luogo naturale attraverso un moto ascensionale e rettilineo, mante-
nendo così intatto l’ordine del cosmo. Il fuoco è dunque per sua natura leggero perché
ha una tendenza a dirigersi verso il luogo più alto corrispondente al proprio luogo na-
turale; la terra, per la ragione opposta, è ontologicamente pesante.
Chi disputava sul moto degli elementi, come Borri e Buonamici, non dubitava che
i corpi potessero dirsi pesanti e leggeri secondo un parametro qualitativo e ontologico,
e che avessero inoltre una tendenza e un impulso naturali a muoversi verso il proprio
luogo naturale. Nonostante ciò, questo indirizzo comune di pensiero non bastava a
dirimere la questione de motu elementorum. Le dispute e i disaccordi emergevano nel
momento in cui si trattava di attribuire o meno alla pesantezza e alla leggerezza, a
fattori cioè ‘interni’, un ruolo primario tra le cause del moto degli elementi. Su questo
punto, per esempio, Borri e Buonamici la pensavano diversamente, come anche ri-
guardo alla possibilità di considerare pesanti i corpi nel proprio luogo naturale20. Pur

motu cientur. Hoc principium proprium, et particulare illud est, quod in hodiernam hanc quaestionem
vocatur; dum quaeritur, Utrum ne elementorum corpora ab hoc particulari, ac proprio principio mo-
veantur: an vero ab alio extrinseco incitentur».
20
Secondo Helbing, nei capitoli 41-50 del terzo libro del De motu di Buonamici è possibile rintrac-
ciare in filigrana una polemica con Borri. In questi capitoli Buonamici se la prende in generale con gli
averroisti e i seguaci di Burley, i quali sostenevano che l’elemento è sempre e solo mosso da un principio
interno: la gravitas o la levitas. Bisogna tenere presente che per «principio interno» in questo caso non

52
essendo aristotelici, pur cercando risposte tra i libri dello Stagirita, i due pensatori
esprimevano opinioni a volte completamente divergenti.
Proprio in seno a quella cultura libresca tanto vituperata da Galileo si generò dun-
que una controversia sul moto assai stimolante e feconda, le cui istanze vengono ac-
colte e discusse anche tra le pagine dei De motu antiquiora. Le risposte galileiane
prendono forma però all’interno di un quadro teorico esplicitamente antiaristotelico,
in cui Archimede è eletto unico nume tutelare21. Il primo motivo di disaccordo con gli
autori aristotelici riguarda in particolare i concetti di pesantezza e leggerezza, su cui
Galileo torna più volte a ragionare, soprattutto per risolvere alcune ambiguità termi-
nologiche22. Nei De motu antiquiora, infatti, Galileo non è disposto ad affermare che
gravitas e levitas sono qualità assolute dei corpi, caratteristiche ontologiche degli ele-
menti, ma ritiene piuttosto corretto abbracciare l’opinione degli «antichi filosofi», se-
condo cui tutti i corpi sono costituiti della stessa materia, e il peso di ciascun corpo è
ricavabile considerando la quantità di materia in esso contenuta. Maggiore è la quantità
di materia, maggiore è la pesantezza. Galileo precisa però che per capire se un corpo
sia effettivamente più pesante di un altro, è necessario commisurare la quantità di ma-
teria tra corpi dello stesso volume, o, in generale, confrontando volumi eguali. Per

si intende la tendenza naturale dei corpi a dirigersi verso il proprio luogo naturale. Quando gli averroisti,
e fra di loro anche Borri, parlano di gravitas come causa interna del moto, essi intendono per gravitas
non la semplice tendenza verso il basso, ma la ‘forma’, cioè la proprietà essenziale del corpo, la qualità
dell’esser grave. Per gli averroisti, in breve, l’elemento è autocinetico perché mosso da un principio che
gli è consustanziale. Lo stesso vale per i corpi misti, cioè composti di più elementi semplici. Buonamici,
pur condividendo l’idea, come si è già detto, che pesantezza e leggerezza sono qualità dei corpi, non è
disposto a credere che tali qualità siano le uniche e sole cause del moto. Secondo Buonamici, anche
cause esterne, come il mezzo, possono influenzare e determinare il moto dei corpi (cfr. M.O. Helbing,
La filosofia di Francesco Buonamici, cit., pp. 154-157).
21
Sia nel dialogus che nel trattato Galileo si riferisce ad Archimede con grande reverenza. Nel dia-
logus, l’appellativo «divino» viene attribuito da Domenico sia ad Archimede che a Tolomeo (cfr. De
motu antiquiora, OG, I, p. 368: «divini Ptolemaei et divinissimi Archimedis»). Nel trattato Archimede
è chiamato anche «superumano» (cfr. ivi, p. 300), mentre l’epiteto «divino» ritorna a caratterizzare il
Siracusano in un capitolo dedicato a sottolineare la grave imperizia di Aristotele nella geometria ele-
mentare (cfr. ivi, p. 303: «Aristoteles temere dicit, Non datur recta aequalis circuli circumferentiae:
quod falsum esse demonstratur a divino Archimede in suis Lineis spiralibus»).
22
La preoccupazione di chiarire il significato dei termini gravitas e levitas è evidente fin dalle prime
battute del trattato, in tutte le sue versioni (cfr. anche solo la prima versione, ivi, p. 25). Paolo Galluzzi
ha sottolineato che la volontà di Galileo di fare chiarezza terminologica nei De motu antiquiora non va
sottovalutata (cfr. P. Galluzzi, Momento, cit., pp. 169-170). Nelle sue analisi, Galluzzi non fece però
riferimento al dialogus, nonostante anche là Alessandro, su richiesta di Domenico, si preoccupi di ride-
finire i concetti di gravitas e levitas (cfr. De motu antiquiora, OG, I, pp. 386-387).

53
questo motivo, il corpo più pesante è detto anche da Galileo il più denso, mentre quello
più leggero corrisponde al meno denso23. La leggerezza intesa come qualità assoluta e
positiva viene così completamente lasciata da parte. Questo induce di conseguenza
Galileo a ripensare anche le caratteristiche del moto ascensionale: se il fuoco non va
più verso l’alto perché portatovi grazie a un impulso naturale, cioè la levitas, da che
cosa è generato il suo moto? Può ancora essere considerato un moto naturale?
La risposta galileiana poggia in parte sull’applicazione della teoria idrostatica ar-
chimedea allo studio dei moti, in parte su una concezione del moto naturale ancora
incardinata attorno alla nozione di luogo naturale. Se è vero che tale nozione non verrà
mai abbandonata da Galileo, bisogna tuttavia notare che nei De motu antiquiora essa
è ancora legata a una ben precisa struttura cosmologica24. Il luogo naturale verso cui

23
Cfr. ivi, pp. 251-253. Solitamente si intende che, parlando di densità, «pondus» e «gravitas»,
Galileo nei De motu antiquiora non faccia altro che riferirsi al peso specifico dei corpi. Maarten Van
Dyck ha però giustamente sostenuto che «the transition from absolute weight to specific weight in De
motu is not at all unproblematic», ricordando che «Galileo’s stipulation only states that we should con-
sider equal volumes of bodies when comparing their weight; to speak about something like specific
weight implies that we consider unit volumes» (M. Van Dyck, An archeology of Galileo’s science of
motion, tesi di dottorato, relatore Prof. Erik Weber, Ghent University 2006, p. 112). Inoltre, Galileo non
ricorre mai nei De motu antiquiora alle espressioni «peso specifico» o «gravità in specie»: quest’ultima
venne usata successivamente nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua. Nonostante ciò,
ritengo che Anna De Pace abbia ragione a dire che Galileo, nei De motu antiquiora, «ha chiarissimo il
concetto di gravità specifica, che distingue dal peso assoluto di un corpo» (A. De Pace, Galileo lettore
di Girolamo Borri nel De Motu, cit., p. 17, nota 52). In effetti, lo stesso Van Dyck sottolinea in primo
luogo la difficoltà galileiana di considerare, rimanendo fedele al quinto libro degli Elementi di Euclide,
un rapporto tra due grandezze non omogenee, come peso e volume; egli dunque non dubita che Galileo,
nei De motu antiquiora, si riferisca al concetto di «peso specifico», ma cerca piuttosto di comprendere
i motivi teorici che portarono Galileo a non utilizzare tale termine prima del 1612 (cfr. M. Van Dyck,
An archeology of Galileo’s science of motion, cit., pp. 194-204; sui problemi che Galileo dovette supe-
rare adottando la teoria euclidea delle proporzioni, tanto da sentire il bisogno di proporne una alterna-
tiva, cfr. E. Giusti, La teoria galileiana delle proporzioni, in La matematizzazione dell’universo. Mo-
menti della cultura matematica tra ’500 e ’600, a cura di Lino Conti, Università degli Studi di Perugia,
Porziuncola, Assisi 1992, pp. 207-222; cfr. anche quanto affermato da Romano Gatto in G. Galileo, Le
mecaniche, cit., p. XCIV). Nonostante ciò, ho deciso comunque di non alterare troppo la lezione di
Galileo, ricorrendo dunque al termine «densità» invece di «peso specifico» (cfr. De motu antiquiora,
OG, I, p. 344).
24
Nella Lettera a Ingoli, del 1624, Galileo scrive: «Gravità, appresso di me (e, credo, appresso la
natura), è quella innata inclinazione per la quale un corpo resiste all’esser rimosso dal luogo suo natu-
rale, e per la quale, quando forzatamente ei ne sia stato rimosso, spontaneamente vi ritorna» (OG, VI,
p. 557, corsivo mio). Con queste parole Galileo però non intende riferirsi a un preciso luogo dell’uni-
verso verso cui tutti i corpi gravi naturalmente si dirigono. Da quando si dichiara copernicano, per Ga-
lileo non esiste più un centro universale delle cose gravi. Si tratta, in fondo, della concezione di gravità
cui aderì anche Copernico (cfr. M. Bucciantini, Contro Galileo. Alle origini dell’“affaire”, Olschki,
Firenze 1995, pp. 167-168; e sul concetto di gravita in copernico: D. Knox, Copernico e la gravità: la

54
tutti i corpi si dirigono spontaneamente (dato che ogni corpo è ormai considerato un
grave) è il centro del mondo, detto anche centro di gravità. Un corpo si muove quindi
naturalmente, e il suo moto può dirsi naturale, quando asseconda la tendenza che lo
porta ad avvicinarsi al centro del mondo, diventato ormai termine ad quem universale
del moto di tutti i corpi. Il moto dell’elemento igneo non è perciò naturale, secondo
Galileo, ma violento25. Il motivo per cui il fuoco si muove verso l’alto è che esso è
meno denso dell’aria, la quale riesce così a imprimere al fuoco un moto verso l’alto.
Si potrebbe dire che così come una bolla d’aria nel mare è portata a emergere sotto la
spinta dell’acqua, allo stesso modo il fuoco è condotto verso l’alto nell’aria. In gene-
rale, quando il mobile è meno denso del mezzo in cui si trova, esso viene mosso verso
l’alto; quando invece è più denso, è allora in grado di assecondare l’impulso naturale
che lo porta a ricongiungersi col centro universale delle cose gravi; se vi è invece una
condizione di pari densità fra mobile e mezzo, allora non si verifica alcun movimento,
né sursum né deorsum.
Galileo spiega anche che, adottando tale teoria dei moti, è possibile determinare
matematicamente la velocità di un mobile calcolando la differenza tra il peso del corpo
grave e quello del mezzo in cui si muove26. Ma prima, egli decide di lasciare per un

dottrina della gravita e del moto circolare degli elementi nel De revolutionibus, Serra, Pisa-Roma 2013,
pp. 45-57; A. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico. Con testo, traduzione
e commentario del Libro I de Le rivoluzioni celesti, Mondadori, 2009, pp. 357-358 e nota 182 a p. 357).
Già in Copernico, come sottolinea Anna De Pace, la nozione di luogo naturale assume un significato
differente da quello tradizionale: «Il luogo naturale di un corpo terrestre non è più definito a priori sulla
base di porzioni assolute dello spazio, ma individuato in rapporto al centro di gravità del tutto rispetto
al quale soltanto, annullata la struttura del cosmo aristotelico, può essere ormai descritta la sua “ottima
disposizione”: per ogni parte corporea luogo naturale è quello del tutto in cui quella disposizione si
conserva» (ivi, pp. 189-190). Nei De motu antiquiora, però, la concezione di luogo naturale fa ancora
riferimento a una parte ben precisa dello spazio cosmico, cioè il centro dell’universo.
25
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 304: «Motus itaque naturalis est dum mobilia, incedendo, ad
loca propria accedunt; violentus vero est dum mobilia, quae moventur, a proprio loco recedunt». Cfr.
anche pp. 352-355, 361-363 e il memorandum a pp. 413-414. Vedi, a tale proposito, le chiare analisi di
Clavelin: «Si l’on entend pas “naturel” un mouvement dérivant de la nature des corps mus, seul vont
subsister des mouvements natureles vers le bas; tout mouvement le haut, étant dû à une densité supé-
rieure du milieu, c’est-à-dire à une cause externe, sera un mouvement violent, très précisément un mou-
vement “d’extrusion” où le corps est expulsé par la pression que le melieu exerce sur lui» (M. Clavelin,
La philosophie naturelle de Galileé. Essai sur les origines et la formation de la mécanique classique,
Armand Colin, Paris 1968, p. 143). Prima di Clavelin, Koyré aveva avanzato considerazioni simili sfo-
cianti però in conclusioni discutibili (cfr. A. Koyré, Studi galileiani, trad. it. M. Torrini, Einaudi, Torino
1976, pp. 70-71 (titolo originale Etudes galiléennes, Hermann, Paris 1966)).
26
Cfr. ivi, pp. 260-263. Per un chiarimento sulle differenze rispetto al modo di intendere la velocità,
come dipendente da una proporzione geometrica tra peso e resistenza del mezzo secondo Aristotele, da

55
attimo da parte le spiegazioni matematiche e di presentare nuovamente la propria teo-
ria de motu sfruttando però, per analogia, il funzionamento di una bilancia. La bilancia,
in breve, diventa un modello idoneo per la descrizione euristica del moto dei corpi27.
Servendosi del modello della bilancia, Galileo sottolinea in primo luogo un principio
generale: a uguale distanza dal fulcro, ciò che è più pesante non può essere sollevato
da ciò che è meno pesante28. Questo significa, per analogia, che un corpo più denso
del mezzo non potrà essere portato verso l’alto dall’azione del mezzo. Non è possibile
giungere a conclusione del genere senza aver prima ridotto tutti i corpi, il mobile e il
mezzo, a pesi di una bilancia.
Galileo si affida così al modello euristico della bilancia operando però una ridu-
zione altamente controintuitiva: quanti infatti sarebbero stati disposti a ridurre un ele-
mento come il fuoco a peso di una bilancia? Se nei trattati di Borri e Buonamici non
compaiono bilance, ciò non è dovuto solamente al fatto che i due filosofi non condivi-
devano la teoria idrostatica dei moti (Buonamici, peraltro, non escludeva del tutto il
ruolo del mezzo nel moto dei corpi29). Il motivo di questa assenza, piuttosto, è che
questi pensatori non avrebbero mai abbandonato con leggerezza l’idea di una diffe-
renza ontologica, e pertanto irriducibile, fra corpi naturali30.

una proporzione aritmetica secondo Galileo, cfr. M. Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée, cit.,
pp. 134-135 e M. Camerota, Galileo Galilei, cit., p. 67. Vedi anche G. Galilei, Antologia di testi, a cura
di M. Camerota, Carrocci, Roma 2017, p. 52. Fra parentesi, questa differenza consentì a Galileo di
affermare nei De motu antiquiora la possibilità di movimento nel vuoto: cfr. De motu antiquiora, OG,
I, pp. 276-285.
27
Cfr. ivi, pp. 257-260. Vedi anche l’esame di questi passi proposto da Galluzzi: cfr. P. Galluzzi,
Momento, cit. pp. 170-179.
28
«His in lance inspectis, ad naturalia mobilia revertentes, universaliter hoc proponere possumus:
nempe, gravius non posse attolli a minus gravi» (ivi, p. 258).
29
Cfr. M.O. Helbing, La filosofia di Francesco Buonamici, cit., pp. 161-172.
30
Credo che su questo punto la posizione di Clavelin sia viziata in partenza, in quanto basata su una
traduzione poco fedele del testo galileiano. Clavelin sostiene infatti che Galileo, nei De motu antiquiora,
non poté affermare la perpetuità del moto circolare perché trattenuto da considerazioni attinenti alla
natura dei corpi, in quanto fece cioè appello ancora alle qualità ontologiche dei corpi in base alle quali
si pensava che i corpi occupassero determinate zone del cosmo. Questa interpretazione è giustificabile
solamente leggendo un passo del dialogus, in cui Alessandro, dopo aver detto che una sfera marmorea
potrebbe «forse» girare perpetuamente attorno al centro del mondo, chiarisce che la natura dell’ele-
mento terra comunque impedisce di credere che un moto perpetuo circolare sia realmente possibile (De
motu antiquiora, OG, I, p. 373). A questo punto del dialogus, però, Alessandro non ha ancora specifi-
cato come vadano intese pesantezza e leggerezza (cfr. ivi, pp. 375 e 386-387), pertanto le sue conside-
razioni si pongono ancora all’interno di un quadro teorico aristotelico. Questo ‘quadro’, peraltro, non
subisce nel dialogus tutte quelle critiche che invece riceverà nel trattato. Non è dunque del tutto corretto
conciliare dialogus e trattato, come invece sembra fare Clavelin. Lo storico francese scrive infatti a

56
Bisogna inoltre ricordare che, dopo aver applicato il modello della bilancia allo
studio del piano inclinato, Galileo nei De motu antiquiora si interessa anche di com-
prendere il moto circolare nelle sue caratteristiche generali31. Nonostante ciò, nei De
motu antiquiora non una parola è spesa a proposito delle celesti circonvoluzioni32.
Galileo sembra dunque confinare le proprie speculazioni sul moto dei corpi entro i
limiti della quaestio de motu elementorum, così come venne impostata sia da Borri che
da Buonamici. Rispetto a questi ultimi, però, Galileo accoglie anche istanze e problemi
provenienti da una cultura extra-accademica in cui le teorie di Archimede venivano
rilette, studiate, e talvolta anche applicate allo studio dei moti naturali, come fecero
per esempio Tartaglia e Benedetti33. Forse l’opera di quest’ultimo venne conosciuta

proposito del motus neuter – né violento né naturale – di una sfera, discusso da Galileo in una parte del
trattato: «si ce mouvement n’est ni naturel ni violent, la sphère, une fois mise en mouvement par un
moteur externe, se mouvrait-elle perpétuellement ou non? La réponse une fois encore est éloquente: “Si
en effet, écrit Galilée, [la sphère] n’est pas mue contre sa nature, il semble qu’elle devrait se mouvoir
perpétuellement; en revanche, si elle n’est pas mue selon sa nature, il semble qu’elle doive finalement
revenir au repos”. Seuls, en d’autre termes, peuvent se perpétuer, une fois initiés par un moteur externe,
les mouvements conformes à la “nature” (à la forme, à l’essece?) des corps mus» (M. Clavelin, Galilée,
cosmologie et science du mouvement, cit., p. 77, corsivo mio). In latino, il passo citato da Clavelin
recita: «Si enim non praeter naturam movetur, videtur quod perpetuo moveri deberet; sed si non secu-
ndum naturam, videtur quod tandem quiescere debeat» (De motu antiquiora, OG, I, p. 305, corsivo
mio). Galileo non si riferisce in alcun modo alla «natura» della sfera (l’aggettivo possessivo «sua» che
indica la natura della sfera è aggiunto impropriamente nella traduzione di Clavelin), ma alle ‘modalità’
del moto, secondo o contro natura. Insomma, lo scienziato pisano si attiene in questo caso alla distin-
zione tra moto naturale e violento, e certamente non allude all’«essenza» o alla «forma» del corpo
mosso.
31
Cfr. ivi, pp. 304-305.
32
Solo in una occasione Galileo prende in considerazione il moto della sfera stellata, ma unicamente
per confutare un argomento altrui (cfr. ivi, pp. 305-306).
33
Molti studiosi hanno scartato l’ipotesi di un’influenza di Bendetti sul giovane Galileo. Tra gli
scettici vi sono Drake, Drabkin, Galluzzi, Giusti e Fredette. Soprattutto quest’ultimo ha insistito molto
sul fatto che non vi sia alcuna prova a favore di un’ascendenza benedettiana delle teorie che Galileo
espose nei De motu antiquiora (cfr. R. Fredette, Galileo’s De Motu Antiquiora Notes for a Reappraisal,
cit., p. 180). Renn e Damerow invece, conducendo uno studio a proposito della controversia sull’equi-
librio che coinvolse anche del Monte e Benedetti, hanno sostenuto che Galileo, per non inimicarsi Gui-
dobaldo del Monte – il quale criticò Bendetti –, pur conoscendo l’opera di Benedetti, decise comunque
di non citarlo mai nei De motu antiquiora (cfr. J. Renn e P. Damerow, The Equilibrium Controversy.
Guidobaldo del Monte’s Critical Notes on the Mechanics of Jordanus and Benedetti and their Histori-
cal and Conceptual Background, Max Planck Research Library for the History and Development of
Knowledge, Source 2, Edition Open Access 2012 (disponibile online http://www.edition-open-sour-
ces.org/sources/2/index.html), pp. 10, 144-155). L’ipotesi di Renn e Damerow è allettante, ma non è a
mio parere del tutto convincente. Sebbene sia probabile che Galileo conoscesse l’opera di Benedetti
attraverso le critiche mosse a quest’ultimo da Guidobaldo, non è privo di arbitrarietà pensare che Galileo
cominciasse a riflettere sul piano inclinato e sul copernicanesimo solo dopo aver letto Benedetti (cfr.
ivi, p. 149). Le considerazioni più bilanciate a tal proposito sono secondo me state offerte da Domenico

57
attraverso conversazioni avute con Guidobaldo del Monte, mentre può darsi che Osti-
lio Ricci introdusse Galileo all’opera di Tartaglia, di cui si ritiene il fermano fosse
allievo34. Comunque sia, nei De motu antiquiora sembrano confluire per la prima volta
nel corpus galileiano interessi diversi, inerenti alla fisica (con particolare riguardo al
problema del moto), all’idrostatica e alla statica.
Nella versione in forma di trattato del Ms. 71 si delinea anche la volontà di rendere
ragione dell’ordine del cosmo senza impiegare spiegazioni tautologiche basate sul ri-
corso alla divina Provvidenza35. Il tentativo compiuto da Galileo è innanzitutto quello
di fondare una cosmologia geocentrica e apparentemente aristotelica su basi fisiche

Bertoloni Meli, che ha affrontato una breve ma puntuale contestualizzazione dei De motu antiquiora,
mostrando come temi e soluzioni proposti da Galileo nel Ms. 71 non erano dissimili, per esempio, da
ciò di cui si occupò Tartaglia né da come quest’ultimo se ne occupò (cfr. D. Bertoloni Meli, Thinking
with Objects, cit., pp. 50-65).
34
Ostilio Ricci, nato a Fermo nel 1540 e morto forse a Firenze il 15 gennaio 1603, fu un matematico,
ingegnere e architetto militare che operò per gran parte della sua vita in Toscana, in particolare a Fi-
renze, dove nel 1593 divenne uno degli insegnanti dell’Accademia del Disegno. Corrado Dollo ricordò,
basandosi sulla testimonianza di Niccolò Gherardini (cfr. OG, XIX, p. 637), che fu proprio Ricci a
regalare per la prima volta a Galileo un’opera di Archimede (cfr. C. Dollo, L’egemonismo dell’archi-
medismo in Galileo, cit., p. 71). Anche Thomas B. Settle ha rimarcato questo fatto, ipotizzando peraltro
che Ostilio Ricci, il quale, come si è detto, combinò nella sua carriera il ruolo di insegnante di matema-
tica a quello di architetto militare, possa aver svolto un ruolo importante nell’orientare l’appiglio scien-
tifico-filosofico di Galileo (cfr. T.B. Settle, Ostilio Ricci, a bridge between Alberti and Galileo, in
Science et Philosophie XVIIe et XVIIIe siècles. XIIe Congrès International d’Histoire des Sciences, Ac-
tes, Albert Blanchard, Paris 1971, Tome III B, pp. 121-126, in particolare p. 124). Alcune notizie bi-
bliografiche importanti possono essere rintracciate anche in F. Vinci, Ostilio Ricci da Fermo, maestro
di Galileo Galilei, Properzi, Fermo 1929. Secondo Federico Vinci, Ostilio Ricci insegnò a Galileo so-
lamente parte del primo libro di Euclide. Galileo apprese dunque il resto, compreso il pensiero di Ar-
chimede, da autodidatta (cfr. ivi, p. 12). Recentemente alcuni studiosi, sulla scia di Settle, hanno messo
l’accento sull’aspetto pratico degli insegnamenti matematici e geometrici impartiti da Ricci ai propri
studenti, compreso Galileo (cfr. M. Valleriani, Galileo Engineer, Springer, Dordrecht 2010, pp. 11-15;
Sven Dupré ha stabilito che molto probabilmente Ricci insegnò a Galileo anche ottica e catoptrica, come
ricorda anche Alexander Marr in Between Raphael and Galileo. Mutio Oddi and the Mathematical
Culture of Later Renaissance Italy, The University of Chicago Press, Chiacago and London 2011, p.
90, compresa nota 17 per il riferimento a Dupré). Si ritiene che Ricci fosse allievo di Tartaglia, ma
questa rimane una congettura, sebbene a mio parere molto verosimile, avanzata per la prima volta da
Olschki e ripresa anche da Geymonat (cfr. L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 2015 (19581),
p. 15).
35
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, pp. 252, 342, 344-345.

58
nuove e decisamente anti-aristoteliche. Anche in questo caso, però, si tratta di com-
prendere unicamente le ragioni dell’ordine degli elementi. L’ordine dei pianeti viene
del tutto lasciato da parte36.

II.3 Perché la Terra è al centro del mondo?

Nella lezione dialogizzata del Ms. 71, molto probabilmente la prima a essere stata
scritta da Galileo, Domenico chiede ad Alessandro, quasi un Salviati ante litteram, la
causa per cui in natura viene preservato un determinato tipo di ordine, dove le cose
pesanti stanno al di sotto di quelle leggere, e non l’opposto. Alessandro presuppone
che tale ordine sia certificato dai sensi, ma per Domenico ciò non basta:

DO: Che ciò che tu supponi sia vero lo constatiamo per mezzo dei sensi. Ma io
vorrei capire la causa per cui la natura conserva tale ordine e non, piuttosto, il con-
trario.37

In un primo momento, Alessandro risponde, un po’ infastidito, che tale questione


non è di alcuna importanza all’interno della discussione sul moto dei corpi che i due
hanno deciso di intraprendere e portare avanti:

AL: Restituire la causa di tale ordine, essendo manifesto che esso si trova in natura,
non può giovare alla nostra investigazione. Restituire la causa principale sarebbe
forse difficilissimo, né altra potrei offrirne, se non che le cose dovevano disporsi in
un certo ordine, perciò piacque alla natura disporle in questo modo.38

36
Il motivo per cui nei De motu antiquiora non vengono studiati i pianeti e i loro movimenti, nonché
non vengono poste domande relative al loro ordine, sembra offerto proprio da Galileo stesso, che scrisse
il seguente appunto: «Motum localem appellamus illum, in quo mobilis centrum gravitatis movetur:
quare caelestium orbium motus locales non dicemus, cum eorum centrum gravitatis, quod magnitudinis
etiam centrum est, immobile semper maneat» (ivi, p. 416). Occupandosi forse del «moto locale» dei
corpi (proprio ciò che era al centro del dibattito a Pisa), Galileo esclude il moto dei corpi celesti dai
propri interessi.
37
De motu antiquiora, OG, I, p. 374: «Hoc quod supponis, verissimum quidem esse sensu deprae-
hendimus; sed causam cur talem ordinem servaverit natura, et non potius conversum, intelligere vel-
lem».
38
Ibid. «Causam talis ordinis reddere, cum ita rem se habere manifestum sit, ad nostrum intentum
nil conducere potest; eamque potissimam reddere, forte difficillimum esset: nec aliam reddere possem,
nisi quod in aliquem ordinem erant res disponendae, placuit autem naturae in hunc disponere».

59
È manifesto che l’ordine del mondo è tale per cui i corpi pesanti non potranno mai
stazionare sopra i leggeri, pertanto è del tutto inutile ricercarne la causa. Sarebbe d’al-
tronde veramente difficile, forse impossibile, trovare la «causa potissima» di tale di-
sposizione. Una ragione, addotta anche da Aristotele39, invita a pensare che nel mondo
vi sia un ordine e non un altro perché così piacque alla natura. Eppure Alessandro,
subito dopo, prova comunque a proporre un’altra causa:

AL: Se non volessimo forse dire che i [corpi] più gravi siano più vicini al centro dei
più leggeri perché, in qualche modo, i corpi più gravi sembrano essere quelli che
contengono più materia in uno spazio più angusto: come, per esempio, se vi fosse
un sacco pieno di lana, inserita in esso senza fare forza; allora, nello stesso sacco,
con molta più forza se ne potrebbe inserire molta di più. Il sacco sarà così più pe-
sante di prima, poiché nello stesso spazio si sarà accumulata più materia. Perciò,
dato che gli spazi più vicini al centro del mondo sono sempre più angusti di quelli
che invece se ne allontanano, ragionevolmente essi [gli spazi più vicini al centro del
mondo] vennero riempiti di materia la cui gravità, maggiore di un’altra materia,
occupasse spazi più angusti.40

In breve, i corpi più pesanti sono quelli più densi, quelli cioè che contengono più
materia in un determinato spazio. L’esempio proposto da Galileo è quello del sacco
imbottito di lana: un sacco riempito con molta lana, al punto che è stato necessario
comprimerla a fatica per farcela entrare, è ben più pesante di quello, identico al primo,
al cui interno è però presente poca lana, tanta quanto bastava metterne per non faticare.
A questo punto Alessandro sostiene che più ci si appropinqua al centro del mondo, più
gli spazi (i ‘sacchi’) si fanno angusti e ristretti, più la materia (la ‘lana’) in questi con-
tenuti è densa, e perciò pesante. Dalle parole di Alessandro risulta forse sottinteso che
in tutti gli «spazi» del mondo vi sia la stessa quantità di materia. Ciò, d’altronde, era
quanto sostenuto dallo stesso Aristotele riguardo alle regioni dei quattro elementi, e,

39
Galileo scrive a margine delle parole appena citate di Alessandro: «Et hoc quidem maxime cum
ipsemet Aristotelis dicat, 8 Physicorum textus 32 [scil. Phys. 255b, 14-17), locorum contrarietates esse
sursum et deorsum».
40
Ibid. «Nisi forte velimus dicere, graviora centro propinquiora esse quam leviora, quia videntur
quodammodo ea esse graviora, quae in angustiori loco plus materiae continent: ut, verbigratia, si fuerit
saccus lana plenus, quae in eo nulla vi sit constipata, deinde magna cum violentia multo plus lanae in
eodem comprimatur, tunc gravior erit quam antea, quia in eodem spatio plus materiae cumulabitur.
Cum, itaque, spatia quae centro mundi sunt propinquiora, semper angustiora sint iis quae a centro magis
recedunt, rationi consentaneum fuit ut ea replerentur materia, cuius maior gravitas, quam alterius, an-
gustiora spatia occuparet».

60
forse per questo, Galileo non sente la necessità di ribadirlo41. Domenico infatti, nono-
stante non la consideri una spiegazione «potissima», non dubita in alcun modo della
sensatezza dell’opinione di Alessandro:

DO: Questa causa [ratio], nonostante non possa essere pensata come la più appro-
priata [potissima] per questa disposizione degli elementi, ha comunque un aspetto
veritiero, cui l’animo dà volentieri il proprio assenso. Perciò, sia perché è chiaro ciò
che tu ricerchi, sia perché quel che hai detto poco fa restituisce in qualche modo una
causa, concederò serenamente che i [corpi] più gravi siano posti dalla natura sotto i
più leggeri.42

Pare abbastanza chiaro che ciò di cui Alessandro e Domenico discutono è l’ordine
degli elementi al di sotto dell’orbe lunare. Tutto lascia pensare che la cosmologia di
riferimento non sia altro che quella aristotelica. Inoltre, l’atteggiamento nei confronti
dell’opinione di Aristotele sulla disposizione del mondo non è critico, e l’argomento
con cui lo Stagirita afferma che fra gli elementi vi è la stessa quantità di materia viene
molto probabilmente preso per scontato.
Al contrario, tutte le versioni in forma di trattato dei De motu antiquiora sono ca-
ratterizzate da una forte verve antiaristotelica. Inoltre, nel trattato Galileo non ritiene
più inutile o privo di senso comprendere perché nel mondo vi sia un certo ordine e non
il contrario. L’esperienza sensibile è ancora accolta come ineccepibile, però, nono-
stante ciò, il problema dell’ordine è ora considerato di grande interesse e importanza:

L’esperienza ci mostra continuamente che i corpi vennero disposti dalla natura in


questo ordine, secondo cui i più gravi rimangono più vicini al centro del mondo.
Eppure, ci si potrebbe chiedere perché la prudente natura, disponendo i luoghi, man-
tenne tale ordine e non, invece, il contrario.43

41
Una delle argomentazioni con cui Aristotele tentava di dimostrare che vi è la stessa quantità di
terra, acqua, aria e fuoco nel mondo verrà citata da Galileo nel trattato e ricondotta a «P.o Meteororum
cap. 3o [scil. Meteor. 339a, 33 e sgg.]» (ivi, p. 346, postilla marginale segnalata da Favaro). Si veda, a
tal proposito, anche P. Duhem, Le Système du Monde, cit., vol. IX, pp. 91-96.
42
De motu antiquiora, OG, I, p. 375. «Ratio ista, quamvis talis elementorum dispositionis existi-
manda non sit potissima, attamen nonnullam in se habet veritatis speciem, cui animus libenter adsenti-
tur: ita ut, tum quia per se clarissimum est quod petis, tum quia de eodem ea quae nuper dixisti causam
quodammodo reddunt, graviora sub levioribus a natura constituta esse, aequo animo concedam».
43
Ivi, p. 344. «In hunc, itaque, ordinem a natura distributa fuisse corpora, ut scilicet, quae gravioria
essent, centro propinquiora manerent, continua nobis declarat experientia: verum in dubium revocari
potest, cur talem ordinem in distribuendis locis, non autem praeposterum, prudens natura servaverit».
Quella citata è la terza versione, ma nelle prime due è già esposto il problema sotto gli stessi termini.

61
L’argomentazione aristotelica, nonché quella di tutti i filosofi che si appellano alla
Somma Provvidenza, viene criticata per l’incapacità di spiegare perché la terra, e non
il fuoco, si trovi al centro del mondo. Anche Tolomeo, che ritiene inutile porre la que-
stione una volta dimostrato che la Terra è al centro del mondo, in realtà, secondo Ga-
lileo, non dirime alcuna «difficoltà»:

Da quanto ho letto, nessun’altra causa di questa disposizione è stata addotta dai


filosofi, se non che tutte le cose dovevano essere disposte in un certo ordine, e che
sarebbe poi piaciuto alla Somma Provvidenza distribuirle in modo tale. In un certo
senso, una cosa simile sembra essere addotta da Aristotele, nell’ottavo libro della
Fisica, testo 32 […]. Anche Tolomeo, all’inizio del settimo capitolo del primo libro
dell’Almagesto, dice che, una volta dimostrato che la Terra, verso cui si dirigono [i
gravi], è al centro, è inutile cercare il motivo per cui i gravi si muovono verso il
centro. Queste [argomentazioni] però non eliminano la difficoltà. Infatti, dato che
[i gravi] si muovono verso il centro perché si muovono verso la Terra, ancora una
volta ci chiediamo perché la Terra sia stata collocata al centro e non, piuttosto, nel
luogo del fuoco.44

Quello che nel dialogo tra Alessandro e Domenico era risultato un problema poco
interessante e per nulla attinente alla discussione sul moto dei corpi, nel trattato, in

Nella prima versione si legge: «Gravium itaque loca esse illa quae mundi centro magis accedunt, levium
vero quae loca magis distant, sensu quidem quotidie intuemur; quare talia determinata loca illis a natura
praescripta esse, non est quod dubitemus: sed in dubio quidem revocari potest, cur talem ordinem in
distribuiendis locis prudens natura servaverit, non autem praeposterum» (ivi, p. 252). Nella seconda
versione invece, Galileo scrive: «Verum, quod ad primum attinet, gravium loca ea esse quae quae magis
centro accedunt, levium vero quae magis distant, sensu quidem quotidie intuemur; quare talia determi-
nata loca illis a natura praescripta esse, non est quod dubitemus: verum in dubium revocari potest, cur
talem ordinem in distribuendis locis, non autem praeposterum, prudens natura servaverit» (ivi, p. 342).
44
Ivi, pp. 344-345. «Huius distributionis non alia, quod legerim, a philosophis adfertur causa, nisi
quod in aliquem erant ordinem cuncta disponenda, in hunc autem Summae Prudentiae distribuere pla-
cuerit. Simile quiddam Aristoteles, 8 Physicorum 32, adferre videtur […]. Ptolemaeus autem, in prin-
cipio 7i capituli primi libri suae Magnae Constructionis, inquit frustra inquiri cur gravia ad medium
ferantur; cum demonstrasset terram, ad quam feruntur, in medio esse. Verum haec difficultatem non
tollunt: dato, enim, ferri ad medium quia ad terram ferantur, rursus cur terra in medio non autem in loco
ignis posita fuit, quaerimus». Ho citato la terza versione, ma anche questa frase si ripete in modo pres-
soché identico nelle altre due versioni. Le uniche variazioni permettono di argomentare a favore di una
posteriorità della terza versione sulla seconda e di quest’ultima sulla prima (cfr. E. Giusti, Elements for
the Relative Chronology of Galilei’s De Motu Antiquiora, in “Nuncius”, v. 13, n. 2 (1998), pp. 427-
460, in particolare pp. 435-436. Giusti dimentica però di dire che Tolomeo non è citato nel dialogus e
nemmeno nella prima versione in forma di trattato).

62
tutte le sue versioni, assume invece un grande rilievo filosofico45. In queste pagine del
trattato è percepibile la volontà di Galileo di trovare la ratio del cosmo anche e soprat-
tutto a prescindere dalle argomentazioni di Aristotele46. Tanto che, se ancora si può
parlare di cosmo aristotelico, non è però più possibile rintracciare la cosmologia ari-
stotelica tra le pagine del trattato De motu antiquiora.
Proprio all’inizio del trattato, infatti, la questione cosmologica riceve una grande
attenzione filosofica da parte di Galileo, il quale si impegna anche a confutare un’ar-

45
Sul tema dell’ordine in Galileo esiste per ora un solo studio, ormai datato, ma giustamente ancora
punto di riferimento per tutti gli studiosi: P. Galluzzi, Il tema dell’«ordine» in Galileo, in Ordo. Atti del
II colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo. Roma 7-9 gennaio 1977, a cura di M. L.
Bianchi e M. Fattori, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, pp. 235-257. Lo storico della scienza italiano si
sofferma soprattutto sul ruolo e il significato di «ordine» nel Dialogo di Galileo, un ordine basato ormai
su rapporti geometrici e relazioni spaziali tra corpi, in base al quale lo scienziato pisano si allontana
definitivamente dall’immagine tradizionale e aristotelica di un cosmo ordinato secondo gerarchie onto-
logiche e assiologiche (cfr. ivi, pp. 248-253). Galluzzi basò il proprio articolo sullo spoglio dell’opera
volgare galileiana (cfr. ivi, p. 235), pertanto non prese in considerazione i De motu antiquiora. Chi si
accorse dell’importanza del tema nell’ordine nei De motu antiquiora fu Maurice Clavelin, che, nel suo
libro sulla filosofia di Galileo diventato ormai un classico, scrisse: ««pour Galilée en 1590, la disposi-
tion des élements n’obéit pas seulement à une nécessité mécanique, mais aussi à une “harmonie” d’ori-
gine purement philosophique» (M. Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée, cit., p. 147).
46
La domanda stessa sul perché il mondo abbia un ordine piuttosto che un altro può avere a prima
vista richiami platonici. Nel Fedone, per esempio, Socrate racconta di aver sentito dire da un tale che
Anassagora sostenne l’esistenza di una mente creatrice e ordinatrice dell’universo, la quale – pensa
Socrate – intesa come causa e principio dell’universo dovrebbe permettere di spiegare perché per cia-
scuna cosa «il meglio» è di essere nel modo in cui è e non altrimenti. Socrate ritenne dunque di aver
trovato in Anassagora un insegnante in grado di spiegare la causa di tutto ciò che è: «Egli [Anassagora],
per esempio, avrebbe cominciato col dirmi se la terra è piatta o rotonda, e, dopo dettomi questo, mi
avrebbe spiegato perché è così e perché non può che essere che così, allegando la ragione del meglio, e
cioè che per essa il meglio era appunto di essere così o così; e se poi mi dirà che ella è nel mezzo, mi
chiarirà che per lei il meglio era appunto di essere nel mezzo; e se mi dimostrerà questo, ecco, dicevo,
ch’io son pronto a non desiderar più altre cause di altro genere» (Phaed., 97c-98a. Ho adottato la tra-
duzione di Manara Valgimigli contenuta in Platone, Fedone, Laterza, Bari 2000). Ben presto Socrate
manifesterà la propria delusione constatando che Anassagora, dimentico di aver posto una mente ordi-
natrice causa e principio di tutte le cose, si ridusse a indicare come cause «e l’aria e l’etere e l’acqua e
altre cose molte, e tutte quante fuori di luogo», scambiando così quelle che non possono essere altro che
concause con la «causa vera e propria»: i filosofi che così fanno, «quel potere onde cielo e terra si
trovano oggi disposti nel modo migliore, codesto potere né lo ricercano essi né credono abbia alcuna
sua forza divina» (Phaed., 99c). Non basta dunque riconoscere nel mondo la presenza di un disegno
divino, intelligente e intelligibile; esso va spiegato e dimostrato attraverso un discorso razionale. In ogni
caso, con ciò non voglio dire che Galileo abbia scritto i De motu antiquiora sotto la grande influenza di
Platone. Infatti la questione sull’ordine degli elementi è presente anche nel De caelo (cfr. De caelo,
295a10-296a24) e nella Fisica, cui Galileo rimanda esplicitamente, chiamando in causa il testo 32
dell’ottavo libro, ossia Phys. 255a30-255b30, e in particolare Phys. 255b, 14-17 (cfr. supra, cap. II, note
39 e 44).

63
gomentazione aristotelica che i personaggi Alessandro e Domenico avevano forse as-
sunto acriticamente. Secondo Aristotele, la quantità di un elemento nel mondo non può
essere superiore a quella degli altri. Infatti, se vi fosse stata un’eccedenza di fuoco nel
mondo, allora, sostiene lo Stagirita, l’acqua e l’aria non esisterebbero più, poiché «ab
igne exusta, in ignem conversa fuissent»47. Galileo confuta l’argomento aristotelico
basandosi sulla spiegazione del perché in natura i corpi pesanti occupano il luogo più
vicino al centro del mondo. La spiegazione non si discosta di molto da quella proposta
nel dialogus dopo l’esempio del sacco di lana, anche se viene ora specificato che non
è necessario presumere, come invece fece Aristotele, che nel mondo vi sia la stessa
quantità di materia per tutti gli elementi:

Tuttavia non dirò, come invece credette Aristotele, che la materia dell’acqua è tanta
quanto quella della stessa terra, e che per questo l’acqua, essendo meno densa [ra-
rior] della terra, occupa luoghi più ampi. Dirò solo che, se prendessimo una parte
di acqua dello stesso peso di una parte di terra, e perciò la materia dell’acqua fosse
tanta quanto quella della terra, allora la terra certamente occuperà un luogo più pic-
colo di quello dell’acqua: per questo, e a ragione, [la terra] sarà collocata in uno
spazio più angusto.48

L’esempio condotto prendendo acqua e terra come elementi di riferimento è ovvia-


mente applicabile a tutti gli elementi49. A partire da ciò, secondo Galileo è così possi-
bile affermare, contrariamente a quanto sostenuto da Aristotele, che, se anche la quan-
tità di fuoco nel mondo eccedesse perfino di mille volte quella dell’aria, non potrebbe
comunque verificarsi una combustione totale dell’aria, perché in tal caso non ci sa-
rebbe abbastanza spazio, nel mondo, per contenere tutto il fuoco:

Da ciò si può concludere che ha poco valore l’argomento di Aristotele, con cui egli
tenta di provare che le materie degli elementi sono tra loro uguali dicendo che, se la

47
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 346.
48
Ivi, p. 345-346. «Nec tamen dixerim (ut credidit Aristoteles), aquae materiam tantam esse quanta
est ipsius terrae, et ob id aquam, cum sit terra rarior, maiora loca occupare; sed solum quod, si partem
aquae cum terrae parte aequeponderantem accipiamus, et ob id tanta sit aquae materia quanta terrae,
tunc profecto terra illa minorem occupabit locum quam aqua: quare merito in angustiori spatio erit
reponenda».
49
«Et, similiter, tanta materiae mole, quantam terrae forma angusto loco compraehendebat, forma
aëris amplissimum spatium replebat: ergo aëri natura ampliorem, quam terrae, locum assignare debuit;
ergo, centro remotiorem. Similique modo de igne etiam discurrendo, congruentiam quamdam, ne dicam
necessitatem, talis dispositionis inveniemus» (ivi, p. 346).

64
materia del fuoco superasse la materia dell’aria e dell’acqua, allora l’aria e l’acqua,
consumate dal fuoco, si trasformerebbero in fuoco. Infatti, anche se assumessimo
che il fuoco ecceda di mille volte l’aria, non ci sarebbe comunque da temere che
l’aria possa tramutare nella natura del fuoco. Infatti, dato che ogni luogo sotto il
concavo lunare è già riempito, e, visto che se l’aria diventasse fuoco, avrebbe biso-
gno di un luogo molto più ampio di quello che occupa ora, è evidente che, non
avendo uno spazio da occupare, non potrebbe acquisire una natura ignea. E lo stesso
va detto per gli altri elementi.50

In merito al tema dell’ordine e alla cosmologia, il trattato e il dialogus mostrano


dunque alcune evidenti differenze. Se nel dialogus la cosmologia aristotelica è accet-
tata senza bisogno di trovare argomentazioni nuove rispetto a quelle già proposte da
Aristotele, nel trattato la distanza dallo Stagirita è invece netta, e sebbene vi sia ac-
cordo sull’ordine degli elementi, il disaccordo emerge chiaramente quando si tratta di
trovare le ragioni, la «causa», il «perché» di tale ordine. Ciò sembra riconducibile, in
fondo, a un atteggiamento nuovo nei riguardi di un problema cosmologico (perché la
Terra è al centro del mondo?) e allo stesso tempo filosofico (per quale motivo vi è un
determinato ordine nel mondo?) che appare finalmente risolvibile adducendo argo-
mentazioni attinte dalla fisica (tutti i corpi sono costituiti della stessa materia; i corpi
più pesanti sono quelli più densi; in una sfera, gli spazi più vicini al centro sono quelli
più angusti; i corpi più densi occupano uno spazio più angusto di quelli meno densi;
ecc.)51.
A prescindere dal fatto che la giustificazione galileiana del cosmo geocentrico si
basi ancora su certe associazioni non meno arbitrarie di quelle di Aristotele (perché,

50
Ibid. «Ex his colligi potest, nullius esse momenti Aristotelis argumentum, quo probare contendit,
elementorum materias inter se esse aequales; dum dicit: Si ignis materia excederet materiam aëris et
aquae, iam aër et aqua, ab igne exusta, in ignem conversa fuissent. Nanque, etiam si ponamus ignem
vel millies aërem excedere, non tamen verendum est, aërem in ignis naturam converti posse: cum enim
locus omnis sub concavo lunae iam expletus sit, et, si aër ignis evaderet, longe ampliore, quam nunc
occupat, loco egeret, constat, eo quod careat spatio in quo consisteret, in igneam non posse transire
naturam. Et sic de caeteris censendum est elementis».
51
Maarten Van Dyck ha ipotizzato lo schema esplicativo con cui Galileo giustifica l’ordine delle
cose gravi e meno gravi nel mondo potrebbe derivare dallo studio dell’opera idrostatica di Archimede:
«This explanatory scheme was probably suggested to Galileo by his study of Archimedes’ treatise on
floating bodies, which always demonstrates its propositions concerning equilibrium – whereby the
lighter must stay on top of the havier – on a sphere that represents the surface of a fluid at rest around
the centre of the earth» (M. Van Dyck, An archeology of Galileo’s science of motion, cit., pp. 109-110,
e figura 4.1 a p. 130). Galluzzi ha notato inoltre che una spiegazione simile a quella galileiana era stata
data anche da Sarpi (cfr. P. Galluzzi, Tra atomi e indivisibili, cit., p. 15, nota 14).

65
per esempio, lo spazio più angusto in una sfera deve per forza essere quello più vicino
al centro? E perché il mondo dovrebbe essere sferico?), sarebbe interessante cercare
di comprendere come mai Galileo abbia deciso a un certo punto di dare tanta impor-
tanza alla spiegazione fisica del cosmo. Ciò risulta ancora più interessante se si pensa
che fra queste considerazioni cosmologiche, e forse proprio a partire da esse, Galileo
deciderà infine di inserire il proprio racconto cosmogonico.
Fra le opere che probabilmente Galileo lesse prima di scrivere il suo primo trattato
de motu vi è forse In duos Archimedis aequeponderantium libros paraphrasis di Gui-
dobaldo del Monte. Nelle pagine iniziali di quest’opera, appena dopo aver dato le de-
finizioni di «centrum gravitatis», «centrum figurae», «centrum magnitudinis» e «cen-
trum mundi»52, Guidobaldo prende in considerazione un problema cosmologico. Egli
si impegna a dimostrare che, anche se il globo terrestre è eterogeneo, composto di
corpi di diversa specie e dunque di diverso peso, come terra e acqua, il suo centro di
gravità coincide comunque con quello del mondo, e pertanto la Terra è in quiete al
centro dell’universo:

Infatti, secondo l’opinione di Aristotele, la terra si mantiene stabile in tutte le sue


parti intorno al centro, e Archimede afferma che anche l’acqua conserva una forma
sferica, il cui centro è il centro dell’universo. Se allora terra e acqua permangono
immobili intorno al centro dell’universo, il centro del mondo coincide con il loro
stesso centro di gravità, e pertanto i suddetti quattro centri si ritrovano tutti insieme
in un punto.53

Secondo Enrico Gamba e Vico Montebelli si assiste in queste pagine della Paraph-
rasis al tentativo di «dimostrare la centralità della Terra nell’universo mediante un

52
Una distinzione del genere sembra adottata anche da Galileo nei De motu antiquiora (cfr. De motu
antiquiora, OG, I, pp. 304-305 e memorandum a p. 416).
53
Cfr. G. del Monte, In duos Archimedis aequeponderantium libros paraphrasis, Apud Hie-
ronymum Concordiam, Pesaro 1588, p. 11. «Nam ex Aristotelis sententia terra circa mundi centrum
undique consistit; et Archimedis affirmat, etiam humidum manens esse sphaericum, cuius centrum est
centrum universi. Si itaque terra et aqua manent, quiescuntque circa centrum universi, ergo centrum
mundi ipsorum simul centrum gravitatis existit, atque adeo quoatuor praedicta centra in unum simul
conveniunt punctum».

66
ragionamento meccanico», partendo sì da premesse aristoteliche, ma integrando que-
ste ultime con considerazioni di Archimede54. È forse visibile anche in ciò quella vo-
lontà di conciliare Archimede e Aristotele che compare nel Mechanicorum liber, dove
viene accolta l’idea, quasi da tutti condivisa, che le Questioni meccaniche fossero
opera dello Stagirita55. In ogni caso, ciò che qui preme mettere in luce, ritornando al
sopracitato passo della Paraphrasis, è l’approccio di Guidobaldo nei confronti della
cosmologia aristotelica: essa è accettata, ma, nonostante ciò, riletta alla luce della
scienza archimedea restaurata da Commandino. L’operazione compiuta da Galileo nel
dialogus, cioè quella di trovare nuovi argomenti a sostegno della cosmologia di Ari-
stotele, non risulta dunque del tutto innovativa. A ben vedere, nemmeno le considera-
zioni di Guidobaldo del Monte sono ‘nuove’. Già Simplicio, nel proprio commentario
al De caelo, aveva sostenuto una cosa simile a del Monte ricordando la posizione di
Alessandro di Afrodisia riguardo alla centralità della Terra. Alessandro di Afrodisia,
oltre a menzionare Aristotele, chiamava in causa anche Archimede, proprio come
avrebbe poi fatto Guidobaldo del Monte, sostenendo che acqua e terra permangono
intorno allo stesso centro. Aggiungeva inoltre che questo centro è allo stesso tempo
centro universale di tutte le cose gravi e centro di gravità del globo terrestre e di quello

54
Cfr. Cfr. E. Gamba, V. Montebelli, Le scienze a Urbino nel tardo Rinascimento, Quattroventi,
Urbino 1988, pp. 51-54.
55
Bernardino Baldi dà testimonianza che già nel tardo Rinascimento le Questioni meccaniche non
venivano unanimemente attribuite ad Aristotele: «La raccolta [le Questioni meccaniche] è attribuita ad
Aristotele, pur se qualcuno ha avanzato il dubbio che essa non sia opera di quel famosissimo e acutis-
simo filosofo. Ma sono d’accordo su tale attribuzione quasi tutti i migliori autori; ciò per lo stile e per
il metodo dell’esposizione, che sembrano propri di Aristotele, e per il giudizio sulla sottigliezza e sulle
argomentazioni con cui molto ingegnosamente vengono risolte quelle questioni» (B. Baldi, In mecha-
nica Aristotelis problemata exercitationes, testo latino riveduto e corretto con traduzione italiana a
fronte, a cura di Elio Nenci, Francoangeli, Milano 2010, 2 voll., Vol. I, p. 53). Baldi aggiungeva inoltre
una considerazione personale molto interessante: «Ad un esame più accurato della questione mi sembra
abbastanza verisimile l’opinione (non sostenuta peraltro da nessun autore) che si tratti di una qualche
parte o sezione della notissima opera dello stesso autore sui Problemi staccata e isolata dal corpo delle
opere non so per quale motivo, se non perché non è trattazione di carattere puramente fisico» (ibid.).
Per quanto riguarda il riferimento ai Problemi, cfr. M.O. Helbing, Galileo e le Questioni meccaniche
attribuite ad Aristotele. Alcune indicazioni, in Largo campo di filosofare, cit., pp. 217-136, in partico-
lare la nota 12 a pagina 219, in cui si legge che lo storico della scienza de Ceglia – come Baldi –
purtroppo confuse «le Questioni meccaniche con un’altra opera del Corpus Aristotelicum di allora, i
Problemata (Aristotelis Problematum Sectiones duae de quadraginta, Theodoro Gaza interprete…, in
Aristotelis opera omnia cum Averrois commentariis, Venezia 1562, VII ff 1-98)». Infine ricordo che
Gianni Micheli ha fatto notare che perfino Cardano espresse qualche dubbio sulla comune attribuzione
ad Aristotele delle Questioni (cfr. G. Micheli, Le origini del concetto di macchina, Olschki, Firenze
1995, p. 133, nota 2).

67
acqueo56. Questa teoria aveva poi dato adito a vive discussioni. Infatti, dato che Ari-
stotele era convinto che nessuno dei quattro elementi potesse eccedere, in quantità, un
altro elemento, e visto che l’acqua è meno densa della terra, ciò significa anche che
essa ha un volume maggiore di quello della terra. Ma se così fosse, allora l’acqua, che
occupa lo stesso centro della terra, dovrebbe a quel punto sommergere completamente
quest’ultima, il che è semplicemente smentito dall’esperienza57. Nacque così una que-
stione che si protrasse per secoli, di cui peraltro si occupò anche Copernico nel terzo
capitolo del primo libro del De revolutionibus58.
Nonostante ciò, è però ancora in un certo senso spiazzante vedere che in tutte le
versioni del trattato dei De motu antiquiora, rispetto al dialogus, la questione cosmo-
logica non è più posta in secondo piano da Galileo, e che gli argomenti di Aristotele
non vengono semplicemente integrati con altre considerazioni, ma completamente ri-
fiutati.
Una spiegazione valida può a mio parere essere data riallacciandosi alle conclusioni
di uno studio condotto circa vent’anni fa da Anna De Pace59. Secondo De Pace, nei De
motu antiquiora sarebbero ben visibili le intenzioni polemiche di Galileo nei confronti
di Girolamo Borri, il quale, tra le altre cose, aveva sostenuto nel De motus gravium et
levium l’impossibilità di salvare l’ordine del mondo adottando la fisica degli «antichi»,
tra cui svettava il «divino Platone»60. Se fosse stata vera una fisica del genere, in cui
le differenze ontologiche fra corpi sono annullate e la leggerezza è determinata in rap-
porto al peso di altri corpi, il mondo avrebbe dovuto assumere l’aspetto di una mo-
struosa chimera. Infatti, secondo Borri, dire che il fuoco non è assolutamente leggero,
significa allo stesso tempo ammettere che una grande quantità di fuoco, cioè una

56
Cfr. P. Duhem, Le Système du Monde, cit., vol. IX, pp. 79-82.
57
Cfr. ivi, pp. 87-98.
58
Cfr. A. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, cit., pp. 321-331. Si
veda anche il breve ma puntale resoconto di Vesel, in cui è ricordato anche il ruolo delle scoperte geo-
grafiche: cfr. M. Vesel, Copernicus: Platonist Astronomer-Philosopher. Cosmic Order, the Movement
of the Earth, and the Scientific Revolution, Peter Lang, Frankfurt am Main 2014, pp. 119-125. Per
quanto riguarda in generale la questione de «l’équilibre de la terre et des mers», cfr. P. Duhem, Le
Système du Monde, cit., vol. IX, pp. 79-235. Si veda anche E. Grant, In Defense of the Earth’s Centrality
and Immobility: Scholastic Reaction to Copernicanism in the Seventeenth Century, in “Transactions of
the American Philosophical Society”, v. 74, n. 4 (1984), pp. 1-69, in particolare pp. 20-32. Grant ricorda
che anche Clavio discusse la questione nel commentario al Sphaera di Sacrobosco (cfr. ivi, p. 16).
59
Cfr. A. De Pace, Galileo Galilei lettore di Girolamo Borri nel De Motu, già citato.
60
G. Borri, De motu gravium et levium, cit., p. 30 e passim.

68
grande quantità di materia, pesa più di una piccola quantità di terra, costituita della
stessa materia. Pertanto, proprio come la terra, anche il fuoco dovrebbe conglomerarsi
al centro del mondo, il quale diventerebbe così un insieme caotico e confuso di ele-
menti61. L’ordine del mondo non è dunque spiegabile da parte di chi, come i filosofi
antichi, sostiene che ogni corpo sia costituito di parti più o meno dense della stessa
materia.
Al contrario, Galileo, oltre a mettere bene in chiaro fin dall’inizio del trattato de
motu che pesantezza e leggerezza possono definirsi solamente confrontando volumi
eguali di corpi, così che il fuoco, meno denso della terra, non potrà mai pesare effetti-
vamente più della terra, dimostra anche, forse in diretta polemica con Borri, che è
possibile salvare l’ordine del mondo, nonché addirittura trovarne la causa «se non ne-
cessaria, almeno utile», proprio accogliendo l’antica concezione corpuralistica di ma-
teria e rifiutando le argomentazioni di Aristotele62.
L’attenzione posta da Galileo nei riguardi del tema dell’ordine e, in generale, della
cosmologia potrebbe così inserirsi perfettamente all’interno della controversia de motu
elementorum di cui si è già parlato. Se così fosse, non sarebbe del tutto fuori luogo
ipotizzare che anche la questione cosmogonica facesse parte del dibattito sul moto dei
corpi. Nel prossimo capitolo vorrei tentare di seguire questa ‘pista’, dato che, proprio
leggendo il De motu gravium et levium di Borri, si nota che la questione riguardante
la formazione dell’ordine del cosmo non era del tutto svincolata da quella relativa al
moto dei corpi. Ciò, d’altronde, si riscontra anche in Aristotele, che nel libro VIII della
Fisica connette questioni concernenti il moto a quella sulla creazione dell’universo63.

61
Cfr. A. De Pace, Galileo Galilei lettore di Girolamo Borri nel De Motu, cit., pp. 9-13.
62
Cfr. ivi, pp. 13-27. Va comunque notato che Anna De Pace non tenne conto di un’informazione
che già Wisan aveva messo in luce, e cioè che il richiamo ai «filosofi antichi» scompare dalla seconda
e dalla terza versione del trattato De motu antiquiora: «After the longer essay, revised versions of the
two preliminary chapters drop the allusion to the ancient atomists […]» (W.L. Wisan, Galileo and God’s
Creation, cit., p. 475).
63
Cfr. Phys. 250b, 11-20 e 255b, 10-25. Vedi anche quanto scritto da Perera all’inizio dell’ultimo
libro del De communibus (cfr. supra, nota 67).

69
II.4 «Contra Platonem, et Hermetem Trismegistum, qui Chaos illud antiquum
finxerunt». La critica di Borri al mito del caos primigenio

Sappiamo che il De motu gravium et levium di Borri, oltre a comparire fra i libri
della biblioteca galileiana64, venne da Galileo molto probabilmente letto prima che
questi si dedicasse alla scrittura della versione dialogata dei De motu antiquiora. Il
nome di Borri compare infatti proprio nelle prime battute del dialogus, in bocca a Do-
menico, che elogia il professore aretino per aver saputo trattare in modo molto accurato
la questione del moto dei corpi gravi e leggeri65. Ma una citazione riguardante Borri
compare anche a margine di un passo del trattato dei De motu antiquiora, e ci permette
di affermare con una certa sicurezza che Galileo consultò con attenzione almeno certe
pagine del De motu gravium et levium: in quella postilla Galileo infatti rimanda in
modo opportuno al capitolo dodicesimo della terza e ultima parte dell’opera di Borri66.
Quelle che però qua ci interessa prendere in considerazione sono solo alcune pagine
non dell’ultima, ma delle prime due parti del De motu gravium et levium, di cui pos-
siamo unicamente ipotizzare una lettura da parte di Galileo. Di fatto, non è detto che
Galileo avesse letto tutto il libro di Borri, e pertanto nemmeno che esso, in tutte le sue
parti, abbia influenzato la stesura dei De motu antiquiora. Ciononostante, come si ve-
drà, alcune ricorrenze consentiranno forse di avvalorare l’ipotesi che nella prima co-
smogonia elaborata da Galileo vi sia una eco di informazioni attinte dall’opera di
Borri, che vennero però rielaborate e rinvigorite, per essere in un certo senso ritorte
proprio contro l’aretino e tutti coloro – se altri ve ne furono – che si preoccuparono di
smontare il mito delle origini caotiche del mondo.
Nella prima parte del De motu gravium et levium, Borri, nel tentativo di dirimere la
controversia pisana sul moto degli elementi, dedica anche alcuni brevi capitoli iniziali

64
È possibile consultare la copia posseduta da Galileo al seguente indirizzo: http://bibdig.museoga-
lileo.it/Teca/Viewer?an=396058 (6 gennaio 2010).
65
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 367.
66
Cfr. ivi, p. 333, nota 1: «Borrius, cap. XII, 3ae partis». Nel dodicesimo capitolo della terza parte
del De motu gravium et levium, Borri adduce un esempio a conferma di quanto sostenuto nel sesto
capitolo della stessa parte, e cioè che l’aria ha un peso nel proprio luogo naturale: cfr. G. Borri, De motu
gravium et levium, cit., pp. 212-213 (cap. VI) e 232-233 (cap. XII). Nei De motu antiquiora Galileo
confuta quest’opinione.

70
alla confutazione di teorie che secondo lui implicano gravi errori, proprio perché ba-
sate su una comprensione errata del moto dei corpi gravi e leggeri. Fra queste, vi è
quella secondo cui il mondo ebbe origine da una situazione caotica iniziale e primige-
nia, in cui tutti gli elementi si agitavano confusamente, senza ordine né regola:

Il divino Platone nel Timeo, Esiodo nella Teogonia e Orfeo nelle Argonautiche
scrissero che, prima della creazione del mondo, gli elementi si mossero senza alcun
ordine in mezzo a quell’antico caos immaginato da Ermete Trismegisto.67

Ermete Trismegisto viene per ora semplicemente menzionato da Borri, ma, come
farò notare a breve, nella seconda parte del De motu gravium et levium il presunto
autore del Corpus hermeticum sarà duramente criticato per aver elaborato un mito co-
smogonico «orrendo» cui successivamente si rifecero Orfeo, Esiodo e Platone. Nella
prima parte, Borri si limita però ad avanzare una critica molto semplice e generale che
si basa su una questione ben precisa: «naturane, an vis illum confusionis motum con-
ciliarit?»68. Il che, d’altra parte, significa chiedersi di che tipo fu il moto degli elementi
da cui ebbe origine il cosmo: si trattò di un moto naturale o violento?
Certamente, sostiene in primo luogo Borri, sarebbe assurdo credere che esso fosse
violento, dato che un moto del genere è fatto contro natura, e presuppone perciò una
situazione iniziale non violenta, dunque naturale e ordinata. Bisognerebbe così prima
postulare l’esistenza di un moto naturale che preceda quello violento, il che sarebbe
impossibile, perché significherebbe ammettere che prima del caos vi fu già un mondo
ordinato. Si potrebbe allora credere che niente precedette il moto violento degli ele-
menti alle origini del cosmo, ma ciò sarebbe ancora più assurdo, poiché la natura non
consente che vi sia un ‘conseguente’ senza un ‘antecedente’69. Nella seconda parte del

67
Ivi, p. 18: «Divinus ille Plato in Timaeo, Hexiodus in Theog[o]nia, et Orpheus in Argonautica
scripserunt, elementa ante conditum mundum sine ullo ordine iactata fuisse per medium illud chaos
antiquum, quod termaximus finxerat Hermes».
68
Ibid.
69
Cfr. ibid.: «Si vim eumdem conciliavisse velint: motionem illam naturalem demonstrare cogentur,
quam hac violenta motione priorem esse oporteat; si violentum illud est, quod contra naturam fit, ut non
raro scripsimus, quam cum demonstrare non possint; nec motionem posteriorem, quae nullibi est, de-
monstrare poterunt: posterius enim sine priori esse natura non patitur, ut dictum est quinto divinorum
particula duodecima, et decimasexta».

71
De motum gravium et levium, Borri ritornerà su questo punto per concludere lapida-
riamente che non è possibile immaginare un moto primigenio degli elementi violento
e contro natura,

dal momento che niente può essere pensato di più assurdo di un moto che, fatto
contro natura, preceda il moto naturale.70

Nella prima parte del De motu gravium et levium, Borri prende in considerazione
anche l’ipotesi che quel moto confuso e agitato degli elementi possa essere stato un
moto naturale:

Se è un moto naturale, allora è ordinato da un principio, grazie al quale il mobile


inizia il proprio moto, tramite un mezzo, nel quale il mobile è portato, e verso un
termine, al quale il mobile tende. Infatti la natura non è solo causa dell’ordine, ma
è anche ordinata da un principio, attraverso un mezzo, e verso un fine, come è noto
da ciò che è scritto nell’ottavo libro della Fisica, parte quindicesima e altre. Tuttavia
tale ordine non è atro che la disposizione del mondo [forma mundi], come dimostra
Alessandro di Afrodisia nel diciannovesimo capitolo del secondo libro delle que-
stioni naturali. Durante quel caos antico, prima che il mondo fosse creato, esisteva
dunque il mondo, dato che già allora vi era quella disposizione che dà l’essere al
mondo. Chi non si accorge che tutto ciò è oltremodo assurdo?71

In breve, secondo Borri, un moto naturale non può verificarsi se non all’interno di
un contesto preciso e ordinato in virtù del quale il mondo è mondo, non una caotica
accozzaglia di elementi. Chi sostiene che il moto disordinato degli elementi all’origine
del mondo fu un moto naturale, dovrebbe allora ammettere che il mondo esisteva già
prima della sua creazione, cadendo così in una assurda contraddizione.
Dalle suddette critiche si intuisce chiaramente che per Borri l’origine caotica del
mondo non è logicamente né sensatamente ammissibile. Ciononostante, mi preme far

70
Ivi, p. 82: «… quoniam nihil excogitari potest absordius, quam qui motus contra naturam, ut hic
motum naturalem antecedat».
71
Ivi, pp. 81-82: «Si motio haes est naturalis, ergo ordinata ab uno principio, a quo mobile moveri
incipit, et per unum medium, per quod mobile fertur, et ad unum terminum, ad quem mobile tendit.
Natura enim non tantum est ordinis causa, sed etiam ordinata ab uno principio, per unum medium, et
ad unum finem: ut notum est ex his, quae literis consignata sunt libro octavo de Physico auditu particula
decimaquinta, et alibi saepe. Verum hic ordo est forma mundi, ut demonstrat Alexander Aphrodisiensis
libro secundo quaestionum naturalium capite decimonono; ergo dum erat illud chaos antiquum ante-
quam mundus conderetur, erat mundus, quia tunc erat forma mundi, quae dat esse mundo: quod quis
non intelligit esse maxime absurdum?».

72
notare che la cosmogonia del «caos antico» non è trattata da Borri come un semplice
mito, ma viene sottoposta al vaglio critico del filosofo naturale che ne afferma l’assur-
dità mediante argomentazioni desunte dalla fisica e attinenti al moto locale. Evidente-
mente, la comprensione di ciò che accadde ab origine mundi non è priva di interesse
per chi, come Borri, studia e conosce le cause del moto dei corpi.
Nella seconda parte del De motu gravium et levium, come già accennato, Borri ri-
torna nuovamente a discutere dell’origine caotica del mondo:

Esiodo, il divino Platone nel Timeo e prima di lui Ermete Trismegisto, padre di tutti
i filosofi, nei libri Pimander e Asclepius, dissero che, prima della creazione del
mondo, tutti gli elementi andavano fluttuando e muovendosi in modo confuso e
disordinato in una sorta di mole rude e informe, che chiamarono caos. Affermarono
anche che Dio, grazie alla sua eminente benevolenza, perfezionò con arte ed ele-
gantemente riordinò quella confusione disordinata di elementi, creando il bellissimo
spettacolo che [quotidianamente] osserviamo e ammiriamo.72

A questo punto Borri sostiene, in linea con quanto scrisse Marsilio Ficino nell’in-
troduzione al Pymander dedicata a Cosimo de’ Medici, che molto probabilmente Or-
feo, Esiodo e Platone ricavarono una cosmogonia del genere direttamente da Ermete
Trismegisto73. Ciò non viene però considerato un fatto positivo: secondo Borri infatti

72
Ivi, p. 80: «Hesiodus, ac Divinus Plato in Timaeo, et ante illum Hermes Trismegistus philosopho-
rum omnium pater in libris, quorum titulus est Pimander, et Asclepius, elementa omnia fluctuantia ante
conditum mundum in quamdam rudem molem, atque informem, quam Chaos vocarunt confuse, et inor-
dinate iactata fuisse dixerunt, ac Deum indigestam illam elementorum confusionem, sua praecellenti
bonitate artificiose expolivisse, elegantissimeque digessisse, et ad eam, quam cernimus, et admiramur
pulcherrimam speciem perduxisse asseverarunt».
73
Scrisse Marsilio Ficino: «Hic [Trismegisto] inter philosophos primus, a Physicis ac mathematicis
ad divinorum contemplationem se contulit. Primus de maiestate dei, daemonum ordine, animarum mu-
tationibus sapientissime disputavit. Primus igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus,
secundas antiquae theologiae partes obtinuit. Orphei sacri initiatus est Aglaophemus. Aglaophemo suc-
cessit in theologia Pythagoras: quae Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor. Itaque una
priscae theologiae undique sibi consona secta, ex theologis sex, miro quodam ordine conflata est, exor-
dia sumens a Mercurio, a divo Platone penitus absoluta» (Marsili Ficini Florentini, in Mercurii Trisme-
gisti Pymandrum, ad Cos[i]mum Medicem patriae patrem, Praefatio, che io ho tratto da Mercuri Tri-
smegisti Pymander, De potestate et sapientia Dei. Eiusdem Asclepius, De voluntate Dei..., per i tipi di
Mich. Insingrinum, Basilea 1532, pp. 4-5). Riporto la traduzione che di questo passo fece Tommaso
Benci, amico e discepolo di Ficino: «Questi primo intra i Filosofi, da le cose naturali et matematiche, si
ridusse a la contemplazione delle divine: et primo fu, che sapientissimamente disputò de la maestà di
Dio, del ordine de’ Demoni, et de le mutazioni dell’anime. Fu adunque chiamato, primo autore della
Teologia: Et Orfeo seguitandolo, ottenne le seconde parti dell’antica Teologia: Et dipoi Aglaofemo fu
promosso a le cose sacre da Orfeo: Et dopo Aglaofemo succedette in Teologia Pittagora: Et dopo lui

73
non si trattò, come invece ritenne Ficino, della trasmissione di un sapere teologico
fondamentale, il cui primo sapientissimo conoscitore fu Trismegisto, ma piuttosto del
perpetuarsi di un abominevole ed esecrando mito, giustamente stigmatizzato da «tutti
i filosofi antichi»:

Essi [coloro che parlarono dell’antico caos] forse ripresero tutto ciò da quella spa-
ventosa ombra che Ermete Trismegisto vide all’inizio del libro intitolato Pimander.
Che cosa infatti potrebbe ragionevolmente immaginare l’umano pensiero di più rac-
capricciante della deforme, inordinata e spregevole confusione di tutti gli elementi?
Certamente niente. L’oscurissima notte di Esiodo e Orfeo è forse più orrenda
dell’informe e disordinata agitazione [degli elementi]? No, senza dubbio. Ti invito
a leggere le testimonianze di tutti i filosofi antichi, soprattutto il libro del grande
Plotino, intitolato Unde mala [l’origine dei mali], e il libro di Proclo de anima et
daemone, e troverai che niente può essere immaginato di peggio e di più orrendo
della disordinata e informe confusione [di elementi]. Pertanto non dovrà destare
meraviglia se Platone, Orfeo ed Esiodo ripresero forse l’idea di un caos confuso e
disordinato dalla spaventosa ombra di Trismegisto.74

Ma anche se l’errore di aver elaborato una così orrenda oscenità viene attribuito, in
ultima istanza, al leggendario Trismegisto, non per questo Borri lesina critiche nei
confronti di chi accolse l’idea di un moto confuso e disordinato degli elementi prece-
dente la creazione dell’universo:

Costoro – continua Borri – a mio parere gravemente sbagliarono sia perché avreb-
bero dovuto prima spiegare da dove, quando e in che modo quel caos cominciò a
esistere, sia perché non una parola fecero riguardo a tutto ciò che pertiene all’im-
portante questione del moto: da che cosa sia stato generato, a quel tempo, il moto

seguitò Filolao Precettore del nostro Divino Platone. Così adunque, insieme da ogni parte, da sei Filo-
sofi, con maraviglioso ordine, fu formata la concordevole setta della antica Teologia; pigliando princi-
pio da Mercurio; et in tutto compiuta dal Divino Platone» (Il Pimandro di Mercurio Trismegisto, tra-
dotto da Tommaso Benci in lingua Fiorentina, Firenze 1548).
74
De motu gravium et levium, cit, pp. 80-81: «Quod ab horrenda illa umbra, quam Hermes Trisme-
gistus in principio libri, cui titulus est Pimander viderat, forte traxerunt. Quid enim hac inordinata om-
nium elementorum deformi, malique rationem habente confusione humana ratio excogitare potest hor-
rendius? Certe nihil: Nam Hesiodi, et Orphei obscurissima nox est hac informi, inordinataque iactatione
magis horrenda? Minime quidem. Lege omnium veterum Philosophorum monumenta, librum praeser-
tim Magni Plotini, cui titulus est Unde mala, et librum Procli de anima, et daemone; et nihil inordinata
informique confusione peius, nihil horrendius excogitari posse, invenies: mirandum ergo non fuerit, si
Plato, Orpheus, et Hesiodus ab illa horrenda Trismegisti umbra Chaos confusum, atque inordinatum
forte traxerunt».

74
disordinato di confusione [degli elementi], e che cosa mai esso fosse. È forse un
moto retto, o circolare, o piuttosto un’unione di retto e circolare? Non potette essere
un moto misto, dato che esso non si verifica se non vi sono prima moti semplici,
dalla mistione dei quali ha origine il moto misto. Ma [allora] non vi erano moti
semplici, poiché non esistevano elementi semplici distinti né il cielo, ai quali appar-
tengono i moti semplici (come è esposto nel primo libro De caelo). Al contrario,
[gli elementi] erano confusamente mescolati l’uno nell’altro, agitandosi senza or-
dine e dando luogo a una materia disordinata, inadatta al movimento.75

Borri prosegue, insistendo sul fatto che sarebbe stato necessario anche spiegare a
quale genere di moto appartenesse quel movimento disordinato degli elementi: fu esso
– stando alla celebre distinzione aristotelica – sostanziale, qualitativo, quantitativo o
locale? Inoltre, secondo il professore aretino non sarebbe lecito parlare di un moto
verso l’alto, il basso, avanti o indietro, dato che in una situazione caotica e disordinata
non è possibile distinguere un luogo da un altro. Di conseguenza, non vi sarebbe nean-
che modo di discernere, se non attraverso un’irragionevole immaginazione, i corpi pe-
santi da quelli leggeri76.
Il tema cosmogonico rientra dunque per ben due volte fra le pagine di un libro de-
dicato alla comprensione del moto degli elementi, un libro che, come si è detto, Galileo
possedette e di cui quasi sicuramente consultò alcune parti con scrupolo e attenzione.
Le argomentazioni avanzate nel De motu gravium et levium contro la cosmogonia di
Trismegisto e Platone bastavano, secondo Borri, a mostrare la contraddittorietà di un
mito che non sarebbe mai potuto risultare attendibile e veritiero, in quanto non si ac-
cordava con i saldi principi della filosofia naturale aristotelica. Insomma, l’idea di un
caos primigenio risultava al professore aretino insostenibile dal punto di vista scienti-
fico. Ma allora, ciò che scrive Galileo all’inizio della terza versione dei De motu anti-
quiora, se confrontato con i passi del De motu gravium et levium da me qui riproposti,

75
Ivi, p. 81: «Hi graviter (mea quidem sententia) peccaverunt, quod explanare ante debuerint; Chaos
ipsum unde, quando, quomodo esse, aut constare coepisset, et quod ne verbum quidem fecerint de illis,
quae ad totam motus quaestionem pertinerent; A quo nam ille tunc temporis fieret inordinatus motus
confusionis, et quisnam esset ille: hoc est rectus ne, an in orbem, an potius ex utroque commixtus,
mixtus esse non poterat: quoniam mixtus non est, nisi simplices fuerint, e quorum mixtione nascatur, at
simplices motus nondum erant, ut pote simplicibus elementis distinctis, et caelo quorum proprij sunt
motus simplices (ut demostratum est libro primo de caelo) non existentibus, sed confuse commixtis,
nulloque ordine iactatis informisque cuiusdam confusae materiae locum gerentibus; quae motu cieri
apta non est».
76
Cfr. ivi, pp. 81-82.

75
potrebbe sembrare un affronto non troppo velato a chi, come Borri, negava la possibi-
lità di un’origine caotica del mondo e, allo stesso tempo, si dispensava dal compito di
comprendere la creazione dell’universo. Il racconto che Galileo propone nell’incipit
dei De motu antiquiora, infatti, è per certi versi molto affine alla cosmogonia tanto
criticata da Borri e attribuita a Trismegisto, Platone, Esiodo e Orfeo.

II.5 La cosmogonia dei De motu antiquiora: mito o ‘storia’ dell’origine del


mondo?

Sebbene compaia l’immagine di una materia informe e disordinata anche nella co-
smogonia esposta da Galileo nei De motu antiquiora, essa presenta comunque un
aspetto particolare, che la distingue dal mito delle origini contro cui Borri mosse le
proprie critiche. Il caos descritto da Galileo non è infatti una condizione primigenia,
anteriore alla creazione del mondo, ma è uno stato degli elementi prodotto da Dio dopo
aver costruito la vastissima sfera celeste:

Il divino Creatore, dopo la meravigliosa costruzione della sfera celeste, forse per
non urtare la vista degli spiriti beati e immortali, allontanò gli scarti [excrementa]
della vastissima sfera celeste e li nascose nel centro di quest’ultima. Però, dal mo-
mento che quella materia densissima e pesantissima non colmava, con la propria
grandezza, l’abbastanza ampio e capiente spazio [rimasto] sotto l’ultima superficie
concava della sfera, affinché un così grande spazio non rimanesse vuoto e inoccu-
pato, Dio disgregò quella pesante e confusa massa che sotto il proprio peso si era
racchiusa in angusti confini, e, servendosi delle innumerevoli particelle di materia
più o meno rarefatte, formò quei corpi da noi successivamente chiamati elementi.
Di questi, quello conservatosi più pesante e denso, così come era prima, non venne
spostato dal luogo in cui si era portato inizialmente. Così la terra fu lasciata nel
centro [della sfera celeste] e, per la stessa ragione, i corpi più densi vennero posti
più vicino alla terra. Di quei corpi che sono stati costituiti con questa materia, più
densi sono dunque detti quelli che sotto lo stesso volume contengono più particelle
della medesima materia. I più densi, perciò, furono i più pesanti.77

77
De motu antiquiora, OG, I, p. 344: «Vastissimae caelestis excrementa sphaerae, post illius mira-
bilem compaginem, divinus Opifex, ne forte immortalium beatorumque spirituum offenderent intuitum,
in eiusdem globi centrum extrusit atque abscondidit: verum, cum satis amplum et capax sub ultimi

76
Come è stato già messo in luce78, una delle ragioni che Galileo adduce in tutte le
versioni dei De motu antiquiora (compresa la lezione dialogizzata), al fine di spiegare
il motivo per cui la Terra è al centro dell’universo, consiste nel fare riferimento alla
forma sferica del cosmo, in cui gli spazi più vicini al centro risultano più piccoli e
angusti di quelli via via più lontani (prendendo ovviamente, ma altrettanto arbitraria-
mente, il caso di una scansione concentrica della sfera celeste). La sfericità del mondo
è dunque un prerequisito indispensabile per comprendere perché gli elementi occu-
pano una determinata posizione nel mondo, e non è un caso, credo, che nella cosmo-
gonia galileiana Dio prima formi la sfera celeste, per poi creare, infine, gli elementi, i
quali, in base alla propria densità, cioè pesantezza, vanno poi a occupare una certa
posizione nel mondo.
Corrado Dollo parlò di «usbergo platonico» riferendosi alla cosmogonia dei De
motu antiquiora, dichiarando di non sapere quanto vi sia in essa di semplicemente
oratorio e quanto invece «risponda all’esigenza di una deduzione rigidamente neces-
saria»79. Considerando la differenza che intercorre tra la narrazione cosmogonica di
Galileo sopra riportata e quella esposta da Platone nel Timeo, in cui il demiurgo dà
forma agli elementi prima di tornire e rendere il mondo perfettamente sferico, e dove
si legge che lo stato caotico degli elementi precedette la formazione della sfera cele-
ste80, verrebbe da credere che Galileo si sentisse pronto a dismettere un ipotetico
‘usbergo platonico’ per restare fedele ai propri ritrovati scientifici e formulare così una
cosmogonia che ad essi si attagliasse. In realtà, se qualcuno avesse potuto leggere l’in-
cipit della terza versione in forma di trattato dei De motu antiquiora, si sarebbe certa-
mente persuaso dell’ascendenza anche platonica della cosmogonia proposta da Gali-

concava superficie orbis relictum spacium densissima gravissimaque illa materia mole sua non expleret,
ne magnum spacium otiosum atque vacuum esset, quae, pressa gravitate sui, onerosam illam indige-
stamque massam, in angustis plus minusve rarefactis quatuor illa efformavit corpora, quae postea ele-
menta diximus. Quorum quod gravissimum densissimumque, ut prius erat, remansit, e loco in quem
antea confugerat non removit; et sic relicta est terra in centro: et simili ratione, quae densiora fuerant,
terrae viciniora constituta sunt. Eorum vero quae ex hoc materia constituta sunt corpora, densiora illa
dicta sunt quae, sub eadem mole, plures eiusdem materiae particulas coëgere; densiora, autem, graviora
fuere».
78
Cfr. supra, capitolo II.3.
79
C. Dollo, Galilei e la fisica del Collegio Romano, cit., p. 104
80
Cfr. Tim. 32c-33b e 53a-b.

77
leo, nonostante quest’ultima non coincidesse perfettamente con quella di Platone. Pro-
babilmente, rispetto a quanto scrisse Platone, Galileo dedusse (certo non si trattò di
una deduzione «rigidamente necessaria») che affinché gli elementi ricevessero l’or-
dine naturale, secondo cui quelli più pesanti sono anche quelli più prossimi al centro
del mondo, Dio dovette creare in primo luogo la sfera celeste, dove la distinzione tra
centro e periferia rende possibile l’identificazione di regioni di spazio anguste e meno
anguste. In questo modo, dopo aver narrato che Dio creò la sfera celeste e poi gli ele-
menti, Galileo si sentì anche in grado di dare una descrizione delle modalità in cui il
divino Creatore, o sarebbe meglio dire la «natura», costituì e ordinò gli elementi:

Se, per esempio, pensassimo che la natura, al tempo dell’originaria costruzione del
mondo, divise in quattro parti la materia comune di tutti gli elementi81, e che poi
assegnò alla forma della terra la sua propria materia, e parimenti alla forma dell’ac-
qua la sua propria [materia]; e che, inoltre, la forma della terra costrinse la propria
materia a costiparsi entro un luogo angustissimo, mentre la forma dell’aria consentì
alla propria materia di collocarsi in un luogo ampissimo, non sarebbe stato allora
conveniente che la natura assegnasse all’aria uno spazio più grande e alla terra, al
contrario, uno minore? D’altra parte, in una sfera i luoghi più angusti sono quelli
più vicini al centro, i più ampi quelli che più distano dal centro: dunque fu con
prudenza e giustizia che la natura stabilì che il luogo della terra fosse quello più
angusto di tutti, cioè vicino al centro, e che di conseguenza quello degli altri ele-
menti fosse tanto più ampio quanto più rara fosse stata la loro materia.82

81
Questa parte, appartenente alla terza versione dei De motu antiquiora in forma di trattato, è lieve-
mente anche se significamente diversa rispetto alla prima versione, in cui Galileo sotiene che la natura
«divise in quattro parti eguali la materia comune di tutti gli elementi» (De motu antiquiora, OG, I, p.
253: «totam elementorum communem materiam in quatuor aequas partes dividisse», corsivo mio. Fre-
dette non sembra accorgesi di questa differenza nella propria traduzione inglese). Galileo si rese proba-
bilmente conto che affermare l’eguaglianza di materia fra gli elementi sarebbe stato superfluo e in con-
trasto con quanto affermato poco dopo, quando viene confutata l’opinione di Aristotele, secondo cui
non può non esservi la stessa quantità di materia nei quattro elementi (cfr. supra, capitolo II.3).
82
De motu antiquiora, OG, I, p. 345: «Ut si, exempli gratia, intelligamus, naturam in prima mundi
compagine tota elementorum communem materiam in 4 partes divisisse; deinde ipsius terrae formae
suam materiam tribuisse, itidem et formae aëris suam; terrae autem formam materiam suam in angu-
stimmo loco constipasse, aëris autem formam in amplissimo loco materiam suam reposuisse; nonne
congruum eratut aëri natura maius spatium, terrae autem minus, assignaret? At in sphaera angustiora
sunt loca quo magis centro appropinquantur, ampliora vero quo ab eodem magis distant; prudenter,
igitur, simul et aeque terrae statuit natura locum esse qui caeteris est angustior, nempe prope centrum;
reliquis deinde elementis eo ampliora, quo ipsorum materia rarior esset».

78
La narrazione galileiana non è un mero artificio retorico, ma è accuratamente strut-
turata in modo da potersi accordare con la fisica e la scienza de motu abbracciate da
Galileo a Pisa. È a partire da una fisica nuova e antiaristotelica, infatti, che Galileo
ritiene possibile e sensato tornare a riflettere sull’origine del mondo, per arrivare infine
a comprendere l’azione creatrice di Dio, inaugurando così un percorso che lo scien-
ziato pisano non abbandonerà mai. Studiare la natura, considerare perché le cose ac-
cadono in un modo e non in un altro, dà allora anche l’occasione di tornare con la
mente alle origini divine del mondo. Ciò significa, in un certo senso, domandarsi un
‘perché’ in più rispetto a coloro che Galileo, nei De motu antiquiora, chiama sempli-
cemente «filosofi», riferendosi poi in particolare ad Aristotele e Tolomeo83. Secondo
Galileo il filosofo naturale non dovrebbe esimersi dal tentare di dare una risposta ve-
risimile a questo ulteriore quesito riguardante l’ordine e dunque l’origine dell’uni-
verso.
Nel De motu gravium et levium, Borri aveva messo in atto una serrata critica nei
confronti di coloro che favoleggiarono sull’origine del mondo dimentichi di fare i conti
con la scienza aristotelica, per mezzo della quale era invece possibile ridurre all’as-
surdo la loro opinione: se fosse stato un moto violento o naturale ad agitare gli elementi
nel caos primordiale, in entrambi i casi si sarebbe dovuto concludere che il mondo
fosse già ordinato, dunque già creato. Non risultava infatti possibile per un aristotelico
come Borri pensare al moto locale e alle sue manifestazioni categoriali, ‘violento’ e
‘naturale’, se non all’interno di un cosmo già definito e organizzato. La stretta e onto-
logica dipendenza del moto degli elementi, in tutte le sue manifestazioni, da una ben
determinata e precisa disposizione del mondo impediva perciò di poter comprendere,
attraverso lo studio dei moti, come il mondo ebbe inizio e si formò. Questo spazio
della riflessione veniva forse lasciato da Borri nelle mani dei teologi interpreti della
Bibbia, anche se nel dialogo Del flusso e reflusso del mare egli si dice convinto che
Dio abbia generato il mondo senza bisogno di alcun movimento locale84. Le sue criti-
che danno comunque testimonianza che la questione cosmogonica non era di poco

83
Cfr. ivi, p. 344 e supra, capitolo II.3.
84
Cfr. G. Borri, Del flusso e reflusso del mare, et dell’inondatione del Nilo, nella stamperia di Gior-
gio Marescotti, Firenze 1583 (pubblicato per la prima volta nel 1561 senza l’opuscolo intitolato L’inon-
datione del Nilo), pp. 23-25. Dopo aver sostenuto «che il mondo fu, et è, et sarà sempre dalla Divina
bontà generato», uno degli interlocutori, Giovanni Acciaiuoli, domanda a Borri: «come può egli essere,

79
momento per un filosofo della natura. Non dovrebbe perciò stupire che Galileo, for-
matosi nello studio pisano dove fino al 1586 insegnò anche Borri, indirizzasse le pro-
prie attenzioni verso un tema di matrice apparentemente teologica. La differenza, ri-
spetto a Borri, è che la fisica elaborata sulla base dell’idrostatica archimedea permet-
teva a Galileo, il quale aveva ormai rigettato l’idea di una levitas positiva, di pensare
il moto dei corpi senza la necessità di postulare la presenza nel mondo di molteplici
luoghi naturali. Era infatti ora possibile spiegare perché la Terra fosse al centro
dell’universo, senza assumere ciò come un dato di fatto per la comprensione del moto
dei corpi. Lo studio dei moti veniva così astratto da cosmologiche contingenze, seb-
bene la perfetta intelligibilità dei moti rimanesse ancora vincolata alla sfericità del
mondo e al suo unico centro di gravità, assurto a luogo naturale universale. È certo
arbitrario assumere che il mondo sia sferico, ma per le menti di allora questa idea do-
veva probabilmente godere di un ingenito e istintivo assenso, di cui Galileo riuscì poi
a liberarsi (forse non così facilmente come si potrebbe pensare) insieme a tante altre
idee preconcette.
Ad ogni modo, raccontando l’origine degli elementi e del loro ordine nell’incipit
della terza versione del trattato dei De motu antiquiora, Galileo dimostrava che uno
studio opportuno del moto locale non presuppone alcun systema mundi, ma che, al
contrario, è necessario rendere ragione dell’ordine del cosmo, nonché della sua genesi,
proprio a partire da un esame più accurato, dunque geometrico, del moto dei corpi. E
i corpi che Galileo prende in esame nei De motu antiquiora, come si è già fatto notare,

che una cosa, senza havere principio sia generata? A me pare, che la generazione non si possa fare senza
tempo, non essendo ella, come ella non è, separata dal movimento, il quale è necessariamente congiunto
col tempo: niuna cosa adunque generare si può senza il suo principio nato nel tempo» (questa argomen-
tazione si basa evidentemente su quanto scritto da Aristotele all’inzio dell’ottavo libro della Fisica).
Borri risponde distinguendo «due maniere della generazione», una che necessita di movimento, l’altra
che invece non ne ha bisogno: «Le prime sono, come quando uno huomo di humano seme nasce: In
questa maniera di generazione, egli è necessario, che la forma del seme a poco a poco si corrompa, et
che la forma humana si generi a poco a poco: il che senza movimento, et senza mutazione, et senza
principio non si può fare in modo veruno: Le seconde delle generazioni sono: come quando altri se
stesso intendesse, et di tanta perfezzione fosse questo suo atto dell’intendere, che subito senza altro
movimento, et senza altra mutazione producesse alcuno effetto». Detto ciò, Borri conclude: «Però [non
ha valore avversativo, e si legge perciò] quando io dissi, che il mondo fu, et è, et sarà sempre generato
senza principio, et senza fine, intesi di questa seconda [maniera di generazione], et non della prima:
della quale prima materia, se io havessi voluto intendere, mi sarei ingannato».

80
non sono che gli elementi, mentre i pianeti vengono del tutto trascurati. Forse, allora,
fu una scelta coerente quella di escludere i pianeti dal proprio racconto cosmogonico.
In ogni caso, nei De motu antiquiora, alle origini della scienza del moto galileiana,
si percepisce già il bisogno di integrare fisica e cosmologia passando attraverso il tema
della creazione del mondo, il quale comincia a essere trattato più come una storia che
come un mito. Una storia di cui era ora possibile, una volta scrollatasi di dosso la fisica
aristotelica, ipotizzare gli avvenimenti alla luce di una nuova scienza de motu.

II.6 La creazione del mondo nelle Metamorfosi di Ovidio e nelle Trasformationi di


Lodovico Dolce: spunti poetici e iconografici per la cosmogonia dei De motu anti-
quiora?

Se è vero che Galileo nei De motu antiquiora ripropone, reinterpretandolo, un mito


che Borri definì «orrendo», potrebbe anche darsi che lo scienziato pisano, nel fare ciò,
ricorresse a fonti non citate dall’aretino, ma ben conosciute e spesso apprezzate
all’epoca. La creazione del mondo è, per esempio, il racconto che apre le Metamorfosi
di Ovidio, uno tra gli autori latini più cari a Galileo, come testimonia l’allievo Viviani:

[Galileo] Fu dalla Natura dotato d’esquisita memoria; e gustando in estremo la Poe-


sia, aveva a mente, tra gl’autori latini, gran parte di Vergilio, d’Ovidio, Orazio, e di
Seneca: e tra i toscani quasi tutto ’l Petrarca, tutte le rime del Berni, e poco meno,
che tutto il poema di Lodovico Ariosto, che fu sempre il suo Autor favorito, e cele-
brato sovra gl’altri poeti, avendogli intorno fatte particolari osservazioni, e paralleli
col Tasso sopra moltissimi luoghi.85

Recentemente, John Lewis Heilbron ha proposto una biografia galileiana segnata


dall’inedito tentativo di mostrare una forte complementarità tra gli elementi umanistici
e scientifici del pensiero di Galileo Galilei86. Nella biografia, Heilbron non si limita a
considerare solamente gli aspetti letterari della cultura di Galileo segnalati da Viviani,
come la smoderata passione nei confronti di Ariosto e il gusto per la poesia classica

85
Racconto istorico di Vincenzo Viviani, OG, XIX, p. 627.
86
Cfr. J.L. Heilbron, Galileo. Scienziato e umanista, tr. it. di S. Gattei, Einaudi, Torino 2013 (titolo
originale: Galileo, edito per la prima volta in inglese nel 2010 dalla Oxford University Press).

81
latina, ma ritiene opportuno soffermarsi anche sull’istruzione musicale e pittorica ri-
cevuta in età giovanile dallo scienziato pisano, tanto da vedere, per esempio, nel Side-
reus nuncius l’opera di un artista del disegno ancora più che quella di un matematico87.
Sebbene sembri, in alcuni casi, prendere una deriva panofskiana, che troppo peso
dà alla componente estetica del pensiero galileiano88, l’opera di Heilbron ha l’indubbio
merito di riportare l’attenzione degli studiosi su temi e interessi cui Galileo certamente
dedicò parte della propria attività speculativa, e che potrebbero pertanto rivelarsi utili
per meglio comprendere alcune riflessioni galileiane ancora poco analizzate. Fra que-
ste rientra a pieno titolo, credo, la cosmogonia dei De motu antiquiora, narrazione che
Galileo potrebbe aver formulato attingendo anche a un bagaglio di immagini e di vo-
caboli di ispirazione ovidiana. Si pensi, per esempio, alla pesante e confusa massa di
materia da cui Dio ricavò, secondo la narrazione dei De motu antiquiora, gli elementi,
e che Galileo decide di descrivere affidandosi agli aggettivi latini «onerosa» e «indi-
gesta»89, e si legga poi il seguente passo delle Metamorfosi (libro, anche questo, che
fece parte secondo Favaro della libreria di Galileo):

Ante mare et terras et, quod tegit omnia, caelum,

unus erat toto naturae vultus in orbe,

quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles

nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem

87
Tale giudizio è espresso fin dalle prime pagine: «Nel suo studio attento della Luna, del Sole e dei
pianeti negli anni 1609-10, quando era l’unico uomo sulla Terra a scrutare minuziosamente il volto della
Luna e i satelliti di Giove, Galileo fece ricorso alle proprie capacità di osservatore e di disegnatore, alla
propria abilità manuale di artigiano e alla propria conoscenza della prospettiva e dell’ombreggiatura
– non alle proprie capacità come matematico» (ivi, p. XI). Per quanto riguarda l’educazione letteraria,
artistica e musicale di Galileo, cfr. ivi, pp. 11-27.
88
Una deriva di questo tipo è rintracciabile fin dall’inizio dell’opera, quando Heilbron sostiene che
le letture galileiane di Ariosto non influenzarono solamente lo stile argomentativo di Galileo, ma svol-
sero probabilmente un ruolo più importante, orientando addirittura le speculazioni filosofiche e scienti-
fiche dello scienziato pisano: «Non dobbiamo limitare le conseguenze per la scienza delle letture com-
pulsive di Galileo al suo stile argomentativo o al suo stile pulito, pungente, limpido, preciso, sicuro,
ironico, naturale e diretto che, come disse Viviani, acquisì dalle letture frequenti di Ariosto. Potrebbe
esserci molto di più. “Ariosto, vero pittore della bellezza della natura, essendo che gl’idoli dell’imma-
ginazione contribuiscono non poco a educare e indirizzare le meditazioni del filosofo”» (ivi, p. 27,
corsivo mio. La frase finale è tratta da un articolo di Enrico Mestica del 1889, intitolato Scritti di critica
letteraria di Galileo Galilei, raccolti ed annotati per uso delle scuole). In merito all’opinione di Pa-
nofsky sull’incidenza del giudizio estetico di Galileo in ambito scientifico, cfr. E. Panofsky, Galileo
come critico delle arti, a cura di M.C. Mazzi, Abscondita, Milano 2008.
89
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 344: «onerosam illam indigestamque massam…».

82
non bene iunctarum discordia semina rerum.90

Per Ovidio, la creazione del mondo non è altro che la trasformazione di questa mole
confusa, informe e pesante, ammasso di «semina» ed elementi instabili in lite fra
loro91, in un tutto ordinato, l’universo, disposto e arrangiato da un dio, chiunque egli
fosse («quisquis fuit ille deorum»92), che il poeta chiama anche «mundi fabricator»,
«opifex rerum»93.
Thomas Robinson ha sostenuto che l’immagine ovidiana del divino fabricator è
molto simile a quella del demiurgo platonico, probabilmente conosciuta da Ovidio at-
traverso la traduzione ciceroniana del Timeo94. Ipotesi suggestiva, ridimensionata però
da Ernst Schmidt, il quale ha rilevato la provenienza non solo platonica ma anche
stoica della concezione ovidiana di Dio95.
Quale che sia l’origine di questa concezione, essa pare collimare con quella gali-
leiana di «divinus Opifex» espressa nei De motu antiquiora. Anche nel manoscritto
galileiano, proprio come nelle Metamorfosi di Ovidio, Dio interviene districando i
quattro elementi da una massa confusa e pesante di materia, collocandoli poi, in base
al loro peso e densità (termini interscambiabili anche nella poesia ovidiana), in una

90
Met. I, 5-9. Per le versioni in italiano, ho deciso di fare riferimento all’edizione tradotta da Piero
Bernardini Marzolla, evitando però di segnalarne le pagine (Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernar-
dini Marzolla, Einaudi, Torino 2015 (19791)): «Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre,
unico e indistinto era l’aspetto della natura in tutto l’universo, e lo dissero Caos, mole informe e confusa,
nient’altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate».
91
Cfr. Met. I, 15-20.
92
Met. I, 32.
93
Met. I, 57 e 79.
94
Cfr. T.M. Robinson, Ovid and the Timaeus, in “Athenaeum”, 56 (1968), pp. 254-260. Elaine
Fantham ha preso in considerazione l’opinione di Robinson, sostenendo inoltre che anche nella cosmo-
gonia ovidiana potrebbero esservi echi del Timeo: cfr. E. Fantham, Ovid’s Metamorphoses, Oxford
Press University, New York 2004, p. 24.
95
Cfr. S.M. Wheeler, Imago Mundi: Another View of the Creation in Ovid’s Metamorphoses, in
“The American Journal of Philology”, v. 116, n. 1 (1995), pp. 95-121. L’opinione di Schmidt è ripresa
a pagina 96, nota 6. Più radicale la tesi di Frank Egleston Robbins, il quale si preoccupò di dimostrare
l’impossibilità di ricondurre la concezione del deus ovidiano a quella di Epicuro, di Empedocle e di
Anassagora o a fonti non filosofiche, per concludere infine: «By this method of elimination the possi-
bilities are reduced pratically to two out of all ancient philosophy, Plato and the Stoics. Now the co-
smogony of Ovid differs too much from that of the Timaeus to allow us to believe that the latter was its
direct source; on the other hand, seeming Platonic reminiscences in Ovid may be easily be regarded as
coming as second hand to him, in view of the adoption of so many of the topics of the Timaeus by
subsequent schools, including the Stoics» (F.E. Robbins, The Creation Story in Ovid Met. i, in “Classi-
cal Philology”, v. 8, n. 4 (1913), pp. 401-414, qui p. 409).

83
regione specifica, che per Galileo si trovava sotto «l’ultima superfice concava», men-
tre nella poesia ovidiana essa coincide con quella parte di mondo che verrà successi-
vamente sovrastata dall’etere96:

Hanc deus et melior litem natura diremit;

nam caelo terras et terris abscidit undas

et liquidum spisso secrevit ab aëre caelum.

Quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,

dissociata locis concordi pace ligavit.

Ignea convexi vis et sine pondere caeli

emicuit summaque locum sibi fecit in arce;

proximus est aër illi levitate locoque;

densior his tellus elementaque grandia traxit

et pressa est gravitate sua; circumfluus umor

ultima possedit solidumque coërcuit orbem. 97

Ovidio usa il verbo «abscido» per descrivere l’azione divina; Galileo adotta il verbo
«distraho»98, che, come «abscido», significa “dividere”, “separare”, “ripartire”. Ovidio
narra che fu Dio, o meglio la natura, a mettere ordine fra gli elementi («Hanc deus et
melior litem natura diremit»); Galileo racconta che Dio creò gli elementi, ma poco
dopo descrive anche come la natura diede loro origine e ordine99. Ovidio descrive la
terra come l’elemento più denso che attira quelli più “grossi” («grandia traxit»), rima-
nendo schiacciata dal suo stesso peso («pressa est gravitate sua»); Galileo sostiene che

96
«Haec super inposuit liquidum et gravitate carentem aethera nec quicquam terrenae faecis haben-
tem» (Met. I, 67-68).
97
Met. I, 21-31 («Un dio, e una più benigna disposizione della natura, sanò questi contrasti: separò
dal cielo la terra, dalla terra le onde, e distinse dall’aria spessa il cielo puro. E dopo aver districato e
liberato queste cose dall’ammasso informe, dissociatene le sedi, le riunì in un tutto concorde. Il fuoco,
imponderabile energia della volta celeste, sprizzò e si stabilì nella regione più alta. La terra, più densa,
assorbì gli elementi più grossi e rimase premuta in basso dal proprio peso. L’acqua, fluida, occupò gli
ultimi spazi avvolgendo tutto in giro la massa solida del mondo».
98
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 344: «…verum, cum satis amplum et capax sub ultimi concava
superficie orbis relictum spacium densissima gravissimaque illa materia mole sua non expleret, ne ma-
gnum spacium otiosum atque vacuum esset, quae, pressa gravitate sui, onerosam illam indigestamque
massam, in angustis se cancellis concluserat, distraxit…» (corsivo mio).
99
Cfr. supra, capitolo II.5.

84
l’elemento terra, il più denso, non si sposti dal luogo in cui inizialmente la massa cao-
tica e primigenia si era portata sotto la spinta del proprio peso («pressa gravitate
sui»)100.
Va ricordato che nel tardo Rinascimento una certa corrente di pensiero non esitava
ad accostare la cosmogonia di Ovidio a quella di Platone, Esiodo, Orfeo, e soprattutto
Ermete Trismegisto, cioè gli stessi autori con cui se la prese Girolamo Borri nel De
motu gravium et levium. Un celebre commento al Pymander compiuto da Annibale
Rosselli, la cui opera Eugenio Garin giudicò «piena di interesse»101, mostra proprio le
somiglianze tra le concezioni cosmogoniche elaborate da filosofi antichi, scrittori la-
tini e poeti, come Ovidio (di cui peraltro si cita il passo delle Metamorfosi che qui ho
riportato per primo), e quella di Ermete Trismegisto102.
Galileo, comunque, conosceva le Metamorfosi anche attraverso il volgarizzamento
condotto da Lodovico Dolce103, intitolato Trasformationi e pubblicato per la prima
volta nel 1553104. L’opera di Dolce si inserisce all’interno di un processo di volgariz-
zamento particolare, che affonda le proprie origini nel XII secolo, quando Ovidio,
prima in Francia e poi in Italia, viene riscoperto, studiato e letto alla luce degli inse-
gnamenti morali del Cristianesimo. Nasce così il fenomeno della moralizzazione delle
Metamorfosi, sviluppatosi in Francia attorno al XIV secolo con la pubblicazione
dell’Ovide moralisé, il cui autore fu molto probabilmente un francescano, e dell’Ovi-
dius moralizatus, opera del benedettino Pierre Bersuire. In queste opere, entrambi gli
autori reinterpretano i miti pagani delle Metamorfosi leggendovi allegorie capaci di

100
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 344.
101
E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1961, p. 152, nota 3.
102
Cfr. Pymander Mercurii Trismegisti Cum Commento Fratris Hannibalis Rosseli Calabri…, In
Officina Typographica Lazari, Cracovia 1586, pp. 4-8.
103
Per alcune informazioni su Lodovico Dolce, spesso etichettato come ‘poligrafo’, e sul suo lavoro
di traduzione in volgare dell’opera di Aristotele, cfr. L. Bianchi, Per una storia dell’aristotelismo ‘vol-
gare’ nel Rinascimento: problemi e prospettive di ricerca, in Bruniana & campanelliana. Ricerche
filosofiche e materiali storico-testuali, Fabrizio Serra, Pisa-Roma 2009, pp. 367-385, in particolare pp.
375-385. Ringrazio Luca Bianchi per avermi aiutato a reperire l’articolo.
104
L. Dolce, Le Trasformationi, Gabriel Giolitto de’ Ferrari, Venezia 1553. È possibile consultare
la riproduzione anastatica di quest’opera in G. Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce. Il Rina-
scimento ovidiano di Giovanni Antonio Rusconi. Ristampa anastatica della prima edizione delle Tra-
sformationi, Affinità Elettive, Milano 2013.

85
trasmettere insegnamenti in linea con la morale e l’etica cristiana105. Per quanto ri-
guarda l’Italia, è Giovanni del Virgilio che tra il 1322 e il 1323 si interessa di redigere
le Allegoriae Ovidianae, opera dallo scopo puramente didattico in cui vengono rac-
colte le lezioni private su Ovidio tenute dallo stesso del Virgilio, su richiesta degli
studenti, presso lo Studio di Bologna106. Sulla base di queste lezioni, Giovanni dei
Bonsignori compone tra il 1375 e il 1377 il primo volgarizzamento delle Metamorfosi,
che verrà edito per la prima volta a Venezia nel 1497107. Non si tratta però di una
semplice traduzione, infatti l’autore si premura anche di interpretare e spiegare in
chiave allegorica gli episodi mitici delle Metamorfosi, trasformando così «l’intero vo-
lume in un’apologia di fede»108. La stessa impostazione verrà conservata nella tradu-
zione «in verso vulgar» delle Metamorfosi di Niccolò degli Agostini, edita per la prima
volta nel 1522, che si basa proprio sull’opera di Giovanni dei Bonsignori, trascurando
addirittura l’originale latino109. Per quanto riguarda la creazione del mondo esposta nel
libro I delle Metamorfosi, Niccolò degli Agostini si dichiara convinto che Ovidio de-
scriva in quell’occasione l’operazione ordinatrice «del vero Iddio», prendendo inoltre
spunto da Esiodo110.

105
Cfr. ivi, p. 21-22. Per quanto riguarda la ricezione medievale delle Metamorfosi di Ovidio, si
veda anche N. Wright, Creation and Recreation: Medieval Responses to Metamorphoses 1.5-88, in
Ovidian Transformations. Essay on the Metamorphoses and its Reception, ed. by P. Hardie, A. Bar-
chiesi, S. Hinds, Cambridge Philological Society, Cambridge 1999, pp. 68-84. L’autore mette bene in
luce il tentativo di alcuni pensatori medievali di accordare la cosmogonia ovidiana con il racconto bi-
blico della Creazione.
106
Cfr. G. Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce, cit., p. 22.
107
Cfr. ivi, p. 23.
108
Ibid.
109
Cfr. ivi, p. 24.
110
Degli Agostini aggiungeva: «Onde maggiormente noi christiani dovemo laudare Iddio quando
l’autore senza vero conoscimento nel suo parlare appropria ad uno solo Iddio motore di tutte le cose
questo principio posto che poeticamente parli lo trasse dalla santa scrittura cioe da i libri dove fu poi
composta la Bibbia» (Niccolò degli Agostini, Di Ovidio Le Metamorphosi, cioe Trasmutationi, tradotte
dal latino diligentemente in volgar verso, con le sue Allegorie, significationi, et dichiarationi delle Fa-
vole in prosa…, per i tipi di Federico Toresano, Venezia 1547, p. 2v). Per quanto riguarda Esiodo, Degli
Agostini comincia la spiegazione del primo libro delle Metamorfosi proprio con un paragrafo intitolato
«Di Chaos secondo Esiodo», in cui si legge: «Prima che fusse mare terra o cielo era uno volto di natura
in tutto il mondo et quegli del mondo il chiamaro Chaos, et fu una grossa et non compartita composi-
tione, et era uno discordio peso per esser adunati in uno corpo tutti gli elementi, et il Sole non rendea
splendore, ne la Luna crescendo riempia le sue corna, ne non si vedeano errar le stelle, ne la terra non
produceva i suoi frutti ne ancho l’aria ne il mare non estendea le sue braccia ma tutti erano ramescolati
in uno» (ivi, p. 2r).

86
In un certo senso, si può dire che anche il dio fabricator chiamato in causa da Ovi-
dio subisce nel corso dei secoli una vera e propria metamorfosi, arrivando a essere
interpretato nei caratteri del «vero» Dio della Bibbia. Questa tendenza è confermata
dalle illustrazioni che nel Rinascimento cominciano ad affiancare sia i testi latini che
volgari delle Metamorfosi, in cui il dio ovidiano è raffigurato seguendo i canoni
dell’iconografia cristiana111. La stessa rappresentazione viene conservata nell’opera di
traduzione condotta da Dolce.
Pur seguendo, al contrario di Niccolò degli Agostini, l’originale latino delle Meta-
morfosi, l’intento di Lodovico Dolce non è però quello di restargli fedele. Bodo Gu-
thmüller ha mostrato che nel Cinquecento la traduzione di Ovidio è volutamente infe-
dele alla lettera dell’originale: l’intento dei traduttori cinquecenteschi, infatti, è quello
di «avvicinare Ovidio alle preferenze stilistiche del pubblico, alle sue nozioni, al suo
desiderio di ritrovare nella letteratura il proprio, il moderno»112. È questo il motivo per
cui Dolce, dopo aver pensato di tradurre le Metamorfosi in verso sciolto, ritorna al
metro adottato anche da Niccolò degli Agostini, l’ottava rima, cioè il verso ariostesco.
Così dunque si compie il «tentativo di assimilare – aggiunge Guthmüller – le Meta-
morfosi nella struttura, nella lingua e nello stile alla grande opera di successo del
tempo, l’Orlando Furioso»113. Forse proprio per questo motivo, da grande stimatore
di Ariosto, Galileo decise di acquistare l’opera di Dolce, che in effetti compare fra
quelle possedute dallo scienziato pisano114.
Eppure, come fa notare Giuseppe Capriotti, nel 1561 venne pubblicato il volgariz-
zamento delle Metamorfosi a cura di Giovanni Andrea dell’Anguillara, anch’esso in
verso ariostesco, che di fatto sostituì sul mercato le Trasformationi di Dolce115. Se
l’interesse di Galileo fosse stato rivolto solamente verso l’aspetto ariostesco delle tra-
duzioni, sarebbe difficile comprendere perché egli possedette un’edizione che, ancora
prima che egli nascesse, era stata rimpiazzata sul mercato da quella di dell’Anguillara.

111
Cfr. le Figg. 12 e 13 riportate in G. Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce, cit., pp. 55 e
56.
112
B. Guthmüller, Seguire la strada de’ moderni. Sulle traduzioni cinquecentesche delle Metamor-
fosi di Ovidio, in Le Metamorfosi di Ovidio tra Medioevo e Rinascimento, a cura di G.M. Anselmi e M.
Guerra, Gedit, Peschiera Borromeo 2006, pp. 151-164, qui p. 158.
113
Ibid.
114
È oggi possibile conoscere le opere possedute da Galileo andando al seguente sito http://galileo-
teca.museogalileo.it/AmicusSearch/AmicusSearch?type=biblioteca&lang=en (6 gennaio 2017).
115
Cfr. G. Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico Dolce, cit., p. 30.

87
In realtà, consultando l’opera di Dolce posseduta da Galileo, corrispondente all’edi-
zione del 1555, è facile notare che lo scienziato pisano fosse molto più interessato alle
xilografie di Giovanni Antonio Rusconi che accompagnano il testo delle Trasforma-
tioni, piuttosto che alla traduzione di Dolce, la quale fu per giunta soggetta a molte
critiche fin dall’anno della prima pubblicazione116. A fianco di ogni illustrazione, in-
fatti, Galileo annota frasi che con ogni evidenza corrispondono alla descrizione delle
tavole di Rusconi. (Accanto all’illustrazione di Rusconi della cosmogonia ovidiana,
per esempio, Galileo annotta una frase di cui sono riuscito a cogliere solamente le
parole «Chaos» e «Dio».)117 Rusconi fu anche pittore e architetto, allievo di Niccolò
Tartaglia, e non è improbabile, a mio parere, che Galileo potesse averne sentito parlare
per la prima volta seguendo una delle lezioni tenute da Ostilio Ricci presso l’Accade-
mia del Disegno, dove peraltro studiò e insegnò anche Cigoli, grande amico di Gali-
leo118.

116
Le critiche più forti vennero mosse da Girolamo Ruscelli, il quale stilò un vero e proprio elenco
di errori commessi da Dolce: «Et cominciando pur da i piu agevoli à conoscersi et schivarsi, et piu gravi
et fanciulleschi à commettersi, dirò primieramente quei delle rime, poi quelli della lingua, poi quei delle
parole Latine, non intese et ridicolosamente spiegate, et per ultimo alcune poche cose del soggetto in
quelle poche coselle, che fuor della tela dell’Autor Latino v’havete poste di vostra pentola» (cfr. G.
Ruscelli, Tre discorsi di Girolamo Ruscelli, a M. Lodovico Dolce, per Plinio Pietrasanta, Venezia 1553,
pp. 83-287, qui p. 89).
117
Cfr. la versione digitale delle Trasformationi posseduta da Galileo: http://bibdig.museogalileo.it
/Teca/Viewer?an=394926 (6 gennaio 2017).
118
Cfr. J.L. Heilbron, Galileo, cit., pp. 7-8. Si veda anche l’articolo di H. Bredekamp, Gazing Hands
and Blind Spots: Galileo as a Draftsman, in Galileo in Context, ed. by J. Renn, Cambridge University
Press, Cambridge 2001, pp. 153-192. Per quanto riguarda le lezioni di Ricci all’Accademia del Disegno
e nella residenza di Bernardo Buontalenti, seguite sia da Galileo che da Cigoli, cfr. ivi, p. 160: «The
painter Cigoli and Galileo had been friends since 1585, when they had studied with Ostilio Ricci, the
court mathematician, who later taught mathematics at the “Academia del disegno” in Florence, in the
house of the artist and engineer Bernardo Buontalenti». Bredekamp aggiunge poche pagine dopo un’al-
tra informazione molto interessante riguardo all’attività didattica di Ostilio Ricci, il quale non si limitò
a insegnare matematica e geometria, ma applicò anche queste discipline al campo delle arti visive:
«Ricci taught not only the fundamentals of geometry, Euclid and Archimedes, but also perspective, and
among the the texts used were Ludi Matematici of Leon Battista Alberti. With their section on the
mensuration and perspective representation of objects, they constituted a part of the mathematical trai-
ning of the artist at that time» (ivi, p. 178). Vorrei segnalare però che insegnare prospettiva appellandosi
alla scienza euclidea non era scontato. Lo stesso Alberti, ad esempio, non lo fece. Come ricorda Kirsti
Andersen, fu Piero della Francesca il primo teorico della prospettiva che adottò principi geometrici. Fra
i pochi, tutti italiani, che seguirono l’indirizzo di Piero della Francesca vi furono Federico Commandino
e Giovanni Battista Benedetti, i quali ispirarono il capolavoro di Guidobaldo del Monte Perspectivae
libri sex (cfr. K. Andersen, Guidobaldo: The Father of the Mathematical Theory of Perspective, in
Guidobaldo del Monte (1545-1607). Theory and Practice of the Mathematical Disciplines from Urbino
to Europe, ed. by A. Becchi, D. Bertoloni Meli, Gamba E., Max Planck Research Library for the History

88
Tra le illustrazioni
delle Trasformationi
che attirarono l’inte-
resse di Galileo vi fu
certamente quella ri-
guardante la crea-
zione del mondo
119
(Fig. 1) . Rusconi
rappresenta Dio at-
torniato e sostenuto
da puttini, proprio
come nella famosa
Fig. 1: G.A. Rusconi, La creazione del mondo, stampa da Lodovico Dolce, Le Tra-
Creazione di Adamo sformationi, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1553.

di Michelangelo. So-
vrastato ai lati destro e sinistro rispettivamente dalla Luna e dal Sole, tutto intorno le
stelle, Dio, con l’ausilio delle proprie mani, dirige e orchestra la creazione del mondo,
trasformando il caos primordiale in un tutto ordinato, il cosmo. La xilografia di Ru-
sconi, oltre a non seguire la traduzione di Dolce120, sembra non rispettare nemmeno la
descrizione di Ovidio. Nella Metamorfosi, Ovidio premette la nascita degli elementi e
della Terra a quella dei corpi celesti e delle stelle. Guardando l’immagine di Rusconi,
invece, si ha l’impressione che la Luna, il Sole e le stelle illuminino già la scena quando
Dio è ancora intento a ordinare i venti della Terra. Si noti che ciò potrebbe essere in
linea con quanto descritto da Galileo all’inizio dei De motu antiquiora, dove viene

and Development of Knowledge, Proceedings 4, Edition Open Access 2013, pp. 145-166). Andersen
non cita Ostilio Ricci tra coloro che applicarono le matematiche allo studio della prospettiva. È però
probabile, credo, che anche Ricci, come Guidobado, fosse stato influenzato dal conterraneo Comman-
dino. In ogni caso, presso l’Accademia del Disegno Ostilio Ricci insegnava anche architettura, e non è
da escludere che per le proprie lezioni si servisse della traduzione in volgare del De Architectura vitru-
viano pubblicata nel 1590 e accompagnata dalle illustrazioni di Giovanni Antonio Rusconi. Ritengo in
ogni caso verosimile che Galileo abbia potuto conoscere l’opera di Rusconi tramite Ostilio Ricci.
119
Per il commento di Galileo, cfr. supra, II, nota 117.
120
Rusconi non poté basarsi sul volgarizzamento di Dolce, composto in fretta e furia nel 1552 per
essere stampato l’anno seguente. L’artista decise dunque di basarsi sulle illustrazioni delle edizioni pre-
cedenti, latine e volgari, delle Metamorfosi di Ovidio. Cfr. G. Capriotti, Le Trasformationi di Lodovico
Dolce, cit., p. 31.

89
narrato che l’azione ordinatrice di Dio ebbe luogo «post illius mirabilem compagi-
nem», cioè dopo la creazione della sfera celeste121.
Galileo, però, avrebbe potuto trarre ispirazione per la cosmogonia dei De motu an-
tiquiora, non solo dalla pregevole illustrazione di Rusconi, ma anche dalla traduzione
di Dolce, il quale, senza alcuna preoccupazione di fedeltà nei confronti dell’originale,
aggiunge un’informazione non presente nelle Metamorfosi di Ovidio, che tuttavia
sembra ripresentarsi nei De motu antiquiora:

Poi che Dio la bell’opera construsse

Con ordine, che mai non muti o cagni;

Le Stelle, uscendo di quel cieco velo,

Sparser la luce lor per tutto il Cielo.

E, perche vota non restasse parte

Di quanto fare a quel gran Mastro piacque;

Nel cielo albergo a i sommi Dei comparte,

e a i santi fochi, onde ogni influsso nacque.122

Galileo trasse forse dal volgarizzamento di Lodovico Dolce l’immagine di Dio che
dispone il mondo senza lasciare alcuno spazio vuoto? «Perche vota non restasse
parte…», scrive Dolce, senza prestare fede all’originale ovidiano123; «ne magnum spa-
cium otiosum atque vacuum esset…», pare fare eco Galileo nei De motu antiquiora.
La differenza è che Dolce si riferisce molto probabilmente ai pianeti, chiamandoli
«sommi Dei»: dopo aver disposto gli elementi, creato la Terra e le stelle, Dio, affinché
non restasse alcuna parte vuota, dispose i pianeti tra il centro del mondo e la volta
celeste. Galileo, invece, narra che Dio dispose, non i pianeti, bensì gli elementi in
modo tale che non vi fosse alcuno spazio vuoto sotto l’«ultima superficie concava». In
entrambi i casi, Dio non si comporta da geometra, come invece accadrà nel Dialogo;
la sua azione ricorda più quella di un artista che ordina il mondo sulla base di esigenze

121
Cfr. De motu antiquiora, OG, I, p. 344.
122
L. Dolce, Le Trasformationi, cit., p. 3. Nell’edizione del 1555 posseduta da Galileo a p. 4, corsivo
mio.
123
Gli unici passi ovidiani che potrebbero essere accostati al verso di Dolce sono Met. I, 72-73: «neu
regio foret ulla suis animantibus orba, / astra tenent caeleste solum formaeque deorum». («E perché non
ci fosse elemento che non avesse i suoi esseri animati, gli astri e le forme degli dèi occuparono le distese
celesti»). Il significato, però, è nettamente differente.

90
estetiche, per non lasciare spazi vuoti e, aggiunge Galileo, per non offendere la vista
degli spiriti beati e immortali124.
Le somiglianze tra la cosmogonia ovidiana e quella di Galileo nei De motu anti-
quiora non consentono comunque di affermare con sicurezza che la prima sia effetti-
vamente stata la fonte della seconda. In primo luogo, va ricordato che Galileo non cita
mai Ovidio nei De motu antiquiora. Inoltre, come si è fatto notare ricorrendo al De
motu gravium et levium di Borri e al commentario di Rosselli al Pymander, la cosmo-
gonia del caos veniva spesso menzionata e attribuita a non pochi autori dell’anti-
chità125, non solo a Ovidio. Ritengo in ogni caso che la cosmogonia dei De motu anti-
quiora sia molto più simile a quella ovidiana che a quella di Lucrezio, indicata invece
da Pietro Redondi126.

124
Secondo Galluzzi, invece, nel mito cosmogonico dei De motu antiquiora «appare in chiara evi-
denza la piena congruenza tra teoria corpuscolare della materia e struttura matematica conferita all’uni-
verso dal suo Creatore» (P. Galluzzi, Tra atomi e indivisibili, cit., p. 14). Poche pagine dopo, Galluzzi,
sempre riferendosi alla prima cosmogonia galileiana, scrive: «Va anche sottolineata in questo mito l’at-
tribuzione alla divinità di strategie di assoluta razionalità matematica che ispirano i suoi atti creativi e
ne garantiscono la perfezione: un’anticipazione della fortunata metafora del ‘libro della natura’, scritto
in caratteri matematici e composto secondo una sintassi rigorosa la quale non ammette eccezioni, che
sarà al centro, molti anni più tardi, delle Lettere Copernicane e del Saggiatore» (ivi, p. 16). Anche
volendo includere in questa cosmogonia la narrazione galileiana delle modalità in cui la natura, e non
Dio, avrebbe ddistribuito la materia nelle «forme» proprie degli elementi, va comunque notato che nulla
è detto nei De motu antiquiora riguardo alla struttura matematica e geometrica della natura o degli
elementi. Certo, la distinzione di un elemento dall’altro non avviene più su base qualitativa, bensì con-
cerne la relazione tra quantità di particelle materiche e «forma» (magnitudo? volume?) degli elementi
stessi, ma non credo che ciò basti a intravedere nei primi scritti de motu di Galileo la concezione di una
natura inesorabile, scritta a caratteri matematici. Aggiungo, infine, che meriterebbe di essere tematiz-
zato il riferimento di Galileo all’«ultima superficie concava» sotto la quale Dio avrebbe scacciato una
massa composta con gli «excrementa» della sfera celeste. Almeno un indizio lascia pensare che quella
sfera concava cui alluse Galileo non fosse altro che il concavo lunare (cfr. De motu antiquiora, OG, I,
p. 346). In ogni caso, quel riferimento agli excrementa posti sotto l’ultima superficie concava, pur non
evocando una differenza ontologica tra materia celeste e terrestre, ne porta comunque alla mente almeno
una assiologica.
125
Cfr., per es., anche F. Buonamici, De motu, cit., p. 112FG. Inoltre, un pensiero cosmogonico
simile a quello espresso da Galileo nei De motu antiquiora è stato rintracciato da Michele Camerota in
un testo di Francesco Piccolomini (cfr. P. Galluzzi, Tra atomi e indivisibili, cit., p. 17, nota 18).
126
Cfr. P. Redondi, From Galileo to Augustine, cit., pp. 176-177. Anche Camerota sostiene che,
sebbene ci sia qualche «motivo di consonanza» tra il racconto cosmogonico di Galileo nei De motu
antiquiora e quello lucreziano presente nel quinto libro del De rerum natura, esso risulti comunque
«vaghissimo» (cfr. M. Camerota, Galileo, Lucrezio e l’atomismo, in Lucrezio, la natura e la scienza, a
cura di M. Beretta e F. Citti, Olschki, Firenze 2008, pp. 141-175, in particolare p. 148, nota 21).

91
III. LA COSMOGONIA DOPO LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVI

III.1 Dalla legge di caduta alla caduta dei pianeti

Nel Dialogo e nei Discorsi, le due più celebri opere galileiane edite rispettivamente
nel 1632 e nel 1638, Galileo espone una cosmogonia che nulla ha a che vedere con
quella narrata nelle pagine manoscritte dei De motu antiquiora. In quest’ultima opera,
come ho già fatto notare, lo scienziato pisano si dedicò con particolare attenzione alla
descrizione della genesi divina degli elementi e della loro ordinata disposizione nel
mondo, immaginando inizialmente una situazione caotica originaria in cui tutti i corpi
fanno indistintamente parte di una massa di materia pesante, rude e confusa1. Si è an-
che visto che un’opinione del genere non era nuova ai pensatori dell’epoca, ma si ri-
faceva forse indirettamente a un motivo cosmogonico che sarebbe riduttivo definire
«platonico», le cui origini Girolamo Borri, nel suo De motu gravium et levium, ricon-
dusse con non velato disprezzo a una tradizione inaugurata da Ermete Trismegisto,
all’interno della quale venivano posti non solo Platone, Esiodo e Orfeo, ma anche, per
esempio, Ovidio, poeta caro a Galileo2. Niente di tutto ciò, però, traspare dalle pagine
del Dialogo e dei Discorsi, dove invece Galileo rimanda esplicitamente a un «concetto
platonico» al quale, avendone scoperto i «fondamenti», egli decide di togliere la «ma-
schera o sembianza poetica», per scoprirlo «in aspetto di verace istoria»3.
Tralasciando per ora la questione relativa all’idoneità o meno del riferimento gali-
leiano a Platone, quello che qui mi interessa prendere in considerazione è lo sforzo
compiuto da Galileo nel tentativo di dare un aspetto reale e veritiero a un mito delle

1
Cfr. supra, capitolo II.5.
2
Cfr. supra, capp. II.4 e II.6.
3
Galileo parla di «concetto platonico» sia nel Dialogo che nei Discorsi per riferirsi alla cosmogonia
di Platone, con particolare riguardo alla creazione dei pianeti (cfr. Dialogo, OG, VII, p. 53 e Discorsi,
OG, VIII, p. 283). Nei Discorsi Galileo sostiene appunto di averne scoperto «i fondamenti taciuti da
quello [Platone]», i quali, «con levargli la maschera o sembianza poetica, lo scuoprono in aspetto di
verace istoria» (cfr. ibid.).

92
origini del mondo sfruttando i propri nuovi risultati scientifici desunti dallo studio del
moto dei corpi. Mi pare infatti che sia questo particolare sforzo a ripetersi inalterato
sia nei De motu antiquiora, che nel Dialogo e nei Discorsi, sebbene nella diversità dei
miti cosmogonici di riferimento.
Nell’opera rimasta inedita, i De motu antiquiora, Galileo aveva sostenuto che, al
contrario di quanto pensasse Aristotele, tutti i corpi sono più o meno gravi, non esiste
cioè una leggerezza assoluta. Il motivo per cui un corpo meno pesante si dirige verso
l’alto era da rintracciarsi, adottando il quadro teorico dell’idrostatica archimedea, nella
minore densità del mobile rispetto al mezzo. Questa fisica anti-aristotelica, insieme
all’idea che in una sfera gli spazi più prossimi al centro sono i più angusti, ossia quelli
dove è portata a raccogliersi la materia più densa, aveva permesso a Galileo di arran-
giare il mito del caos primigenio in modo tale da privarlo delle tradizionali caratteri-
stiche mitico-poetiche, per renderlo così plausibile proprio alla luce dei nuovi ritrovati
scientifici riguardanti il moto dei corpi. La stessa operazione viene condotta anche nel
Dialogo e nei Discorsi su un altro mito delle origini, con la differenza che in queste
due opere la scienza de motu galileiana ha ormai ben poco a che spartire con quella
esposta nei De motu antiquiora.
Le due acquisizioni scientifiche che più contribuiscono a segnare questo netto di-
stacco sono:

a) la scoperta che tutti i corpi, se lasciati cadere, si muovono con velocità propor-
zionali al quadrato dei tempi di caduta, ossia la cosiddetta legge di caduta dei
gravi;
b) l’affermazione che nel vuoto tutti i corpi cadono con la stessa velocità, il che
significa al contempo negare che vi sia un nesso causale tra peso del mobile e
velocità di caduta;

Queste due acquisizioni vanno ovviamente di pari passo, e, certo, sarebbe forse più
corretto invertirle, dato che, dal punto di vista cronologico, probabilmente Galileo co-
minciò a dubitare del classico binomio peso-velocità già a partire da riflessioni con-
dotte sul funzionamento delle macchine semplici, e in particolare nella versione lunga

93
de Le mecaniche, dove lo scienziato pisano adopera per la prima volta il termine «mo-
mento», che si rivelerà di grandissima importanza anche per lo studio del moto dei
corpi4. Qui, però, ciò che più interessa mettere in luce non sono tanto le fasi e le mo-
dalità dello sviluppo di una nuova e più matura scienza de motu galileiana, bensì le
implicazioni delle nuove acquisizioni scientifiche – soprattutto quelle riguardanti il
moto di caduta accelerato – sul piano della narrazione cosmogonica.

III.1.1 L’accelerazione come fenomeno naturale e la sua applicazione a un pro-


blema cosmogonico

Nei De motu antiquiora l’accelerazione veniva intesa come un fenomeno non na-
turale, causato da una forza estrinseca e accidentale, chiamata virtus impressa, che
agisce sul mobile modificandone il peso e pertanto la velocità (essendo il peso consi-
derato ancora il principale fattore dinamico dei corpi). In breve, nelle sue prime rifles-
sioni sul moto di caduta, Galileo sosteneva che un corpo lasciato precipitare dalla
quiete acquisisse una leggerezza (virtus impressa), la quale tuttavia andasse progres-
sivamente perdendosi, fino al punto in cui il corpo fosse libero di cadere a una velocità
uniforme proporzionale al peso ‘naturale’ del mobile5. L’accelerazione veniva dunque
spiegata nei termini di un graduale recupero di pesantezza, tanto che Koyré parlò a tal
proposito non di velocità accelerata, bensì di «velocità deretardata»6. È evidente che
Galileo, non riuscendo a descrivere l’accelerazione nei termini imposti dal modello
teorico idrostatico da lui adottato nei De motu antiquiora, fu costretto a postulare una
forza ad hoc che agisse sul peso dei corpi in modo da modificarne la velocità. Forse
anche per questo suo carattere accidentale e non naturale, l’accelerazione non ebbe

4
Per quanto riguarda Le mecaniche e l’importanza del concetto di «momento» per la teoria del moto
galileiana, cfr. P. Galluzzi, Momento, già citato.
5
Il concetto di una virtus impressa o di un impetus era stato usato dagli scolastici latini per spiegare
il moto dei proietti. Ben prima di loro, già Filopono parlò di dynamis endotheisa in opposizione all’opi-
nione di Aristotele secondo cui è l’azione di spinta dell’aria a determinare e consentire il moto di un
proietto. Il concetto di virtus impressa esposto da Galileo nei De motu antiquiora è, come ha notato
Fredette, in realtà particolare, proprio perché implica una acquisizione di levitas da parte del proietto o
dell’oggetto lasciato cadere dalla quiete (cfr. R. Fredette, Galileo’s De Motu Antiquiora, cit., pp. 338-
342).
6
Cfr. A. Koyre, Studi galileiani, cit., p. 64.

94
alcun ruolo nella descrizione cosmogonica che Galileo pose all’inizio della terza ver-
sione in forma di trattato dei De motu antiquiora. A Galileo bastava probabilmente far
notare che la cosmogonia del «Chaos» ben si allineava a una fisica che ammetteva
l’opinione degli «antichi», secondo cui gli elementi sono formati di una stessa materia
che, distribuita in quantità diverse, dà luogo a corpi densi e meno densi.
Nel Dialogo e nei Discorsi la situazione è ovviamente ben diversa: l’accelerazione
è ormai riconosciuta a tutti gli effetti come un fenomeno naturale, perfettamente intel-
ligibile in quanto riconducibile a una equazione sempre valida, un’uguaglianza tra due
rapporti in cui il peso dei corpi non gioca più alcun ruolo. La causa dell’accelerazione,
nonché del moto di caduta, non è più il peso, bensì la gravità, intesa come tendenza o
inclinazione naturale verso il centro del globo. In generale, la condizione necessaria
affinché si verifichi naturalmente un movimento è che vi sia un termine, o «luogo
particolare», verso cui i corpi spontaneamente tendono7. Non vi è più alcun bisogno di
porre diversi luoghi naturali nel mondo, né di assumere, come invece accade nei De
motu antiquiora al fine di rendere ragione del moto dei corpi e della loro ordinata
disposizione nel mondo, che l’universo abbia una forma sferica. Caduto anche
quest’ultimo assunto sulla forma mundi, e dato che non è più il peso a determinare il
moto né dunque la velocità dei corpi, cade così anche la necessità di porre la Terra, e
in generale tutti i corpi pesanti, al centro del mondo8. Come è noto, anche dopo aver
subìto attacchi dal cosiddetto ‘partito anticopernicano’ e ammonizioni da parte della
Chiesa9, Galileo rende il Dialogo sopra i due massimi sistemi un’apologia non troppo

7
«Ogni corpo costituito per qualsivoglia causa in istato di quiete, ma che per sua natura sia mobile,
posto in libertà si moverà, tutta volta però ch’egli abbia da natura inclinazione a qualche luogo partico-
lare; chè quando e’ fusse indifferente a tutti, resterebbe nella sua quiete, non avendo maggior ragione
di muoversi a questo che a quello» (Dialogo, OG, VII, p. 44).
8
Con ciò, non si vuole qui sostenere che solo dopo aver rinnovato la propria scienza de motu Galileo
allora decise di aderire al copernicanesimo. Il dibattito storiografico sui motivi che spinsero Galileo ad
accogliere il sistema copernicano è ovviamente ancora aperto e interessante. Clavelin sostiene, per
esempio, che fu solo l’adesione alla dottrina di Copernico a permettere a Galileo, da Le mecaniche in
poi, di intraprendere un percorso speculativo veramente innovativo riguardo al moto dei corpi (cfr. M.
Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée e il recente Galilée, cosmologie e science du mouvement,
entrambi già citati).
9
Dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610) e il ritorno a Firenze, Galileo fu più volte
accusato, soprattutto da parte di alcuni domenicani, di sostenere opinioni contrarie al dettato biblico.
Tutto ciò portò alla stesura delle cosiddette Lettere copernicane e all’ammonizione di Bellarmino, il
quale, per ordine di papa Paolo V, il 25 febbraio del 1616 ingiunse a Galileo di non poter «tenere,
insegnare e difendere in alcun modo, anche verbalmente od in iscritto» la teoria copernicana.

95
nascosta del copernicanesimo e, specialmente in alcuni passi della Giornata Terza, di
Copernico10. La cosmogonia che viene presentata nel Dialogo e nei Discorsi riguarda
infatti le modalità con cui Dio dispose i pianeti nel mondo secondo un preciso ordine,
il quale corrisponde a quello rintracciato ed esposto da Copernico nel De revolutioni-
bus. Inoltre, è in questa precisa narrazione cosmogonica che l’accelerazione, al con-
trario di quanto esposto nell’incipit dei De motu antiquiora, assume un ruolo fonda-
mentale.
Secondo Galileo, la legge di caduta consentirebbe di comprendere come i pianeti
acquisirono naturalmente quel grado di velocità che caratterizza il loro moto uniforme
e circolare lungo la propria orbita. Per far questo, Galileo ci riporta con la mente alle
origini del mondo, quando Dio, una volta creati i pianeti, lasciò cadere questi ultimi a
partire da una comune «altezza» e verso un comune «termine» naturale, corrispon-
dente al centro delle loro conversioni, occupato dal Sole. Una volta che ciascun pianeta
raggiunse, cadendo, la velocità con cui avrebbe dovuto compiere le proprie rivolu-
zioni, Dio intervenne nuovamente a deviare la traiettoria rettilinea di caduta conver-
tendola in circolare11. Per Galileo, infatti, solo una traiettoria circolare, equidistante
dal «termine» della caduta nonché dal centro di gravità, dove pertanto il «momento
del discendere» è nullo, consente a un corpo di muoversi perpetuamente conservando
il grado di velocità precedentemente acquisito12.
Per dare sembianza di «verace istoria» al mito delle origini, Galileo fa dunque leva
sul concetto di accelerazione e sull’erroneo – a posteriori – riconoscimento di un moto
inerziale lungo una traiettoria equidistante dal centro di gravità13. Ma è in particolare
sfruttando la «proporzione dell’accelerazion del moto naturale», cioè la legge di caduta
dei gravi, che Galileo si sente in grado di dimostrare la veridicità del proprio racconto
cosmogonico individuando il luogo comune da cui tutti i pianeti iniziarono la propria
discesa:

10
Cfr. Dialogo, OG, VII, p. 355.
11
Cfr. ivi, p. 44-45 e 53-54.
12
Per quanto riguarda la nozione di «momento del discendere», si rimanda ancora P. Galluzzi, Mo-
mento, già citato.
13
Che io sappia, solamente Enrico Giannetto ha sostenuto che il principio inerziale di Galileo non
si limitasse a descrivere il solo caso del moto circolare (Cfr. E. Giannetto, Galileo, modern science and
the principle of inertia, in “Galilaeana”, IX, 2010, pp. 137-151). Mi pare, però, che le sue argomenta-
zioni siano molto discutibili e si basino in alcuni casi su una lettura modernizzante e per certi aspetti
fuorviante dell’opera galileiana.

96
Per far questa investigazione – scrive Galileo nel Dialogo – bisogna pigliare da i
più periti astronomi le grandezze de i cerchi ne i quali i pianeti si rivolgono, e pari-
mente i tempi delle loro revoluzioni: dalle quali due cognizioni si raccoglie quanto,
v.g., il moto di Giove è più veloce del moto di Saturno; e trovato (come in effetto
è) che Giove si muove più velocemente, conviene che, sendosi partiti dalla mede-
sima altezza, Giove sia sceso più che Saturno, sì come pure sappiamo essere vera-
mente, essendo l’orbe suo inferiore a quel di Saturno. Ma venendo più avanti, dalla
proporzione che hanno le due velocità di Giove e di Saturno, e dalla distanza che è
tra gli orbi loro e dalla proporzione dell’accelerazion del moto naturale, si può ri-
trovare in quanta altezza e lontananza dal centro delle loro revoluzioni fusse il luogo
donde e’ si partirono.14

Galileo insomma sostiene che, una volta trovato che i pianeti più esterni si muovono
più lentamente di quelli più interni, stando al racconto cosmogonico poco fa ricordato,
si dovrebbe dire che Giove, più veloce di Saturno, prima che la sua traiettoria venisse
deviata, dovette attraversare uno spazio maggiore rispetto a quello percorso da Sa-
turno, dunque la sua caduta dovette durare più a lungo. In effetti, sottolinea Galileo,
ciò si confà a quel che sappiamo dell’ordine dei pianeti, con Giove più interno di Sa-
turno. Ma questa coincidenza non basta a Galileo, il quale ritiene di poter trovare l’al-
tezza da cui i due pianeti vennero lasciati cadere, conoscendo le velocità di rivoluzione
di Giove e Saturno, la distanza tra le due orbite, e sfruttando la legge di caduta per
ricavare, credo, la corretta relazione tra le velocità di caduta libera e le distanze per-
corse. Così facendo, una volta ottenuto il punto di sublimità,

si cerca se, Marte scendendo di là sino al suo orbe, si trova che la grandezza
dell’orbe e la velocità del moto convengono con quello che dal calcolo ci vien dato;
ed il simile si fa della Terra, di Venere e di Mercurio, de i quali le grandezze de i
cerchi e le velocità de i moti s’accostano tanto prossimamente a quel che ne danno
i computi, che è cosa maravigliosa.15

La particolarità del procedimento descritto da Galileo lascia credere che lo scien-


ziato pisano si fosse veramente dedicato a un tale computo giungendo a risultati tanto
prossimi a quelli restituiti dai dati osservativi dei «periti astronomi» da sembrare una
«cosa meravigliosa». D’altronde, nei Discorsi Salviati conferma che Galileo si occupò

14
Dialogo, OG, VII, p. 53.
15
Ivi, pp. 53-54.

97
con notevole successo di questi calcoli cosmogonici, ma lascia al lettore fiducioso la
fatica di ricavarli autonomamente:

Mi par sovvenire che egli [Galileo] già mi dicesse, aver una volta fatto il computo,
ed ancor trovatolo assai acconciamente rispondere alle osservazioni, ma non averne
voluto parlare, giudicando che le troppe novità da lui scoperte, che lo sdegno di
molti gli hanno provocato, non accendessero nuove scintille. Ma se alcuno avrà si-
mil desiderio, potrà per sè stesso, con la dottrina del presente trattato, sodisfare al
suo gusto.16

III.1.2 I calcoli cosmogonici contenuti nel Ms. 72

Se non fosse stato per le infaticabili ricerche di Stillman Drake, il quale riconobbe
tra alcune carte del Ms. 72 i tentativi galileiani di calcolare l’altezza da cui i pianeti
vennero lasciati cadere17, oggi forse dubiteremmo ancora che Galileo si fosse dedicato
a un problema così particolare da sembrare, ai nostri occhi, perfino superfluo. Certo, i
fogli rimastici non danno modo di confermare il successo dei tentativi galileiani, e,
con tutta probabilità, è lecito credere che Galileo non riuscisse a far quadrare i propri
calcoli cosmogonici con i dati offerti dalle osservazioni astronomiche di allora. Tutta-
via, le analisi dei tentativi condotti da Galileo alle cc. 134, 135 e 146 del Ms. 72 resti-
tuiscono comunque delle informazioni molto interessanti.
Il primo ragguardevole elemento che emerge dalla decifrazione dei calcoli cosmo-
gonici del Ms. 72 riguarda l’utilizzo da parte di Galileo di dati concernenti il periodo
di rivoluzione dei pianeti. Questi dati corrispondono a quelli presentati da Keplero nel
ventesimo capitolo del Mysterium cosmographicum, opera che Galileo ricevette in
dono proprio dall’astronomo tedesco18. È celebre la missiva del 4 agosto 1597 in cui
Galileo, ringraziando Keplero del dono inviatogli, si professava anch’egli apertamente

16
Discorsi, OG, VIII, p. 284.
17
Cfr. S. Drake, Galileo’s ‘Platonic’ Cosmogony and Kepler’s Prodromus, in “Journal for the Hi-
story of Astronomy”, v.4 (1973), pp. 173-191.
18
Cfr. J. Kepler, Prodromus dissertationum cosmographicarum, continens mysterium cosmographi-
cum, de admirabili proportione orbium coelesteium…, Excudebat Georgius Gruppenbachius, Tubinga
1596, p. 70.

98
copernicano «già da molti anni». In quella stessa lettera, Galileo affermava anche di
aver «visto soltanto la prefazione» del Mysterium19.
Prima che venissero portate all’attenzione degli studiosi galileiani le carte del Ms.
72 in cui vi è una riproposizione dei dati kepleriani relativi ai periodi di rivoluzione di
Saturno, Giove e Marte, si riteneva generalmente che Galileo avesse interrotto la let-
tura del Mysterium poco dopo averla cominciata, infastidito forse da un approccio me-
tafisico ai problemi cosmologici a lui poco congeniale. Oggi, al contrario, si sostiene
che Galileo, dopo un primo abbandono, riprese la lettura del Mysterium intorno ai
primi anni del ‘600, quando cioè lo scienziato pisano si dedicò probabilmente per la
prima volta alla risoluzione del problema cosmogonico riguardante la caduta dei pia-
neti20. Credo, però, che la coincidenza dei dati kepleriani con quelli riportati da Galileo
nel Ms. 72 non basti a dare conferma di una più approfondita lettura galileiana del
Mysterium. L’interesse di Galileo potrebbe essersi limitato infatti al mero spoglio dei
dati riportati da Keplero. Quegli stessi dati kepleriani, inoltre, erano ben conosciuti
anche da Paolo Sarpi21, il quale avrebbe certamente potuto porvi attenzione su sugge-
rimento di Galileo; il che non esclude però che sia piuttosto vero il contrario, o che,
più probabilmente, non si trattasse in generale di dati difficili da reperire in ambiente
patavino.
A prescindere dal fatto che Galileo ritornasse o meno a leggere il Mysterium, si può
tuttavia ritenere che quando nel Dialogo egli rinvia ai «periti astronomi» da cui rica-
vare i dati su «le grandezze de i cerchi ne i quali i pianeti si rivolgono, e parimente i
tempi delle loro revoluzioni», egli stia più che probabilmente alludendo a Keplero.
Questo è un ulteriore indizio circa la possibilità di dare un riscontro concreto al proce-
dimento grazie al quale Galileo afferma, nel Dialogo, di aver condotto a buon fine i
propri calcoli cosmogonici. Ci si chiede dunque a questo punto se sia possibile istituire

19
Cfr. OG, X, pp. 67-68. Per la traduzione italiana, cfr. M. Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., pp.
49-50, dove lo studioso offre anche una accurata ricostruzione dei fatti storici che precedettero e segui-
rono la lettera.
20
Cfr. ivi, pp. 109-115, in cui Bucciantini riassume in modo chiaro le analisi condotte finora sul Ms.
72. Un compendio è presente anche in G. Cimino, Ipotesi sulla cosmogonia platonica di Galileo: una
nuova congettura, in “Physis”, v. XLIX (2013-2014), pp. 37-83, in particolare pp. 53-70.
21
Cfr. P. Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici, edizione critica integrale commentata a
cura di Luisa Cozzi e Libero Sosio, Ricciardi, Milano 1996, p. 736.

99
un perfetto parallelismo tra i computi cosmogonici ritrovati da Drake nel Ms. 72 e il
metodo di calcolo indicato da Galileo nel Dialogo.
In realtà, in uno studio abbastanza recente, Büttner ha confermato una conclusione
cui era giunto anche Meyer molti anni prima22: i ff. 134v e 135v del Ms. 72 contengono
calcoli basati su un metodo differente rispetto a quello impiegato nelle operazioni ri-
portate sulla carta 146r. Si tratterebbe dunque di due tentativi diversi, che si distin-
guono non solo per i procedimenti adottati, ma anche e soprattutto per gli assunti che
tali procedimenti implicano. Questa particolare differenza ha permesso di dare un or-
dine cronologico ai due tentativi. Attualmente si ritiene che i computi riportati nei ff.
134 e 135 del Ms. 72 siano stati stilati prima di quelli presenti nel f. 146r, anche se non
vi è accordo sulla datazione precisa da attribuire a entrambi i tentativi. Con molta pro-
babilità, però, il primo fu compiuto quando Galileo ancora riconduceva la corretta
legge di caduta a un principio erroneo, secondo cui la velocità del mobile in caduta
libera aumenta non in rapporto al tempo, bensì agli spazi percorsi. Tale principio venne
enunciato da Galileo in una famosa lettera inviata a Paolo Sarpi il 16 ottobre del
160423, data attorno alla quale vengono per l’appunto fatti risalire i primi calcoli co-
smogonici inclusi nei ff. 134 e 135.
Riuscire a decifrare anche solo il primo tentativo con cui Galileo tentò di ricavare
l’altezza da cui vennero lasciati cadere i pianeti non è per niente facile. A prima vista,
la serie apparentemente confusa di numeri riportati sui ff. 134v e 135v sembra non
lasciare alcuna possibilità d’interpretazione sensata. Eppure, l’individuazione di alcuni
numeri ricorrenti (come 10759, cioè il dato segnalato da Keplero nel Mysterium in
corrispondenza al tempo in giorni che impiega Saturno a percorrere la propria orbita24),
e la relazione che sembra possibile istituire fra loro, lasciano pensare che Galileo si
stesse allora proprio occupando del problema cosmogonico esposto sia nel Dialogo
che nei Discorsi. A riprova di ciò, si potrebbe addurre anche il disegno raffigurante le
orbite planetarie di Saturno, Giove e Marte nel f. 135r, e la sua apparente riproposi-
zione con l’aggiunta di un altro piccolo circolo attorno al centro (forse rappresentante
l’orbita terrestre) nel f. 134r, dove appare peraltro, nell’angolo in alto a sinistra, anche

22
Cfr. E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, in “Isis”, v. 80, n. 3 (1989), pp. 456-468 e
J. Büttner, Galileo’s Cosmogony, in Largo campo di filosofare, cit., pp. 391-401.
23
Cfr. OG, X, pp. 115-116.
24
Cfr. J. Keplero, Prodromus dissertationum cosmographicarum..., cit., p. 70.

100
un diagramma che sia per Büttner che per Meyer corrisponderebbe a quelli che Galileo
usò le prime volte «per rappresentare l’aumento di velocità nella caduta libera»25.
Sebbene Meyer e Büttner abbiano analizzato i ff. 134 e 135 ricavandone conclu-
sioni parzialmente diverse, entrambi sostengono che in questi fogli Galileo abbia fatto
uso della regola della doppia distanza per trovare l’altezza da cui Saturno cominciò la
propria discesa uniformemente accelerata26. L’enunciazione di questa regola compare
nel f. 163v del Ms. 72 ed è riproposta da Galileo nei Discorsi, mentre vi si accenna
solamente nella Giornata Prima del Dialogo27. Secondo la regola della doppia di-
stanza, nello stesso tempo che un mobile impiega a percorrere una certa distanza in
caduta libera a partire dalla quiete, il medesimo mobile, mantenendo una velocità uni-
forme pari all’ultimo grado di velocità raggiunto, è in grado di attraversare il doppio
della distanza percorsa cadendo. A partire da questa regola, Galileo comincia il primo
tentativo per calcolare «il luogo dove primamente furono essi globi [i pianeti] creati»28,
assumendo che la circonferenza dell’orbita di Saturno fosse pari al doppio della di-
stanza percorsa da Saturno in caduta libera, applicando cioè la regola della doppia
distanza al contrario. Dato che l’applicazione della stessa regola ai pianeti più interni
non avrebbe consentito di ricavare un’«altezza» di caduta comune a tutti i pianeti, Ga-
lileo procedette ricercando per altra via il punto di caduta di Giove e Marte sulla base
del calcolo effettuato precedentemente rispetto a Saturno.
Al contrario di Meyer, Büttner ha sostenuto che Galileo avesse adoperato nei ff.
134v e 135v due «proporzioni cosmogoniche» diverse, cioè due differenti equazioni,
per ricavare l’«altezza» da cui Giove e Marte vennero lasciati cadere. La prima «pro-
porzione cosmogonica», rintracciabile secondo Büttner nel f. 135v, sarebbe quella con
cui Galileo tentò di ottenere il punto di caduta di Giove; mentre la seconda, nel f. 134v,
riguarderebbe Marte29. Mediante la prima «proporzione cosmogonica» Galileo sa-
rebbe stato in grado di ottenere un risultato per Giove congruo a quello ottenuto per
Saturno, e per certi versi anche in linea con i dati kepleriani, ma al costo di reiterati e

25
E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, cit., p. 463: «Folio 134r bears a set of four
circles; there is also a small stick diagram in a corner of the page, of the sort used early on by Galileo
to represent the increase of speed in free fall, welcome assurance that this is indeed the issue here».
26
Cfr. ivi, p. 461 e 463, J. Büttner, Galileo’s Cosmogony, cit., p. 395 e ss.
27
Cfr. Ms. 72, f. 163v, Discorsi, OG, VIII, pp. 383-384 e Dialogo, OG, VII, p. 52.
28
Ivi, p. 53.
29
Cfr. J. Büttner, Galileo’s Cosmogony, cit., pp. 394-397, e lo schema riassuntivo a p. 398.

101
faticosi tentativi. La seconda «proporzione cosmogonica», invece, avrebbe permesso
a Galileo una più facile e spedita risoluzione del problema e, forse proprio per questo
motivo, lo scienziato pisano decise di adottarla per calcoli riguardanti Marte. Stando
allo studio condotto da Büttner, «il metodo di calcolo soggiacente a questa seconda
proporzione si basa su un principio della sua [di Galileo] teoria del moto che è scorretto
secondo la meccanica classica: la proporzionalità tra la distanza di caduta e il “grado
di velocità” finale»30. Probabilmente, sostiene ancora Büttner, Galileo considerò le due
proporzioni cosmogoniche alla pari, in quanto entrambe fondate sul medesimo ed er-
roneo principio comunicato a Sarpi nel 1604 e poi abbandonato31.
Come si è già ricordato, la conclusione cui giunge Büttner, seppur basata su un’in-
terpretazione dei fogli 134 e 135 del Ms. 72 per certi aspetti diversa da quella proposta
molti anni prima da Meyer, è nella sostanza identica a quella offerta da quest’ultimo,
il quale riconobbe che l’applicazione della regola della doppia distanza «ha senso so-
lamente se il lavoro sui fogli 134-135 venne compiuto prima della sua [di Galileo]
scoperta circa la corretta regola per le velocità di caduta, nel tardo 1607»32. Tuttavia,
rispetto a Meyer, partendo da questa conclusione, Büttner avanza un’ipotesi molto in-
teressante.
Appoggiandosi a una parte di uno studio condotto da Jürgen Renn sullo sviluppo
delle teorie de motu galileiane33, Büttner ha sostenuto che proprio grazie ai calcoli
cosmogonici che figurano nei ff. 134 e 135 Galileo potrebbe essersi reso conto della
fallacia del principio su cui faceva poggiare la legge di caduta. L’ipotesi di Büttner è
molto interessante, perciò ho deciso di citarla per intero:

30
Ivi, p. 398: «The method of calculation underlying this second proportion is based on a principle
of his theory of motion that is incorrect to classical mechanics: the proportionality between distance of
fall and the “degree of speed” it reaches at the end». Se non segnalato diversamente, le traduzioni
dall’inglese sono sempre mie.
31
Cfr. Ibid.
32
E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, cit., p. 463: «As Galileo himself may very well
have recognized, the whole apporach grows increasingly farfetched; the double-distance rule is not a
very appropriate tool for the task of relating speeds to different distances of fall. Its application makes
sense only if the work on folios 134-135 was done before his discovery of the correct rule for speeds of
fall late in 1607».
33
Cfr. J. Renn, Proofs and Paradoxes: Free Fall and Projectile Motion in Galileo’s Physics, cit.,
pp. 185-194.

102
Mentre le conclusioni dei calcoli di Galileo per la comprensione della cosmogonia
potrebbero essere state dubbie, questi calcoli probabilmente ebbero un profondo
impatto sulla scienza del moto di Galileo. Il f. 134r contiene un diagramma che
rappresenta un moto di caduta interrotto in due punti per generare un moto uniforme
orizzontale. Questo diagramma rappresenta, in poche parole, il meccanismo essen-
ziale dei calcoli galileiani basati su tre ingredienti fondamentali: la legge di caduta,
la regola della doppia distanza, e l’erronea proporzionalità tra i gradi di velocità e
le distanze di caduta. Come si è saputo dall’analisi di altre pagine del Ms. 72, Gali-
leo alla fine si accorse dell’interna contraddizione tra il suo erroneo principio e la
legge di caduta prendendo esattamente in considerazione lo stesso diagramma. In-
fatti, il modo in cui Galileo confuta il suo erroneo principio di caduta ha precisa-
mente la stessa struttura della sua ipotesi cosmogonica, la quale pure prevede un
confronto tra moti uniformi generati da un moto di caduta. La confutazione del pro-
prio erroneo principio potrebbe benissimo essere stata suggerita dal lavoro condotto
su questa ipotesi.34

Büttner ipotizza dunque che lo sforzo compiuto da Galileo per definire una cosmo-
gonia in linea con la propria scienza de motu possa aver influenzato lo sviluppo del
successivo pensiero galileiano riguardo al moto di caduta. Proprio le riflessioni co-
smogoniche di Galileo avrebbero quindi portato quest’ultimo a ripensare i fondamenti
della legge di caduta dei gravi.
Questa ipotesi è molto allettante, ma a mio parere andrebbe comunque messa a
confronto con le altrettanto seducenti ragioni che invitano ad assumerla con le dovute
cautele. In primo luogo, finché non si giunge a un’interpretazione in grado di rendere
ragione di gran parte delle cifre che compaiono sui ff. 134v e 135v, comprese quelle
cancellate da Galileo, lo studio condotto su queste pagine manoscritte non potrà che
restituire solamente congetture più o meno sensate. Le analisi di Meyer si basano in

34
J. Büttner, Galileo’s Cosmogony, cit., pp. 399-400: «While the implications of Galileo’s calcula-
tions for the understanding of cosmogony may have been doubtful, these calculations probably had a
profound impact on Galileo’s science of motion. Folio page 134 recto contains a diagram representing
a motion of fall, interrupted at two points to generate a uniform horizontal motion. This diagram repre-
sents, in a nutshell, the essential mechanism of Galileo’s calculations based on three fundamental in-
gredients, the law of fall, the double distance rule, and the erroneous proportionality between the de-
grees of speed and the distances of fall. As is known from the analysis of other folio pages of Ms. Gal.
72, Galileo eventually realized and elaborated the internal contradiction between his erroneous principle
and the law of fall on the basis of considering exactly the same diagram. Indeed, Galileo’s refutation of
his erroneous principle of fall has precisely the same structure as his cosmogonical hypothesis, which
also involves a comparison between different uniform motions generated by a motion of fall, and may
well have been triggered by the work on this hypothesis».

103
certi casi su dati che non trovano alcun riscontro nei ff. 134v e 135v, tralasciandone
altri invece presenti. L’esame di Büttner è dunque più analitico e forse corretto, ma lo
studioso evita, probabilmente per non appesantire l’articolo, di presentare qualsiasi
riscontro con i calcoli cosmogonici stilati da Galileo. Il fatto poi che Büttner abbia
visto una differenza tra le «proporzioni cosmogoniche» adottate da Galileo, di cui in-
vece Meyer non si avvide, fa credere che un ulteriore esame dei fogli in questione
potrebbe portare a ulteriori e diverse conclusioni. Lo stesso diagramma disegnato da
Galileo nell’angolo in alto a sinistra del f. 134r, che Meyer considerò la prova che in
quelle pagine lo scienziato pisano stesse realmente dedicandosi a un problema cosmo-
gonico, e che per Büttner costituisce invece la chiave per comprendere come i calcoli
cosmogonici galileiani contribuirono a inficiare il principio erroneo su cui poggiava la
legge di caduta, a parere di Stillman Drake nulla aveva a che vedere con le operazioni
svolte nei fogli 134 e 13535. Certo, Drake non aveva condotto uno studio approfondito
su queste carte, ma in generale, la relazione tra il diagramma di caduta e i presunti
calcoli cosmogonici meriterebbe di essere meglio approfondita e giustificata. Solo un
approfondimento di questo tipo permetterebbe allora di rendere più plausibile l’ipotesi
di Büttner.
L’aspetto che però a me pare più rilevante, quando si dà credito alle comunque
verisimili e fondate congetture di Meyer e Büttner, è che Galileo cercasse fin da subito
di applicare la legge di caduta a un problema cosmogonico, ancora prima di emendare
l’errato principio su cui credeva di poterla fondare. Se è vero che Galileo adoperò la
regola della doppia distanza per determinare il punto da cui cadde Saturno, e che ciò
implica l’errato principio della legge caduta dei gravi, è altrettanto vero che ciò non
corrisponde al metodo descritto nel Dialogo per calcolare il punto di creazione36. Nel
Dialogo, infatti, nonostante Galileo descriva la regola della doppia distanza, egli non
dice di essersene servito per calcolare il luogo da cui Saturno venne lasciato cadere.
Ciò dà ovviamente ragione a quanto sostenuto da Meyer e Büttner, e cioè che quello
presente nei fogli 134 e 135 non fu che un primo tentativo di risolvere il problema
cosmogonico, seguito da quello che figura nel foglio 146v, in cui pare che la regola

35
Ciò è ricordato anche in E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, cit., p. 463, nota 25.
36
Cfr. Dialogo, OG, VII, p. 53 e supra, il paragrafo III.1.1.

104
della doppia distanza non venga più usata37. Se il primo tentativo fu dunque condotto
prima che Galileo confutasse l’errato principio della caduta dei gravi, allora l’interesse
nei confronti del tema cosmogonico fu precoce, databile intorno al 1604, o addirittura
intorno agli ultimi anni Novanta del ‘500, dato che, come è stato sostenuto recente-
mente, in quel periodo probabilmente Galileo aveva già condotto, insieme a Guido-
baldo del Monte, un esperimento sulla traiettoria di caduta dei gravi che, forse, avrebbe
potuto portarlo a inferire la legge di caduta38.

III.1.3 Dall’utilizzo dei dati di Keplero al rifiuto dell’orbita ellittica. Sul ruolo dei
dati astronomici nei calcoli cosmogonici di Galileo

Pur non potendo darne una datazione certa, il primo tentativo galileiano di calcolo
cosmogonico sembrerebbe dare testimonianza della volontà di integrare fin da subito
il copernicanesimo con una teoria del moto inerziale, per giustificare così sul piano
fisico la cosmologia eliocentrica39. Si tratta in un certo senso, come ho già fatto notare
nella sezione precedente della presente tesi, di legare a doppio filo l’interesse di Gali-
leo per il tema cosmogonico alla volontà di dare una dimensione reale al copernicane-
simo40. Questo aspetto fece molto probabilmente parte delle intenzioni di Galileo: in-
fatti, se i calcoli cosmogonici si fossero rivelati esatti – e Galileo afferma per ben due

37
Cfr. E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, cit., pp. 463-467 e J. Büttner, Galileo’s
Cosmogony, cit., p. 400, nota 21.
38
Cfr. J. Renn et al., Hunting the White Elephant: When and How did Galileo Discover the Law of
Fall?, in Galileo in Context, cit., pp. 29-149.
39
Questa è l’ipotesi di Massimo Bucciantini, che, riferendosi ai calcoli cosmogonici contenuti nel
Ms. 72, ha scritto: «Risulta comunque evidente lo sforzo qui compiuto, e cioè quello di cercare di de-
durre una legge universale di caduta dei pianeti a partire da nuove leggi del moto. A conclusione del
suo saggio Büttner parla di un tentativo di ‘integrazione’ tra nuova scienza del moto e cosmologia co-
pernicana. Io mi spingerei oltre: quei pochi frammenti di calcoli e figure rimastici e risalenti a momenti
diversi del periodo padovano costituiscono un’ulteriore prova del grande progetto galileiano, e cioè del
tentativo di inventare una nuova scienza del movimento capace di accordarsi con la nuova cosmologia
copernicana» (M. Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., p. 115). Secondo Bucciantini, ciò nacque soprat-
tutto dall’esigenza di rispondere a un quesito che dopo Tycho era diventato fondamentale: «Se i pianeti,
come qualunque altro corpo dell’univero, sono gravi, da chi o da che cosa sono mossi una volta sciolti
dal vincolo materiale che li lega alle sfere? E perché continuano a muoversi perennemente nel cielo
fluido senza provocare alcuna perturbazione, né modificare la propria traiettoria?» (ivi, p. 299).
40
Cfr. supra, capitolo II.1.

105
volte di aver trovato una corrispondenza tra i propri calcoli cosmogonici e i dati astro-
nomici –, ciò sarebbe bastato a dimostrare che il sistema copernicano rispondeva per-
fettamente alle leggi di natura. Allo stesso tempo, però, – ed è questo punto che a mio
parere non è stato messo abbastanza bene in luce dagli studiosi che si sono occupati
dei calcoli cosmogonici galileiani – anche la fisica di Galileo ne avrebbe tratto vantag-
gio, essendo l’unica in grado di spiegare e di accordarsi ai dati astronomici che Keplero
espose nel Mysterium cosmographicum.
In un certo senso, Galileo era consapevole che la risoluzione del problema cosmo-
gonico proposto nel Dialogo e nei Discorsi avrebbe consentito, non solo di offrire un
fondamento fisico al copernicanesimo, ma anche di dare valore universale alla propria
scienza de motu: era infatti la legge di caduta dei gravi la chiave di volta per dimostrare
l’ipotesi cosmogonica e spiegare allo stesso tempo il motivo per cui i pianeti più esterni
hanno un grado di velocità minore rispetto a quelli più interni. Per confermare tutto
ciò, il riscontro con i dati astronomici forniti da Keplero si sarebbe ovviamente rivelato
fondamentale e decisivo. Eppure, dallo studio del f. 146v del Ms. 72, in cui l’erroneo
principio di caduta viene abbandonato, è emerso, come prevedibile, che anche il se-
condo tentativo per il calcolo del punto di origine comune di caduta dei pianeti non
porta a conclusioni congrue ai dati astronomici kepleriani41. Ma allora perché Galileo
nel Dialogo, e ancora nei Discorsi, lascia intendere che sia possibile far quadrare i
conti cosmogonici con i dati dei «periti astronomi», aggiungendo di averne egli stesso
fatta la prova?
La questione, a mio parere, non è banale, perché induce a sospettare dell’affidabilità
che Galileo prestava ai dati di Keplero e, in generale, a tutti quei dati astronomici ca-
paci di vanificare l’applicazione della sua scienza de motu alle rivoluzioni celesti.
Certo, è probabile che Galileo, svolgendo i calcoli cosmogonici, fosse incappato più
volte in errori tali da permettergli di trovare casualmente e incredibilmente una corri-
spondenza tra i propri risultati e i dati kepleriani. Più probabile, però, è ritenere che
Galileo fosse talmente convinto di poter spiegare l’origine e l’ordine del mondo tra-
mite la legge di caduta e il principio ‘proto-inerziale’, di poter cioè dare una portata

41
Cfr. E. Meyer, Galileo’s Cosmogonical Calculations, cit., p. 467.

106
universale alla propria scienza de motu, da non curarsi delle piccole o grandi discre-
panze con i dati astronomici, d’altronde sempre passibili di essere perfezionati42.
Questa ipotesi consentirebbe anche di avanzarne un’altra riguardo ai motivi per cui
Galileo non accettò mai la teoria kepleriana dell’orbita ellittica dei pianeti. Finora sono
state date due differenti spiegazioni per questo eclatante rifiuto:

1) la prima spiegazione venne elaborata da Panofsky per rispondere a Einstein, il


quale per l’appunto non riusciva a comprendere perché Galileo si rifiutasse di
prendere in seria considerazione le leggi di Keplero, dunque nemmeno l’idea
che le orbite dei pianeti fossero ellittiche. L’opinione di Panofsky è che le ra-
gioni di questo rifiuto non vadano ricercate sul terreno scientifico, ma ancorate
al gusto estetico di Galileo, il quale avrebbe considerato l’orbita ellittica una
chimera, una abominevole deviazione dalla perfezione della forma circolare.
Panofsky parla addirittura di una «ossessione» galileiana per la circolarità. Per
quanto è dato saperne, la spiegazione panofskiana non convinse Einstein43;
2) la seconda spiegazione, ben più plausibile, si basa invece generalmente sull’idea
che Galileo non sarebbe mai stato disposto ad abbandonare la nozione di «or-
dine» elaborata da Copernico e indissolubilmente legata al moto circolare dei
pianeti. Clavelin ha per esempio sostenuto che nella polemica avuta con Orazio
Grassi in merito alle comete, Galileo nel Saggiatore avrebbe mostrato tutto il
«carattere dogmatico» della propria posizione copernicana, non considerando
la possibilità, seppur avanzata, che le comete potessero avere un’orbita ellittica,
scartando perciò per principio dal novero delle traiettorie che possono effetti-

42
Ciò viene ricordato anche da Meyer: «In order to find a reasonable explanation for Galileo’s
willingness to overlook this disagreement rather than concede the failure, one must first recall that the
planetary data available to Galileo were themselves open to question», aggiungendo infine che «his
physics [di Galileo] also gave him deeper reasons for attributing the deficiency to the data. This co-
smogony was the only possible one, for if the planetary motion had a natural origin – and Galilean
physics would have little relevance for astronomy if they did not – it must have been in falling toward
the Sun» (ibid., corsivo mio).
43
Cfr. E. Panofsky, Galileo come critico delle arti, già citato; H. Bredekamp, Galileo as Draftman,
cit., pp. 184-187; e le puntuali riserve mosse da Bucciantini verso questo tipo di spiegazione ‘pa-
nofskiana’ in M. Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., pp. VIII-XIII.

107
vamente essere in natura tutte quelle che non si confanno all’ordine coperni-
cano44. Galileo dunque rifiutò la tesi kepleriana delle orbite ellittiche per rima-
nere fedele al proprio praeceptor Copernico.

Oltre a queste, un’altra spiegazione, o sarebbe meglio dire congettura, potrebbe


essere avanzata dopo quanto emerso dalle precedenti considerazioni sui calcoli cosmo-
gonici galileiani. L’ammissione delle orbite ellittiche dei pianeti, infatti, non avrebbe
permesso a Galileo di spiegare, attraverso i nuovi strumenti concettuali offerti dalla
propria teoria del moto, l’origine del mondo, né tantomeno il suo ordine. Per fare ciò
Galileo avrebbe dovuto necessariamente essere in possesso di una scienza de motu
capace di rendere ragione delle tre leggi di Keplero. Questa scienza, come si sa, verrà
inaugurata solamente dall’opera di Isaac Newton, il quale si basò su concetti di «gra-
vità» e «inerzia» molto distanti da quelli galileiani. In altri termini, se Galileo avesse
dato il proprio beneplacito all’orbita ellittica dei pianeti si sarebbe con ciò privato della
possibilità di comprendere le rivoluzioni planetarie per mezzo di una filosofia naturale
basata su sensate esperienze e necessarie dimostrazioni. Se le orbite sono ellittiche, e
pertanto non è per un principio di ‘inerzia circolare’ che i pianeti compiono le loro
periodiche rivoluzioni senza fine, che cos’è allora che muove i pianeti? Il rischio che
per rispondere a questa domanda sarebbe stato necessario ammettere implicitamente
l’esistenza di forze occulte, o comunque non facilmente inquadrabili all’interno della
filosofia naturale galileiana, era alto, e avrebbe certamente messo in pericolo la credi-
bilità del sistema copernicano. Forse fu proprio per questo motivo che Galileo si ac-
costò alla teoria kepleriana delle orbite ellittiche con la stessa riluttanza, stupore e me-
raviglia con cui ascoltò la spiegazione delle maree offerta da Keplero:

Ma tra tutti gli uomini grandi che sopra tal mirabile effetto di natura [scil. le maree]
hanno filosofato, più mi meraviglio del Keplero che di altri, il quale, d’ingegno li-
bero e acuto, e che aveva in mano i moti attribuiti alla Terra, abbia poi dato orecchio

44
Cfr. M. Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée, cit., p. 221. Una spiegazione diversa per il
rifiuto galileiano delle orbite ellittiche, ma che ha avuto ben poco seguito, è stata offerta da Clavelin
stesso in un articolo intitolato Le «Dialogue» ou la conversion rationelle. À propos de la première
journée, in Novità celesti e crisi del sapere. Atti del convegno internazionale di studi galileiani, a cura
di P. Galluzzi, supplemento agli Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze 1983 (fasc.
II), pp. 17-29.

108
ed assenso a predominii della Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simil
fanciullezze.45

In una lettera inviata a Elia Diodati il 9 aprile 1632, Galileo insinuava addirittura
che alcuni «pensieri» di Keplero non facessero che sminuire la «dottrina» copernicana:

Dubito che i pensieri del Lansbergio e alcuni del Keplero siano più tosto a diminu-
tione della dottrina del Copernico che a stabilimento, parendomi che questi (come
si suol dire) ne habbiano voluto troppo […]. E veramente se io havessi veduto questi
libri a tempo, non harei mancato di avvertire il lettore che, anco in dottrine salde e
profonde, possono ad alcuni o per troppa confidenza o per poca intelligenza, essere
inserite cose leggiere e stravaganti, cosa che non fece mai Copernico.46

Tra queste «cose leggiere e stravaganti» può darsi che Galileo includesse anche le
orbite ellittiche. Probabilmente, pur di non minare l’intelligibilità fisica del copernica-
nesimo, e pur di affermare la rilevanza della propria fisica a livello astronomico, Ga-
lileo non abbracciò mai l’ipotesi delle orbite ellittiche, negando di rimando anche la
validità dei dati su cui Keplero fondò le proprie leggi, perfino quando fu un suo stesso
collaboratore, Vincenzo Renieri, il quale si occupava di stilare le teoriche dei pianeti
medicei, a confessargli che certe anomalie nel moto dei satelliti di Giove si sarebbero
potute spiegare solamente abbandonando l’uniformità delle velocità dei moti celesti,
adottando cioè un principio molto simile a quello kepleriano, secondo cui la velocità
dei pianeti è maggiore al «perigeo solare», e ipotizzando che la «virtù motrice dei
pianeti» risiede nel Sole47. Pur di non dare credito a questa ipotesi, in netto contrasto
con la possibilità di comprendere il moto dei pianeti attraverso il principio proto-iner-
ziale e la legge di caduta dei gravi, Galileo avrebbe piuttosto sostenuto – come di fatto
fece – la dimostrabilità della propria cosmogonia, cioè la spiegazione e giustificazione
del sistema copernicano nei termini della propria fisica, anche a dispetto di un effettivo
riscontro con i dati astronomici.
In fondo non si trattò solamente di rimanere fedele alla dottrina di Copernico, ma
anche di avere fiducia nella validità universale della propria teoria del movimento48.

45
Dialogo, OG, VII, p. 486.
46
OG, XIV, pp. 340-341.
47
Letterea di Renieri a Galilei, 7 giugno 1639, OG, XVIII, p. 60. Cfr. anche M. Bucciantini, Galileo
e Keplero, cit., pp. 310-311.
48
Una tesi del genere venne sostenuta anche da Dollo: cfr. C. Dollo, L’uso di Platone in Galileo,
cit., p. 50.

109
Fu questa fiducia, credo, che portò Galileo a sottostimare in alcuni casi i dati astrono-
mici privandoli di un vero e proprio valore epistemologico. Ed è ancora a partire dalla
fiducia nelle capacità della propria scienza che Galileo si mostrò genuinamente con-
vinto della possibilità, per ciascun lettore attento dei Discorsi, di poter dimostrare la
veridicità della propria cosmogonia qualora ve ne fosse stato il desiderio: «Ma se al-
cuno avrà simil desiderio, potrà per sè stesso, con la dottrina del presente trattato, so-
disfare al suo gusto»49.

III.1.4 Brevi considerazioni sulla ricorrenza del tema cosmogonico in Galileo

Come si è visto, in alcune carte del Ms. 72 sono stati rintracciati i calcoli ricondu-
cibili a quelli con cui Galileo sostiene, sia nel Dialogo che nei Discorsi, di aver con-
fermato l’esattezza di una cosmogonia in cui la legge di caduta dei gravi e il concetto
di inerzia circolare sono fondamentali. Tra i tentativi compiuti da Galileo per trovare
il punto di origine da cui caddero i pianeti, Meyer e Büttner ne hanno individuato uno
basato su un principio errato cui lo scienziato pisano originariamente vincolò la cor-
retta legge di caduta. La scoperta di questo tentativo ha portato gli studiosi a ipotizzare
che Galileo cercasse molto presto – intorno al 1604 – di applicare la propria legge di
caduta a un problema cosmogonico, rendendosi conto nel frattempo, secondo Büttner,
della fallacia del principio posto alla base di quella stessa legge. Alla luce di ciò, la
cosmogonia del Dialogo e dei Discorsi si rivela importante per comprendere gli svi-
luppi della teoria galileiana del moto dei gravi, ma anche per sottolineare gli sforzi con
cui Galileo cercò molto presto di integrare la cosmologia copernicana con i propri
risultati scientifici attinenti al movimento. A questo proposito, vorrei ora ricordare che
in realtà un’operazione del genere era già stata condotta da Galileo nei De motu anti-
quiora: nella terza versione del trattato viene infatti introdotto un racconto cosmogo-
nico attraverso cui l’origine e l’ordine geocentrico degli elementi vengono legati a una
fisica ‘corpularistica’, secondo cui, cioè, ogni corpo è costituito di più o meno parti
della stessa materia, e a una teoria del moto facente leva sul concetto di «densità».
L’attenzione galileiana nei confronti del tema cosmogonico è perciò ricorrente:
essa entra in scena nei De motu antiquiora, ricompare poi appena viene scoperta la

49
Discorsi, OG, VIII, p. 284.

110
legge di caduta, ed è infine riproposta nei due più celebri capolavori di Galileo. In tutte
queste occasioni, Galileo si serve della cosmogonia per dare una dimensione e un re-
spiro universale alle proprie teorie de motu. Le riflessioni cosmogoniche, dunque, non
sono solo un espediente retorico; esse accompagnano tutte le fasi del pensiero filoso-
fico e scientifico galileiano. Prenderle accuratamente in considerazione dà l’occasione
di guardare da un altro angolo di osservazione il lavoro intellettuale dello scienziato
pisano. Si è visto, per esempio, che un problema storiografico come quello riguardante
la mancata ricezione galileiana delle orbite ellittiche di Keplero, un problema cioè ap-
parentemente svincolato dalle riflessioni cosmogoniche di Galileo, potrebbe tuttavia
ricevere nuove attenzioni proprio prendendo in considerazione l’interesse galileiano
nei confronti del tema cosmogonico.

Dopo quanto detto sin qui, si aprono almeno due questioni:

a) Come spiegare l’apparente contraddizione con cui Galileo, nelle Lettere coper-
nicane, e in particolare nell’interpretazione del miracolo di Giosuè esposta nella
Lettera a Castelli e in quella a Cristina, ricorre all’ipotesi di una virtù motrice
del Sole, cioè a una supposizione in netto contrasto con la propria idea cosmo-
gonica?
b) È pertinente il richiamo galileiano alla cosmogonia di Platone?

Nei prossimi due capitoli prenderò in considerazione proprio tali questioni.

III. 2 La virtù motrice del Sole nell’esegesi galileiana di Giosuè 10, 12-13 (e nel
Dialogo?)

Non è mia intenzione ricapitolare qui gli avvenimenti e le ragioni per cui Galileo si
vide costretto, tra il 1613 e il 1615, a redigere tre missive semipubbliche, passate poi
alla storia come Lettere copernicane, e altri tre brevi scritti, oggi solitamente ricordati
sotto il titolo di Considerazioni circa l’opinione copernicana, per difendere il coper-

111
nicanesimo e ribadire con ciò la libertas philosophandi in naturalibus50. Basti ricor-
dare che dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius nel 1610, cioè di quel ‘bollettino
scientifico’ ante litteram dove venivano descritte nel dettaglio, con tanto di disegni
illustrativi, le primissime perlustrazioni telescopiche dello spazio siderale, Galileo, or-
mai conclusa la propria permanenza a Padova e rientrato nel Granducato di Toscana,
diventò il bersaglio polemico principale di chi, Bibbia alla mano, asseriva l’assurdità
di un systema mundi, quello copernicano, che poteva benissimo essere utilizzato ex
hypotesi per meglio salvare le apparenze, ma che sicuramente – come ancora si cre-
deva – nessuna attinenza avrebbe mai potuto avere con la realtà51.
Uno dei passi scritturali prediletti dagli avversari del copernicanesimo, sia che si
trattasse di uomini di Chiesa (in particolar modo domenicani) che di laici pensatori
aristotelici, era Giosuè 10, 12-13, dove si narra che Dio fermò il Sole e la Luna per
permettere agli israeliti di sconfiggere i propri avversari52. Interpretato in senso lette-
rale, questo passo dava credito all’idea che fosse il Sole a muoversi intorno alla Terra,
e non il contrario, come invece sosteneva Galileo sulla scorta di Copernico.

50
Favaro diede il titolo Considerazioni circa l’opinione copernicana ai tre scritti menzionati, che
raccolse insieme alle Lettere copernicane (cioè la lettera di Galileo a Castelli del 13 dicembre 1613,
quella a Dini del 23 marzo 1615 e quella a Cristina dello stesso anno) in una sezione dell’Edizione
Nazionale delle opere galileiane intitolata Scritture in difesa del sistema copernicano (cfr. OG, V, pp.
261-370). Per informazioni sugli eventi che portarono alla stesura di questi scritti, cfr., ad es., A. Da-
manti, Libertas philosophandi, cit., pp. 3-131; M. Camerota, Galileo Galilei, cit., pp. 260-332; L. Guer-
rini, Galileo e la polemica anticopernicana a Firenze, Polistampa, Firenze 2009.
51
Questa, ad esempio, è la tesi espressamente sostenuta da Bellarmino in una lettera inviata a Fo-
scarini, ma il cui destinatario fu anche e soprattutto Galileo. Il cardinale, fatto dottore della Chiesa nel
1930 e tuttoggi venerato come un santo, scrisse: «Dico che mi pare che V.P. [Foscarini] et il Sig.r Galileo
facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre
creduto che habbia parlato il Copernico» (Lettera di Bellarmino a Paolo Antonio Foscarini, 12 aprile
1615, OG, XII, p. 171). Bellarmino poteva dire questo perché Osiander decise di apporre alla prima
edizione del De revolutionibus un’introduzione anonima, che perciò alcuni credettero fosse stata scritta
da Copernico, in cui veniva sostenuta proprio la stessa tesi (per un resoconto dettagliato sul proemio del
De revolutionibus, cfr. A. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico, cit., pp.
3-43).
52
Giosuè 10, 12-13: «In quel tempo, quando cioè il Signore dette gli Amorrei in balia dei figli
d’Israele, Giosuè parlò al Signore, esprimendosi così alla presenza d’Israele: “O sole, fermati su Ga-
baon, e tu, o luna, nella valle di Aialon”. E il sole si fermò, e la luna ristette, finché il popolo si fu
vendicato dei suoi nemici. Non sta forse scritto nel Libro del Giusto: “Il sole rimase fermo in mezzo al
cielo e non si affrettò a tramontare quasi tutto un giorno?» (La Bibbia, con introduzioni e note di A.
Girlanda, P. Gironi, F. Pasquero, G. Ravasi, P. Rossano, S. Virgulin, edizioni paoline, Torino 1991, pp.
284-285).

112
Lo scienziato pisano, tuttavia, non si preoccupò di arrischiarsi in acrobazie esege-
tiche del passo in questione fintanto che un suo celebre allievo, Benedetto Castelli,
non gli fece sapere che anche la «Madama Serenissima», cioè Cristina di Lorena, ma-
dre del Granduca Cosimo II, aveva fatto appello alle Sacre Scritture per argomentare
contro il copernicanesimo53. In realtà, leggendo attentamente la missiva con cui Ca-
stelli informava il proprio maestro di tale fatto, si intuisce che non solo la stessa Cri-
stina di Lorena, ma perfino tutti gli astanti che poco prima avevano desinato insieme
a Castelli alla tavola del Granduca (compreso quest’ultimo), non erano poi così mal-
disposti verso la conciliazione del copernicanesimo col testo sacro. Tutti, eccetto Co-
simo Boscaglia:

Giovedì mattina fui alla tavola de’ Padroni, et interrogato dal Gran Duca della scola,
li diedi conto minuto d’ogni cosa, e mostrò restare molto soddisfatto. […] Final-
mente, dopo molte e molte cose, tutte passate solennemente, si finì la tavola et io
mi partii; et a pena uscito di Palazzo, mi sopragionse il portier di Madama Ser.ma,
quale mi richiamò in dietro. Ma avanti che io dica quel che seguì, V.S. deve prima
sapere che alla tavola il Boscaglia susurrò un pezzo all’orecchie di Madama, e con-
cedendo per vere tutte le novità celesti ritrovate da V.S., disse che sol il moto della
terra haveva dell’incredibile e non poteva essere, massime che la Sacra Scrittura era
manifestamente contraria a questa sentenza.54

Castelli, dunque, prima di proseguire il proprio resoconto, sostiene che fu Bosca-


glia, in un certo senso, a mettere il ‘tarlo anticopernicano’ nella mente di Cristina di
Lorena. Coerentemente, infatti, dal prosieguo della lettera si evince che la Grandu-
chessa prese a contraddire Castelli in una maniera tale che pareva tradire l’intenzione
di ascoltare con curiosità le repliche del benedettino, piuttosto che quella di opporsi
con durezza all’opinione da quest’ultimo difesa:

Hora tornando al proposito, entro in camera di S.A., dove si ritrovava il G.D., Ma-
dama e l’Arciduchessa, il Sig.r D. Antonio e D. Paolo Giordano, et il D. Boscaglia;
e quivi Madama cominciò, dopo alcune interrogazioni dell’esser mio, a argomen-
tarmi contro con la Sacra Scrittura: e così con questa occasione io, dopo haver fatte
le debite proteste, cominciai a far da teologo con tanta riputazione e maestà, che
V.S. haverebbe hauto gusto singolare di sentire. Il S.r D. Antonio m’aiutava, e mi

53
Per meglio comprendere il contesto e gli eventi cui si riferisce Castelli nella propria lettera, cfr.
A. Damanti, Libertas philosophandi, cit., pp. 49-51.
54
Lettera di Castelli a Galilei, 14 dicembre 1613, OG, XI, pp. 605-606

113
diede animo tale, che con tutto che la maestà dell’AA. loro fosse bastante a sbigot-
tirmi, mi diportai da paladino; et il Gran Duca e l’Archiduchessa erano dalla mia, et
il Sig.r D. Paolo Giordano entrò in mia diffesa con un passo della Sacra Scrittura
molto a proposito. Restava solo Madama Ser.ma, che mi contradiceva, ma con tal
maniera che io giudicai che lo facesse per sentirmi. Il Sig.r Boscaglia si restava
senza dir altro.55

Questa chiusa è emblematica: agli occhi di Castelli, l’unico sconfitto era Boscaglia.
Non solo il Granduca e l’Arciduchessa erano dalla parte di Castelli, ma anche la Gran-
duchessa sembrava infine interessata e quindi ben disposta ad accogliere le risposte e
le soluzioni esegetiche proposte da Castelli. Quest’ultimo, sul finire della sopracitata
lettera, comunicava al proprio maestro che Niccolò Arrighetti gli avrebbe presto rife-
rito di persona tutti i particolari di quella discussione56, uno dei quali Galileo rende
noto nella lettera di risposta a Castelli del 21 dicembre 1613, cioè la prima delle Lettere
copernicane:

I particolari che ella [scil. Castelli] disse, riferitimi dal signor Arrighetti, mi hanno
dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrit-
tura Sacra in dispute di conclusioni naturali ed alcun’altre in particolare sopra ‘l
luogo di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità
del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima Arci-
duchessa.57

Stando al racconto di Castelli, secondo il quale anche Maria Maddalena d’Austria,


ossia l’Arciduchessa, arrivò a parteggiare per il benedettino durante la discussione ini-
ziata dalla Granduchessa madre (sotto suggerimento di Boscaglia) e vertente intorno a
copernicanesimo e Sacre Scritture, se ne dovrebbe dedurre che il «luogo di Giosuè»
fosse uno dei primi a essere trattati in quell’occasione appena dopo la «prima domanda
generica»58. Viene infatti riferito da Galileo, dopo essere stato informato da Arrighetti,
che l’Arciduchessa avanzò «qualche replica» a Benedetto Castelli riguardo a Giosuè
10, 12-13, ed è perciò lecito ipotizzare che il benedettino, quando si trattò di discutere

55
Ivi, p. 606, corsivo mio.
56
Cfr. ibid: «Tutti i particolari che occorsero in questo congresso nel tempo di due buone hore,
saranno raccontati a V.S. dal Sig.r Niccolò Arrighetti».
57
Lettera di Galilei a Castelli, 21 dicembre 1613 (d’ora in poi semplicemente Lettera a Castelli),
OG, V, p. 282.
58
«Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima…» (ibid., corsivo mio).

114
quel passo, non avesse ancora dalla sua parte la moglie di Cosimo II, e che, comin-
ciando a «far da teologo con tanta riputazione e maestà», infine riuscisse a convincere
sia lei che il marito («et il Gran Duca e l’Archiduchessa erano dalla mia», scrisse Ca-
stelli)59.
Non è a mio parere nemmeno da escludere che sia stata proprio l’accoglienza favo-
revole riservata dalle «Altezze» alle opinioni di Castelli, a convincere Galileo che la
congiuntura politica toscana fosse a quel tempo la migliore per poter finalmente «tor-
nar a considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrittura Sacra in dispute di
conclusioni naturali». Questo passo della Lettera a Castelli sarebbe, inoltre, secondo
Massimo Bucciantini, il «segno che il problema [“circa ‘l portar la Scrittura Sacra in
dispute di conclusioni naturali”] doveva già essere stato al centro della sua [di Gali-
leo] riflessione»60. Si potrebbe però ipotizzare che non solo il problema generale sia
stato discusso in precedenza da Galileo, ma anche quello particolare relativo alla pos-
sibilità di interpretare in senso copernicano Giosuè 10, 12-13. Galileo infatti aggiun-
geva di voler tornare a considerare, non solo alcune cose riguardo al rapporto tra
scienza e testi sacri, ma anche «alcun’altre in particolare sopra ‘l luogo di Giosuè»61.
La possibilità che Galileo si interessasse di alcuni luoghi biblici appena ricevute le
prime critiche contro il Sidereus nuncius sembrerebbe testimoniata, credo, da almeno
due postille con cui lo scienziato pisano glossò il seguente passo dell’opera del 1611
di Ludovico delle Colombe, intitolata Contro il moto della Terra (le postille di Galileo
sono qui rese tra virgolette all’interno di parentesi quadre):

Venne il Copernico, e pensò di saper più degli altri architetti, e tombolò giù. Ora
che ci è chi la vuol rabberciare, ecco loro squadernato l’epitaffio, che dice, che non
ci si mettan più, perché rovinerà, sendo contro i buon fondamenti della Scrittura:
perché, Fundasti Terram super stabilitatem suam, dice il Salmo 103; Deus fundat
orbem immobilem, intendendosi la Terra, dice l’Abulense, Paralipom. 16 [«Com-
moveatur a facie eius omnis terra: ipse enim fundavit orbem immobilem»]. Ma che

59
Cfr. Lettera di Castelli a Galilei, 14 dicembre 1613, OG, XI, p. 606.
60
Cfr. G. Galilei, Scienza e religione. Scritti copernicani, a cura di M. Bucciantini e M. Camerota,
Donzelli, Roma 2009, p. 6, nota 6.
61
Cfr. supra, il passo delle Lettera a Castelli citato.

115
la Terra sia nel centro, dicalo Iobbe, 26: Qui appendit Terram super nihilum, idest
super centrum [«vedi Iob, che vi sono alcuni belli particolari»].62

Poco dopo, delle Colombe ricordava anche il celebre passo di Giosuè per ribadire
la mobilità del Sole, ma tralasciando l’arrestarsi della Luna63. Se la prima postilla sug-
gerisce che già allora, intorno al 1611, Galileo fosse propenso a interpretare almeno
un passo biblico in senso copernicano, contrariamente a quanto scrisse «l’Albulense»,
cioè il vescovo d’Avila Alfonso Tostado, la seconda indica che il grande pisano aveva
intenzione di consultare personalmente (o forse già lo fece) perlomeno il libro di
Giobbe, intravedendovi alcuni, non ben precisati, «belli particolari»64. Si può verosi-
milmente supporre che solo dopo aver letto il libro di delle Colombe Galileo comin-
ciasse a prendere seriamente in considerazione il rapporto tra copernicanesimo e testi
sacri, dando una lettura personale di alcuni particolari passi biblici, fra i quali, forse,
vi era anche Giosuè 10, 12-1365.
Si tratta ovviamente solo di un’ipotesi, che peraltro sembrerebbe smentita da quanto
Anna De Pace ha sostenuto in un recente articolo66. La studiosa ha messo a fuoco
alcune differenze che intercorrono tra la Lettera a Castelli e quella a Cristina, la cui
prima stesura risalirebbe, come ha ribadito De Pace stessa, all’inverno 1614-161567.

62
Di Ludovico delle Colombe Contro il moto della Terra, con postille di Galileo, OG, III, pp. 251-
290, qui p. 289, postille n. 43, 44.
63
Iiv, p. 290: «Ma che esso Sole non sia immobile, ecco l’Ecclesiastico, c. 1: Oritur Sol, et occidit
et ad locum suum revertitur, ibique renascens girat per meridiem, et flectitur ad aquilonem. Che più?
Non si fermò perché Iosuè ottenesse la vittoria?».
64
Invito a tenere presente che il salmaticense Diego de Zuniga pubblicò a Toledo nel 1584 un Com-
mentarium in Job, in cui sosteneva che, stando al passo Giobbe 9, 6, il copernicanesimo non contraddi-
ceva la Bibbia. Nel 1612 il cardinale Carlo Conti diede a Galileo proprio questa informazione (cfr.
Lettera di Conti a Galileo, 7 luglio 1612, OG, XI, p. 355: «Nondimeno Diego Stunica, sopra il nono
capo di Giob, al versetto 6o, dice esser più conforme alla Scrittura muoversi la terra, ancora che comu-
nemente la sua interpretatione non sia seguita». Vedi anche M. Camerota, Galileo Galilei, cit., pp. 261-
262, e nota 4 riportata a p. 615).
65
Secondo Damanti, che però non si riferisce all’interesse galileiano nei riguardi di precisi passi
biblici, «ciò che si può affermare con un buon grado di probabilità è che Galileo dovette sviluppare
alcuni pensieri sul rapporto Bibbia-copernicanesimo durante la stesura delle Macchie solari (o forse già
prima, se l’interpretazione del brano di Cigoli è corretta)» (A. Damanti, Libertas philosophandi, cit. p.
51).
66
Cfr. A. De Pace, Rapporto tra scienza e Libro Sacro: due versioni di Galileo, in “Rivista di storia
della filosofia”, n. 3 (2016), pp. 387-422.
67
Cfr. ivi, p. 388, nota 5. L’ipotesi che la stesura della Lettera a Cristina fosse già iniziata almeno
nel febbraio 1615 è implicitamente sostenuta anche da Ottavio Besomi (cfr. G. Galilei, Lettera a Cri-
stina di Lorena, edizione critica a cura di O. Besomi, collaborazione di D. Besomi, versione latina di
Elia Diodati a cura di G. Reggi, Antenore, Roma-Padova 2012, p. 13 e segg.: «La prima menzione della

116
Generalmente, si considera la Lettera a Cristina una riproposizione ampliata della Let-
tera a Castelli, ma De Pace ha mostrato che vi sarebbero delle differenze significative
proprio in merito all’interpretazione galileiana di Giosuè 10, 12-13. Per esempio, seb-
bene in entrambe le lettere l’interpretazione galileiana si fondi, come si vedrà meglio
a breve, su una supposizione che Galileo ritiene non lontana dal «ben filosofare», e
cioè che il Sole, «come ministro massimo della natura e in certo modo anima e cuore
del mondo, infonde a gli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto
ancora, col rigirarsi in se medesimo»68, sarà solamente nella Lettera a Cristina che lo
scienziato pisano, seguendo le lezioni di Agostino, dello pseudo-Dionigi Areopagita e
di Tostado, riuscirà a rendere conto anche del miracoloso arrestarsi della Luna69. In-
fatti, ancora nella lettera a Castelli, nota De Pace, Galileo

mostrava di non avere presente o di non considerare il passo di Giosuè nella sua
interezza. Mentre qui si legge: «fermati, Sole, su Gabaon, e tu Luna sulla valle di
Ayalon», nel riassunto di Galileo esso si limitava ad affermare l’arresto del moto
del Sole: «Posto […] che le parole del testo sacro s’abbino a prender nel senso ap-
punto ch’elle suonano, ciò è che Iddio a’ preghi di Giosuè facesse fermare il Sole e
prolungasse il giorno, ecc.». Ancora poco più avanti confermava: «non è credibile
ch’Iddio fermasse il Sole solamente» perché così avrebbe «grandemente perturbato
tutto ‘l corso della natura». È verosimilmente in base a tale svista o omissione che
chiedeva di attenersi al senso letterale per mostrare come questo accreditasse piut-
tosto la verità del copernicanesimo.70

De Pace segnala in nota che la stessa dimenticanza o omissione ricorre anche nel
già ricordato Contro il moto della Terra di Ludovico delle Colombe, opera che Gali-
leo, come si è fatto presente poco fa, lesse e glossò71. Vi sono dunque ben solide ra-
gioni per affermare che Galileo non si preoccupò, al contrario di quanto da me in pre-
cedenza ipotizzato, di meditare sul passo integrale di Giosuè finché non si cimentò

Lettera a Cristina è del febbraio 1615»). De Pace comunque integra e approfondisce le analisi di Besomi,
mostrando, p. es., che anche Cesi allude alla Lettera a Cristina in una missiva del 7 marzo 1615 inviata
a Galileo.
68
Lettera a Cristina, OG, V, p. 345. Lo stesso, con poche variazioni, si legge nella Lettera a Castelli,
ivi, p. 288.
69
Cfr. Lettera a Cristina, ivi, p. 344.
70
A. De Pace, Rapporto tra scienza e Libro Sacro: due versioni di Galileo, cit., pp. 414-415.
71
Cfr. ivi, p. 141, nota 117.

117
nella stesura della Lettera a Cristina, benché, già postillando il libro di delle Colombe,
egli avesse comunque avuto modo di riflettere su alcuni passi biblici particolari.
Va comunque rilevato che anche in almeno un passo della Lettera a Cristina, Gali-
leo si dimentica, intenzionalmente o meno, di citare la Luna discutendo di Giosuè 10,
12-13. È possibile notare questa dimenticanza solamente se si coglie la citazione pra-
ticamente letterale, non esplicitata da Galileo, di un passo del commentario In sacram
Iosue historiam del gesuita portoghese Cosme de Magalhães72 (riprendo qua la nume-
razione delle collazioni da dove era stata interrotta nella prima sezione della tesi; i
corsivi sono miei):

Coll.6
DE MAGALHÃES GALILEO
In sacram Iosue historiam, p. 338 Lettera a Cristina, OG, V, p. 337
Sunt inter Hebraeos, quibus videtur favere Iose- Ma più, tra gli autori Ebrei, a i quali applaude Io-
phus qui existimant Solem et Lunam revera non seffo, alcuni hanno stimato che veramente il Sole
stetisse, sed visos fuisse stetisse ob brevitatem non si fermasse, ma che così apparve mediante la
temporis, quo Israelitae hostes suos debellarunt. brevità del tempo nel quale gl’Isdraeliti dettero
la sconfitta a’ nemici.

Che io sappia, Massimo Bucciantini è stato il primo e il solo finora a notare questa
vicinanza del passo galileiano a quello del gesuita portoghese. Eppure egli ha consi-
derato solamente «molto probabile che Galileo abbia tratto questa informazione […]
dal commentario al libro di Giosuè di Cosme de Magalhães», e perciò non ha ritenuto
opportuno trascrivere l’originale latino, dandone comunque una parafrasi molto fe-
dele73. Io credo, però, che si sia in presenza in questo caso di una vera e propria tradu-
zione in volgare che ricalca non solo i singoli termini della frase di de Magalhães, fatta

72
Cosmae Magaliani Bracharensis e societate Iesu, In sacram Iosue historiam commentariorum
Tomi Duo…, Sumptibus Horatii Cardon, Tournon 1612. D’ora in avanti farò riferimento al tomo primo
di questa edizione utlizzando semplicemente In sacram Iosue historiam.
73
G. Galileo, Scienza e religione, cit., p. 70, nota 90, corsivo mio. In altre occasioni Bucciantini
trascrive e traduce intere parti del commentario di de Magalhães (vedi, ad es., ivi, p. 78, nota 109).
Nell’edizione della Lettera a Cristina curata invece da Damanti, a questo passo non corrisponde alcun
commento o annotazione.

118
eccezione di «Lunam», ma che conserva pressoché intatta anche la costruzione del
periodo latino74.
Prima di valutare le possibili ragioni per cui non si accenna alla Luna nella tradu-
zione volgare, vorrei soffermarmi brevemente sulle implicazioni di questa mia colla-
zione, con la quale assumo come evidente e perspicua la provenienza della frase di
Galileo dal testo di de Magalhães. Nonostante Goldstein – come è stato spesso ricor-
dato dai molti studiosi dedicatisi alle Lettere copernicane75 – abbia sostenuto che la
fonte principale della lettera a Cristina fosse il commentario In sacram Iosue histo-
riam, la sua tesi fondamentale era però un’altra: Galileo fece confusione con le infor-
mazioni che aveva tratto dall’opera di de Magalhães, probabilmente perché si affidò
alla memoria di ciò che in quel testo poté leggere sulla tradizione esegetica76. Una
delle argomentazioni avanzate da Goldstein a sostegno di questa tesi si basava proprio
sul passo segnalato sopra in collazione:

Flavio Giuseppe [scil. «Ioseffo» nel testo galileiano] non sostiene quanto a lui
ascritto [da Galileo], dato che, per quanto concerne il miracolo di Giosuè, egli rias-
sume semplicemente la storia, concludendo: «Che la lunghezza del giorno aumentò
in quell’occasione, e sorpassò la consueta misura, è attestato dalle Scritture custo-
dite nel tempio». Potremmo leggermente emendare il testo di Galileo, sostituendo
il vescovo d’Avila (menzionato alla fine della frase precedente)77 a «Ioseffo». In
questo caso il testo reciterebbe: “Ma più, tra gli autori Ebrei, a i quali applaude il
vescovo d’Avila, alcuni hanno stimato che veramente il Sole non si fermasse, ma

74
Nemmeno Diodati riuscirà a dare a questo passo della Lettera a Cristina una traduzione latina
tanto letterale quanto lo sarebbe stata, al suo posto, la frase di de Magalhães: «Sed multo magis – traduce
Diodati – inter auctores Hebraeos nonnulli (quibus adstipulatur Iosephus) existimarunt, Solem re vera
non substitisse immotum, sed pro brevi tempore, intra quod Israelite hostes suos fuderunt, id ita visum
esse» (tratto da G. Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, edizione critica a cura di O. Besomi, cit., p.
96).
75
È, ad es., lo stesso Bucciantini a ricordarlo nella nota già citata (cfr. G. Galileo, Scienza e religione,
cit., p. 70, nota 90).
76
Cfr. B.R. Goldstein, Galileo’s Account of Astronomical Miracles in the Bible: A Confusion of
Sources, in “Nuncius”, V (1990), pp. 3-16. In particolare, a p. 15, dopo aver elencato alcuni risultati
della sua ricerca, Goldstein scriveva: «I suggest that Galileo read Maghalaens’s text and then cited it
from memory leading to various divergences from his source, which he only mentions in passing» (cor-
sivo mio).
77
Galileo, infatti, prima del passo riportato qui in Coll.6, aveva scritto che «sopra i medesimi luoghi
si leggono de’ Padri diverse esposizioni: dicendo Dionisio Areopagita, che non il Sole, ma il primo
mobile, si fermò; l’istesso stima S. Agostino, ciò è che si fermassero tutti i corpi celesti; dell’istessa
opinione è l’Albulense» (Lettera a Cristina, OG, V, p. 337).

119
che così apparve mediante la brevità del tempo nel quale gl’Isdraeliti dettero la
sconfitta a’ nemici”. Ma ciò non funziona, perché il vescovo d’Avila si oppose a
questa interpretazione e, in ogni caso, egli non la attribuì agli autori ebrei.78

E poco dopo, Goldstein concludeva:

Infine, possiamo prendere ancora in considerazione il riferimento di Galileo a «Io-


seffo». Come si è notato sopra, Döring cita Flavio Giuseppe per rendere noto che
Abramo insegnò astronomia in Egitto. Ciò riappare nel commentario di de Ma-
galhães, dove serve anche per rifiutare l’interpretazione di Paolo di Burgos, sebbene
Döring non venga menzionato in questa occasione. Io non ho trovato nessun altro
contesto correlato in cui Flavio Giuseppe è citato, e perciò, ancora una volta, sono
incline a concludere che Galileo abbia confuso le sue fonti.79

Quanto da me collazionato in precedenza, di cui purtroppo Goldstein non si avvide,


implica l’abbandono di questa sua conclusione, suggerendone di rimando una opposta:
Galileo non ha «confuso le sue fonti», e presumibilmente non ricorse alla sola memoria
per citare dal commentario di de Magalhães. Quando scrisse la lettera a Cristina, egli
aveva probabilmente a disposizione e sotto mano il testo del gesuita portoghese, o più
probabilmente precisi estratti di tale testo, consegnatigli forse da Pomponio Tarta-
glia80.
A questo punto sorgono spontanee almeno due domande, che ci permetteranno
forse di meglio investigare il motivo per cui Galileo ricorse nelle Lettere copernicane
a una teoria che pare contraddire la sua cosmogonia inerziale:

78
B.R. Goldstein, Galileo’s Account of Astronomical Miracles in the Bible: A Confusion of Sources,
cit., p. 14. («Josephus does not hold the view ascribed to him, for concerning the miracle of Joshua he
merely recounts the story, concluding: “That the length of the day was increased on that occasion, and
surpassed the customary measure, is attested by Scriptures that are laid up in the temple”. We might
emend Galileo’s text slightly, substituting the Bishop of Avila (mentioned at the end of the preceding
sentence) for Josephus, in which case the text would read: according to the Jewish authors endorsed by
the Bishop of Avila, the Sun did not really stand still but merely appeared to do so by reason of the
shortness of the time during which the Isrealites defeated their enemies. But that does not work because
the Bishhop of Avila opposed this view and, in any event, he does not ascribe it to Jewish authors»).
79
Ivi, p. 15. («Finally we can again consider Galileo’s reference to Josephus. As noted above, Döring
cites Josephus as informing us that Abraham, taught astronomy in Egypt. This reappears in ma-
galhaens’s commentary where it also serves to refute the views of Paul of Burgos, though Döring is not
given credit for this argument. I found no related context in which Josephus is mentioned, and so once
again I am inclined to conclude that Galileo has confounded his sources»).
80
Per informazioni su Pomponio Tartaglia e considerazioni sulle sue possibili relazioni con Galileo,
cfr. A. De Pace, Rapporto tra scienza e Libro Sacro: due versioni a confronto, cit., nota 13 alle pp. 390-
391 e nota 113 alle pp. 413-414.

120
1) perché Galileo non cita Cosme de Magalhães, quando invece in altre occasioni,
sempre nella Lettera a Cristina, il gesuita portoghese è espressamente nomi-
nato81?
2) Come mai Galileo, o chi per lui, elude il riferimento alla Luna che compare nel
testo originale di de Magalhães?
Ritengo che vi siano almeno due ipotetici scenari da prendere in considerazione per
rispondere a entrambe le domande. Vorrei cominciare da quello che per ora, allo stato
attuale delle ricerche, a mio parere risulta il meno probabile: Galileo usufruì personal-
mente del commentario di de Magalhães per redigere l’ultima ‘lettera copernicana’.
Se fossero andate così le cose, si potrebbe allora ipotizzare che egli, avendo già in
mente dove andare a parare – e cioè che, se si legge il miracolo di Giosuè alla luce del
copernicanesimo, sarebbe effettivamente bastato fermare il Sole, arrestando così la
trasmissione di una forza motrice ai pianeti, per permettere agli israeliti di vincere gli
amorrei –, intenzionalmente alterasse il passo di de Magalhães occultandone anche la
provenienza. Ciò sarebbe però in contraddizione con l’impegno galileiano di spiegare,
poco più avanti nella Lettera a Cristina, perché Giosuè comandò anche alla Luna di
fermarsi82.
L’altro scenario, più probabile ma pur sempre estremamente ipotetico, è che Galileo
non ebbe occasione di spogliare il commentario di Cosme de Magalhães nella sua in-
terezza, ma ne ricevette solamente alcuni estratti. Forse, allora, chi si occupò di aiutare
Galileo sul fronte esegetico inviandogli parti frammentarie del testo In sacram Iosue
historiam, decise anche di riferire al suo destinatario l’interpretazione di «Ioseffo»,
traendola sì dal commentario di de Magalhães, ma dimenticandosi di attribuirla a
quest’ultimo. Così si spiegherebbe perché Galileo non cita l’altrove menzionato «Ma-
gaglianes», pur riportando una frase tradotta ad verbum dal suo commentario.

81
Cfr., ad es, Lettera a Cristina, OG, V, p. 347.
82
«Anzi, che l’intenzione dell’istesso Iousè fusse che si fermasse tutto il sistema delle celesti sfere,
si comprende dal comandamento fatto ancora alla Luna, ben che essa non avesse che fare nell’allunga-
mento del giorno; e sotto il precetto fatto ad essa Luna s’intendono gli orbi de gli altri pianeti, taciuti in
questo luogo come in tutto il resto delle Sacre Scritture, delle quali non è stata mai intenzione d’inse-
gnarci le scienze astronomiche» (ivi, p. 344). Come ho già ricordato, Anna De Pace ha fatto notare
questa differenza con la Lettera a Castelli, dove la Luna non viene menzionata.

121
Per quanto riguarda l’omissione della Luna, va innanzitutto segnalato che anche de
Magalhães, nella didascalia riportata a fianco del passo trascritto in Coll.6, così rias-
sumeva l’interpretazione che Flavio Giuseppe, d’accordo con «l’opinione degli [au-
tori] ebrei», dava del passo di Giosuè:

Iosephus. Hebraeorum opinio est referri stationem Solis ad brevitatem oris in quo
multa confecta sunt.83

Il riferimento alla Luna non trova alcun posto nel compendio dello stesso de Ma-
galhães. Potrebbe dunque darsi che anche chi trascrisse la frase del portoghese, leg-
gendone a fianco la didascalia appena citata, pensasse bene che bastasse menzionare
solamente il Sole, lasciando da parte la Luna. In fondo, chiunque abbia tradotto il testo
di de Magalhães (fosse stato pure Galileo) era certamente consapevole che per i tole-
maici, o comunque per chi voleva opporsi al copernicanesimo, il passo di Giosuè ser-
viva soprattutto per sottolineare il monito fatto al Sole di fermarsi, mentre era del tutto
trascurabile il riferimento alla Luna. In questo senso se ne servì appunto Ludovico
delle Colombe, ed è molto verosimile che allo stesso modo facessero Cristina di Lo-
rena e l’Arciduchessa nel colloquio avuto con Castelli. Se infatti al professore bene-
dettino fosse stato posto il problema relativo all’arrestarsi del moto lunare nel miracolo
descritto in Giosuè 10, 12-13, certamente Galileo si sarebbe soffermato su tale pro-
blema anche nella Lettera a Castelli, mentre invece ciò accade solo in quella a Cri-
stina84.
Se Galileo ebbe o meno una conoscenza diretta del testo di Giosuè, quella che non
cambia, sia che si tratti della Lettera a Castelli che di quella a Cristina, è la soluzione
che egli propose per dare un senso copernicano a quel testo biblico, una soluzione che
poggiava principalmente sul ruolo del Sole come motore delle conversioni planetarie.
Basandosi su una scoperta risalente alle prime osservazioni telescopiche del Sole
(1610 ca.), e riportata nella Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari

83
In sacram Iosue historiam, p. 338.
84
Va comunque ricordato che l’attenzione nei confronti del comandamento fatto alla Luna in Giosuè
10, 12-13 la pose invece Raffaello delle Colombe. Guerrini ha fatto notare che anche Raffaello delle
Colombe usò il commentario di de Magalhães, ma per sostenere una interpretazione del passo di Giosuè
diversa da quella di Galileo (cfr. L. Guerrini, Galileo e Raffaello delle Colombe, in Il caso Galileo, cit.,
pp. 109-126, in particolare pp. 120-126).

122
(1613)85, Galileo ritenne «molto probabile e ragionevole»86 credere che fosse il Sole,
con la propria rivoluzione, a mettere in moto i pianeti. Di conseguenza, se si fermasse
il Sole, tutte le rivoluzioni planetarie si arresterebbero immediatamente.
Prima di esporre la propria soluzione, Galileo fa però una premessa fondamentale.
Egli scrive nella Lettera a Castelli:

Non è credibile ch’Iddio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrer l’altre sfere;
perché senza necessità nessuna avrebbe alterato e permutato tutto l’ordine, gli
aspetti e le disposizioni dell’altre stelle rispett’al Sole, e grandemente perturbato
tutto ‘l corso della natura: ma è credibile ch’Egli fermasse tutto ‘l sistema delle
celesti sfere, le quali, dopo quel tempo della quiete interposta, ritornassero concor-
demente alle lor opre senza confusione o alterazion alcuna.87

E in modo simile, nella Lettera a Cristina, dopo essere però venuto a conoscenza
di una particolare tradizione esegetica, scrive:

Posto dunque, prima, che nel miracolo di Iosuè si fermasse tutto ‘l sistema delle
conversioni celesti, conforme al parere de’ sopra nominati autori, e questo acciò
che, fermatone una sola, non si confondesser tutte le costituzioni e s’introducesse
senza necessità gran perturbamento in tutto ‘l corso della natura, vengo nel secondo
luogo, ecc.88

A questo punto Galileo può dare la propria soluzione. Prima, nella Lettera a Ca-
stelli:

Avendo io dunque scoperto e necessariamente dimostrato, il globo del sole rivol-


gersi in sé stesso, facendo un’intera conversione in un mese lunare circa, per quel
verso appunto che si fanno tutte l’altre conversioni celesti; ed essendo, di più, molto
probabile e ragionevole che il Sole, come strumento e ministro massimo della na-
tura, quasi cuor del mondo, dia non solamente, com’egli chiaramente dà, luce, ma
il moto ancora a tutti i pianeti che intorno se gli aggirano; se, conforme alla posizion
del Copernico, noi attribuirem alla Terra principalmente la conversion diurna; che
chi non vede che per fermar tutto il sistema, onde, senza punto alterar il restante

85
In quest’opera Galileo aveva sostenuto che il Sole «in se stesso e circa il proprio centro si raggira,
portando seco in cerchi paralleli le dette macchie [scil. le macchie solari], e finendo una intera conver-
sione in un mese lunare circa, con rivolgimento simile a quello de gli orbi de i pianeti, cioè da occidente
verso oriente» (OG, V, p. 117).
86
Lettera a Castelli, ivi, p. 288.
87
Lettera a Castelli, ivi, p. 287.
88
Lettera a Cristina, ivi, p. 345

123
delle scambievoli relazioni de’ pianeti, solo si prolungasse lo spazio e ‘l tempo della
diurna illuminazione, bastò che fusse fermato il Sole, com’appunto suonan le parole
del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza introdur confusione
alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle parole della Scrittura, si può,
col fermar il Sole, allungar il giorno in Terra.89

Così, due anni più tardi, nella Lettera a Cristina, dopo aver detto che in primo luogo
è necessario credere che nel miracolo di Giosuè si fermassero tutti i pianeti, ribadisce
con alcune lievi differenze:

vengo nel secondo a considerare come il corpo solare, ben che stabile nell’istesso
luogo, si rivolge però in se stesso, facendo un’intera conversione in un mese in circa,
sì come concludentemente mi par d’aver dimostrato nelle mie Lettere delle Macchie
Solari: il qual movimento vegghiamo sensatamente esser, nella parte superior del
globo, inclinato verso il mezo giorno, a modo appunto che si fanno i rivolgimenti
di tutti gli orbi de’ pianeti. Terzo, riguardando noi alla nobiltà del Sole, ed essendo
egli fonte di luce, dal qual pur, com’io necessariamente dimostro, non solamente la
Luna e la Terra, ma tutti gli altri pianeti, nell’istesso modo per se stessi tenebrosi,
vengono illuminati, non credo che sarà lontano dal ben filosofare il dir che egli,
come ministro massimo della natura e in certo modo anima e cuore del mondo,
infonde a gli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, col
rigirarsi in se medesimo; sì che, nell’istesso modo che, cessando ‘l moto del cuore
nell’animale cesserebbono tutti gli altri movimenti delle sue membra, così, cessando
la conversion del Sole, si fermerebbono le conversioni di tutti i pianeti.90

E dopo aver addotto a suo favore un passo del «Beato Dionisio Areopagita nel libro
De divinis nominibus»91, Galileo conclude:

89
Lettera a Castelli, ivi, pp. 287-288, corsivo mio.
90
Lettera a Cristina, ivi, p. 345, corsivo mio.
91
Lo stesso passo dello pseudo-Areopagita venne usato da Galileo anche nella Lettera a Dini (cfr.
la collazione in A. Damanti, Libertas philosophandi, cit., p. 181). Secondo Goldstein, Galileo trasse il
passo da un luogo dal commentario di de Magalhães (cfr. B.R. Goldstein, Galileo’s Account of Astro-
nomical Miracles, cit., pp. 5 e 9-15). Goldstein fa notare inoltre che lo pseudo-Dionigi Areopagita venne
citato nei commentari di Niccolò di Lira, Paolo di Burgos, Alfonso Tostado (vescovo d’Avila) e Döring,
per comparire infine anche nel In sacram Iosue historiam. Vedi anche alcune interessanti osservazioni
di Dollo sull’esegesi di Cornelius Cornelissen van den Steen, che, pur non citando lo pseudo-Dionigi,
fa comunque riferimento in lacuni luoghi della sua opera a Cosme de Magalhãens (cfr. C. Dollo, Le
ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), cit., p. 192).

124
Essendo, dunque, il Sole e fonte di luce e principio de’ movimenti, volendo Iddio
che al comandamento di Iosuè restasse per molte ore nel medesimo stato immobil-
mente tutto ‘l sistema mondano, bastò fermare il Sole, alla cui quiete fermatesi tutte
l’altre conversioni, restarono e la Terra e la Luna e ‘l Sole nella medesima costitu-
zione, e tutti gli altri pianeti insieme; né per tutto quel tempo declinò ‘l giorno verso
la notte, ma miracolosamente si prolungò: ed in questa maniera col fermare il Sole,
senza alterar punto o confondere gli altri aspetti e scambievoli costituzioni delle
stelle, si potette allungare il giorno in Terra, conforme esquisitamente al senso lite-
rale del sacro testo.92

Come si può notare, in entrambe le lettere l’argomentazione di Galileo segue un


procedimento simile che è possibile scomporre in tre passi principali:
1) si suppone che a fermarsi furono tutte le «stelle erranti», dunque si postula un
principio d’ordine che Dio non trasgredisce per non alterare il «corso della na-
tura»93;
2) si ribadisce la sensatezza e ragionevolezza dell’idea che prevede un Sole ‘mo-
tore’ dei pianeti;
3) si afferma che accogliendo il sistema copernicano, dopo aver ammesso i punti
1 e 2, è possibile leggere il testo sacro in modo «esquisitamente» conforme al
senso letterale.
Riguardo al terzo punto, non penso ricorrano fra le due lettere variazioni degne di
nota. Certo, si potrebbe discutere se Galileo si comporti da ‘concordista’ nell’una e
non nell’altra lettera, in entrambe o in nessuna, ma non è questo il luogo per approfon-
dire tale argomento94. Per quanto concerne il primo punto, invece, si può notare che

92
Lettera a Cristina, OG, V, p. 346, corsivo mio.
93
Sul concetto di natura «inesorabile», cfr. G. Stabile, Linguaggio della natura e linguaggio della
Scrittura in Galilei. Dalla Istoria sulle macchie solari alle Lettere copernicane, in “Nuncius”, n.1
(1994), pp. 37-64, in particolare p. 56. Anche nella versione lunga de Le mecaniche Galileo sostiene
che sia impossibile superare la «fermissima costituzione» della natura e il «naturale instituto» (cfr. Le
mecaniche, OG, II, pp. 155-159. Su questo punto si vedano anche le analisi di M. Van Dyck, An ar-
cheology of Galileo’s science of motion, cit., pp. 144-154 e 273). Vedi anche le recenti e stimolanti
considerazioni di Camerota, il quale rimarca che il concetto di «natura» in Galileo meriterebbe uno
studio approfondito (cfr. G. Galilei, Antologia di testi, cit., pp. 25-28 e 34-39).
94
Su questo punto, si vedano, per esempio: A. De Pace, Rapporto tra scienza e Libro Sacro: due
versioni a confronto, già citato, che proprio su questo tema intravede una grande differenza tra la Lettera
a Castelli e quella a Cristina; G. Galilei, Scienza e religione, cit., pp. XXXVIII-XLII; G. Stabile, Lin-
guaggio della natura e linguaggio della Scrittura in Galilei, cit., pp. 63-64; M. Pesce, L’ermeneutica
biblica di Galileo e le due strade della teologia cristiana, Storia e letteratura, Roma 2005, p. 101; R.

125
Galileo è in grado, nella Lettera a Cristina, di riallacciarsi a un orientamento esegetico
di cui certamente era all’oscuro quando scrisse la Lettera a Castelli. In merito al punto
2, infine, si noti che nella Lettera a Cristina, rispetto a quella a Castelli, Galileo, per
dare credibilità all’ipotesi di un Sole che dà moto ai pianeti, non si limita a ricordare
di aver «dimostrato» la rotazione del corpo solare; egli ne approfitta anche per aggiun-
gere che ben prima, quando pubblicò il Sidereus nuncius, riuscì pure a «necessaria-
mente» dimostrare che il Sole è l’unica fonte di luce per tutti i pianeti. E ancora, nella
Lettera a Cristina Galileo ricorre inoltre alla testimonianza di una auctoritas («Dioni-
sio Areopagita») per attestare la «mirabile forza ed energia del Sole», nel tentativo di
dare ulteriore credito all’assimilazione del Sole a una «fonte e di luce», nonché a un
«principio de’ movimenti».
Nonostante queste integrazioni, Galileo si guarda bene dall’affermare che il moto
dei pianeti è «necessariamente» dovuto all’azione motrice del Sole. Anzi, forse proprio
perché non può darne dimostrazione necessaria, egli, scrivendo la Lettera a Cristina,
integra la Lettera a Castelli con altre argomentazioni capaci di rendere non «lontano
dal ben filosofare» il dire che il Sole possiede una virtù motrice. Galileo, insomma,
non dà alla virtù motrice del Sole lo stesso statuto epistemologico che invece concede
alla rotazione del corpo solare e alla «tenebrosità» dei pianeti95. Si potrebbe aggiun-
gere che egli non le dà nemmeno lo stesso valore epistemico che attribuisce invece
alla propria cosmogonia: quest’ultima infatti, secondo Galileo, è passibile di verifica
dimostrativa96.
Sembrerebbe dunque, da quanto emerso sin qui, che la virtù motrice del Sole altro
non sia che una teoria ad hoc di cui si serve Galileo per rispondere a una ben precisa
questione esegetica sollevata dal passo di Giosuè. In fondo, pur di appianare gli appa-
renti contrasti tra Libro Sacro e costituzione copernicana del mondo, lo scienziato pi-
sano è perfino disposto ad ammettere la sfericità del mondo, che aveva invece messo
in discussione già a partire dal Sidereus nuncius (e forse anche prima), e che verrà

Fabris, Galileo Galilei e gli orientamenti esegetici del suo tempo, Pontificiae Academiae Scientiarum
Scripta Varia 62, Città del Vaticano 1986, p. 44.
95
Su questo tema, cfr. M. Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., p. 238 e A. De Pace, Rapporto tra
scienza e Libro Sacro: due versioni a confronto, cit., pp. 398-399. Anche nella Istoria e dimostrazioni
intorno alle macchie solari Galileo rinuncia esplicitamente a dare pieno credito scientifico alla virtù
motrice del Sole, alla quale avrebber invece potuto dedicarsi gli «specolativi» (Cfr. OG, V, p. 140).
96
Cfr. supra, il capitolo III.1, e in particolare i paragrafi III.1.1-III.1.3.

126
duramente criticata sia nella Lettera a Ingoli che nelle prime pagine del Dialogo97. In
Giosuè 10, 12-13, però, si legge che il Sole si fermò in medio caeli, e questa afferma-
zione aveva suscitato discussioni fra gli esegeti di tutti i tempi, dato che, per esempio,
se per «in medio coeli» si dovesse intendere che il Sole si trovava sulla meridiana,
segnando cioè il mezzogiorno, non si comprenderebbe allora la necessità del miracolo
con cui allungare le ore del giorno prima che fosse sera. Galileo allora sostiene (sola-
mente nella Lettera a Cristina) di poter risolvere le difficoltà interpretative legate a
questo passo

collocando, conforme al sistema Copernicano, il Sole nel mezo, ciò è nel centro de
gli orbi celesti e delle conversioni de’ pianeti, sì come è necessario di porvelo; per-
ché, ponendo qualsivoglia ora del giorno, o la meridiana o altra quanto ne piace
vicina alla sera, il giorno fu allungato e fermate tutte le conversioni celesti col fer-
marsi il Sole nel mezo del cielo, ciò è nel centro di esso cielo, dove egli risiede:
senso tanto più accomodato alla lettera, oltre a quel che si è detto, quanto che,
quando anco si volesse affermare la quiete del Sole essersi fatta nell’ora del mezo
giorno, il parlar proprio sarebbe stato il dire che stetit in meridie vel in meridiano
circulo, e non in medio caeli, poi che di un corpo sferico, quale è il cielo, il mezo è
veramente e solamente il centro.98

Nelle Lettere copernicane, a quanto pare, non ha importanza il fatto che, secondo
Galileo stesso, non sia possibile dimostrare la sfericità del mondo. Le Lettere coper-
nicane infatti non si presentano come testi scientifici, e il loro contenuto sembra a
questo punto inscindibile dagli eventi e dal contesto storico in cui furono scritte. In
esse Galileo esprime soluzioni contingenti che, per comprenderle a pieno, il lettore
odierno dovrebbe prima passare attraverso una dettagliata ricognizione storica dei fatti
che indussero lo scienziato pisano a dissimulare almeno una convinzione scientifica
(indimostrabilità della sfericità del mondo) e a sfruttarne oculatamente altre (rotazione
del Sole; pianeti come corpi opachi), pur di accostare positivamente il copernicane-
simo al testo sacro e promuovere la libertà d’indagine in naturalibus.

97
Cfr. Lettera a Ingoli, OG, VI, 509-561: «E non sapete voi ch’è ancora indeciso (e credo che sarà
sempre tra le scienze umane) se l’universo sia finito o pure infinito?» (ivi, p. 529). Cfr. anche le prime
pagine del Dialogo, OG, VII, pp. 33-43. Sul tema dell’infinità in Galileo cfr. A. De Pace, Lo smantel-
lamento del cosmo tradizionale: la tridimensionalità in Galileo e Copernico, in “Rivista di storia della
filosofia”, n. 4 (2016, supplemento), pp. 125-152.
98
Lettera a Cristina, OG, V, p. 347, corsivo mio (a parte il latino).

127
Arrivati a questo punto, si potrebbe comunque pensare di aver trovato una risposta
ragionevole a uno dei quesiti proposti nel capitolo precedente a proposito dell’incom-
patibilità della cosmogonia di Galileo con la virtù motrice del Sole sostenuta nelle
Lettere copernicane99. Infatti, come si è visto, sebbene questa incompatibilità sia in-
negabile, essa può tuttavia essere spiegata facendo leva sul carattere ad hoc della teoria
elaborata da Galileo per accordare Giosuè 10, 12-13 e il sistema copernicano.
Questa spiegazione non tiene però conto di alcune pagine della Giornata Quarta del
Dialogo, in cui sembra che Galileo ricorra ancora alla virtù motrice del Sole per spie-
gare il fenomeno mareale100. Vorrei spendere alcune parole su queste pagine gali-
leiane, perché mi pare che solamente attraverso un molto discutibile atto interpretativo
sia possibile associare al Sole la «virtù movente» di cui parla Galileo nel Dialogo.
In primo luogo, ricordo che l’intenzione di Galileo nella Giornata Quarta del Dia-
logo è quella di spiegare il flusso e riflusso delle acque marine distinguendone la «po-
tissima e primaria causa» dalle «cause concomitanti»101. La causa primaria è una e
semplice: la combinazione dei moti annuo e diurno della Terra. Questa combinazione
genererebbe, secondo Galileo, un’oscillazione delle acque periodica e darebbe perciò
luogo al fenomeno delle maree. Galileo dice inoltre di aver sperimentato questa sua
teoria servendosi di uno strumento meccanico in grado di riprodurre il moto annuo e
diurno della Terra intorno al Sole, in cui la Terra altro non è che un vaso contenente
acqua102. Pierre Souffrin riuscì a riprodurre un esperimento simile, ricavandone che la
teoria di Galileo, seppur insoddisfacente, in quanto capace solamente di rendere conto

99
Cfr. supra, paragrafo III.4.
100
Per quanto ne so, questa tesi è stata sostenuta in: W. Applebaum, R. Baldasso, Galileo and Kepler
on the Sun as Planetary Mover, in Largo campo di filosofare, cit., pp. 381-290: pp. 388-389; M. Buc-
ciantini, Galileo e Keplero, cit., pp. 306-308; ricordata e accolta da Guido Cimino e da Anna De Pace
(cfr. G. Cimino, Ipotesi sulla cosmogonia platonica di Galileo, cit., pp. 75-81; A. De Pace, Rapporto
tra scienza e Libro Sacro: due versioni a confronto, cit., p. 403).
101
Dialogo, OG, VII, p. 454.
102
Cfr. ivi, p. 456: «E benché impossibil possa parer a molti che in machine e vasi artifiziali noi
possiamo esperimentare gli effetti di un tale accidente, nulla dimeno non è però del tutto impossibile;
ed io ho la costruzione d’una machina, nella quale particolarmente si può scorgere l’effetto di queste
meravigliose composizioni di movimenti».

128
di un periodo tidale di dodici invece che di sei ore103, non dovrebbe comunque essere
considerata scorretta104. Ad ogni modo, per quanto riguarda invece le cause concomi-
tanti, per Galileo esse avrebbero dovuto spiegare alcuni «accidenti particolari» del fe-
nomeno delle maree senza però trasgredire la spiegazione principale basata sulla causa
primaria, a sua volta fondata sulla teoria copernicana secondo cui la Terra si muove
di duplice moto (diurno e di rivoluzione)105 attorno al Sole:

Or questa sia la potissima e primaria causa del flusso e reflusso, senza la quale
nulla seguirebbe di tale effetto. Ma perché multiplici e varii sono gli accidenti par-
ticolari che in diversi luoghi e tempi si osservano, i quali è forza che da altre diverse
cause concomitanti dependano, se ben tutte devono aver connessione con la prima-
ria, però fa di mestiero andar proponendo ed esaminando i diversi accidenti che di
tali diversi effetti possano esser cagioni.106

Proseguendo, Galileo indica alcuni «accidenti», che proverà appunto a far rientrare
all’interno di una spiegazione che non si discosti dalla causa primaria. Tra questi,
poche pagine dopo ne vengono segnalati due, a uno dei quali, riguardante il mutamento
del moto mareale durante il novilunio, Galileo tenterà di dare soluzione chiamando in
causa la «virtù che muove la Terra e la Luna intorno al Sole»107.
Ma procediamo con ordine. In primo luogo, tramite Salviati, Galileo introduce così
la questione:

Due sono gli accidenti de’ quali doviamo investigar le cagioni: il primo riguarda le
diversità che accascano ne’ flussi e reflussi nel periodo mestruo; e l’altro appartiene
al periodo annuo: prima parleremo del mestruo, poi tratteremo dell’annuo; e tutto
convien che risolviamo secondo i fondamenti e ipotesi già stabilite, senza introdur
novità alcuna, né in astronomia né nell’universo, in grazia de i flussi e reflussi, ma

103
Galileo era consapevole di ciò. Egli riteneva infatti che la ricorrenza ogni sei ore di flusso e
riflusso fosse un «accidente» da attribuire a una di quelle che, come si è visto, chiamava cause conco-
mitanti (cfr. ivi, pp. 458-459).
104
Cfr. P. Souffrin, La théorie des marées de Galilée n’est pas une «théorie fausse», in Écrits choisis
d’histoire des sciences, Les Belles Lettres, Paris 2012 (ho riassunto le conclusioni e alcune parti di
questo articolo nell’appendice della mia tesi di laurea triennale, relatore Elio Nenci).
105
Copernico postulava un terzo moto dell’asse terrestre, ma Galileo non ne accolse l’esistenza.
106
Dialogo, OG, VII, p. 454, corsivo mio.
107
Ivi, p. 478.

129
dimostriamo che di tutti i diversi accidenti che in essi si scorgono, le cause riseg-
gono nelle cose già conosciute, e ricevute per vere ed indubitate.108

Le intenzioni di Galileo sono chiare: egli vuole comprendere i due «accidenti» men-
zionati, prendendo prima in considerazione ciò che accade alle maree «nel periodo
mestruo», ma in ogni caso rimanendo fedele a «fondamenti e ipotesi già stabilite»,
lasciando cioè da parte considerazioni su cui né Salviati né Sagredo, e neppure Sim-
plicio, hanno in precedenza discusso. Solo in questo modo, scrive Galileo, si può di-
mostrare che tutti gli «accidenti» delle maree sono riconducibili a cause note, su cui
cioè ognuno è disposto a concedere il proprio assenso poiché non ne dubita e le stima
«per vere». Il che, d’altronde, è come dire che le cause concomitanti non possono fare
appello a quelle ragioni che, non risiedendo «nelle cose già conosciute», sono pertanto
occulte. Si può discutere sul fatto che già in questo passo sia nascosta una frecciatina
nei confronti di Keplero109. Tuttavia, fin da ora ci si può chiedere come mai Galileo,
qualora avesse veramente intenzione di spiegare la ricorrenza mensile del moto ondoso
appellandosi alla virtù motrice del Sole, sia disposto nel Dialogo a concedere quel che
non volle ammettere nelle Lettere copernicane, e cioè che non è solo «molto probabile
e ragionevole», o «non lontano dal ben filosofare»110, pensare al corpo solare come al
motore dei pianeti, ma è addirittura «indubitabile».
Continuando la lettura del Dialogo da dove era stata interrotta, si intuisce però che
cosa Galileo ritenga veramente «indubitabile»:

Dico per tanto, cosa vera, naturale, anzi necessaria, essere che un medesimo mobile,
fatto muovere dalla medesima virtù motrice, in più lungo tempo faccia suo corso
per un cerchio maggiore che per un minore: e questa è verità ricevuta da tutti, e
confermata da tutte l’esperienze, delle quali ne produrremo alcuna.111

In questo luogo si sostiene solamente che, mantenendo inalterata la propria «virtù


motrice», un mobile impiega più tempo a percorre una circonferenza maggiore di
quanto ne spenda a concludere un giro intorno a una circonferenza minore. Il termine

108
Ivi, p. 474, corsivo mio.
109
Galileo poche pagine dopo infatti si riferirà a Keplero per ridicolizzare, senza tuttavia mancargli
di rispetto («Il Keplero viene con rispetto accusato», scrive Galileo nella didascalia a margine), la sua
teoria delle maree, la quale attribuiva alla Luna una occulta forza di attrazione (cfr. ivi, p. 486).
110
Sono locuzioni che, come ho già segnalato, si trovano rispettivamente nella Lettera a Castelli e
in quella a Cristina.
111
Ivi, p. 474.

130
che in questa frase desta curiosità e che rimane ancora piuttosto ambiguo è «virtù mo-
trice». Galileo però si appresta subito dopo a chiarire quanto appena affermato, ricor-
rendo non a uno, ma a due esempi ben precisi.
Il primo è condotto invitando a tenere presente il funzionamento di un «oriuolo»,
cioè di un orologio a ruota. Dalla descrizione di Galileo, si intuisce che al suo interno
veniva posta un’asta orizzontale che continuava a oscillare grazie a un meccanismo a
scappamento con contrappeso. In un dispositivo di questo tipo, è un contrappeso a dare
costantemente l’impulso necessario affinché l’asta, una volta messa in moto, non
smetta di oscillare. Il problema sorge quando l’orologio, a causa per esempio di attriti,
rimane indietro, non segnando più l’ora corretta. A quel punto, la soluzione consisteva,
come fa presente Galileo, nello spostare verso il centro dell’asta «due pesi di piombo»
inizialmente posizionati alla sua estremità, in modo da farne aumentare i dondolii, ri-
ducendone così il periodo di oscillazione e riuscendo infine a portare avanti l’orologio.
Ovviamente ciò poteva essere fatto fintanto che il contrappeso continuasse a scendere.
Una volta giunto a fine corsa, infatti, sarebbe stato necessario ricaricare l’orologio
riavvolgendo la corda da cui pendeva il contrappeso. Ma qui Galileo si concentra solo
sull’azione del portare avanti l’orologio, effettuabile unicamente quando sull’asta
continua ad agire la medesima «virtù motrice», la quale, come afferma lo scienziato
pisano, coincide con il «contrappeso»:

Ne gli oriuoli da ruote, ed in particolare ne i grandi, per temperare il tempo acco-


modano i loro artefici certa asta volubile orizontalmente, e nelle sue estremità at-
taccano due pesi di piombo; e quando il tempo andasse troppo tardo, co ’l solo av-
vicinare alquanto i detti piombi al centro dell’asta, rendono le sue vibrazioni più
frequenti; ed all’incontro, per ritardarlo, basta ritirare i medesimi pesi più verso
l’estremità, perché così le vibrazioni si fanno più rade, ed in conseguenza gl’inter-
valli dell’ore s’allungano. Qui la virtù movente è la medesima, cioè il contrappeso,
i mobili sono i medesimi piombi, e le vibrazioni loro sono più frequenti quando
sono più vicini al centro, cioè quando si muovono per minori cerchi.112

Al giorno d’oggi, sarebbe più facile intendere quanto dice Galileo immaginando un
ben più comune orologio a pendolo ‘alla rovescia’, cioè un metronomo meccanico113.

112
Ivi, pp. 474-475, corsivo mio.
113
Come è noto, né l’orologio a pendolo, brevettato per la prima volta da Huygens nel 1656, né il
metronomo meccanico, inventato presumibilmente sul finire del ‘600 ma brevettato molto più tardi, nel

131
In ogni caso, faccio notare che alla fine del passo appena citato lo scienziato pisano si
preoccupa anche di spiegare l’analogia con cui lega l’esempio dell’«oriuolo» alla
«cosa vera, naturale, anzi necessaria» dichiarata in precedenza, ovvero il minor tempo
con cui un mobile, conservando sempre la stessa virtù motrice, percorre (archi di) cir-
conferenze via via minori. Galileo precisa: «qui», che sta per “in questo esempio”, e
prosegue mostrando i termini dell’analogia.
Lo stesso accorgimento non si ripete nel secondo esempio proposto da Galileo, an-
che se non dovrebbe risultare difficile evincere i termini di paragone. Dopo aver chie-
sto ai propri lettori di immaginare un orologio al cui interno vi sia un’asta dal compor-
tamento simile a quello di un pendolo, Galileo invita questa volta a fare qualcosa di
molto più semplice: immaginare solamente un pendolo. In questo caso, se si è scarsi
di immaginazione, lo si può addirittura facilmente ‘creare’:

Attacchisi un tal peso a una corda la quale cavalchi un chiodo fermato nel palco, e
voi tenete l’altro capo della corda in mano, ed avendo data l’andata al pendente
peso, mentre ei va facendo sue vibrazioni, tirate il capo della corda che avete in
mano, sì che il peso si vadia alzando; vedrete nel suo sollevarsi crescer la frequenza
delle sue vibrazioni, come quelle che si vanno facendo continuamente per cerchi
minori.114

Sembrerebbe proprio che qui la «virtù movente», in assenza di un contrappeso, sia


quella data inizialmente al peso da un agente esterno; il peso poi la conserva intatta
anche quando la corda viene tirata verso l’alto e la frequenza delle oscillazioni perciò
aumenta.
Fino a qua, insomma, niente lascia pensare che Galileo stia per attribuire una virtù
motrice al Sole. In effetti, egli non afferma niente di tutto ciò nemmeno quando trasfe-
risce il modello del pendolo e dell’«oriuolo» al moto della Terra e della Luna rispetto

1816, da Mälzel, esistevano ancora quando Galileo scrisse le pagine del Dialogo. Anche per questo
motivo, meriterebbe più attenzione la descrizione dell’«oriuolo» fornita da Galileo. Un perspicuo e uti-
lissimo commento a questa parte del Dialogo venne dato da Wohlwill, il quale però non considerò il
riferimento al «contrappeso» di Galileo (cfr. un passo di E. Wohlwill, Galilei und sein Kampf für die
copernicanische Lehre, Leopold Voss, Hamburg und Leipzig 1909-1926, 2 voll., tradotto in italiano in
G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, edizione critica e
commento a cura di O. Besomi e M. Helbing, Antenore, Padova 1998, (II) pp. 887-888). Sarebbe inte-
ressante confrontare l’«oriuolo» descritto da Galileo con ciò che sappiamo sul meccanismo degli orologi
della prima metà del Seicento.
114
Dialogo, OG, VII, p. 475, corsivo mio.

132
al Sole, per spiegare così quell’«accidente» che si verifica a cadenza mensile e che
condiziona l’andamento delle maree:

Ora, se è vero che la virtù che muove la Terra e la Luna intorno al Sole si mantenga
sempre del medesimo vigore; e se è vero che il medesimo mobile, mosso dalla me-
desima virtù, ma in cerchi diseguali, in tempi più brevi passi archi simili de i cerchi
minori; bisogna necessariamente dire che la Luna quando è in minor distanza dal
Sole, cioè nel tempo della congiunzione, archi maggiori passi dell’orbe magno115,
che quando è in maggior lontananza, cioè nell’opposizione al plenilunio: e questa
lunare inegualità convien che sia participata dalla Terra ancora.116

Come si nota, non viene affermato che «la virtù che muove la Terra e la Luna in-
torno al Sole» è generata dal Sole. Una conclusione del genere può certo essere desunta
dal testo galileiano attraverso un’interpretazione specifica, che però, de facto, non
gode di un lampante, evidente e istintivo assenso.
Credo, dunque, che, date le premesse poste da Galileo, e visti i due esempi addotti,
non possa ritenersi implicita in questo passo l’attribuzione, per analogia, al corpo so-
lare di una «virtù che muove la Terra e la Luna intorno al Sole»117. Pertanto, non è
nemmeno così facile affermare che Galileo, per spiegare le maree, è portato a contrad-
dire il proprio racconto cosmogonico costruito sulla base dell’inerzia circolare. La gra-
vità che mosse i pianeti ab origine mundi non potrebbe essere intesa, in fondo, nei
termini di una virtù motrice conservatasi inalterata nel moto ‘inerziale’ delle rivolu-
zioni planetarie?

115
L’orbe magno sarebbe l’orbita della Terra. Così venne chiamata da Copernico, perché tramite
essa sarebbe stato finalmente possibile rendere conto in maniera semplice di molteplici fattori, come le
retrogradazioni dei pianeti (cfr. A. De Pace, Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico,
cit., p. 376, nota 232).
116
Dialogo, OG, VII, p. 478, corsivo mio.
117
Non ritengo opportuno prendere in considerazione il presunto riferimento alla virtù motrice del
Sole che Applebaum e Baldasso avrebbero individuato tra le pagine della Giornata Terza del Dialogo
(cfr. W. Applebaum, R. Baldasso, Galileo and Kepler on the Sun as Planetary Mover, cit., p. 388, nota
38, dove viene segnalato Dialogo, VII, p. 372). I due studiosi hanno evidentemente preso un abbaglio:
nella Giornata Terza, infatti, Galileo sostiene solamente che il sistema copernicano sia più credibile, in
quanto, solo ammettendo che la Terra si muove intorno al Sole, risulterebbe allora più facile compren-
dere il fenomeno delle macchie solari, poiché in quel caso non vi sarebbe alcuna necessità di introdurre
ulteriori e complicati moti del Sole. Solo per questo motivo, il Sole restituisce per Galileo un’utleriore
‘prova’ della verità del copernicanesimo. Da nessuna parte, però, Galileo dichiara che il Sole è principio
di moto.

133
III.3 Galileo e la cosmogonia platonica

All’indomani della prima pubblicazione del Dialogo, già si discuteva sull’effettiva


possibilità di istituire un parallelismo tra la cosmogonia galileiana e quella di Platone.
Marin Mersenne fu uno dei primi lettori a domandarsi a quale passo dell’opera plato-
nica alludesse Galileo quando, descrivendo la genesi del cosmo nel Dialogo richia-
mandosi a Platone, si soffermò sulla caduta accelerata e rettilinea dei pianeti prima che
questi cominciassero a muoversi circolarmente intorno al Sole. Una teoria del genere,
come già rilevava Chiaramonti nella Difesa del 1633, non è rintracciabile in nessuna
opera dell’Ateniese118.
Recentemente, alcuni studiosi hanno invece insistito sulle affinità che la cosmogo-
nia del Dialogo (e dunque anche quella dei Discorsi) avrebbe con certi luoghi del Ti-
meo, in particolar modo 38c-39a, dove Platone descrive la creazione dei pianeti, non-
ché l’inizio del tempo scandito dal loro moto circolare119. Sambursky, per esempio, ha
sostenuto che Galileo avrebbe potuto combinare questo luogo del Timeo con altri due,
cioè 30a e 43b, in cui Platone narra della genesi del cosmo a partire da una situazione
caotica, ossia del passaggio dal disordine all’ordine nell’universo120. La conclusione

118
Per i riferimenti a Mersenne e Chiaramonti, cfr. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo tolemaico e copernicano, edizione critica di Besomi e Helbing, già citata, (II), p. 169. In
particolare, riguardo a Mersenne, si veda la Correspondance du P. Mersenne, P.U.F., Paris 1955, IV,
p. 403.
119
Riporto la traduzione italiana di Fronterotta di Tim. 38c-39a, dove si legge che, «affinché il tempo
fosse generato, nacquero il sole, la luna e gli altri cinque astri, che vengono chiamati “erranti”, per la
distinzione e la conservazione dei numeri del tempo; dopo aver formato i corpi di ciascuno di essi, il
dio li pose nelle orbite descritte dalla rotazione del diverso […]. Quindi, dopo che ciascuno degli astri
necessari alla costituzione del tempo ebbe raggiunto l’orbita che gli era destinata e dopo che i loro corpi,
tenuti insieme da vincoli fatti di anima, divennero viventi ed ebbero appreso l’ordine prestabilito per
loro, allora, seguendo il movimento del diverso, che è obliquo e che incrocia il movimento dell’identico
essendone dominato, gli uni ruotando in un circolo maggiore, gli altri in uno minore, gli astri che ruo-
tavano nei circoli minori giravano più velocemente, quelli nei circoli maggiori più lentamente» (cfr.
Platone, Timeo, cit., pp. 214-217).
120
Cfr. S. Sambursky, Galileo’s Attempt at a Cosmogony, in “Isis”, v. 53, n. 4 (1962), pp. 460-464:
464. Ai passi del Timeo ricordati da Sambursky, andrebbe perlomeno aggiunto Tim. 53b, in cui Platone
ritorna su quanto anticipato in 30a. Per quanto riguarda Tim. 43b, invece, in questo passo Platone di-
stingue il moto circolare dagli altri sei inordinati, imperfetti (avanti e indietro, in alto e in basso, a destra

134
di Sambursky è che lo scienziato pisano molto probabilmente si accostò all’opera di
Platone, e in particolare al Timeo, con la stessa libertà esegetica con cui anni prima,
tra il 1613 e il 1615, si premurò di dare un senso copernicano ad alcuni passi biblici121.
Se ciò fosse vero, verrebbe da chiedersi perché Galileo volesse a tutti i costi ricondurre
la cosmogonia platonica alla propria idea di creazione del mondo; e perché invece ciò
non accadde anche anni prima, quando Galileo decise di inserire nei De motu anti-
quiora una cosmogonia che, nonostante fosse un’evidente variazione sul tema del caos
primigenio di cui parlò, fra gli altri, anche Platone, non venne comunque esplicita-
mente ricondotta all’opera di quest’ultimo. Che bisogno aveva Galileo di attribuire a
Platone il «concetto» essenziale della cosmogonia esposta nel Dialogo e nei Discorsi,
cioè che i pianeti si mossero prima di moto rettilineo accelerato e infine circolare?
Secondo Umberto Barcaro, Galileo, riferendosi a Platone, non avrebbe fatto altro
che dare al proprio racconto cosmogonico un ruolo ben preciso, riconducibile a quello
esemplificativo e illustrativo dei miti platonici122. Barcaro però non tenne conto
dell’articolo con cui Drake segnalava che Galileo effettuò veramente i calcoli cosmo-
gonici descritti in modo sommario nel Dialogo e nei Discorsi. Non sembrano dunque
appropriate le conclusioni di Barcaro, secondo cui il «fatto che il mito cosmogonico
sia esposto in modo lacunoso, superficiale e per giunta erroneo non deve essere rite-
nuto contraddittorio con il significato di esemplarità; il racconto costituisce un modello
di riferimento, e non pretende di avere valore di dimostrazione»123.
Anche Corrado Dollo criticò la posizione di Barcaro, sottolineando inoltre come il
racconto cosmogonico di Galileo costituisca un importante «residuo teologico» che,
«storicamente indizio di un procedimento fisico-matematico in fieri e non pervenuto

e a sinistra), che non appartengono al cosmo in quanto vivente eterno e animale immortale. Per una
spiegazione accurata e molto chiara di tutti questi passi cfr. F.M. Cornford, Plato’s Cosmology. The
Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routladge and Kegan Paul LTD, London 1956
(19371), pp. 33-39, 55-57, 143-150, 197-210.
121
«In his interpretation of Plato we see Galileo retracing his footsteps of 1613-1615, when, in his
letters to Castelli, Dini and the Grand Duchess of Toscana, he used his ingenuity as an exegete of Scrip-
ture to read the Copernican theory into the Bible. Carried away by his enthusiasm for the idea that the
laws of falling bodies may have been instrumental in the creation of the solar system he took the same
liberties of exegesis in interpreting a Platonic text» (S. Sambursky, Galileo’s Attempt at a Cosmogony,
cit., p. 464, corsivo mio).
122
Cfr. U. Barcaro, Riflessioni sul mito platonico del «Dialogo», in Novità celesti e crisi del sapere,
cit., pp. 117-125.
123
Ibid., pp. 118-119.

135
ad un maturo equilibrio, non può che essere sminuito ed espunto se si attribuisce al
mito cosmologico valore di esemplarità scientifica»124. Nonostante il termine «resi-
duo» implichi, forse anche involontariamente, una visione finalistica della storia del
pensiero scientifico che non mi sento di sottoscrivere, concordo a pieno sulla conclu-
sione cui giunse Dollo: è necessario dare il giusto peso all’attenzione che Galileo ri-
pose sul tema cosmogonico, senza tentare di ridimensionarne l’importanza basandosi
sugli sviluppi successivi della scienza. Per far ciò, credo ci sia bisogno di contestua-
lizzare l’opera galileiana, per poter così constatare che il tema cosmogonico venne
discusso sia in ambiente pisano (per esempio da Girolamo Borri, come ho fatto notare
nella sezione precedente della tesi125) che in quello patavino, dove è possibile addurre
l’esempio di Paolo Beni, con cui Galileo ebbe sicuramente rapporti di amicizia e che
si occupò di redigere un voluminoso commento al Timeo, discutendo peraltro della
possibilità di dare una interpretazione e una traduzione di Tim. 38c-39a (cioè del passo
cui forse si riferì Galileo nel Dialogo) diverse da quelle ‘tradizionali’, e in particolare
di Ficino126. Come ha sostenuto De Pace, può darsi che Galileo stesso, forse proprio
sotto suggerimento di Beni, si preoccupasse di rileggere il Timeo nell’originale greco,
dandone infine una interpretazione legittima e in linea con quanto esposto poi nelle
prime pagine del Dialogo127.
In questo paragrafo però non è mia intenzione concentrarmi sulle strette o meno
affinità testuali rintracciabili confrontando il racconto cosmogonico di Galileo e alcuni
passi del Timeo. Piuttosto, mi interessa notare che lo scienziato pisano visse in un
contesto storico-culturale in cui non solo il tema cosmogonico generale, ma la cosmo-
gonia platonica, nella fattispecie, era ormai divenuta oggetto non raro di discussione.
Basti pensare alle pagine del De communibus già esaminate128, in cui Perera tenta di
conciliare la cosmogonia platonica al concetto cristiano di Creazione, e dove è par-

124
C. Dollo, L’uso di Platone in Galileo, cit., p. 46, nota 90.
125
Cfr. supra, capitolo II. 3.
126
Per informazioni su Beni e il suo tentativo di reinterpretare Tim. 38c-39a, cfr. A. De Pace, Galileo
interprete del Timeo, cit., pp. 48-66. Vedi anche B. Bartocci, Paolo Beni and Galileo Galilei: the clas-
sical Tradition and the Reception of the astronomical Revolution, in “Rivista di storia della filosofia”,
n.3 (2016), pp. 423-452, in particolare 437-443.
127
Cfr. A. De Pace, Galileo interprete del Timeo, cit., pp. 66-76.
128
Cfr. supra, capitolo I.3.

136
zialmente accolta l’interpretazione di Porfirio, secondo cui per Platone non fu la ma-
teria a muoversi inizialmente, all’origine del mondo, in modo disordinato, ma furono
piuttosto i «corpi naturali», cioè gli elementi. Dico “parzialmente”, perché l’interpre-
tazione porfiriana della cosmogonia platonica non era creazionista, ma al contrario si
basava sull’idea che per Platone il mondo fosse eterno. Perera, dunque, nell’ultimo
libro del De communibus si serve liberamente della lezione di Porfirio, coniugandola
insieme a quella di Filopono, il quale cercò a sua volta di confutare gli argomenti di
Proclo a favore dell’eternità del mondo.
Sebbene non sia possibile sapere con certezza se Galileo fosse veramente a cono-
scenza degli sforzi interpretativi con cui Perera tentò di eliminare le distanze tra la
cosmogonia di Platone e la nozione cristiana di Creazione, soprattutto perché non vi è
alcuna traccia di tutto ciò negli Iuvenilia, ritengo sia comunque possibile, con gli ele-
menti emersi finora, avanzare un’ipotesi a scopo puramente esemplificativo, per mo-
strare cioè una delle tante possibilità grazie alla quale Galileo avrebbe potuto leggere
nel Timeo la propria idea di creazione del mondo, anche senza cimentarsi in una lettura
dettagliata e puntuale del testo platonico, ma basandosi semplicemente su interpreta-
zioni allora in circolazione.
Nel Dialogo Galileo prende in considerazione l’idea che «corpi naturali» possano
muoversi di moto disordinato, che egli intende rettilineo129, salvo aggiungere poi che
più probabile è «favoleggiare» che ciò fecero le «indistinte materie» nel «primo caos»:

129
Nel Dialogo Galileo, tramite Salviati, assume che il mondo, in quanto «corpo dotato di tutte le
dimensioni, e però perfettissimo», sia anche «necessariamente ordinatissimo, cioè di parti con sommo
e perfettissimo ordine tra di loro disposte». A partire da tali assunti o principi – tridimensionalità e
ordine –, condivisi anche da Simplicio, Galileo prosegue concludendo che, «se i corpi integrali del
mondo devono esser di lor natura mobili, è impossibile che i movimenti loro siano retti, o altri che
circolari: e la ragione è assai facile e manifesta. Imperocché quello che si muove di moto retto, muta
luogo; e continuando di muoversi, si va più e più sempre allontanando dal termine ond’ei si partì e da
tutti i luoghi per i quali successivamente ei va passando; e se tal moto naturalmente se gli conviene,
adunque egli da principio non era nel luogo suo naturale, e però non erano le parti del mondo con ordine
perfetto disposte, ma noi supponghiamo, quelle esser perfettamente ordinate: adunque, come tali, è im-
possibile che abbiano da natura di mutar luogo, ed in conseguenza di muoversi di moto retto» (Dialogo,
OG, VII, p. 43). Lo stesso argomento venne precedentemente proposto anche nell’ultima parte della
Lettera a Ingoli (cfr. OG, VI, pp. 558-559). Il moto retto è dunque per Galileo incompatibile con l’ordine
del cosmo. Tuttalpiù, come aggiunge Galileo nel Dialogo, esso può servire «a condur le materie per
fabbricar l’opera, ma fabbricata ch’ell’è, o restare immobile, o, se mobile, muoversi solo circolarmente»
(Dialogo, OG, VII, p. 44). A questo proposito, cfr. anche P. Galluzzi, Il tema dell’«ordine» in Galileo,
già citato.

137
E se pur alcuno dicesse, che se bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per
essa, è produttibile in infinito, cioè interminato, tuttavia però la natura, per così dire,
arbitrariamente gli ha assegnati alcuni termini e dato naturali istinti a’ suoi corpi
naturali di muoversi a quelli, io risponderò che ciò per avventura si potrebbe favo-
leggiare che fusse avvenuto del primo caos, dove confusamente ed inordinatamente
andavano indistinte materie vagando, per le quali ordinare la natura molto accon-
ciamente si fusse servita de i movimenti retti, i quali, sì come movendo i corpi ben
costituiti gli disordinano, così sono acconci a ben ordinare i pravamente disposti;
ma dopo l’ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti naturale
inclinazione di più muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il ri-
muoversi dal proprio e natural luogo, cioè il disordinarsi. Possiamo dunque dire, il
moto retto servire a condur le materia per fabbricar l’opera, ma fabbricata ch’ell’è,
o restare immobile, o, se mobile, muoversi solo circolarmente; se però noi non vo-
lessimo dir con Platone, che anco i corpi mondani, dopo l’essere stati fabbricati e
del tutto stabiliti, furono per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma
che dopo l’esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furono rivolti a uno a uno
in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si sono mantenuti e tuttavia
si conservano: pensiero altissimo e ben degno di Platone […].130

Si potrebbe a questo punto sostenere che Galileo, prima di scrivere questo passo del
Dialogo, avesse letto il Timeo di Platone fondendo due interpretazioni differenti: una
che già aveva presente quando scrisse gli Iuvenilia, ripresa poi anche nei De motu
antiquiora, e che riguarda il moto inordinato della «materia», i cui esponenti maggiori
furono forse Attico e Plutarco; l’altra, quella di Porfirio, alla quale si rifece anche Pe-
rera, secondo cui il moto inordinato è di quei «corpi naturali» che presero forma dalla
materia. Entrambe le interpretazioni riguardavano Tim. 30a, ma Galileo, invece di leg-
gere nei «corpi» citati da Porfirio un richiamo agli elementi, potrebbe avervi letto un
riferimento agli «erranti» descritti da Platone in Tim. 38c, cioè ai «corpi celesti», ai
pianeti, che lo scienziato pisano in certi casi chiama anche «corpi naturali»131, ricor-
rendo così a una nozione con cui tradizionalmente si indicavano – e così fece anche
Perera – gli elementi. Questa, d’altronde, non si allontana di molto dall’ipotesi già
ricordata di Sambursky, nonostante egli ritenesse che Galileo avesse autonomamente,
cioè senza rifarsi ad altre interpretazioni già esistenti, combinato i passi timaici 30a (e
43b) con 38c-39a.

130
Dialogo, OG, VII, pp. 43-44.
131
Cfr., per es., la Lettera a Ingoli, OG, VI, p. 558.

138
Si pensi inoltre alle obiezioni che Borri mosse contro la cosmogonia del caos: nel
De motu gravium et levium il professore aretino si domandava quale fosse il moto più
appropriato da attribuire agli elementi che, secondo alcuni, tra cui Platone, andarono
muovendosi disordinatamente dando luogo, in una situazione precosmica, a una ma-
teria caotica e confusa. Era forse un moto circolare, retto o misto? A prescindere dal
fatto che in questo modo Borri intendesse confutare il mito del caos dimostrandone
l’assurdità a partire da qualsiasi posizione assunta, ciò dovrebbe in ogni caso essere un
indizio importante riguardo alle discussioni molto aperte che sarebbero potute sorgere
intorno alla natura del moto caotico precosmico, sia che si trattasse del moto degli
elementi, che di quello delle «indistinte materie», come sostiene Galileo nel Dialogo,
e forse una discussione del genere si sarebbe potuta estendere anche a quella dei pia-
neti.
Va notato, però, che se da un lato Galileo ci tiene a precisare la mera probabilità del
movimento rettilineo nel caos precosmico («moto retto forse nel primo caos»132, si
legge a margine del passo del Dialogo sopracitato), dall’altro non compare invece la
stessa prudenza nei confronti del moto rettilineo dei pianeti antecedente quello circo-
lare, teoria che Galileo attribuisce senza esitazioni a Platone («corpi mondani mossi
da principio di moto retto e poi circolare, secondo Platone»133, si legge ancora, poco
più in basso, a margine dello stesso passo). Inoltre, sempre nel Dialogo, Galileo af-
ferma con una certa perentorietà che Platone non parlò solamente di un moto rettilineo
dei pianeti, ma perfino accelerato:

Figuriamoci aver Iddio creato il corpo, v.g., di Giove, al quale abbia determinato di
voler conferire una tal velocità, la quale egli poi debba conservar perpetuamente
uniforme: potremo con Platone dire che gli desse di muoversi da principio di moto
retto ed accelerato, e che poi, giunto a quel tal grado di velocità, convertisse il suo
moto retto in circolare, del quale poi la velocità naturalmente convien esser uni-
forme.134

In modo simile, Galileo ritornerà a parlare della cosmogonia platonica nei Discorsi,
aggiungendo però che Platone tacque i «fondamenti» di questa teoria cosmogonica,

132
Dialogo, OG, VII, p. 43, corsivo mio.
133
Ivi, p. 44.
134
Ivi, p. 45, corsivo mio.

139
mentre egli li ha scoperti e resi evidenti, riuscendo così a togliere la maschera poetica
e mitica al racconto riguardante le origini del cosmo135.
Nonostante non sia possibile riscontrare nel Timeo l’idea che i pianeti acquisirono
il proprio grado di velocità attraversando tutti quelli precedenti, muovendosi cioè di
moto uniformemente accelerato, e nemmeno che Platone ebbe «per avventura»136 un
concetto simile, ritengo siano comunque ancora valide, in questo caso, le conclusioni
cui giunse Dollo. Lo studioso siciliano sostenne infatti che, sebbene la cosmogonia
platonica non possa identificarsi con il mito galileiano, tuttavia essa «non gli è in con-
trasto e anzi può costituirne il supporto, anche se Galilei aggiunge che la Divinità fa
percorrere ai corpi celesti tutti i gradi di tardità (o velocità) possibili, prima di deviarli
dal moto rettilineo al circolare, con una innovazione che introduce nella concezione
animistica del Timeo un principio di autonomia meccanica»137.
Queste considerazioni andrebbero a mio parere integrate con un esame dettagliato
delle interpretazioni della cosmogonia platonica alle quali Galileo poté prestare
ascolto. Solo in questo modo sarebbe possibile comprendere se l’approccio esegetico
del pisano all’opera di Platone sia stato effettivamente atipico, o se piuttosto esso non
si allontanasse troppo dalle ‘tendenze esegetiche’ di allora, tanto da risultare, alla luce
di queste ultime, addirittura legittimo e giustificato138.
Per concludere, si veda, per esempio, un passo della traduzione ficiniana del De
doctrina Platonis di Alcino:

135
Cfr. Discorsi, OG, VIII, pp. 283-284.
136
Nei Discorsi Sagredo afferma che Platone, «avendo per avventura auto concetto, non potere
alcun mobile passare dalla quiete ad alcun determinato grado di velocità, nel quale ei si debba poi equa-
bilmente perpetuarsi, se non col passare per tutti gli altri gradi di velocità minori, o vogliam dire di
tardità maggiori, cioè della quiete, intercedono, disse che Iddio, dopo aver creati i corpi mobili celesti,
per assegnar loro quelle velocità con le quali poi dovessero con moto circolare equabile perpetuamente
muoversi, gli fece, partendosi loro dalla quiete, muover per determinati spazii di quel moto naturale e
per linea retta secondo ‘l quale noi sensatamente veggiamo i nostri mobili muoversi dallo stato di quiete
accelerandosi successivamente; e soggiugne che, avendogli fatto guadagnar quel grado nel quale gli
piacque che poi dovessero mantenersi perpetuamente, convertì il moto loro retto in circolare, il quale
solo è atto a conservarsi equabile, rigirando sempre senza allontanarsi o avvicinarsi a qualche prefisso
termine da essi desiderato. Il concetto è veramente degno di Platone […]» (ibid.)
137
C. Dollo, L’uso di Platone in Galileo, cit., p. 49.
138
Non va dimenticato che Gassendi, contemporaneo di Galileo, ritenne che lo scienziato pisano
avesse verosimilmente accolto una interpretazione che qualche autore antico formulò consultando
un’opera di Platone non più esistente (Cfr. Correspondance du P. Marin Mersenne, cit., p. 415).

140
Il numero e il tempo assoluti saranno infine completati da tutte le rivoluzioni
quando, pervenendo a un identico punto, tutti i pianeti avranno acquisito un ordine
tale che, immaginata una linea retta passante perpendicolarmente dal cerchio su-
premo fino alla Terra, i loro centri saranno in essa visibili. Dunque, essendo state
costituite le sette sfere nell’orbe errante, in esse il creatore del mondo fabbricò, ser-
vendosi soprattutto di parte ignea, sette corpi, e poi annesse quelle sfere [così] co-
stituite al circolo errante del diverso. Certamente collocò la Luna nel primo cerchio
sopra la Terra. Il Sole, poi, nel secondo. Dispose quindi Lucifero [scil. Venere] e
l’astro di Mercurio nel cerchio muoventesi alla stessa velocità del Sole139. Sopra,
poi, i [pianeti] restanti vennero disposti gradualmente [gradatim disposita] a se-
conda della propria sfera. [Il costruttore del mondo] ragionevolmente collocò la
stella di Saturno, più lenta di tutte, nel cerchio appena sotto quello delle fisse. Giove,
poi, che a questo [a Saturno] senza dubbio cede qualcosa in tardità [huic aliquid in
tarditate cedit Iupiter], seguiva subito dopo. A questo [a Giove] successe in seguito
Marte.140

139
Cfr. Porfirio, I frammenti dei commentari al Timeo di Platone, cit., pp. 64-65 (Fr. LXXIX). Que-
sta forte somiglianza non mi pare sia stata ancora notata.
140
Alcinoi Philosophi Platonici de doctrina Platonis liber, Marsilio Ficino interprete, ex Typo-
graphia Thomae Richardi, sub Bibliis aureis, e regione collegij Remensis, Parigi 1560, p. 16: «Ex om-
nibus demum revolutionibus absolutus numerus temporusque complebitur, cum ad idem punctum
omnes planetae pervenientes eiusmodi accipient ordinem, ut linea quadam recta a supremo circulo
usque ad terram secundum perpendiculum considerata, omnium centra in ipsa conspiciatur. Cum igitur
septem sphaerae in orbe circumvago constructae fuissent, in ijs corpora septem conspicua mundi con-
ditor maxima ex parte ignea fabricavit, eaque sphaeris altero vagoque circulo constitutis adnexuit. Lu-
nam profecto circulo supra terram primo dicavit. Solem vero secundo. Luciferum deinde et sacrum
Mercurij sydus in circulo pari ac Sol velocitate currente disposuit. Supra vero reliqua secundum pro-
priam sphaeram gradatim disposita. Tardiorem sane omnibus Saturni stellam in proxima sub non errante
circulo sede collocavit. Qui vero huic aliquid in tarditate cedit Iupiter, continuo sequebatur. Huic Mars
deinde successit». Per informazioni su Alcino e sui motivi per cui sia lecito ritenere infondata l’ipotesi
avanzata da Freudenthal, secondo cui l’autore del Didaskalikos fu il medioplatonico Albino, cfr. Alci-
noos, Enseignement des doctrines de Platon, texte introduit, établi et commenté par J. Whittaker, traduit
par P. Louis, Les Belles Lettres, Paris 2002 (19901), pp. VII-XII. Nella stessa opera è possibile trovare
informazioni anche su alcune pubblicazioni rinascimentali del Didaskalikos. Una traduzione latina
venne data da Pietro Balbi e fortemente criticata da Francesco d’Asola, il quale per questo fu spinto nel
1521 a pubblicare per la prima volta, in appendice alle Metamorfosi di Apuleio, il testo completo del
Didaskalikos in lingua originale (cfr. ivi, pp. XLVIII-LIX). Sarebbe stato interessante leggere la tradu-
zione di Balbi, ma purtroppo non sono riuscito a reperirla. Interessante perché, se già la traduzione
ficiniana presenta, nel passo citato, alcune particolarità che la distinguono dall’originale (cfr. il corri-
spettivo testo greco ivi, pp. 34-35), ci si aspetterebbe di trovarne di ancora maggiori nel testo di Balbi.
Per una traduzione italiana dal greco del passo citato, cfr. G. Invernizzi, Il Didaskalikos di Albino e il
medioplatonismo. Saggio di interpretazione storico-filosofico con traduzione e commento del Didaska-
likos, 2 voll., Edizioni Abete, Roma 1976, vol. II, pp. 37-38. Sono giunto al De doctrina Platonis perché
menzionato a pag. 716 del commentario conimbricese alla Fisica citato supra, p. 39, nota 97.

141
Certo, il riferimento alla linea retta immaginaria attraversante i pianeti, una volta
giunti tutti a un identico punto («ad idem punctum omnes planetae pervenientes»)141,
non ha alcun legame con quanto scritto successivamente riguardo all’origine dell’or-
dine planetario. Soprattutto, nulla è detto sull’intervento divino che, secondo Galileo,
avrebbe deviato il movimento dei pianeti da retto a circolare. È comunque interessante
che Alcino, nella traduzione ficiniana, sostenga che Dio abbia collocato i pianeti uno
dopo l’altro nel proprio «circulo». Inoltre, egli fa intendere che i pianeti superiori siano
stati disposti nel proprio ‘orbe’ a seconda della grandezza di quest’ultimo («secundum
propriam sphaeram») e progressivamente, gradualmente («gradatim disposita»). Essi
però, al contrario della Luna e degli isodromi, furono collocati a partire dal più lento,
cioè Saturno. Dettagli, questi, non così facilmente estrapolabili dalla lettera del Timeo.

141
La stessa idea, come ricorda Whittaker, ricorre anche in Seneca, Quaest. Nat. III, 29.1 (cfr. Al-
cinoos, Enseignement des doctrines de Platon, cit., p. 118, nota 291).

142
CONCLUSIONI

Uno degli obiettivi iniziali della tesi consisteva nella comprensione del ruolo del
tema cosmogonico all’interno del pensiero filosofico e scientifico di Galileo Galilei.
Sono state dunque prese in considerazione alcune opere e scritti galileiani di diverso
periodo in cui è presente il tema cosmogonico, ed è stato così possibile in primo luogo
sottolineare la ricorrenza della questione cosmogonica nell’itinerario intellettuale dello
scienziato pisano. Inoltre, ciò ha consentito anche di enucleare almeno due cosmogo-
nie galileiane, la prima delle quali, presente nei De motu antiquiora, risulta, rispetto a
quella del Dialogo e dei Discorsi, del tutto svincolata dal sistema cosmologico coper-
nicano. Si è notato poi che Galileo, sebbene elabori due racconti cosmogonici diffe-
renti, concepisca comunque entrambi a partire da considerazioni scientifiche attinenti
allo studio del moto dei corpi. È stato quindi ipotizzato che Galileo si servisse del
racconto cosmogonico per dare un respiro universale alle proprie considerazioni de
motu, mostrandone così la loro coerenza anche a livello cosmologico. Pare sia possi-
bile evincere tutto ciò soprattutto nel caso dell’ultima cosmogonia ‘platonico-coperni-
cana’, che Galileo riteneva fosse possibile convalidare attraverso calcoli adeguati in
linea con i dati astronomici relativi al periodo e alla velocità orbitale dei pianeti. Pro-
prio esaminando questi calcoli, Büttner ha inoltre supposto che essi potessero essere
stati utili a Galileo per superare un errore che inizialmente portò lo scienziato pisano
a dare un principio scorretto alla propria legge di caduta dei gravi. Se le ipotesi di
Büttner ricevessero ulteriore conferma, esse mostrerebbero allora che il tema cosmo-
gonico ebbe un ruolo importante anche nel determinare lo sviluppo delle teorie scien-
tifiche galileiane.
L’altro obiettivo della tesi riguardava la comprensione delle ragioni per cui Gali-
leo ritenesse opportuno riflettere sulla creazione divina del mondo. In merito a questo
punto è emerso che la questione cosmogonica, nel tardo Cinquecento, non era del tutto
svincolata da quella relativa al moto dei corpi gravi e leggeri. Così, per esempio, è

143
possibile trovare nel De motu gravium et levium di Girolamo Borri alcune pagine de-
dicate proprio alla confutazione della cosmogonia del caos a partire da valutazioni
concernenti il moto dei corpi. Considerando poi che il dibattito pisano intorno al moto
degli elementi nacque a partire da questioni riguardanti alcuni passi dell’opera aristo-
telica, potrebbe allora darsi che anche il problema cosmogonico scaturisse dalla lettura
dei testi di Aristotele. In effetti, ciò sembra essere confermato da quanto si legge
all’inizio dell’ottavo libro della Fisica (Phys. 250b11-252b5), dove alcune questioni
sulla durata del movimento vengono connesse al problema riguardante l’origine o
l’eternità del mondo. Ma accenni a problemi cosmogonici si ritrovano anche nel De
caelo (per esempio negli ultimi capitoli del primo libro e all’inizio del secondo). Questi
testi erano letti, studiati e commentati, e contribuivano certamente a influenzare il di-
battito scientifico tardo-cinquecentesco cui prese parte anche Galileo. Dunque, l’inte-
resse galileiano nei confronti del tema cosmogonico potrebbe non essere del tutto svin-
colato dalla volontà di affrontare questioni normalmente considerate da chi studiava il
moto dei corpi. Questa ipotesi meriterebbe però di essere corroborata da ulteriori in-
dagini, al fine di comprendere maggiormente quanto, nei contesti in cui visse e operò
Galileo, la questione cosmogonica fosse effettivamente sentita come un problema con-
nesso a quello sul moto. In particolare, ritengo sia necessario insistere di più sul ruolo
dei commentari dell’opera aristotelica, in cui è possibile rintracciare questioni e pro-
blemi di cui quasi certamente si discusse nel periodo in cui visse Galileo, soprattutto
in ambito accademico.
Nel presente lavoro sono emersi inoltre alcuni risultati, tutti ovviamente provvisori
e ipotetici, che però vale la pena ricordare perché in grado di offrire nuovi spunti di
riflessione su alcuni aspetti specifici dell’opera galileiana. In particolare, nella prima
parte del presente lavoro, un confronto dettagliato tra brevi e circoscritti passi della
Tractatio prima de mundo e del quinto capitolo dell’ultimo libro del De communibus
di Perera ha consentito di mettere meglio in luce le loro similarità testuali, ma allo
stesso tempo ne ha anche evidenziate le profonde differenze di contenuto, soprattutto
in merito all’interpretazione della cosmogonia platonica. A partire da ciò, è stato pos-
sibile rimettere in discussione l’ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui il De
communibus di Perera sarebbe una delle fonti del Ms. 46. Nell’ultimo capitolo della
prima parte, inoltre, ho fatto notare che lo stesso passo della Tractatio prima de mundo,

144
assimilabile, dal punto di vista testuale, a un luogo dell’opera di Perera, è anche pari-
ficabile a un passo di un commentario conimbricense del 1592 alla Fisica di Aristotele.
Anche in questo caso, però, le affinità sono parziali, e pertanto non è possibile affer-
mare che il commentario conimbricense sia stato una fonte effettiva del Ms. 46. No-
nostante ciò, il riscontro di un’altra probabile fonte ha portato a mettere in dubbio il
tentativo di chi attribuisce una datazione al Ms. 46 proprio a partire dalle presunte
fonti. È possibile infatti che le informazioni riportate da Galileo nella Tractatio prima
de mundo, e forse anche in tutto il Ms. 46, fossero molto diffuse. Ciò dunque non
consentirebbe di individuare con estrema sicurezza e precisione le reali fonti del ma-
noscritto. In ogni caso, da quanto detto, si intuisce chiaramente che, prima di speculare
sul senso del Ms. 46, sarebbe necessario intraprendere uno scrutinio più attento e det-
tagliato del manoscritto, parallelamente a quello delle sue presunte fonti, per tentare
così di dipanare, nei limiti del possibile, uno dei problemi a mio avviso più avvincenti
della storiografia galileiana.
Un altro risultato è emerso nella seconda parte, là dove si è messa in luce la somi-
glianza del racconto cosmogonico dei De motu antiquiora con quello presente nelle
Metamorfosi di Ovidio e nella volgarizzazione datane da Lodovico Dolce. L’intento
non è stato quello di rintracciare la sicura fonte della cosmogonia dei De motu anti-
quiora. Piuttosto, si è voluto evitare che la prima cosmogonia galileiana potesse essere
oggetto di facili ma assai riduttive assimilazioni alla dottrina platonica. La cosmogonia
del caos, infatti, veniva attribuita a numerosi autori, fra cui anche il leggendario Tri-
smegisto, al quale però, in questo caso, si può dire con una certa sicurezza che Galileo
non rivolgesse le proprie attenzioni. Le affinità con la cosmogonia di Ovidio, in ogni
caso, dovrebbero ulteriormente spingere a non dimenticare l’importanza degli interessi
letterari di Galileo, senza però esagerare sopravvalutandoli o caricandoli di significati
che in realtà non hanno alcun peso all’interno del pensiero scientifico galileiano.
Nella terza parte, infine, oltre a suggerire la proficuità di un’indagine vertente in-
torno al tema cosmogonico, alla cui luce potrebbero chiarirsi alcune ragioni dell’idio-
sincrasia galileiana per le orbite ellittiche, si è proposto anche di pensare a Galileo non
come a un interprete originale e autonomo della cosmogonia platonica, ma piuttosto
come a un interprete in linea con le ‘tendenze esegetiche’ del suo tempo. A tal fine si
sono ricordate alcune interpretazioni che Galileo avrebbe potuto conoscere, come

145
quelle di Perera e di Alcino. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, però, le conside-
razioni proposte nel presente lavoro si sono rivelate estremamente limitate, soprattutto
perché non supportate da un’indagine su ulteriori interpretazioni del Timeo e su una
loro effettiva conoscenza da parte di Galileo. Più che di vere e proprie considerazioni,
dunque, si dovrebbe parlare di suggestioni per altre possibili ricerche concernenti la
lettura galileiana della cosmogonia timaica.
In generale, portare a termine la presente tesi si è rivelato più difficile del previsto.
Non esistendo uno studio monografico sul tema della cosmogonia in Galileo Galilei,
indirizzare la ricerca è stata forse la parte più ostica del lavoro. Non poche volte ho
intrapreso percorsi e letture poco attinenti, giungendo a punti morti che mi hanno co-
stretto a tornare di frequente sui miei passi. Un piccolo riflesso di tutto ciò si potrà
notare anche dando un’occhiata veloce all’eterogenea bibliografia. Infatti, sebbene esi-
stano numerosi articoli e studi sulla cosmogonia galileiana, questi si basano quasi sem-
pre sul riferimento di Galileo al racconto cosmogonico di Platone, dunque si concen-
trano su alcune pagine del Dialogo e dei Discorsi, lasciando spesso in disparte la co-
smogonia dei De motu antiquiora. Il presente lavoro, invece, è partito con l’intenzione
di dare un senso complessivo alle riflessioni galileiane sull’origine del mondo, perciò
non poteva esimersi dal considerare fin dall’inizio anche e soprattutto i De motu anti-
quiora, sebbene essi costituiscano una parte del lavoro dello scienziato pisano che, per
volontà di Galileo stesso, non venne mai pubblicata. Se non avessi esaminato i De
motu antiquiora, non avrei mai potuto rendermi conto della ricorrenza del tema co-
smogonico in Galileo, cioè di quello che considero il risultato principale del mio la-
voro. Non che tale ricorrenza non fosse già nota, ma credo che meritasse comunque di
essere messa bene in luce attraverso una ricerca specifica, ancorché imperfetta, mi-
gliorabile e ampliabile.

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RINGRAZIAMENTI

Ho scritto questo lavoro avvalendomi dell’aiuto di molti professori nonché ricerca-


tori. Ringrazio in primo luogo il Prof. Elio Nenci, soprattutto perché mi ha aiutato a
comprendere alcuni errori di metodo e di impostazione di indagine che ho poi cercato
di smussare ed eludere, ma anche per gli utilissimi suggerimenti bibliografici. Un rin-
graziamento va anche alla Prof.ssa Anna De Pace, sotto la cui supervisione ho iniziato
a lavorare, e le cui puntuali e costruttive critiche mi hanno spinto a non temere di
ricominciare da capo se necessario. Ringrazio poi il Prof. Maarten Van Dyck dell’Uni-
versità di Ghent, sempre disponibile a ricevermi a colloquio nel suo studio in Belgio o
via Skype, mostratosi fin dall’inizio molto interessato alla mia ricerca e mai parco di
consigli proficui sul lavoro da me svolto. Sono inoltre molto grato a Marco Lamanna,
che ha prontamente cercato di aiutarmi non solo via Skype e per email, ma anche met-
tendomi in contatto con il Prof. Paolo Ponzio, il quale, nonostante fosse oberato da
numerosi impegni accademici, ha comunque tentato di darmi qualche consiglio. Seb-
bene pochi, anche i colloqui con il Prof. Luca Bianchi sono stati di grande profitto.
Un immenso grazie va agli sviluppatori dell’applicazione “GooglePlayBooks”, per
mezzo della quale ho potuto visualizzare sul tablet e sul cellulare la scansione perfetta
di gran parte delle fonti bibliografiche cinque-secentesche di questa tesi. Altrettanto
grande, se non maggiore, è il ringraziamento che rivolgo a Enrico Tanca, quī brevi
tempore linguam Latinam mē docuit Latine loquendō. Spero vivamente che il metodo
di apprendimento del greco antico e della lingua latina sostenuto in Italia soprattutto
da Luigi Miraglia e dalla sua Accademia Vīvārium novum possa attecchire anche nelle
più comuni aule scolastiche. Ovviamente il mio latino deve migliorare ancora molto,
ma mi ha comunque consentito di affrontare in modo completamente autonomo la let-
tura delle fonti latine e la loro traduzione. Gli eventuali errori di traduzione andranno
dunque tutti attribuiti al sottoscritto.
Non meno importante, infine, è stato il supporto dei miei genitori, di mio fratello,
dei miei amici e, in particolare, della mia ragazza, Jana.

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