capire il meccanismo con cui la nostra cultura ha cercato di demarcare l’anthropos, cioè dargli un’identità. • L’identità, nello schema generi/specie, è fornita dall’essenza, cioè quella proprietà che è necessaria e sufficiente affinché quell’entità sia identificata come quell’entità e non altre. Alla ricerca di un’identità • Presupposti: 1. ogni cosa ha una natura, tra cui la ‘natura umana’ (essenzialismo); 2. questa natura o essenza coincide colla posizione della cosa, ad es. dell’anthropos, nello schema di classificazione (riduzionismo); 3. nel caso umano, per Aristotele questa proprietà è il logos. Ma sono state tentate altre definizioni, altrettanto essenzialistiche. La cultura è prerogativa umana? Ci sono in antropologia discorsi in cui la culturalità sembra semplicemente prendere il posto del logos nel definire l'identità umana: L’antropologia ha dato una risposta alla domanda ‘Che cos’è un essere umano?’, una risposta che nel complesso ci ha reso un buon servizio, con o senza prestiti dai filosofi. La risposta ritorna continuamente su una qualche forma del concetto di cultura: gli umani ce l’hanno; gli altri esseri viventi no. [E.V. Daniel, Charred Lullabies, 1997, p. 194] In che misura è ancora giustificata questa idea? ● • (En passant, notiamo un paradosso che sta alla base dell’idea della ‘natura culturale dell’essere umano’ (cfr. Zilioli, ma anche Remotti e molti altri). Si cerca una proprietà che definisce l’umano; di solito questo è il compito delle essenze, ma in questo caso si trova la risposta in qualcosa che di per sé è plurale e locale.) • Kroeber & Kluckhohn nel 1952 raccolsero 164 definizioni di cultura prese dalla letteratura antropologica e filosofica. • Tra le più note è quella di Edward B. Tylor (1871): La cultura [...] è quell'insieme complesso che include conoscenza, credenze, arti, morale, legge, costumi e qualsiasi altra capacità e abitudini acquisite da un uomo come membro della società. • Per quanto vecchia, questa def rimane un punto di riferimento per molti: → Suggerisco che la cultura, oltre ad essere "quell’insieme complesso..." [Tylor 1871] è anche l'imposizione di una forma arbitraria sull'ambiente: questi due attributi sono unici e specifici del comportamento umano, e si possono identificare dalla comparsa di strumenti di pietra nei reperti archeologici. I due attributi si basano su un comportamento comune ai mammiferi e particolarmente sviluppato nei primati, ma la loro presenza nell'uomo è un fenomeno emergente, una differenza di tipo oltre che di grado. [R. Holloway, “Culture: A Human Domain”, Current Anthropology, 1992] Tratti culturali negli animali? • È indubbio che molti animali hanno comportamenti intelligenti (studi di Köhler sulle grandi scimmie già negli anni Dieci). • Alcuni di questi comportamenti intelligenti sono appresi socialmente. Con ciò s’intende atti di problem-solving non istintivi e diffusi per trasmissione (cioè non sono soluzioni che ogni individuo deve trovare ogni volta da solo). • Alcuni di questi sono specie-specifici, cioè comuni a tutta la specie (es. tecniche di caccia apprese dal genitore). Tratti culturali negli animali? • Più interessanti sono i casi in cui questi com- portamenti sono ‘stili’ caratteristici di un gruppo locale e non dell’intera specie. Esempi: • differenze locali degli uccelli canori (“dialetti”);
• differenze di utensili in scimmie della stessa
specie stanziate in aree diverse (gli utensili
rispondono a caratteri peculiari dell’ambiente). • In alcuni casi si è potuto osservare la diffusione delle innovazioni nell’ambito del gruppo; es. lavaggio delle patate in un gruppo di macachi (cfr. Tomasello). Una definizione di tradizione (usanza, consuetudine) in biologia: “Uno schema di comportamento caratteristico, condiviso da due o più individui all’interno di una unità sociale, che persiste nel tempo e che i nuovi praticanti acquisiscono in parte attraverso un apprendimento socialmente assistito”. [A distinctive behaviour pattern shared by two or more individuals in a social unit, which persists over time and that new practitioners acquire in part through socially aided learning.] Dorothy M. Fragaszy, Susan Perry, eds.,The Biology of Traditions: Models and Evidence, Cambridge UP, 2003, p. xiii. df di tradizione •Analizzando la def., troviamo che le con- dizioni necessarie perché ci sia una tradi- zione, per Fragaszy & Perry, sono le seguenti: lo schema di comportamento deve essere 1. condiviso [da 2 o più individui; problema: c’è un numero minimo?] 2. stabile [‘persists over time’: c’è una durata minima?] 3. trasmesso per apprendimento sociale. df di tradizione •Si potrebbero aggiungere due condizioni: 4. il comportamento deve essere differenziato per gruppo/comunità (=non specie-specifico), 5. ed essere scelto fra alternative compossibili (=non imposto da condizioni ambientali). • La cond. 4 serve a escludere che sia un tratto determinato geneticamente; la 5 a escludere che sia determinato dall’ambiente (forse in parte coincide col requisito di ‘arbitrarietà’ di Holloway). df di tradizione •Si possono ipotizzare altre 2 condizioni (non necessarie, ma probabilmente sufficienti?). Per essere una tradizione il comportamento dev’essere: 6. cumulativo (migliorabile o comunque modificabile a partire dalla forma iniziale); 7. aperto/collaborativo (aperto a contributi di individui diversi). È ora possibile comparare le culture umane e eventualmente non-umane in rapporto al concetto di tradizione così definito: → COMPARAZIONE CULTURE UMANE/NON UMANE Dimensioni di comparazione: A) possesso di tutte le condizioni 1-7 B) “qualità” di questo possesso C) quantità/varietà di tradizioni (di gruppo e di specie) D) contenuto delle tradizioni (complessità, ecc.) [adattato da: A. Whiten, “The Scope of Culture in Chimpanzees, Humans and Ancestral Apes”, in Whiten et al., eds., Culture Evolves, Oxford UP, 2011] COMPARAZIONE • Le dimensioni C e D sono chiaramente quelle in cui le culture umane spiccano di più. • Per essere più chiari: un database dello
Human Relations Area Files indicizza >700
categorie di contenuti culturali (Murdock et al., Outline of Cultural Materials, New Haven, 2006). QUALI SPECIE SODDISFANO I REQUISITI? • Quanto al requisito (A), nelle specie filogeneticamente più vicine a noi (Pan troglodytes e Pan paniscus: scimpanzé e bonobo) sono stati osservati gruppi che sembrano avere tutte le condizioni elencate (almeno da 1 a 5; 6 e 7 non sono state osservate ma sono ipotizzabili a partire da oggetti rinvenuti). • Permangono tuttavia alcuni problemi: → PUNTI PROBLEMATICI • La stabilità osservata (cond. 2) è limitata nel tempo (vedi obiezioni di Tomasello); • le osservazioni sono ottenute soprattutto in riserve; negli esperimenti spesso si insegna una pratica a un individuo e poi si osserva se e come si diffonde (è molto difficile l’osservazione in libertà); • soprattutto riguardo alla condizione 3: che tipo di apprendimento sociale si osserva nei primati? APPRENDIMENTO SOCIALE: IMITAZIONE vs EMULAZIONE Per Tomasello sono due forme dell’appren- dimento, legate a due diverse reazioni all’osservazione di azioni di un altro individuo: ●Emulazione: ottenere lo stesso risultato, in
qualsiasi modo. ●Imitazione: copiare la sequenza di movi-
ottenerle dall’altro. ●nell’emulazione l’altro è una variabile
ambientale; nell’imitazione è un modello.
●emulazione è una forma di adattamento;
imitazione è una forma di socializzazione.
Per Tomasello l’imitazione è solo umana (dopo i 9 mesi). imitazione e emulazione •Altri esperimenti (NB: non osservazioni in natura) suggeriscono però la presenza d’imitazione anche negli scimpanzé. Si è notato ad es. un livello di apprendimento inferiore quando l’animale osserva la stessa attività svolta da un meccanismo invece che da un conspecifico. (Whiten et al., “Emulation, imitation, over-imitation and the scope of culture for child and chimpanzee”, Phil. Transact. Royal Soc. B, 2009). cumulazione culturale •Una crescita culturale per collaborazione inter-generazionale (condizioni 6-7) non è stata ancora osservata negli animali (a mia conoscenza). •Tuttavia l’esame di certe tecniche fa pensare che ci siano state variazioni nel tempo. Es. un gruppo di scimpanzé usa prima un bastone più grosso per bucare il termitaio, poi un ‘rastrello’ più piccolo per catturare gli insetti (cfr. Whiten, «The Scope of Culture...», cit.) imitazione e emulazione Conclusione: •l’effetto ‘dente d’arresto’ (Tomasello) è un buon modello dell’evoluzione culturale; ma non è certo che sia necessariamente solo umano. •In ogni caso, se c’è discontinuità animale/umano, dev’essere vista nel quadro mobile dell’evoluzione. cultura come prerogativa umana? • La scarsità di osservazioni potrebbe essere dovuta a due fattori: 1. Sono specie piuttosto difficili da osservare sul campo, anche per la difficoltà delle condizioni di vita. 2. Anche se hanno forme di comunicazione linguistica, in genere non depositano le conoscenze in codici che durino al di là della vita individuale (ma il problema esiste anche per società umane prive di scrittura). cultura come prerogativa umana? •Intanto, è già esistita almeno una specie diversa dalla nostra con culture differenziate: il Neanderthalensis. Forse anche Homo erectus e Habilis? •Nel quadro evolutivo, nessuna differenza è eterna e assoluta. Scrive Ingold: E tuttavia chi può affermare che [gli animali] non svilupperanno, in un futuro, competenze linguistiche e simboliche per conto proprio (ammesso che non l’abbiano già fatto)? In tal caso, non dovremo dire che sono animali non- umani umani? [What Is an Animal?, 1994, p. xix] L’imitazione negli umani: senso e limiti • La teoria di Tomasello sul carattere cumulati- vo-collaborativo della cultura umana si fonda sulla distinzione imitazione/emulazione. • La distinzione si basa sulle osservazioni di T. su primati e bambini: ci sarebbe una differenza nel modo in cui reagiscono dopo aver osservato qualcuno che compie un’azione. • A quanto pare noi siamo più ‘conformisti’ di altri primati, e questo potrebbe spiegare la nostra propensione a collaborare. L’imitazione negli umani: senso e limiti • Spiegazione di Tomasello: gli umani hanno la capacità di “intendere i conspecifici come agenti intenzionali al pari di sé” (understanding conspecifics as intentional agents like the self): in pratica, d’identificarsi coll’altro. • Secondo alcuni, la base neurale della capacità imitativa è costituita dai cd. neuroni specchio. • Per T. è comunque una capacità innata e genetica. Con quest’unica mutazione si spiega la capacità d’imitare, di collaborare, e dunque tutte le acquisizioni tecniche umane. LE CRITICHE DI INGOLD • Ingold (Lettura II.4) critica Tomasello per aver ignorato gli sviluppi contemporanei dell’antropologia culturale, ma anche certe tendenze della biologia contemporanea secondo le quali “le attività degli organismi si radicano in una continua interazione di questi con i loro ambienti, interazione in cui i due poli si costituiscono reciprocamente”. • Ingold si riferisce alla biologia evolutiva dello sviluppo (detta evo-devo), oggi sempre più in espansione: → LE CRITICHE DI INGOLD • Per il tradizionale neodarwinismo (la c.d. Sintesi Moderna), ogni carattere esiste perché c’è un gene che codifica per esso. Idealmente, scriveva il biologo Sidney Brenner nel 1982, conoscendo la mappa genomica completa di un organismo alla nascita si può «calcolare l’organismo». • Ma nella realtà non è così. Ad es. sappiamo che gemelli monozigoti possono sviluppare caratteri anche ampiamente diversi. L’organismo non è solo l’output del suo codice genetico. LE CRITICHE DI INGOLD • Per questo oggi si tende a dare grande importanza allo sviluppo del singolo organismo, o ontogenesi. • Questo è cruciale perché lo sviluppo è contingente, avviene nell’ambiente, in interazione con esso e con altri organismi. • Come dice l’antropologa Christina Toren, l’essere risulta dunque legato strettamente al divenire. Le teorie antropologiche centra- te sull’embodiment e sulla relazione ecologi- ca sono molto prossime a queste vedute. LE CRITICHE DI INGOLD •Ingold attacca la distinzione imitazione/emu- lazione perché non accetta le nozioni di trasmissione e di informazione (come bit di conoscenza che l’individuo riceve dall’esterno): È la metafora della trasmissione che non va bene, perché implica che il comportamento imitativo ha la propria fonte in un’informa- zione che è in qualche modo separabile dal corpo organico che anima, e che è in grado di “saltare” da un corpo all’altro. (p. 41) LE CRITICHE DI INGOLD •In un testo del 1999 questo attacco si capisce meglio: L’idea che la cultura è trasmissibile da una generazione alla successiva come corpus di conoscenze, indipendentemente dalla loro applicazione nel mondo, è insostenibile per la semplice ragione che poggia su una condi- zione impossibile, quella di un’architettura cognitiva precostituita [ready-made]. (Ingold, “Three in one”, lchc.ucsd.edu/mca/Paper/ingold/ingold2.htm) LE CRITICHE DI INGOLD •L’apprendimento non avviene dunque tanto per ‘trasmissione’ quanto per «riscoperta guidata»: Con ciò intendo che, in ciascuna generazione susseguente, i novizi apprendono in quanto sono collocati in situazioni in cui, di fronte a certi compiti, gli si mostra che cosa fare e a che cosa prestare attenzione, sotto la tutela di mani più esperte. (“Three in one”, cit.) •In tal senso, dice Ingold, «ogni imitazione è emulativa», cioè è nuova interazione con l’ambiente. LE CRITICHE DI INGOLD •Ingold e Tomasello hanno entrambi punti di forza e di debolezza. •Ingold non sembra tener conto del ruolo speciale che nell’apprendimento giocano i genitori e gli educatori: da quanto dice lui, sembra che gli stimoli ambientali siano tutti ugualmente rilevanti. •Questo non sembra sufficiente a spiegare l’accumulazione culturale: si dovrebbe quasi ricominciare a ogni generazione. LE CRITICHE DI INGOLD •una pratica culturale può certamente trasmettersi anche se non c’è una riproduzione fedele, ma non se manca del tutto l’intenzione di riprodurre fedelmente, perché allora si ricomincerebbe da zero ad ogni passaggio. •Cioè Ingold non distingue l’intenzione d’imitare dall’imitazione fedelmente riuscita. Spesso l’imitazione non riesce, ma per assicurare il dente d’arresto è già importante il provarci. LE CRITICHE DI INGOLD •D’altronde Tomasello insiste troppo sull’imitazione come riproduzione fedele. •Ci sono due problemi: (1) una copia esatta è quasi impossibile, perché le condizioni ambientali variano continuamente. (2) Se s’insiste sulla copia identica non si dà conto dell’innovazione culturale. •In tal senso è vero che ogni imitazione è in qualche misura emulazione. Il discente può e forse deve ‘superare il maestro’. •Ingold vede l’apprendimento come continua anomalia, T. come analogia (vedi oltre). VARIAZIONI CALENDARIO: • martedì 9 aprile: cancellata per vacanze pasquali • venerdì 17 aprile: lezione sulla scrittura (lez. n. 26) ADATTAMENTI BIOLOGICI, CULTURALI, O BIOLOGICO-CULTURALI? • La decostruzione del concetto di specie prosegue con l’esame del concetto di adattamento. Questo ci serve a sua volta per approfondire la graduale sostituzione dell’idea di ‘Grande Catena dell’Essere’ con l’idea di ambiente. • Ogni adattamento è sempre un coadatta- mento che coinvolge un intero ecosistema o parti significative di esso. Nondimeno, parti diverse del sistema possono avere velocità diverse di adattamento. adattamenti biologico-culturali Le popolazioni biologiche non si limitano cioè a subire passivamente una sequenza di problemi preesistenti, posti dall’ambiente, atomizzati, ma modificano attivamente (con il metabolismo, la ricerca del cibo, la costruzione di ripari, gli spostamenti) i parametri ecologici esterni e con essi il quadro delle pressioni selettive che poi retroagiranno su di loro. [Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati, Einaudi, 2014] adattamenti biologico-culturali • L’ambiente non è semplicemente ‘dato’, perché il sistema formato da ‘noi + ambiente + altre specie’ è in perenne trasformazione. • Si passa da una concezione basata sulla demarcazione dei confini a una concezione basata sul riassestamento continuo dei confini. • I sistemi raggiungono piattaforme di equili- brio provvisorio, che la nostra conoscenza incompleta ha scambiato per fissità. adattamenti biologico-culturali • Ogni plateau di stabilità provvisoria include l’apporto delle attività che chiamiamo ‘culturali’. Non ci adattiamo a un ambiente pre-umano, ma ci adattiamo in e con un ambiente che ci contiene. • Ogni ambiente è stato modificato, comprese le cd. aree ‘vergini’. (È il campo di studi dell’ecologia storica. Cfr. ad es. William Balée, Cultural Forests of the Amazon. A Historical Ecology of People and Their Landscapes, Univ. of Alabama Press, 2013.) adattamenti biologico-culturali • Le culture indigene sono spesso del tutto consapevoli del proprio ruolo, benché non si limitino a considerare ciò che noi chiamiamo interventi ‘tecnici’: "Il Parco Nazionale Nitmiluk non è un'area naturale [...], è un prodotto dell'attività umana. È una terra da noi plasmata da decine di migliaia di anni – attraverso le nostre cerimonie e i nostri legami di parentela, attraverso il diboscamento col fuoco e la caccia". [Testimonianza di un leader aborigeno australiano, cit. in Philippe Descola, Par-delà nature et culture, p. 78] adattamenti biologico-culturali • Anche gli squilibri ecologici indotti dagli umani sono da inquadrare negli sviluppi biologico-culturali. • Il carattere cumulativo della conoscenza umana ha generato un differenziale di velocità tra i nostri adattamenti e i coadattamenti reciproci dell’ambiente. • Il processo va avanti dalla più remota preistoria: → adattamenti biologico-culturali • In the early phases of human evolution, particularly in Africa, induced fires were a major agent of change. Man is known to have used fire since Paleolithic times, so that the distribution of forest cover, especially in subtropical and savannah areas, has been closely associated with his activities. For example, at the well-known Kalambo Falls archaeological site on the Tanzania- Zambia border there is evidence of the use of fire as long ago as 60,000 years, while in Southern Tasmania recent researches have revealed the extensive use of fire to clear forests between 30,000 and 40,000 years ago (Richard H. Grove, Green Imperialism: Colonial Expansion, Tropic Island Edens and the Origins of Environmentalism, Cambridge UP, 1995, p. 17). adattamenti biologico-culturali • la deforestazione ha conseguenze (es. savanizzazione) che condizionano le attività umane. La tecnica modifica l’ambiente, che condiziona la tecnica. Il ciclo di agentività e passività è continuo. • Es.: Jared Diamond in Armi acciaio malattie sostiene che a un certo stadio la civiltà austra- liana era forse quella più avanzata. Ma ca. 10.000 anni fa la caccia intensiva provocò l’estinzione di grandi mammiferi che poteva- no essere addomesticati. Quella aborigena rimase una società di caccia e raccolta. adattamenti biologico-culturali • La dicotomia naturale/artificiale appare sempre più inadeguata: noi, come specie (=‘natura’), ci adattiamo a un ambiente che contribuiamo a modificare (=tecnica), come accade per tutti gli organismi. • In breve il nostro ambiente è costituito anche da tutto il feedback che il lavoro umano ha re-immesso nell’ecosistema. • Questa reimmissione comprende anche la conoscenza, in quanto produzione di ambienti di vita sociali che solo parzialmente possono essere ‘de-territorializzati’. adattamenti biologico-culturali ●NB: i caratteri ottenuti per selezione naturale non sono irreversibili: l’evoluzione non ha una direzione (non è un ‘progresso’). ●Ad es. ci sono specie
che si adattano ad am-
bienti inquinati, poi di nuovo si riadattano Es.: falene Biston quando l’inquina- betularia nelle foreste di mento si riduce. betulle intorno a Londra. adattamenti biologico-culturali
•Né, viceversa, i tratti culturali sono reversibili
in un senso semplice. I processi storici non sono illimitatamente fluidi, ma hanno diversi gradi di rigidità (cfr. il concetto di ‘dente d’arresto’). •Ad es. ci sono caratteristiche di fondo (geo- grafiche, demografiche, gerarchiche, &c), che i membri di una cultura dall’interno notano a malapena, e che durano millenni (cfr. concetto storiografico di très longue durée, introdotto da F. Braudel). adattamenti biologico-culturali • È molto difficile (se non impossibile, direbbe forse Wittgenstein) identificare i confini del mutamento culturale. Questo semplicemente perché possiamo stabilirli solo dall’interno di una forma di vita: una posizione dalla quale non è facile testarne la plasticità. Come si può specificare ora quel che potremo e non potremo fare? • Detto in un linguaggio aristotelico: ciò che possiamo dire sul nostro essere potenziale è condizionato dal nostro essere attuale. Un esempio di variazione dei confini tra natura e cultura: la morte in Occidente •La rappresentazione di ciò che è ‘natura’ e i confini tra naturale e artificiale vengono continuamente rinegoziati. •Un esempio: i nostri atteggiamenti nei confronti della morte. Fino a non molto tempo fa era ‘naturale’ morire a età che oggi ci sembrano ‘precoci’ e addirittura ‘ingiuste’. •Tuttavia la maggiore longevità di oggi non è percepita come un’operazione artificiale di allungamento. mutamenti natura/cultura – un esempio •Anzi, la biomedicina oggi presenta l’allungamento della vita (>90, forse 100) come ripristino di un limite naturale (vs. fattori che ora non sono più considerati naturali, bensì impedimenti del corso naturale, come malattie, guerre, carestie). •Insomma: data la nuova possibilità tecnica, il concetto di natura è stato ricategorizzato. Tra biologico e tecnico: la domesticazione Anthropologists and archaeologists have argued that domestication should not be seen as a one-off event for which humans alone are responsible, but as an ongoing process of mutual adaptation in which other species also exercise agency.
[White-Candea, “Animals”,in The Cambridge
Encyclopaedia of Anthropology] la domesticazione •La domesticazione di animali e piante è un in- treccio bio-culturale di cui siamo stati agenti storici (nella ‘lunghissima durata’). •La domesticazione è un adattamento reciproco: i cacciatori si sedentarizzano, gli animali sono legati all’apporto di energia fornito da noi sotto forma di nutrimento. •Per questo le specie domestiche sono instabili nel senso che, se sopravvivono, non conservano i caratteri per cui sono state selezionate: un cane può rinselvatichirsi in pochi mesi, un frutteto in pochi anni. Un esempio: la domesticazione del cane •La domesticazione del cane mostra bene la commistione di modalità evolutive. •L’ipotesi oggi più accreditata: (1) all’inizio, individui più deboli separati da branchi di canidi (lupi, forse anche coyote) che seguivano i gruppi umani nomadici nutrendosi di avanzi; (2) poi accettati come spazzini e guardie; (3) infine addestramento e selezione genetica per breeding. •Da notare che l’addestramento è possibile solo grazie alla plasticità cognitiva dei canidi. Coevoluzione e retroazione nel caso umano •Ci sono ipotesi famose su casi in cui l’agentivi- tà tecnica e gli stili di vita hanno retroagito modificando la nostra struttura fisiologica (‘autoaddomesticamento’, termine usato da Gehlen). •Un es. è la produzione di lattasi (enzima per la digestione del lattosio) nei popoli allevatori di bovini (Lettura II.3); •più indietro nel tempo, un altro es. potrebbe essere la perdita della capacità di digerire carne cruda dopo la scoperta della tecnologia del fuoco.