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Alla ricerca di un’identità

• Il discorso sulla classificazione serviva a


capire il meccanismo con cui la nostra
cultura ha cercato di demarcare l’anthropos,
cioè dargli un’identità.
• L’identità, nello schema generi/specie, è
fornita dall’essenza, cioè quella proprietà
che è necessaria e sufficiente affinché
quell’entità sia identificata come quell’entità
e non altre.
Alla ricerca di un’identità
• Presupposti:
1. ogni cosa ha una natura, tra cui la ‘natura
umana’ (essenzialismo);
2. questa natura o essenza coincide colla
posizione della cosa, ad es. dell’anthropos,
nello schema di classificazione
(riduzionismo);
3. nel caso umano, per Aristotele questa
proprietà è il logos. Ma sono state tentate
altre definizioni, altrettanto
essenzialistiche.
La cultura è prerogativa umana?
Ci sono in antropologia discorsi in cui la
culturalità sembra semplicemente prendere il
posto del logos nel definire l'identità umana:
L’antropologia ha dato una risposta alla
domanda ‘Che cos’è un essere umano?’, una
risposta che nel complesso ci ha reso un buon
servizio, con o senza prestiti dai filosofi. La
risposta ritorna continuamente su una qualche
forma del concetto di cultura: gli umani ce
l’hanno; gli altri esseri viventi no. [E.V. Daniel,
Charred Lullabies, 1997, p. 194]
In che misura è ancora giustificata questa idea?

• (En passant, notiamo un paradosso che sta
alla base dell’idea della ‘natura culturale
dell’essere umano’ (cfr. Zilioli, ma anche
Remotti e molti altri). Si cerca una proprietà
che definisce l’umano; di solito questo è il
compito delle essenze, ma in questo caso si
trova la risposta in qualcosa che di per sé è
plurale e locale.)
• Kroeber & Kluckhohn nel 1952 raccolsero 164
definizioni di cultura prese dalla letteratura
antropologica e filosofica.
• Tra le più note è quella di Edward B. Tylor
(1871):
La cultura [...] è quell'insieme complesso che
include conoscenza, credenze, arti, morale,
legge, costumi e qualsiasi altra capacità e
abitudini acquisite da un uomo come membro
della società.
• Per quanto vecchia, questa def rimane un
punto di riferimento per molti: →
Suggerisco che la cultura, oltre ad essere
"quell’insieme complesso..." [Tylor 1871] è
anche l'imposizione di una forma arbitraria
sull'ambiente: questi due attributi sono unici e
specifici del comportamento umano, e si
possono identificare dalla comparsa di strumenti
di pietra nei reperti archeologici. I due attributi
si basano su un comportamento comune ai
mammiferi e particolarmente sviluppato nei
primati, ma la loro presenza nell'uomo è un
fenomeno emergente, una differenza di tipo
oltre che di grado. [R. Holloway, “Culture: A
Human Domain”, Current Anthropology, 1992]
Tratti culturali negli animali?
• È indubbio che molti animali hanno
comportamenti intelligenti (studi di Köhler sulle
grandi scimmie già negli anni Dieci).
• Alcuni di questi comportamenti intelligenti
sono appresi socialmente. Con ciò s’intende atti
di problem-solving non istintivi e diffusi per
trasmissione (cioè non sono soluzioni che ogni
individuo deve trovare ogni volta da solo).
• Alcuni di questi sono specie-specifici, cioè
comuni a tutta la specie (es. tecniche di caccia
apprese dal genitore).
Tratti culturali negli animali?
• Più interessanti sono i casi in cui questi com-
portamenti sono ‘stili’ caratteristici di un
gruppo locale e non dell’intera specie. Esempi:
• differenze locali degli uccelli canori (“dialetti”);

• differenze di utensili in scimmie della stessa

specie stanziate in aree diverse (gli utensili


rispondono a caratteri peculiari dell’ambiente).
• In alcuni casi si è potuto osservare la
diffusione delle innovazioni nell’ambito del
gruppo; es. lavaggio delle patate in un gruppo
di macachi (cfr. Tomasello).
Una definizione di tradizione (usanza,
consuetudine) in biologia:
“Uno schema di comportamento caratteristico,
condiviso da due o più individui all’interno di una
unità sociale, che persiste nel tempo e che i nuovi
praticanti acquisiscono in parte attraverso un
apprendimento socialmente assistito”. [A distinctive
behaviour pattern shared by two or more individuals
in a social unit, which persists over time and that new
practitioners acquire in part through socially aided
learning.] Dorothy M. Fragaszy, Susan Perry, eds.,The
Biology of Traditions: Models and Evidence, Cambridge
UP, 2003, p. xiii.
df di tradizione
•Analizzando la def., troviamo che le con-
dizioni necessarie perché ci sia una tradi-
zione, per Fragaszy & Perry, sono le
seguenti:
lo schema di comportamento deve essere
1. condiviso [da 2 o più individui; problema:
c’è un numero minimo?]
2. stabile [‘persists over time’: c’è una
durata minima?]
3. trasmesso per apprendimento sociale.
df di tradizione
•Si potrebbero aggiungere due condizioni:
4. il comportamento deve essere differenziato
per gruppo/comunità (=non specie-specifico),
5. ed essere scelto fra alternative compossibili
(=non imposto da condizioni ambientali).
• La cond. 4 serve a escludere che sia un tratto
determinato geneticamente; la 5 a escludere
che sia determinato dall’ambiente (forse in
parte coincide col requisito di ‘arbitrarietà’ di
Holloway).
df di tradizione
•Si possono ipotizzare altre 2 condizioni (non
necessarie, ma probabilmente sufficienti?).
Per essere una tradizione il comportamento
dev’essere:
6. cumulativo (migliorabile o comunque
modificabile a partire dalla forma iniziale);
7. aperto/collaborativo (aperto a contributi
di individui diversi).
È ora possibile comparare le culture umane e
eventualmente non-umane in rapporto al
concetto di tradizione così definito: →
COMPARAZIONE CULTURE UMANE/NON
UMANE
Dimensioni di comparazione:
A) possesso di tutte le condizioni 1-7
B) “qualità” di questo possesso
C) quantità/varietà di tradizioni (di gruppo e
di specie)
D) contenuto delle tradizioni (complessità,
ecc.)
[adattato da: A. Whiten, “The Scope of Culture in
Chimpanzees, Humans and Ancestral Apes”, in Whiten
et al., eds., Culture Evolves, Oxford UP, 2011]
COMPARAZIONE
• Le dimensioni C e D sono chiaramente
quelle in cui le culture umane spiccano di
più.
• Per essere più chiari: un database dello

Human Relations Area Files indicizza >700


categorie di contenuti culturali (Murdock
et al., Outline of Cultural Materials, New
Haven, 2006).
QUALI SPECIE SODDISFANO I REQUISITI?
• Quanto al requisito (A), nelle specie
filogeneticamente più vicine a noi (Pan
troglodytes e Pan paniscus: scimpanzé e
bonobo) sono stati osservati gruppi che
sembrano avere tutte le condizioni elencate
(almeno da 1 a 5; 6 e 7 non sono state
osservate ma sono ipotizzabili a partire da
oggetti rinvenuti).
• Permangono tuttavia alcuni problemi: →
PUNTI PROBLEMATICI
• La stabilità osservata (cond. 2) è limitata
nel tempo (vedi obiezioni di Tomasello);
• le osservazioni sono ottenute soprattutto
in riserve; negli esperimenti spesso si
insegna una pratica a un individuo e poi si
osserva se e come si diffonde (è molto
difficile l’osservazione in libertà);
• soprattutto riguardo alla condizione 3: che
tipo di apprendimento sociale si osserva
nei primati?
APPRENDIMENTO SOCIALE:
IMITAZIONE vs EMULAZIONE
Per Tomasello sono due forme dell’appren-
dimento, legate a due diverse reazioni
all’osservazione di azioni di un altro
individuo:
●Emulazione: ottenere lo stesso risultato, in

qualsiasi modo.
●Imitazione: copiare la sequenza di movi-

menti dell’altro individuo, considerandole


azioni finalizzate (imitazione sequenziale).
IMITAZIONE — EMULAZIONE

Differenze:
●emulazione è ottenere informazioni

dall’ambiente e sull’ambiente; imitazione è


ottenerle dall’altro.
●nell’emulazione l’altro è una variabile

ambientale; nell’imitazione è un modello.


●emulazione è una forma di adattamento;

imitazione è una forma di socializzazione.


Per Tomasello l’imitazione è solo umana
(dopo i 9 mesi).
imitazione e emulazione
•Altri esperimenti (NB: non osservazioni in
natura) suggeriscono però la presenza
d’imitazione anche negli scimpanzé. Si è
notato ad es. un livello di apprendimento
inferiore quando l’animale osserva la
stessa attività svolta da un meccanismo
invece che da un conspecifico. (Whiten et al.,
“Emulation, imitation, over-imitation and the scope
of culture for child and chimpanzee”, Phil. Transact.
Royal Soc. B, 2009).
cumulazione culturale
•Una crescita culturale per collaborazione
inter-generazionale (condizioni 6-7) non è
stata ancora osservata negli animali (a mia
conoscenza).
•Tuttavia l’esame di certe tecniche fa
pensare che ci siano state variazioni nel
tempo. Es. un gruppo di scimpanzé usa
prima un bastone più grosso per bucare il
termitaio, poi un ‘rastrello’ più piccolo per
catturare gli insetti (cfr. Whiten, «The
Scope of Culture...», cit.)
imitazione e emulazione
Conclusione:
•l’effetto ‘dente d’arresto’ (Tomasello) è
un buon modello dell’evoluzione culturale;
ma non è certo che sia necessariamente
solo umano.
•In ogni caso, se c’è discontinuità
animale/umano, dev’essere vista nel
quadro mobile dell’evoluzione.
cultura come prerogativa umana?
• La scarsità di osservazioni potrebbe
essere dovuta a due fattori:
1. Sono specie piuttosto difficili da
osservare sul campo, anche per la
difficoltà delle condizioni di vita.
2. Anche se hanno forme di comunicazione
linguistica, in genere non depositano le
conoscenze in codici che durino al di là
della vita individuale (ma il problema
esiste anche per società umane prive di
scrittura).
cultura come prerogativa umana?
•Intanto, è già esistita almeno una specie
diversa dalla nostra con culture differenziate:
il Neanderthalensis. Forse anche Homo
erectus e Habilis?
•Nel quadro evolutivo, nessuna differenza è
eterna e assoluta. Scrive Ingold:
E tuttavia chi può affermare che [gli animali]
non svilupperanno, in un futuro, competenze
linguistiche e simboliche per conto proprio
(ammesso che non l’abbiano già fatto)? In tal
caso, non dovremo dire che sono animali non-
umani umani? [What Is an Animal?, 1994, p. xix]
L’imitazione negli umani: senso e limiti
• La teoria di Tomasello sul carattere cumulati-
vo-collaborativo della cultura umana si fonda
sulla distinzione imitazione/emulazione.
• La distinzione si basa sulle osservazioni di T.
su primati e bambini: ci sarebbe una
differenza nel modo in cui reagiscono dopo
aver osservato qualcuno che compie
un’azione.
• A quanto pare noi siamo più ‘conformisti’ di
altri primati, e questo potrebbe spiegare la
nostra propensione a collaborare.
L’imitazione negli umani: senso e limiti
• Spiegazione di Tomasello: gli umani hanno la
capacità di “intendere i conspecifici come
agenti intenzionali al pari di sé” (understanding
conspecifics as intentional agents like the self):
in pratica, d’identificarsi coll’altro.
• Secondo alcuni, la base neurale della capacità
imitativa è costituita dai cd. neuroni specchio.
• Per T. è comunque una capacità innata e
genetica. Con quest’unica mutazione si spiega
la capacità d’imitare, di collaborare, e dunque
tutte le acquisizioni tecniche umane.
LE CRITICHE DI INGOLD
• Ingold (Lettura II.4) critica Tomasello per
aver ignorato gli sviluppi contemporanei
dell’antropologia culturale, ma anche certe
tendenze della biologia contemporanea
secondo le quali “le attività degli organismi
si radicano in una continua interazione di
questi con i loro ambienti, interazione in cui
i due poli si costituiscono reciprocamente”.
• Ingold si riferisce alla biologia evolutiva dello
sviluppo (detta evo-devo), oggi sempre più
in espansione: →
LE CRITICHE DI INGOLD
• Per il tradizionale neodarwinismo (la c.d.
Sintesi Moderna), ogni carattere esiste
perché c’è un gene che codifica per esso.
Idealmente, scriveva il biologo Sidney
Brenner nel 1982, conoscendo la mappa
genomica completa di un organismo alla
nascita si può «calcolare l’organismo».
• Ma nella realtà non è così. Ad es. sappiamo
che gemelli monozigoti possono sviluppare
caratteri anche ampiamente diversi.
L’organismo non è solo l’output del suo
codice genetico.
LE CRITICHE DI INGOLD
• Per questo oggi si tende a dare grande
importanza allo sviluppo del singolo
organismo, o ontogenesi.
• Questo è cruciale perché lo sviluppo è
contingente, avviene nell’ambiente, in
interazione con esso e con altri organismi.
• Come dice l’antropologa Christina Toren,
l’essere risulta dunque legato strettamente
al divenire. Le teorie antropologiche centra-
te sull’embodiment e sulla relazione ecologi-
ca sono molto prossime a queste vedute.
LE CRITICHE DI INGOLD
•Ingold attacca la distinzione imitazione/emu-
lazione perché non accetta le nozioni di
trasmissione e di informazione (come bit di
conoscenza che l’individuo riceve
dall’esterno):
È la metafora della trasmissione che non va
bene, perché implica che il comportamento
imitativo ha la propria fonte in un’informa-
zione che è in qualche modo separabile dal
corpo organico che anima, e che è in grado di
“saltare” da un corpo all’altro. (p. 41)
LE CRITICHE DI INGOLD
•In un testo del 1999 questo attacco si capisce
meglio:
L’idea che la cultura è trasmissibile da una
generazione alla successiva come corpus di
conoscenze, indipendentemente dalla loro
applicazione nel mondo, è insostenibile per
la semplice ragione che poggia su una condi-
zione impossibile, quella di un’architettura
cognitiva precostituita [ready-made]. (Ingold,
“Three in one”,
lchc.ucsd.edu/mca/Paper/ingold/ingold2.htm)
LE CRITICHE DI INGOLD
•L’apprendimento non avviene dunque tanto
per ‘trasmissione’ quanto per «riscoperta
guidata»:
Con ciò intendo che, in ciascuna generazione
susseguente, i novizi apprendono in quanto
sono collocati in situazioni in cui, di fronte a
certi compiti, gli si mostra che cosa fare e a
che cosa prestare attenzione, sotto la tutela
di mani più esperte. (“Three in one”, cit.)
•In tal senso, dice Ingold, «ogni imitazione è
emulativa», cioè è nuova interazione con
l’ambiente.
LE CRITICHE DI INGOLD
•Ingold e Tomasello hanno entrambi punti
di forza e di debolezza.
•Ingold non sembra tener conto del ruolo
speciale che nell’apprendimento giocano i
genitori e gli educatori: da quanto dice lui,
sembra che gli stimoli ambientali siano
tutti ugualmente rilevanti.
•Questo non sembra sufficiente a spiegare
l’accumulazione culturale: si dovrebbe
quasi ricominciare a ogni generazione.
LE CRITICHE DI INGOLD
•una pratica culturale può certamente
trasmettersi anche se non c’è una
riproduzione fedele, ma non se manca del
tutto l’intenzione di riprodurre
fedelmente, perché allora si
ricomincerebbe da zero ad ogni passaggio.
•Cioè Ingold non distingue l’intenzione
d’imitare dall’imitazione fedelmente
riuscita. Spesso l’imitazione non riesce, ma
per assicurare il dente d’arresto è già
importante il provarci.
LE CRITICHE DI INGOLD
•D’altronde Tomasello insiste troppo
sull’imitazione come riproduzione fedele.
•Ci sono due problemi: (1) una copia esatta è
quasi impossibile, perché le condizioni
ambientali variano continuamente. (2) Se
s’insiste sulla copia identica non si dà conto
dell’innovazione culturale.
•In tal senso è vero che ogni imitazione è in
qualche misura emulazione. Il discente può e
forse deve ‘superare il maestro’.
•Ingold vede l’apprendimento come continua
anomalia, T. come analogia (vedi oltre).
VARIAZIONI CALENDARIO:
• martedì 9 aprile: cancellata per vacanze
pasquali
• venerdì 17 aprile: lezione sulla scrittura
(lez. n. 26)
ADATTAMENTI BIOLOGICI, CULTURALI, O
BIOLOGICO-CULTURALI?
• La decostruzione del concetto di specie
prosegue con l’esame del concetto di
adattamento. Questo ci serve a sua volta per
approfondire la graduale sostituzione
dell’idea di ‘Grande Catena dell’Essere’ con
l’idea di ambiente.
• Ogni adattamento è sempre un coadatta-
mento che coinvolge un intero ecosistema o
parti significative di esso. Nondimeno, parti
diverse del sistema possono avere velocità
diverse di adattamento.
adattamenti biologico-culturali
Le popolazioni biologiche non si limitano cioè
a subire passivamente una sequenza di
problemi preesistenti, posti dall’ambiente,
atomizzati, ma modificano attivamente (con il
metabolismo, la ricerca del cibo, la
costruzione di ripari, gli spostamenti) i
parametri ecologici esterni e con essi il
quadro delle pressioni selettive che poi
retroagiranno su di loro.
[Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati, Einaudi,
2014]
adattamenti biologico-culturali
• L’ambiente non è semplicemente ‘dato’,
perché il sistema formato da ‘noi + ambiente
+ altre specie’ è in perenne trasformazione.
• Si passa da una concezione basata sulla
demarcazione dei confini a una concezione
basata sul riassestamento continuo dei
confini.
• I sistemi raggiungono piattaforme di equili-
brio provvisorio, che la nostra conoscenza
incompleta ha scambiato per fissità.
adattamenti biologico-culturali
• Ogni plateau di stabilità provvisoria include
l’apporto delle attività che chiamiamo
‘culturali’. Non ci adattiamo a un ambiente
pre-umano, ma ci adattiamo in e con un
ambiente che ci contiene.
• Ogni ambiente è stato modificato, comprese
le cd. aree ‘vergini’. (È il campo di studi
dell’ecologia storica. Cfr. ad es. William
Balée, Cultural Forests of the Amazon. A
Historical Ecology of People and Their
Landscapes, Univ. of Alabama Press, 2013.)
adattamenti biologico-culturali
• Le culture indigene sono spesso del tutto
consapevoli del proprio ruolo, benché non si
limitino a considerare ciò che noi chiamiamo
interventi ‘tecnici’:
"Il Parco Nazionale Nitmiluk non è un'area
naturale [...], è un prodotto dell'attività umana.
È una terra da noi plasmata da decine di migliaia
di anni – attraverso le nostre cerimonie e i nostri
legami di parentela, attraverso il diboscamento
col fuoco e la caccia". [Testimonianza di un
leader aborigeno australiano, cit. in Philippe
Descola, Par-delà nature et culture, p. 78]
adattamenti biologico-culturali
• Anche gli squilibri ecologici indotti dagli
umani sono da inquadrare negli sviluppi
biologico-culturali.
• Il carattere cumulativo della conoscenza
umana ha generato un differenziale di
velocità tra i nostri adattamenti e i
coadattamenti reciproci dell’ambiente.
• Il processo va avanti dalla più remota
preistoria: →
adattamenti biologico-culturali
• In the early phases of human evolution,
particularly in Africa, induced fires were a major
agent of change. Man is known to have used fire
since Paleolithic times, so that the distribution of
forest cover, especially in subtropical and
savannah areas, has been closely associated with
his activities. For example, at the well-known
Kalambo Falls archaeological site on the Tanzania-
Zambia border there is evidence of the use of fire
as long ago as 60,000 years, while in Southern
Tasmania recent researches have revealed the
extensive use of fire to clear forests between
30,000 and 40,000 years ago (Richard H. Grove,
Green Imperialism: Colonial Expansion, Tropic Island
Edens and the Origins of Environmentalism,
Cambridge UP, 1995, p. 17).
adattamenti biologico-culturali
• la deforestazione ha conseguenze (es.
savanizzazione) che condizionano le attività
umane. La tecnica modifica l’ambiente, che
condiziona la tecnica. Il ciclo di agentività e
passività è continuo.
• Es.: Jared Diamond in Armi acciaio malattie
sostiene che a un certo stadio la civiltà austra-
liana era forse quella più avanzata. Ma ca.
10.000 anni fa la caccia intensiva provocò
l’estinzione di grandi mammiferi che poteva-
no essere addomesticati. Quella aborigena
rimase una società di caccia e raccolta.
adattamenti biologico-culturali
• La dicotomia naturale/artificiale appare
sempre più inadeguata: noi, come specie
(=‘natura’), ci adattiamo a un ambiente che
contribuiamo a modificare (=tecnica), come
accade per tutti gli organismi.
• In breve il nostro ambiente è costituito
anche da tutto il feedback che il lavoro
umano ha re-immesso nell’ecosistema.
• Questa reimmissione comprende anche la
conoscenza, in quanto produzione di
ambienti di vita sociali che solo parzialmente
possono essere ‘de-territorializzati’.
adattamenti biologico-culturali
●NB: i caratteri ottenuti
per selezione naturale
non sono irreversibili:
l’evoluzione non ha una
direzione (non è un
‘progresso’).
●Ad es. ci sono specie

che si adattano ad am-


bienti inquinati, poi di
nuovo si riadattano Es.: falene Biston
quando l’inquina- betularia nelle foreste di
mento si riduce.
betulle intorno a Londra.
adattamenti biologico-culturali

•Né, viceversa, i tratti culturali sono reversibili


in un senso semplice. I processi storici non
sono illimitatamente fluidi, ma hanno diversi
gradi di rigidità (cfr. il concetto di ‘dente
d’arresto’).
•Ad es. ci sono caratteristiche di fondo (geo-
grafiche, demografiche, gerarchiche, &c), che i
membri di una cultura dall’interno notano a
malapena, e che durano millenni (cfr.
concetto storiografico di très longue durée,
introdotto da F. Braudel).
adattamenti biologico-culturali
• È molto difficile (se non impossibile, direbbe
forse Wittgenstein) identificare i confini del
mutamento culturale. Questo semplicemente
perché possiamo stabilirli solo dall’interno di
una forma di vita: una posizione dalla quale
non è facile testarne la plasticità. Come si può
specificare ora quel che potremo e non
potremo fare?
• Detto in un linguaggio aristotelico: ciò che
possiamo dire sul nostro essere potenziale è
condizionato dal nostro essere attuale.
Un esempio di variazione dei confini tra natura
e cultura: la morte in Occidente
•La rappresentazione di ciò che è ‘natura’ e i
confini tra naturale e artificiale vengono
continuamente rinegoziati.
•Un esempio: i nostri atteggiamenti nei
confronti della morte. Fino a non molto
tempo fa era ‘naturale’ morire a età che oggi
ci sembrano ‘precoci’ e addirittura ‘ingiuste’.
•Tuttavia la maggiore longevità di oggi non è
percepita come un’operazione artificiale di
allungamento.
mutamenti natura/cultura – un esempio
•Anzi, la biomedicina oggi presenta
l’allungamento della vita (>90, forse 100)
come ripristino di un limite naturale (vs.
fattori che ora non sono più considerati
naturali, bensì impedimenti del corso
naturale, come malattie, guerre, carestie).
•Insomma: data la nuova possibilità tecnica,
il concetto di natura è stato ricategorizzato.
Tra biologico e tecnico: la domesticazione
Anthropologists and archaeologists have
argued that domestication should not be
seen as a one-off event for which humans
alone are responsible, but as an ongoing
process of mutual adaptation in which other
species also exercise agency.

[White-Candea, “Animals”,in The Cambridge


Encyclopaedia of Anthropology]
la domesticazione
•La domesticazione di animali e piante è un in-
treccio bio-culturale di cui siamo stati agenti
storici (nella ‘lunghissima durata’).
•La domesticazione è un adattamento
reciproco: i cacciatori si sedentarizzano, gli
animali sono legati all’apporto di energia
fornito da noi sotto forma di nutrimento.
•Per questo le specie domestiche sono
instabili nel senso che, se sopravvivono, non
conservano i caratteri per cui sono state
selezionate: un cane può rinselvatichirsi in
pochi mesi, un frutteto in pochi anni.
Un esempio: la domesticazione del cane
•La domesticazione del cane mostra bene la
commistione di modalità evolutive.
•L’ipotesi oggi più accreditata: (1) all’inizio,
individui più deboli separati da branchi di
canidi (lupi, forse anche coyote) che
seguivano i gruppi umani nomadici
nutrendosi di avanzi; (2) poi accettati come
spazzini e guardie; (3) infine addestramento e
selezione genetica per breeding.
•Da notare che l’addestramento è possibile
solo grazie alla plasticità cognitiva dei canidi.
Coevoluzione e retroazione nel caso umano
•Ci sono ipotesi famose su casi in cui l’agentivi-
tà tecnica e gli stili di vita hanno retroagito
modificando la nostra struttura fisiologica
(‘autoaddomesticamento’, termine usato da
Gehlen).
•Un es. è la produzione di lattasi (enzima per la
digestione del lattosio) nei popoli allevatori di
bovini (Lettura II.3);
•più indietro nel tempo, un altro es. potrebbe
essere la perdita della capacità di digerire
carne cruda dopo la scoperta della tecnologia
del fuoco.

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