L’opportunismo è una capacità strana rispetto alle prestazioni epistemologiche tradizionali: è più una
scommessa che una conoscenza. La conoscenza in senso classico (quella ‘dello spettatore’) vede il
proprio oggetto, è frontale: è un rappresentarsi adeguatamente una realtà posta di fronte a noi (si
riparlerà più avanti di rappresentazionalismo e anti-rappresentazionalismo). Ma nel caso
dell’opportunismo l’oggetto non c’è, non è ancora presente. Opportunismo dunque vuol dire non tanto
rappresentarsi adeguatamente una cosa, quanto formarsi una pre-immagine (il termine non è preciso,
ma non ne ho uno migliore) provvisoria, magari imperfetta.
Rispetto a questa pre-immaginazione bisogna essere capaci (1) di non agire subito in base a essa,
ma nemmeno scartarla, bensì conservarla per usi futuri; ma paradossalmente anche (2) di agire come
se avessimo una conoscenza più perfetta di quella che effettivamente abbiamo, quando occorre, cioè
in condizione d’incertezza. È questo l’elemento di scommessa, per il quale ricordo l’espressione
educated guess). Nell’epistemologia classica, per conoscere devo già sapere che cosa sto cercando. È
la domanda di Platone nel Menone: come posso riconoscere che un certo pensiero è vero, se non ce
l’ho già in qualche forma dentro di me? Platone la risolve con la teoria dell’anamnesis, la conoscenza
come reminiscenza. È un’idea interessante anche per la storia culturale, perché si basa su un’idea di
metempsicosi che con ogni probabilità veniva dall’India (con la mediazione del pitagorismo, molto
influente su Platone). Tuttavia, se è così, non si conosce mai qualcosa di veramente nuovo. In
alternativa, bisogna per forza ammettere che noi siamo capaci di aspettarci qualcosa ‘al buio’.
Questa è una capacità umana fondamentale: per es., se l’intelligenza non avesse questo carattere
opportunistico, avremmo bisogno della politica come mezzo di definizione dei rapporti di potere? Le
nostre gerarchie sociali sarebbero determinate in modo abbastanza semplice sulla base della
1
Circa l’uso che faccio del concetto di opportunismo, ho trovato pochi studi specifici nella letteratura antropologica, e
alcuni abbastanza vecchi: H. S. Harrison, “Opportunism and the Factors of Invention”, American Anthropologist, 32, 1,
1930; Christopher E. Parker, “Opportunism and the Rise of Intelligence”, Journal of Human Evolution, 7, 1978; Dario
Maestripieri, Macachiavellian Intelligence: How Rhesus Macaques and Humans have Conquered the World, University
of Chicago Press, 2007. In biologia e zoologia il termine è comunque molto diffuso.
conformazione fisica, come per molte specie di animali gerarchici. Ma negli esseri umani, come ha
compreso Hobbes, tutto il problema politico nasce dal fatto che anche il più forte non è mai al sicuro
(vedi cit. in slide).
Dunque l’intelligenza umana contiene questo elemento che non è esattamente conoscitivo, anzi
include a volte la capacità di agire come se avessimo una conoscenza che non abbiamo (l’ho chiamata
una capacità ‘teatrale’, avendo in mente gli studi di Goffman sulla messa in scena del sé nella vita
sociale, ma non è il momento di parlare di questo).
Consideriamo un frammento di Eraclito: «Chi non si aspetta l’inatteso [o: chi non spera l’insperato],
non potrà mai trovarlo, giacché esso è introvabile e impenetrabile» 2. Si noti il verbo elpomai = sperare,
aspettarsi, supporre, osare. Chi non si aspetta l’inatteso, l’insperato, l’inosabile, il sorprendente, non
potrà mai trovarlo. Qualcuno di voi ha chiesto: ma se me l’aspetto come può essere una sorpresa? Ma
in realtà lo facciamo continuamente. Anzi la nostra esistenza dipende da questa strana capacità:
perché se le sorprese fossero sorprese totali, ne saremmo completamente sopraffatti, e questo forse a
volte può succedere, ma certo non sempre. (Vedi in Gehlen il tema del “profluvio degli stimoli” e il
conseguente bisogno di esonero.) E d’altro canto, se non ci fossero mai sorprese, potrei trovare solo
quel che stavo cercando, dunque non troverei mai il nuovo.
Ma noi a volte troviamo qualcosa di nuovo. Dunque (‘argomento trascendentale’, si chiama in
filosofia) abbiamo questa capacità strana: lo sperare, l’attendersi, che non è un cercare, ma è un
lasciare che ti capiti qualcosa di impensabile, d’incomprensibile. Se non avessimo questa
indeterminazione fondamentale, noteremmo soltanto ciò che rientra nelle nostre categorie (anche
questo è un tema kantiano ripreso in Gehlen). Certo, alla fine lo riconosciamo, lo riduciamo
analogicamente al noto, perché altrimenti non sapremmo nemmeno di averlo incontrato: ma il
riconoscimento è impegnativo, non è ovvio, richiede uno sforzo (cfr. cit. di Kahn in slide).
Perciò la speranza o aspettativa è un’abilità cognitiva vera e propria; viene da chiedersi se altri
animali possono sperare in questo senso (giustamente qualcuno di voi ha ricordato un passo di
Wittgenstein a questo riguardo).
Antropomorfismo è attribuire caratteri umani a qualcosa che non è umano. Non solo animali e
vegetali, ma anche enti materiali, atmosferici, ecc. Anzi nemmeno solo entità materiali:
l’antropomorfismo religioso è una forma fondamentale (vedi lettura Becker e citazioni da Senofane in
slide). Anche rappresentazioni molto raffinate e astratte del divino devono passare per la percezione
umana: vedi la metafisica della luce (cfr. il teologo medievale Roberto Grossatesta; ho trovato anche il
riferimento all’islam a cui pensavo durante la lezione: Mulla Sadra e la c.d. scuola di Isfahan).
Qualunque nozione di antropomorfismo – in quanto ‘-ismo’, cioè in quanto consapevole proiezione di
tratti umani su qualcosa – ha senso solo a partire dalla demarcazione tra umano e non-umano. Nello
schema della Grande Catena dell’Essere, l’antropomorfismo risulta tipicamente definito come fallacia,
perché prende la differenza specifica di un nodo (l’anthropos), e l’applica arbitrariamente a dei nodi
(taxa) che non si dipartono da quel nodo, e dunque non ne hanno ereditato le specificità (“eredità” in un
senso logico, non biologico).
Notiamo che a generare la fallacia è proprio il fatto di prendere l’essenza, la differenza specifica, e
trasportarla altrove nello schema. Non importa se il carattere dell’onnivorismo è attribuito agli umani e
2
Per chi conosce il greco: ἐὰν μὴ ἔλπηται, ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον (DK B 18).
anche ad altri esseri, perché questo è un carattere accidentale, non essenziale. Ma se si prende invece
la razionalità, o qualche proprietà che è concepita come derivante dalla razionalità, come, per dire, il
linguaggio, o la capacità di calcolo, o la morale, allora il fatto di proiettarla in altri punti del diagramma
diventa un errore vero e proprio. (Naturalmente ho sottolineato in precedenza che questo sistema
cosmologico presenta parecchi problemi, anche all’interno della cultura occidentale. Per es. l’indagine
empirica ha mostrato importanti tratti di intelligenza e forse anche di moralità in animali; e questo non
c’è modo di spiegarlo all’interno dello schema della Grande Catena.)
Ma ci sono esperienze del mondo in cui l’essere persona non coincide coll’insieme degli esseri che
fanno parte della specie Homo sapiens – pensiamo all’ontologia degli Ojibwa di cui parla Ingold. In
queste ontologie, certi caratteri salienti che noi consideriamo umani sono comuni a molte altre entità. Si
potrebbe dire, in un certo senso, che in queste culture l’antropomorfismo è presente3, ma non è una
fallacia. È piuttosto una parte integrante della loro cosmologia, o della loro esperienza ‘educata’ del
mondo.
Ora, in una cultura che risente di tante origini come la nostra, e che oggi ha così tanti ‘discorsi
autorevoli’ al suo interno, così tante ‘fonti di verità’ (dalla scienza alla religione alle ideologie più
diverse), è quasi inevitabile che la rete dell’esperienza che ho chiamato ‘educata’, già culturalizzata,
presenti degli strappi, cioè che non sia perfettamente coerente.
Questa è appunto la situazione in cui ci troviamo oggi. Veniamo da una lunga storia di
discontinuismo tra umano e non-umano; oggi ci sono alcune idee-forza, sia sociali sia scientifiche sia
filosofiche, che ci inducono a mettere in discussione questa continuità; ma non è immediatamente
evidente come bilanciare queste forze contrapposte. Per un verso, ci trasciniamo dietro una mentalità
‘a generi e specie’. Nello stesso tempo abbiamo oggi, per es. in etica, una nuova visione, forse non
ancora prevalente, in cui il rapporto con gli animali è molto diverso: non riusciamo più a considerarli
come automi, come Descartes (animalismo, ecc.)
Probabilmente i primi ad avere la consapevolezza della nostra relatività e anche a esplicitarla, nella
storia del pensiero occidentale, sono stati i sofisti. C’è una famosa affermazione di Protagora (riportata
nel Teeteto) secondo la quale ‘l’anthropos è misura di tutte le cose’ (detta a volte la tesi dell’uomo-
misura, o metron anthropos).
È chiaro che antropomorfismo e relatività antropologica sono due cose concettualmente separate,
ma ciò non implica che siano indipendenti. Per es. Ralf Becker sostiene (in una parte dell’articolo che
non ho inserito in lettura) che tale relatività è il quadro cognitivo in cui si sviluppa l’antropomorfismo.
Potremmo forse parlare di un complesso formato da antropomorfismo/relativismo antropologico. Ci si
può chiedere: se il relativismo antropologico è insuperabile – cioè se siamo misura di ogni cosa –
anche l’antropomorfismo è cognitivamente insuperabile? Cioè, non possiamo che comprendere il
mondo usando le nostre fattezze? E. Visalberghi, nella Lettura, pensa di sì: non possiamo far a meno di
proiettare noi stessi, in partic. sugli animali. Ma credo che la questione resti irrimediabilmente aperta.
4
Prendo questa idea da Ralf Becker.
abbiamo un modo di stabilire in via preliminare se esistano dei limiti invalicabili, che nessun strumento
può aggirare – ma il quesito stesso è mal posto: se sono invalicabili per principio non lo sapremo mai, e
ciascun limite che valichiamo non ci dice niente sul successivo.
Val la pena di riflettere un attimo su queste limitazioni o distorsioni neurofisiologiche. Perché non
dovremmo averne anche noi, come ogni animale? In fin dei conti abbiamo un apparato percettivo che
ha i propri limiti, in gran parte dovuti all’evoluzione. Un moscone va a sbattere contro il vetro perché il
vetro è un prodotto artificiale umano e il moscone si è evoluto in un ambiente che non includeva il vetro.
Però attenzione: il vetro non c’era neanche nel nostro ambiente evolutivo, e infatti un cristallo ad alto
grado di trasparenza spesso trae in inganno anche il nostro occhio, con effetti comici. Abbiamo
limitazioni cognitive come tutti gli animali. E abbiamo anche distorsioni del ragionamento, a volte indotte
dalle nostre stesse conoscenze.
Lasciando da parte questa critica, torniamo a chiederci invece se l’antropomorfismo sia necessario
cognitivamente: cioè fino a che punto possiamo far a meno di prestare fattezze umane a quel che ci sta
intorno.
In sintesi: di quanto antropomorfismo abbiamo bisogno per comprendere il mondo? In questo caso
l’antropomorfismo s’intreccia col fatto che noi guardiamo la realtà dal punto di vista e con categorie
umane. (→ la ‘rivoluzione copernicana’ dello sguardo epistemologico, in Kant.)
Benché non sia possibile una risposta in assoluto, si può congetturare che una qualche forma
bisogna pur attribuirla al mondo non-umano. Prescindere totalmente da ogni ‘messa in forma’ –
un’operazione cognitiva che è stata chiamata ‘amorfismo’5 – potrebbe non essere possibile sul piano
psico-cognitivo. Non sono in grado di prender posizione su questo punto. Di certo, se è inevitabile dare
una forma, è facile intuire che certe attribuzioni antropomorfiche, certi modi di vedere tratti umani
nell’ambiente, potrebbero essere il frutto dell’evoluzione, perché rappresentano un vantaggio. Per es.
noi abbiamo una spiccata capacità di riconoscere un volto, o comunque una figura umanoide con occhi
e bocca, in un quadro di stimoli caotico e ridondante di informazioni. È una capacità che viene sfruttata
in mille giochi e illusioni ottiche (‘scopri dov’è la faccia che ti guarda in questa figura’) e chiaramente
porta con sé un vantaggio evolutivo, perché individuare un nemico o un predatore in agguato è una
prestazione che può fare una notevole differenza, spec. nell’ambiente in cui la nostra specie si è
evoluta. Può darsi quindi che certi modi di percezione antropomorfica siano stati selezionati
evolutivamente.
C’è comunque un altro aspetto che ci interessa particolarmente, ed è in relazione al concetto di
comprensione. Vari autori hanno sostenuto che un certo grado d’antropomorfismo è necessario per
l'immedesimazione, dunque per la possibilità di ‘rivivere’ l’esperienza di altri esseri.
In partic. questo tipo di antropomorfismo sembra essere necessario o quasi per l'immaginazione
poetica e metaforica, forse anche religiosa. – Non potendo approfondire, mi limito a fornirvi due
citazioni molto dense: una da Leopardi, l’altra da Nietzsche (SLIDE).
Nietzsche allude evidentemente a Protagora, e notiamo che per N. l’errore non è quello di servirsi di
una metrica umana come “misura di tutte le cose”, ma di farlo senza consapevolezza, credendo di aver
a che fare con entità naturali, “oggetti puri”.
Questo inserto poetico-letterario ci dice qualcosa su come è fatta la comprensione, nel senso
diltheyano del Verstehen. Noi tendiamo a comprendere tutto in termini di noi stessi; in fondo è questo
l’esito della frase di Dilthey. Se quel che noi possiamo comprendere è la vita psichica, bisogna
ammettere che l’unica vita psichica con cui siamo a contatto è la nostra. Proiettare noi stessi sulla cosa
da comprendere è come minimo un modo molto diretto per ottenere una comprensione, persino
quando la cosa che abbiamo davanti è un fenomeno naturale.
Dilthey limitava la comprensione ai fenomeni umani. Forse però è una limitazione riduttiva: forse
l’antropomorfismo è il tramite per cui estendiamo questa operazione cognitiva ad altre sfere dell’essere.
Noi di fatto tentiamo continuamente di comprendere la natura, di sentirci in comunione. Di fatto non
guardiamo la natura con gli occhi della meccanica fisica. Per Dilthey, avremmo la scelta solo tra il
meccanicismo (che è presunto come neutro) e lo psicologismo; ma non è così che ci accostiamo
realmente al mondo. Per noi le cose della natura assumono un significato, e questo rappresenta già un
5
Cfr. Emanuela Cenami Spada, “Amorphism, Mechanomorphism, and Anthropomorphism”, in R.W. Mitchell, N.
Thompson, J. Miles, eds., Antropomorhism, Anecdotes, and Animals, Albany: SUNY Press, 1997.
modo di comprenderle e non solo di spiegarle. Per questo ci viene da descrivere molte cose come
esseri viventi (una montagna, una tempesta) e alcune cose addirittura come se avessero una vita
psichica, cioè come se fossero “come noi”6.
La mentalità occidentale sconta questa divaricazione tra il modo in cui viviamo quotidianamente il
nostro rapporto col non-umano e ciò che sappiamo, o di cui siamo convinti, per via della nostra
formazione scientifica. Noi sappiamo ‘oggettivamente’ che il tavolo è una collezione di atomi in cui
particelle piccolissime girano intorno ad altre, e c’è enormemente più spazio vuoto che pieno in questa
materia. Ma soggettivamente nessuno di noi ha esperienza di questo e nessuno può dire di percepire o
sentire il tavolo in questo modo. Così sappiamo che la Terra gira su sé stessa e intorno al Sole, ma
nessuno di noi può dire di ‘vivere’ questa esperienza: la nostra fenomenologia è ancora quella della
fisica aristotelica, in cui le cose cadono ‘perché sono pesanti’ e la Terra è fissa. Non so se un qualche
addestramento potrebbe portarci a percepire la materia in accordo con le leggi della fisica, ma di certo
al momento non è così. E questo significa che dobbiamo accettare una frattura tra la nostra esperienza
e il nostro sapere intorno al mondo. (È questa la grande differenza che ci separa da culture come
quelle che Descola chiama ‘animiste’, o quelle descritte da Ingold.)
TIPI DI ANTROPOMORFISMO
(Quest’ultima parte della lezione voleva essere più storico-culturale, come spunto per ulteriori
ricerche.)
Ci sono senza dubbio molti tipi di antropomorfismo. Bisogna almeno tener presente, per ulteriori
riflessioni, che si sono ‘antropomorfizzati’ oggetti di tipo molto diverso. Cioè si è parlato in termini umani
del divino, o del destino, da una parte; e delle realtà naturali, in partic. degli animali, da un’altra. Ma si
umanizzano anche i processi economici, i reagenti chimici, ecc. Si è persino antropomorfizzato l’umano
stesso: infatti a volte la psicologia, sopratt. la psicoanalisi e la psicologia del profondo, descrivono i
processi psichici in termini umanizzati, come se avessero una vita propria, come se agissero per conto
loro (vedi cit. freudiane in SLIDE).
In partic. il senso teologico dell’antropomorfismo è connesso addirittura agli esordi storici del termine
‘antropologia’. Nelle attestazioni originarie, “antropologizzare” voleva dire grosso modo “umanizzare”,
antropomorfizzare. Nelle fonti greche più antiche troviamo solo la forma verbale, anthropologein, che si
applicava ai discorsi sugli dèi e non sugli umani. Anthropologein significava “umanizzare” gli dèi, rap-
presentarli come dotati di qualità tipicamente umane 7. Dunque non “parlare dell’uomo”, ma “parlare dal
punto di vista umano”. Era un termine critico, polemico: stigmatizzava il fatto di avere un paraocchi che
ci spinge a credere ingenuamente che tutto ciò ch’è più elevato debba assomigliare a noi. Questa è
una rappresentazione del divino tipica di molte religioni mitologiche, e nella cultura greca è
esemplarmente tramandata nei poemi omerici e nella Teogonia di Esiodo.
La polemica contro l’antropomorfismo è stata spesso sostanzialmente una contrapposizione tra
mitologia e filosofia. Fin dai primordi la filosofia si costituisce come un sapere più avanzato rispetto al
livello ‘ingenuo’ delle credenze popolari e culturali. C’è un famoso frammento del presocratico
Senofane su questo (SLIDE). Socrate nell’Eutifrone platonico (6a6) fa del sarcasmo quando il bigotto
Eutifrone, come giustificazione del suo rapporto conflittuale con suo padre, gli porta l’esempio di Zeus
che incatena il padre Crono (come Crono aveva sconfitto suo padre Urano). E lo stesso Aristotele, in
un passo della Met. (1000a), prende in giro una teologia che prenda alla lettera le caratteristiche
attribuite dal mito agli dei, come il mangiare nettare e ambrosia.
Anche la tradizione ebraico-cristiana, per certi aspetti, combatte l’antropomorfismo: vedi il divieto di
farsi immagini di Dio, nell’ebraismo e in seguito nell’islam (e nel cristianesimo calvinista-luterano). Però
attenzione: nell’ebraismo questo divieto non riguarda tanto le immagini antropomorfiche, quanto quelle
zoomorfiche, tipiche del politeismo (il vitello d’oro). È paradossale, ma spesso nei politeismi le fattezze
umane in un certo senso sono meno importanti: gli dei possono prendere innumerevoli forme, tra cui
quella umana, ma non è detto che quella umana sia quella centrale – ogni ente naturale può andar
bene. Nel monoteismo ebraico-cristiano c’è almeno una base teologica per la rappresentazione di Dio
con sembianze umane, perché in fondo l’uomo è creato a immagine e somiglianza, e per quanto sia
6
Tra tutti i filosofi che hanno lavorato sulla nostra percezione partecipativa della natura, cito M. Merleau-Ponty e,
ancor prima, John Dewey (Experience and Nature).
7
Cfr. Giulia Sissa, Marcel Detienne, La vita quotidiana degli dei greci, Roma-Bari: Laterza, 1989, p. 18.
una somiglianza lontana non è nulla. E nel cristianesimo Dio si è incarnato in un corpo umano
(l’incarnazione è molto diversa dal semplice ‘prender sembianze di’: a volte nelle visioni dei santi Dio
può apparire in forma di colomba o di altre entità, ma lì si tratta chiaramente di una forma apparente,
assunta solo per rendersi comprensibile dal nostro intelletto limitato).
Non voglio comunque entrare in questo problema teologico molto sottile, che riguarda il carattere
commensurabile o incommensurabile del rapporto uomo/Dio nelle religioni. Sul piano antropologico non
è irrilevante, perché c’è in gioco l'interpretazione della creaturalità dell’umanità: Adamo è creato sì, ma
a immagine e somiglianza del creatore. Qui il pensiero centrato sull’umano non è autonomo, ma
dipende da una certezza teologica: l’essere umano ha una posizione speciale perché è investito di una
missione divina. Nel cristianesimo il tema sarà poi in qualche modo superato dalla teologia
dell’incarnazione, in cui si realizza addirittura la coincidenza di umano e divino nella stessa persona.
Sono temi fuori dal nostro ambito, ma è importante capire che c’è tutta una serie di forme culturali e di
fasi storiche in cui l’antropologia rimane subordinata, rimane in un certo senso instabile rispetto alla
teologia. Non a caso, nella linea di pensiero che va da Platone e Aristotele fino a Tommaso, il termine
‘antropologia’ non è in uso. I termini philosōphia e theolōgia sono più che sufficienti: non c’è bisogno di
una scienza dell’umano in quanto tale. È una teologia che vuole intellettualizzarsi, liberarsi
dall’antropomorfismo; in realtà dell’antropomorfismo non ci si libera tanto facilmente, dato che noi
siamo anthropoi e non abbiamo altra visuale che la nostra. E non sarà un caso che molti filosofi
eterodossi, da Senofane a Feuerbach, hanno ritenuto che ogni religione sia sotterraneamente
antropomorfica.
L’applicazione del termine «antropologia» allo studio degli esseri umani prende forma e forza con
l’umanesimo rinascimentale e poi con l’illuminismo. Il discorso umanistico è largamente ‘teomorfico’, in
quanto afferma l’elemento divino nell’essere umano, e proprio in questo elemento consiste la dignitas
homini. Il carattere fondamentale che avvicina l’uomo al divino non è altro che la libertà, il potere di
scegliere (anche tra bene e male). Con questa stessa mossa – chiamiamola l’invenzione del concetto
di libertà nel senso moderno del termine – si ottiene però anche un altro effetto, in realtà un effetto
fondativo per l’antropologia filosofica: perché nel momento stesso in cui rivendichiamo la nostra libertà
la togliamo al mondo naturale ivi compresi gli animali. Nell’antichità e nel medioevo l’umanizzazione
degli animali è corrente nel discorso comune e addirittura nelle pratiche culturali. Ad Atene, in età
arcaica e ancora in età classica, c’era un tribunale che, fra gli altri delitti di sangue, giudicava e puniva
anche gli animali e addirittura le cose che avessero causato la morte di qualcuno (una trave, ecc.) 8.
Ovviamente in questo caso non si trattava di una questione di giustizia nel senso attuale del termine,
che coinvolge appunto il concetto di libera scelta. Era piuttosto una questione di contaminazione:
l’animale o l’oggetto dovevano essere purificati. Ma la pratica di giudicare gli animali non scomparve
nemmeno dopo che il cristianesimo ebbe introdotto il concetto di libertà, fino a un’età molto recente:
ancora nel Quattrocento sono documentati processi agli animali, in Francia e altre zone d’Europa.
(Interessante il fatto che l’animale catturato venisse vestito con abiti umani per essere giudicato.) 9
Viceversa, la concezione moderna dell’animale è quella della creatura innocente, che non porta colpe
di quel che fa in quanto non ha l’intelletto per scegliere in modo diverso, non ha libertà. Questa svolta
moderna verso il concetto di libertà avrebbe dovuto quindi porre fine all’antropomorfismo come
proiezione di caratteri umani, tanto in teologia quanto in zoologia. Gli animali parlanti, sapienti o astuti,
restano nel patrimonio mitologico dell’umanità, ma escono dalla sfera del sapere (almeno fino alla
teoria dell’evoluzione). (Avrebbe dovuto, ma vi è riuscita? questione aperta)
8
Robert Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle [1959], trad. it. di Maria Grazia Meriggi, Milano:
Rizzoli, 1983, p. 291, citando Glotz, La cité grècque, p. 275.
9
Edward Payson Evans, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals, New York: Dutton, 1906. Trad.
it. Animali al rogo: storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all'Ottocento, Milano: Res Gestae, 2012.