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della metafisica
A cura di Enrico Berti
isbn 978-88-430-9499-8
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Introduzione 13
di Enrico Berti
1. La metafisica di Platone 25
di Francesco Fronterotta
L’opera 47
La definizione della metafisica 50
Il metodo della metafisica: la discussione delle aporie 52
L’unità della metafisica: l’ente in quanto ente
come oggetto che deve essere spiegato 54
Differenza tra la metafisica e le altre scienze teoretiche 58
Dall’ente in quanto ente alla sostanza e ai suoi principi:
materia e forma, potenza e atto 60
Critica dei principi posti dagli Accademici: l’uno e i molti
e le loro “specie” 63
Il medioplatonismo 73
Plotino 80
Il neoplatonismo dopo Plotino 83
Platonismo e “metafisica dell’Esodo” 87
Riferimenti bibliografici 90
4. La metafisica arabo-islamica 93
di Amos Bertolacci
Note 197
Riferimenti bibliografici 198
9. Kant 221
di Costantino Esposito
L’opera 279
L’idea dell’essere e la questione del fondamento 280
Il metodo: «ragionamento circolare, ma non vizioso» 285
La dialettica tra essere iniziale ed essere virtuale 286
Essere e Dio 289
La triniformità dell’essere 292
La creazione 294
Conoscenza umana e conoscere assoluto 296
Rosmini e Gioberti 299
Il rosminianesimo 301
Riferimenti bibliografici 302
gua nettamente e come tale dalla scienza “fisica”, ponendosi come ulteriore
rispetto a essa per il metodo e per l’oggetto. È vero però che Aristotele, in
Metafisica xii 1, 1069a 30-b 2, passando in rassegna le tipologie di sostanza
più volte chiamate in causa nei libri precedenti, vale a dire la sostanza sen-
sibile, che a sua volta può essere corruttibile o eterna, e la sostanza immo-
bile, precisa rispetto a quest’ultima che è stata già riconosciuta da “alcuni”
come distinta e separata dalle altre (ταύτην φασί τινες εἶναι χωριστήν), per
“gli uni” consistendo di due gruppi differenti di entità, le idee e gli enti ma-
tematici, per “altri” di un solo gruppo composto di idee ed enti matematici
tra loro coincidenti, per “altri ancora” dei soli enti matematici (οἱ μὲν […] οἱ
δὲ […] οἱ δὲ), e questo tipo di sostanza, conclude Aristotele, non può essere
oggetto della fisica, ma di una scienza diversa da quella. Appare del tutto
chiaro che Aristotele fa riferimento qui, suggerendone una succinta ma
efficace catalogazione, alle diverse posizioni difese da Platone e dagli altri
Accademici ed è altrettanto chiaro che egli attribuisce loro, in generale, la
tesi dell’esistenza di un genere di sostanza diverso e trascendente rispetto a
quella fisica, e in tale misura “metafisica”, come pure di una forma di inda-
gine o di scienza che la riguarda in modo esclusivo.
Ma vi è di più, perché un’altra testimonianza, benché solo parzialmen-
te esplicita, che autorizza l’attribuzione di una prospettiva metafisica a
Platone, si trova proprio in un suo dialogo, il Parmenide (128e-129e), nel
quale Socrate ripete più volte – in polemica con Zenone che, ergendosi a
difensore della tesi dell’unità del tutto ascritta al suo maestro Parmenide,
si produce in una dimostrazione delle assurdità derivanti dall’ammissione
della tesi concorrente dell’esistenza della molteplicità – che non è invece
affatto paradossale riconoscere lo stesso ente come uno e come moltepli-
ce a un tempo, purché si assuma l’ipotesi di certe idee in sé e per sé di-
stinte dalle cose sensibili e di cui queste possano partecipare: in tal caso,
qualunque cosa sensibile partecipi allo stesso tempo dell’idea dell’uno e
dell’idea della molteplicità sarà detta legittimamente una e molteplice sen-
za dar luogo a nessuna contraddizione, come ad esempio il corpo umano
che è uno nella sua totalità e molteplice rispetto alle sue parti. Non è pos-
sibile proporre qui un esame del contesto, delle modalità e delle ragioni
dell’introduzione della teoria delle idee nel Parmenide, anche in relazione
ai dialoghi precedenti (cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 183-92; Platone, 2004,
pp. 34-51), né stabilire se le critiche che, nello stesso Parmenide, vengo-
no poco dopo rivolte alla teoria delle idee risultino valide oppure impli-
chino un suo (più o meno consapevole) fraintendimento (come vuole,
in particolare, Platone, 2004, pp. 56-96; Ferrari, 2018, pp. 88-93; per una
posizione alternativa cfr. ancora Fronterotta, 2001a, pp. 195-287); basti
constatare che questo argomento, concepito solo in opposizione alla ze-
noniana reductio ad absurdum della molteplicità, svela evidentemente la
natura sensibile dei “molti” (τὰ πολλά) di cui Parmenide (indirettamente,
cioè sostenendo la tesi dell’unità del tutto) e Zenone (direttamente, cioè
mostrando le aporie della tesi dell’ammissione della molteplicità) negano
l’esistenza, i quali vengono inoltre equiparati a “pietre, legni e cose simi-
li” (λίθους καὶ ξύλα καὶ τὰ τοιαῦτα), di contro alle idee, poste come realtà
che sussistono “in sé e per sé” (αὐτὸ καθ᾽αὑτό), ossia indipendentemente
dai sensibili che da esse traggono, per partecipazione, le qualità e le ca-
ratteristiche loro riconosciute. Ma Socrate prosegue: se davvero esistono
tali idee, non sarà paradossale sostenere che anche il “tutto” parmenideo
nel suo insieme è “uno”, partecipando dell’idea dell’uno, e allo stesso tem-
po “molteplice”, partecipando dell’idea della molteplicità, dal che si de-
duce nuovamente che l’intero ambito della riflessione di Parmenide e di
Zenone, che si rivolge al “tutto” (τὸ πᾶν) inteso come “uno” (ἕν) o come
“molteplice” (πολλά), si estende, nella rappresentazione che Platone ne of-
fre, alla totalità del mondo sensibile, ma non comprende le idee di cui le
cose sensibili partecipano né prevede di conseguenza la possibilità stessa
di una relazione di “partecipazione” tra le cose sensibili e le idee, queste
ultime costituendo un piano del reale distinto dal sensibile la cui intro-
duzione dipende da un’ipotesi che, nel Parmenide, è presentata come del
tutto originale rispetto alla riflessione di Parmenide e di Zenone e da loro
in nessun modo contemplata. Non a caso, Socrate afferma a più riprese
(129b, 129d-130a) che di ben diversa natura e di assai maggior pregio sa-
rebbe l’indagine di Zenone se, rivolta alle idee, riuscisse a mostrare che
contemporaneamente “uno” e “molti” appaiono non le cose sensibili, sin-
golarmente o nel loro insieme, ma piuttosto l’idea dell’uno o l’idea della
molteplicità, o contemporaneamente “simili” e “dissimili” l’idea della so-
miglianza o l’idea della dissomiglianza: questa eventualità rappresentereb-
be un «prodigio […] degno di meraviglia» (cfr. Fronterotta, 2001b); ed
ecco perché Socrate invita subito Zenone ad ampliare la sua dimostrazio-
ne dall’ambito sensibile (τοῖς ὁρωμένοις) alle idee (τοῖς εἴδεσι), ora qualifi-
cate aggiuntivamente come realtà che si colgono con il ragionamento (τοῖς
λογισμῷ λαμβανομένοις), cioè come intellegibili (129e-130a). Infine, occor-
re rilevare come, poco dopo (130a-b), lo stesso Parmenide, ammirato per
l’ardore filosofico del suo interlocutore, manifesti grande stupore di fronte
Avendo infatti fin da giovane incontrato per primo Cratilo e le sue opinioni
eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in perpetuo fluire e di esse
non c’è scienza, anche in seguito Platone pensò in questo modo. Socrate invece
trattava dei problemi etici e per niente dell’intera natura, tuttavia cercò in questi
l’universale e fissò per primo il pensiero sulle definizioni. Platone, avendone ac-
colto l’insegnamento, a causa di un tale modo di pensare, suppose che questo fat-
to riguardasse realtà diverse e non qualcuna delle cose sensibili (περὶ ἑτέρων τοῦτο
γιγνόμενον καὶ οὐ τῶν αἰσθητῶν); egli riteneva infatti impossibile che il discor-
so comune riguardasse qualcuna delle cose sensibili, dato che queste sono sem-
pre in mutamento (ἀδύνατον γὰρ εἶναι τὸν κοινὸν ὅρον τῶν αἰσθητῶν τινός, ἀεί γε
μεταβαλλόντων). Questi, dunque, da un lato chiamò «Idee» questo genere di enti
e dall’altro sostenne che le cose sensibili dipendono da queste e sono dette tutte
secondo queste (τὰ δ᾽αἰσθητὰ παρὰ ταῦτα καὶ κατὰ ταῦτα λέγεσθαι πάντα), perché
la molteplicità delle cose sinonime sono per partecipazione alle Forme (987a 32-
987b10, trad. Berti, in Aristotele, 2017).
Causalità e partecipazione
Stabilita così una prospettiva ontologica articolata secondo due piani di-
stinti dell’essere e del reale, l’uno di natura fisica e sensibile, l’altro pro-
priamente metafisico e intellegibile, rimane ancora da chiedersi, rispetto
a quest’ultimo, che tipo di struttura possieda e quali relazioni intrattenga
con il primo.
Platone stesso rileva infatti, in un passo del Sofista (251e-252c), che se
le idee intellegibili, che costituiscono come sappiamo il contenuto del
pensiero e del discorso veri, non fossero in qualche misura in un rapporto
di reciproca comunicazione, neanche sarebbe possibile pensare o parla-
re ponendo connessioni tra concetti e termini diversi, che occorrerebbe
di conseguenza utilizzare sempre indipendentemente gli uni dagli altri.
Al contrario, quando si afferma ad esempio che “l’uomo è un animale”, si
suppone che vi sia una relazione tra l’idea di uomo e l’idea di animale e
all’ambito fisico, come del resto nessuno degli enti sensibili – gli uomini
in primis, che certo ne fanno parte – disporrebbe di un accesso agli intel-
legibili, così minando la possibilità stessa della conoscenza e del discorso
veri (cfr. Peterson, 1981). Viceversa, i dialoghi platonici offrono un’ampia
e indiscutibile testimonianza in favore dell’attribuzione alle idee di un’in-
dispensabile azione causale rispetto alle cose sensibili e alla realtà fisica in
generale, dal momento che, consistendo quest’ultima di un genere di enti
sottoposti al divenire e alla trasformazione, alla generazione e alla corru-
zione, di cui dunque non è possibile dire che siano saldamente e veramente
un “qualcosa” in sé stessi né che possiedano di per sé stessi delle proprietà
determinate e stabili, è appunto in virtù delle idee che essi sono dotati della
natura e delle qualità che l’esperienza ordinaria normalmente riconosce
loro e possono essere qualificati di conseguenza, seppure transitoriamente
e imperfettamente (cfr. ad esempio Ippia maggiore 287c-d, 289d; Eutifrone
6d-e; Fedone 100c-d, 102c-d; Parmenide 129a, 130e-131a; Timeo 51b-c). Af-
fermare che le idee sono le “cause” delle cose sensibili (ad esempio dell’es-
sere “uomo” o “cavallo”) e delle loro qualità fisiche (come la grandezza o
l’unità), etiche (come la bontà o la giustizia) o estetiche (come la bellezza
o l’armonia) significa pertanto ammettere che le idee intrattengono una
relazione con le cose sensibili. Questa relazione è denominata in genera-
le, da Platone, “partecipazione” (μέθεξις, μετάληψις) o “comunicazione”
(κοινωνία): le cose sensibili “partecipano” delle idee o “comunicano” con
esse. Tale partecipazione può essere intesa nei termini di una “presenza”
o di una “congiunzione” dell’idea, che si rende quindi “presente nelle”
(πάρεστιν, ἔνεστιν) o “aggiunta alle” (προσγενομένη) cose sensibili, che, di
conseguenza, la “possiedono” (ἔχουσιν) o la “ricevono” (δέχονται). Ma la
relazione di partecipazione è anche illustrata, negli stessi dialoghi e spesso
negli stessi contesti, come una “somiglianza” (εἰκάζειν) o un’“imitazione”
(μίμησις) delle cose sensibili rispetto alle idee intellegibili, in modo che le
prime appaiono come delle “copie”, delle “imitazioni” o delle “immagini”
(ὁμοιώματα, μιμήματα, εἰκόνες) delle seconde, considerate a loro volta come
i loro “modelli” o “paradigmi” (παραδείγματα) universali (cfr. ad esempio
Ippia maggiore 289d, 292c-d, 300a-b; Eutifrone 5d, 6e; Fedone 76d-e, 100d,
104b-c, 104e-105a; Simposio 211b; Repubblica x 597a; Fedro 250a-b, 250e-
251a; Parmenide 129a-e, 130b, 131a-132a, 132c-133a; Timeo 28a-29b, 30c-31a,
48e, 50c-d, 52a-c). Bisogna probabilmente concluderne che, pur rimanen-
do convinto della necessità di una relazione causale tra il sensibile e l’intel-
legibile, appunto per giustificare la natura, la disposizione e l’ordine, per
quanto temporanei e parziali, del mondo fisico, Platone non abbia tuttavia
ritenuto di essere giunto a spiegare in una forma definitiva e soddisfacente,
le modalità di tale relazione, se ancora in uno degli ultimi suoi dialoghi,
il Timeo (50c, 52b), egli si astiene dal fornirne un’illustrazione dettaglia-
ta, limitandosi a sostenere che essa è «difficile a dirsi e stupefacente […]
assai complicata e difficile da concepire» (δύσφραστον καὶ θαυμαστόν […]
ἀπορώτατά πῃ […] καὶ δυσαλωτότατον, cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 315-30).
D’altra parte, se le idee sono delle realtà eterne e distinte dalle cose sensi-
bili, e dunque da esse necessariamente separate, sarà inevitabile chiedersi
come possano intrattenere una relazione di “inerenza” o di “immanenza”
rispetto alle cose sensibili, per rendersi in queste “presenti” o a queste “si-
mili” e adempiere così al loro ruolo di “cause” del mondo sensibile. Si trat-
ta del celebre dilemma della partecipazione e della separazione delle idee,
posto particolarmente a tema nell’indagine condotta nella prima parte del
Parmenide (131a-134e), che consiste nell’esaminare se le idee siano appun-
to separate dal mondo sensibile, come parrebbe esigere il loro statuto di
enti eterni ed estranei al divenire del sensibile, oppure se delle cose sensibi-
li subiscano la partecipazione, come imporrebbe la loro funzione di cause
di esse – se, insomma, simili opzioni siano tra loro davvero compatibili
(cfr. ancora Fronterotta, 2001a, spec. pp. 280-7; per un’interpretazione
diversa, cfr. Ferrari, 2005; 2010a; in aggiunta a Platone, 2004, pp. 56-96).
Questa “metafisica della partecipazione” (cfr. Berti, 2017, pp. 27-8), che
si basa sull’ammissione di una serie di principi trascendenti che sono e si
caratterizzano come tali in ragione del loro statuto ontologico pieno e per-
fetto, le idee, e sul contestuale riconoscimento di una forma di dipendenza
o derivazione causale da quei principi del mondo fisico e sensibile, che cer-
to da essi trae, appunto per “partecipazione”, condizioni e modi della sua
pur mutevole conformazione e parziale intellegibilità, suscita però non
pochi problemi e lascia aperte altrettante questioni cruciali, che ci limi-
tiamo a evocare di seguito. Innanzitutto, in che termini rappresentare la
dipendenza o derivazione causale del sensibile dall’intellegibile e dunque
quale genere di causalità attribuire all’ambito metafisico delle idee rispetto
all’ambito fisico? Si tratta in altre parole di una causalità semplicemente
formale e paradigmatica, per cui le idee fungono soltanto da principi espli-
cativi e paradigmatici delle cose che ne partecipano, oppure di una causali-
tà propriamente efficiente e produttiva, in modo che le idee “trasmettono”
effettivamente alle cose partecipanti le proprietà di cui sono le idee, facen-
dole concretamente insorgere in esse? (cfr. solo il seminal paper di Vlastos,
1981a; più recentemente Sedley, 1998; Hankinson, 1998, pp. 84-108; infine
cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 195-222; Natali, 2003; Ferrari, 2003c). Inoltre,
più radicalmente, è possibile che tale relazione causale tra l’ambito meta-
fisico delle idee e l’ambito sensibile sussista davvero se, come già sottoli-
neato, Platone pare segnalare una certa tensione, se non una vera e propria
contraddizione, tra lo statuto ontologico delle idee, che ne impone la se-
parazione dalle cose partecipanti, e la funzione causale cui esse devono
adempiere, che sembra implicarne a qualche titolo la “presenza” tra le cose
che ne partecipano? E, di conseguenza, si può ancora sostenere in questo
caso che le idee siano “cause” metafisiche delle cose sensibili o si dovrà ipo-
tizzare l’esistenza di un’entità “terza” e “mediana” tra l’ambito metafisico e
l’ambito fisico, cui demandare l’esercizio effettivo dell’azione causale, con
tutte le difficoltà supplementari che una simile ipotesi comporta? Que-
sta, notoriamente, sembra infatti la soluzione escogitata da Platone nel
Timeo, in cui la produzione del cosmo sensibile in conformità al modello
intellegibile è espressamente affidata all’azione di un demiurgo divino, che
appunto dispone delle capacità intellettuali che gli consentono di accede-
re alla conoscenza delle idee intellegibili e, a un tempo, delle competenze
tecniche attraverso le quali fabbricare il cosmo (cfr. Ferrari, 2003a; 2010b;
per altro verso Fronterotta, 2006, pp. 421-4; 2014b, pp. 112-7).
Intorno a questi interrogativi, che possono essere qui solo enuncia-
ti e che, più in generale, rimangono tuttora aperti negli studi platonici,
sorse verosimilmente, già nella prima Accademia, un aspro e controverso
dibattito intorno alle idee e alla prospettiva metafisica di Platone, con la
posizione nettamente critica assunta da Aristotele (cfr. Fronterotta, 2010)
e con i diversi tentativi degli altri esponenti della scuola, che possiamo ri-
costruire purtroppo solo frammentariamente o indirettamente, di sempli-
ficare e sistematizzare tale prospettiva, ricorrendo a una dottrina dei prin-
cipi primi del reale non sempre, e non necessariamente, compatibile con
la teoria delle idee.
fedeli alle sue linee generali e al suo orizzonte teorico, senza marcare in
altre parole, almeno esplicitamente, una soluzione di continuità rispetto
a esso. Appare in primo luogo plausibile collegare tale dibattito all’insie-
me di dottrine che, secondo alcune (non del tutto lineari) testimonianze,
per lo più aristoteliche, Platone avrebbe professato oralmente all’interno
dell’Accademia. Avremmo a che fare, in estrema sintesi, con una teoria
dei principi primi del reale costituita su due livelli distinti, l’Uno (a sua
volta accostato all’idea del bene evocata nel libro vi della Repubblica e
dunque qualificato anche con questa denominazione), principio di deter-
minazione formale e causa dell’essere, e la Diade del grande e del picco-
lo, principio di indeterminazione materiale e causa della molteplicità del
mondo sensibile e del divenire: a partire da questa fondamentale polarità
si produrrebbe la generazione dei numeri “ideali” e delle idee intellegibi-
li, al di sotto delle quali si colloca infine la realtà naturale dell’universo
fisico. Non è chiaro però se si trattasse di dottrine compiute, ma voluta-
mente escluse dai dialoghi scritti, eventualmente a causa di una loro strut-
turale irriducibilità alla codificazione rigida o per evitare la possibilità
di fraintendimenti da parte di lettori sprovveduti, o piuttosto, come mi
sembra più verosimile, di spunti dottrinari appartenenti all’ultima fase
della riflessione di Platone, che sarebbero rimasti in ultima analisi privi
di un’adeguata elaborazione e dunque esclusi dall’opera scritta; di tutto
ciò si trova del resto traccia significativa in dialoghi come il Filebo e il Ti-
meo, nei quali è manifesto l’intento di una progressiva matematizzazione
del reale per giungere a una comprensione delle cose che sono sulla base
di principi aritmetici o geometrici (cfr. Fronterotta, 1993; Ferrari, 2012;
Fronterotta, 2014a).
Comunque sia dell’origine platonica di una simile dottrina, molti degli
elementi che la caratterizzano si rivelano assai utili per inquadrare il di-
battito che si svolse all’interno dell’Accademia: una particolare attenzio-
ne alle matematiche e alla funzione dei numeri, come pure il tentativo di
giungere all’estrema semplificazione metafisica di un’ulteriore “riduzione”
dell’ontologia delle idee, riconducendo queste ultime ad alcuni superio-
ri principi fondamentali, con il recupero di concetti di matrice pitagori-
ca, come il “limite” e l’“illimitato”, chiamati in causa per giustificare una
prospettiva dualista ed essenzialmente polarizzata della realtà e di tutte
le cose. Lungo questa linea si collocano ad esempio i primi due successori
di Platone alla guida dell’Accademia, Speusippo e Senocrate. Speusippo
è noto per aver abbandonato la stessa teoria delle idee in favore di una
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