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Storia

della metafisica
A cura di Enrico Berti

Carocci editore Frecce

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1a edizione, maggio 2019
© copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

Finito di stampare nel maggio 2019


da Eurolit, Roma

isbn 978-88-430-9499-8

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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Indice

Introduzione 13
di Enrico Berti

1. La metafisica di Platone 25
di Francesco Fronterotta

Una “metafisica” in Platone? 25


La teoria delle idee fra ontologia e metafisica 29
Causalità e partecipazione 36
La teoria dei principi e l’Accademia antica 40
Riferimenti bibliografici 42

2. Aristotele e Alessandro di Afrodisia 47


di Enrico Berti

L’opera 47
La definizione della metafisica 50
Il metodo della metafisica: la discussione delle aporie 52
L’unità della metafisica: l’ente in quanto ente
come oggetto che deve essere spiegato 54
Differenza tra la metafisica e le altre scienze teoretiche 58
Dall’ente in quanto ente alla sostanza e ai suoi principi:
materia e forma, potenza e atto 60
Critica dei principi posti dagli Accademici: l’uno e i molti
e le loro “specie” 63

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8 storia della metafisica

Le sostanze immobili quali prime cause motrici


delle sostanze 66
Critica delle sostanze immobili ammesse dagli Accademici 68
La metafisica di Alessandro di Afrodisia 70
Riferimenti bibliografici 71

3. La metafisica nell’antico platonismo 73


di Riccardo Chiaradonna

Il medioplatonismo 73
Plotino 80
Il neoplatonismo dopo Plotino 83
Platonismo e “metafisica dell’Esodo” 87
Riferimenti bibliografici 90

4. La metafisica arabo-islamica 93
di Amos Bertolacci

L’evoluzione dello statuto epistemico della scienza


metafisica 93
La prima fase: la prevalenza della teologia filosofica
all’interno della metafisica 99
La seconda fase: la riscoperta dell’ontologia
e l’applicazione degli assunti degli Analitici posteriori 105
La terza fase: la sistematizzazione della teologia filosofica
e dell’ontologia da parte di Avicenna 110
La critica e il successo della metafisica di Avicenna:
il caso di Averroè 119
Sviluppi successivi della metafisica arabo-islamica 122
Riferimenti bibliografici 124

5. Tommaso d’Aquino 135


di Pasquale Porro

Il soggetto e lo statuto della metafisica 137


Il Commento alla Metafisica 143

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indice 9

Alcune dottrine caratteristiche della metafisica


tommasiana 146
Riferimenti bibliografici 154

6. Scientia transcendens. Duns Scoto e la nuova metafisica 157


di Guido Alliney

Rifiuto dell’analogia e fondazione della metafisica 158


L’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto 160
I trascendentali: da communissima a trans genera 164
La semplicità di Dio e l’unità del singolare 168
Le essenze e il loro statuto 170
Due metafisiche 172
Metaphysica transcendens: una quarta scienza speculativa? 175
Riferimenti bibliografici 176

7. Francisco Suárez e la Schulmetaphysik 177


di Marco Lamanna

Una metafisica in comune tra storici avversari nella fede 177


Le Disputazioni metafisiche: l’opera, la ratio, il contesto
confessionale 178
Tra la fedeltà a Tommaso e la fedeltà alla Compagnia
di Gesù: il problema della fedeltà ad Aristotele 182
Statuto della scienza metafisica e scienza dell’ente 185
Ente in quanto ente reale: una nozione comune a Dio
e alle creature 188
Tra archeologia e aitiologia: il primato del principio
sulla causa 192
Il possibile ancorato o indipendente da Dio 194
Gli enti di ragione: tra analogia ed equivocità 195
Conclusione: la via “realista” della Schulmetaphysik? 196

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10 storia della metafisica

Note 197
Riferimenti bibliografici 198

8. Descartes e le metafisiche postcartesiane 201


di Stefano Di Bella

La fondazione cartesiana della metafisica 201


Metodo, metafisica e libertà 203
Eredità cartesiane 207
Io, Dio e mondo 214
Dopo l’età cartesiana 215
Note 216
Riferimenti bibliografici 218

9. Kant 221
di Costantino Esposito

Un amore non corrisposto 221


Verso la metafisica critica 228
La metafisica come problema e come sistema 232
Note 245
Riferimenti bibliografici 247

10. L’ambiguità della metafisica nel pensiero di Hegel 251


di Luca Illetterati ed Elena Tripaldi

Metafisica, non-metafisica o anti-metafisica? 251


La metafisica, ovvero la filosofia vera e propria 256
La metafisica nel sistema della maturità 260
Conclusioni: metafisica hegeliana? 266
Note 270
Riferimenti bibliografici 273

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indice 11

11. La metafisica di Rosmini 279


di Markus Krienke

L’opera 279
L’idea dell’essere e la questione del fondamento 280
Il metodo: «ragionamento circolare, ma non vizioso» 285
La dialettica tra essere iniziale ed essere virtuale 286
Essere e Dio 289
La triniformità dell’essere 292
La creazione 294
Conoscenza umana e conoscere assoluto 296
Rosmini e Gioberti 299
Il rosminianesimo 301
Riferimenti bibliografici 302

12. Heidegger 305


di Giusi Strummiello

Heidegger e la metafisica 305


Il problema dell’essere e la metafisica 306
Che cos’è metafisica? 308
L’errore della metafisica e l’errare dell’essere 311
La metafisica e l’altro inizio del pensiero 315
La storia della metafisica e la storia dell’essere 318
La storia della metafisica, la metafisica come storia,
l’essenza storica della metafisica 326
Riferimenti bibliografici 327

13. Il neotomismo e il dibattito sulla metafisica classica


nel Novecento 331
di Giovanni Ventimiglia

“Neotomismo” tra Platone e Aristotele 331


Il neotomismo storico-filosofico 332

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12 storia della metafisica

Il neotomismo teoretico 337


Il neotomismo freelance 342
Il neotomismo in Italia 344
Riferimenti bibliografici 350

14. La metafisica nella filosofia analitica contemporanea 355


di Achille C. Varzi

Un rapporto conflittuale 355


Le origini 356
Altre influenze 363
Temi e problemi 367
Struttura del pensiero e struttura del mondo 374
Note 376
Riferimenti bibliografici 378

Gli autori 385

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1
La metafisica di Platone
di Francesco Fronterotta

Una “metafisica” in Platone?


La letteratura critica recente, sulla scorta di una tradizione del resto ben
attestata, fa uso frequente e abituale del termine e del concetto di meta-
fisica, se non propriamente della delimitazione disciplinare che questa
implica, in riferimento alla riflessione di Platone, suggerendo anzi, sulla
base di argomenti filologicamente e storicamente assai articolati, di ricon-
durne proprio a Platone l’origine e l’introduzione nell’ambito del pen-
siero greco (cfr. ad esempio Brisson, 1999; Mattéi, 2005; cfr. inoltre Berti,
2017, pp. 17-22). Diverse motivazioni sono state addotte per giustificare
tale attribuzione, evocando talora, sul piano teoretico, la tesi platonica
della netta distinzione tra anima e corpo e, di conseguenza, tra la cono-
scenza razionale o intellettuale e la percezione sensibile, che condurrebbe
a identificare la filosofia stessa con una forma di contemplazione ascetica
ed extramondana dei principi di una logica dell’assoluto (così, ad esempio,
Sini, 1995; Masullo, 1996, pp. 37-55); oppure, con maggiore aderenza alla
lettera e ai contenuti dei dialoghi, richiamando le ben nota teoria delle
idee situate nell’iperuranio, ossia al di là del mondo fisico, anche se riman-
gono controverse la natura e l’interpretazione di questa teoria e, pertanto,
del genere di “metafisica” che essa comporterebbe (cfr. ad esempio Harte,
2008, spec. pp. 191-5 e 208-14; Ademollo, 2013; Trabattoni, 2016, pp. 45-62
e spec. 62-5).
Non si tratta tuttavia di una posizione di per sé immediatamente evi-
dente, né per il lessico né per il concetto, innanzitutto in quanto il termine
“metafisica” è assente nel corpus platonico (come pure, d’altra parte, nelle
opere di Aristotele) e non compare, peraltro con significati diversi, se non
molto più tardi (cfr. ancora Brisson, 1999), ma anche perché Platone non
sembra avvertire l’esigenza di fornire un’esplicita argomentazione che per-
metta di stabilire autonomia e confini di una scienza del reale che si distin-

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gua nettamente e come tale dalla scienza “fisica”, ponendosi come ulteriore
rispetto a essa per il metodo e per l’oggetto. È vero però che Aristotele, in
Metafisica xii 1, 1069a 30-b 2, passando in rassegna le tipologie di sostanza
più volte chiamate in causa nei libri precedenti, vale a dire la sostanza sen-
sibile, che a sua volta può essere corruttibile o eterna, e la sostanza immo-
bile, precisa rispetto a quest’ultima che è stata già riconosciuta da “alcuni”
come distinta e separata dalle altre (ταύτην φασί τινες εἶναι χωριστήν), per
“gli uni” consistendo di due gruppi differenti di entità, le idee e gli enti ma-
tematici, per “altri” di un solo gruppo composto di idee ed enti matematici
tra loro coincidenti, per “altri ancora” dei soli enti matematici (οἱ μὲν […] οἱ
δὲ […] οἱ δὲ), e questo tipo di sostanza, conclude Aristotele, non può essere
oggetto della fisica, ma di una scienza diversa da quella. Appare del tutto
chiaro che Aristotele fa riferimento qui, suggerendone una succinta ma
efficace catalogazione, alle diverse posizioni difese da Platone e dagli altri
Accademici ed è altrettanto chiaro che egli attribuisce loro, in generale, la
tesi dell’esistenza di un genere di sostanza diverso e trascendente rispetto a
quella fisica, e in tale misura “metafisica”, come pure di una forma di inda-
gine o di scienza che la riguarda in modo esclusivo.
Ma vi è di più, perché un’altra testimonianza, benché solo parzialmen-
te esplicita, che autorizza l’attribuzione di una prospettiva metafisica a
Platone, si trova proprio in un suo dialogo, il Parmenide (128e-129e), nel
quale Socrate ripete più volte – in polemica con Zenone che, ergendosi a
difensore della tesi dell’unità del tutto ascritta al suo maestro Parmenide,
si produce in una dimostrazione delle assurdità derivanti dall’ammissione
della tesi concorrente dell’esistenza della molteplicità – che non è invece
affatto paradossale riconoscere lo stesso ente come uno e come moltepli-
ce a un tempo, purché si assuma l’ipotesi di certe idee in sé e per sé di-
stinte dalle cose sensibili e di cui queste possano partecipare: in tal caso,
qualunque cosa sensibile partecipi allo stesso tempo dell’idea dell’uno e
dell’idea della molteplicità sarà detta legittimamente una e molteplice sen-
za dar luogo a nessuna contraddizione, come ad esempio il corpo umano
che è uno nella sua totalità e molteplice rispetto alle sue parti. Non è pos-
sibile proporre qui un esame del contesto, delle modalità e delle ragioni
dell’introduzione della teoria delle idee nel Parmenide, anche in relazione
ai dialoghi precedenti (cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 183-92; Platone, 2004,
pp. 34-51), né stabilire se le critiche che, nello stesso Parmenide, vengo-
no poco dopo rivolte alla teoria delle idee risultino valide oppure impli-
chino un suo (più o meno consapevole) fraintendimento (come vuole,

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la metafisica di platone 27

in particolare, Platone, 2004, pp. 56-96; Ferrari, 2018, pp. 88-93; per una
posizione alternativa cfr. ancora Fronterotta, 2001a, pp. 195-287); basti
constatare che questo argomento, concepito solo in opposizione alla ze-
noniana reductio ad absurdum della molteplicità, svela evidentemente la
natura sensibile dei “molti” (τὰ πολλά) di cui Parmenide (indirettamente,
cioè sostenendo la tesi dell’unità del tutto) e Zenone (direttamente, cioè
mostrando le aporie della tesi dell’ammissione della molteplicità) negano
l’esistenza, i quali vengono inoltre equiparati a “pietre, legni e cose simi-
li” (λίθους καὶ ξύλα καὶ τὰ τοιαῦτα), di contro alle idee, poste come realtà
che sussistono “in sé e per sé” (αὐτὸ καθ᾽αὑτό), ossia indipendentemente
dai sensibili che da esse traggono, per partecipazione, le qualità e le ca-
ratteristiche loro riconosciute. Ma Socrate prosegue: se davvero esistono
tali idee, non sarà paradossale sostenere che anche il “tutto” parmenideo
nel suo insieme è “uno”, partecipando dell’idea dell’uno, e allo stesso tem-
po “molteplice”, partecipando dell’idea della molteplicità, dal che si de-
duce nuovamente che l’intero ambito della riflessione di Parmenide e di
Zenone, che si rivolge al “tutto” (τὸ πᾶν) inteso come “uno” (ἕν) o come
“molteplice” (πολλά), si estende, nella rappresentazione che Platone ne of-
fre, alla totalità del mondo sensibile, ma non comprende le idee di cui le
cose sensibili partecipano né prevede di conseguenza la possibilità stessa
di una relazione di “partecipazione” tra le cose sensibili e le idee, queste
ultime costituendo un piano del reale distinto dal sensibile la cui intro-
duzione dipende da un’ipotesi che, nel Parmenide, è presentata come del
tutto originale rispetto alla riflessione di Parmenide e di Zenone e da loro
in nessun modo contemplata. Non a caso, Socrate afferma a più riprese
(129b, 129d-130a) che di ben diversa natura e di assai maggior pregio sa-
rebbe l’indagine di Zenone se, rivolta alle idee, riuscisse a mostrare che
contemporaneamente “uno” e “molti” appaiono non le cose sensibili, sin-
golarmente o nel loro insieme, ma piuttosto l’idea dell’uno o l’idea della
molteplicità, o contemporaneamente “simili” e “dissimili” l’idea della so-
miglianza o l’idea della dissomiglianza: questa eventualità rappresentereb-
be un «prodigio […] degno di meraviglia» (cfr. Fronterotta, 2001b); ed
ecco perché Socrate invita subito Zenone ad ampliare la sua dimostrazio-
ne dall’ambito sensibile (τοῖς ὁρωμένοις) alle idee (τοῖς εἴδεσι), ora qualifi-
cate aggiuntivamente come realtà che si colgono con il ragionamento (τοῖς
λογισμῷ λαμβανομένοις), cioè come intellegibili (129e-130a). Infine, occor-
re rilevare come, poco dopo (130a-b), lo stesso Parmenide, ammirato per
l’ardore filosofico del suo interlocutore, manifesti grande stupore di fronte

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28 storia della metafisica

all’ipotesi dell’esistenza delle idee corrispondenti a ognuna delle qualità e


delle caratteristiche delle cose sensibili di cui si è discusso fin lì, come l’u-
nità, la molteplicità e così via, innanzitutto chiedendogli conto della sua
effettiva “paternità” di una simile teoria: «Dimmi: sei stato proprio tu a
dividere [διῄρησαι] come dici, da una parte ponendo separatamente certe
idee in sé [χωρὶς μὲν εἴδη αὐτὰ ἄττα], dall’altra separatamente le cose che ne
partecipano [χωρὶς δὲ τὰ τούτων αὖ μετέχοντα]? E ti sembra che sia qualco-
sa la somiglianza in sé separatamente dalla somiglianza che abbiamo noi
[τί σοι δοκεῖ εἶναι αὐτὴ ὁμοιότης χωρὶς ἧς ἡμεῖς ὁμοιότητος ἔχομεν] e così pure
l’uno e i molti e tutte le altre cose che hai appena ascoltato da Zenone?»,
cui Socrate risponde prontamente, assumendo la responsabilità di questa
“nuova” teoria: «A me sembra di sì» (ἔμοιγε). Ma, così facendo, Parme-
nide esplicita inoltre un tratto supplementare delle idee: sussistenti in sé
e per sé, ossia indipendentemente dalle cose sensibili, intellegibili, vale a
dire oggetto di pensiero, le idee rappresentano in ultima analisi l’esito di
una “divisione” del reale in due ambiti distinti, l’uno, quello sensibile, che
coincide con il mondo dell’esperienza ordinaria nel quale ci troviamo, l’al-
tro, quello intellegibile, che esiste “separatamente” e “autonomamente” dal
primo e al quale si accede tramite il puro ragionamento.
Questi passi del Parmenide giustificano insomma l’impressione che,
agli occhi di Platone o almeno nelle sue intenzioni di autore del dialogo,
al Socrate “platonico” debba essere ascritta, sul piano storico e filosofico,
la paternità di una netta rottura con la precedente riflessione presocrati-
ca (e particolarmente parmenidea ed eleatica), che consiste precisamente
nell’individuazione e nell’introduzione di un piano di realtà distinto e se-
parato da quello fisico e sensibile, che avrebbe costituito l’ambito esclusi-
vo della ricerca dei predecessori, e perciò trascendente rispetto a esso e, di
conseguenza, propriamente “metafisico” (una ricostruzione più dettagliata
della presentazione e dell’interpretazione platonica e aristotelica dell’elea-
tismo di Parmenide, Zenone e Melisso si trova in Fronterotta, 2000). Un
problema diverso, invece, è naturalmente quello dell’effettiva veridicità sto-
rica di una simile presentazione e dunque della possibilità di attribuire già
ai pensatori presocratici, o almeno ad alcuni di essi, una prospettiva filosofi-
ca in qualche misura e in qualche senso metafisica: benché non siano man-
cati tentativi, anche di notevole impegno, in questa direzione – si possono
ricordare ad esempio i “classici” Stenzel (1929) e Gentile (2006) – si tratta
tuttavia di una posizione non molto diffusa, se non perfino marginale, fatta
eccezione, forse, per Parmenide, cui alcuni studiosi recenti continuano a

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la metafisica di platone 29

ricondurre l’origine della metafisica, cfr. in proposito Fronterotta, 2016).


Intendo sottolineare così come Platone voglia senza alcun dubbio suggerire
che la responsabilità e il merito di questa svolta nella storia della filosofia
vanno riconosciuti al Socrate “personaggio” messo in scena nel dialogo,
dunque in ultima analisi a sé stesso, e non certo al Socrate “storico”, anche se
la tesi contraria dell’attribuzione a Socrate della teoria delle idee e pertanto
di una prima prospettiva “metafisica” (sulla scorta di una testimonianza di
Proclo, In Parmenidem 729.24-730.1; Steel) è stata talora ripresa, per quan-
to minoritariamente, negli studi della prima metà del Novecento (cfr. ad
esempio Burnet, 1920, pp. 307-9; 1928, pp. 35-47; Taylor, 1911, pp. 40-89 e
178-267; Taylor, 1933, passim).
Se si rivela quindi legittimo, come credo, parlare di una “metafisica” di
Platone, almeno su questa base ed entro questi limiti, tenterò di illustrare
sinteticamente in quanto segue il percorso che, nei dialoghi, conduce alla
formulazione di tale prospettiva e di fornire un quadro generale dei ter-
mini che la caratterizzano, senza entrare però nel merito dello sterminato
dibattito critico cui essa ha dato luogo (cfr. solo per questo Allen, 1965;
Vlastos, 1971; Graeser, 1975; Krämer, 1982; Dixsaut, 1993; 1995; Fine, 1999;
Fronterotta, 2001a; Harte, 2002; Fronterotta, Leszl, 2005; Strobel, 2007;
Halfwassen, 2012).

La teoria delle idee fra ontologia e metafisica


Riprendiamo le mosse, a questo fine, dalla presentazione del Parmenide
e dall’introduzione delle idee come realtà distinte dalle cose sensibili di
questo mondo, da esso separate e sussistenti di per sé, e oggetto di una
conoscenza puramente intellettuale: ora, indipendentemente dal fatto che
il Parmenide fornisca nel suo insieme una ricostruzione completa da ogni
punto di vista e sotto ogni aspetto fedele della teoria delle idee, e trala-
sciando l’ulteriore problema di capire se questa sia effettivamente presen-
tata da Platone come una dottrina compiuta (cfr. Sayre, 1995; Gonzalez,
2003; che riprende essenzialmente Gonzalez, 2002; Trabattoni, 2003; con-
tra Fronterotta, 2005), tali assunti di fondo appaiono tuttavia largamente
condivisi ed esenti da controversia, sicché risulta lecito e necessario esami-
nare adesso cosa siano le idee – che tipo di enti e dotati di quali proprie-
tà – e, ancor prima, quali esigenze e quali motivazioni abbiano condotto
Platone a postularne l’esistenza oltre, e in aggiunta, alle cose sensibili.

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30 storia della metafisica

Alcuni dei dialoghi abitualmente collocati nella fase giovanile della


produzione letteraria di Platone ruotano intorno al confronto messo in
scena tra Socrate e i suoi via via diversi interlocutori, innescato normal-
mente dalla richiesta che egli rivolge loro di dire che “cosa sia” (τί ἐστι)
una certa virtù o la virtù in generale oppure un qualunque oggetto x (cfr.
Vlastos, 1981b; 1994a; Puster, 1983; Longo, 2000, pp. 3-140; Wolfsdorf,
2003; in particolare, per un’analisi assai accurata e un completo bilancio
critico-bibliografico, Giannantoni, 2005, pp. 141-95). È sufficiente prestare
attenzione al Carmide, in cui ci si interroga sulla natura della temperanza,
al Lachete, in cui si discute intorno al coraggio, all’Ippia maggiore, dedicato
all’esame del bello, o ancora all’Eutifrone, il cui oggetto è la definizione
della pietà. La ricerca condotta in questi dialoghi si conclude con un esi-
to negativo, senza giungere cioè a formulare una definizione che risponda
in modo soddisfacente alla domanda “cosa è x?”; di qui deriva il carattere
aporetico loro riconosciuto dai lettori fin dall’antichità (cfr. Fronterotta,
2001a, pp. ix-xiii e 5-42). Almeno due ragioni possono essere suggerite
per spiegare questo esito negativo. In primo luogo, le definizioni proposte
esprimono in ogni caso la banalità e la genericità dell’opinione comune e
non riescono quindi ad attingere all’universalità e all’immutabilità di un
sapere certo e definitivo, nella misura in cui non sono valide né in tutte le
circostanze né a ogni condizione, ma dipendono dai punti di vista partico-
lari adottati dagli interlocutori in relazione alle diverse situazioni specifi-
che prospettate. In secondo luogo, e soprattutto, l’oggetto della definizio-
ne cercata viene considerato da Socrate, via via in modo più esplicito, come
un “qualcosa” che possieda la capacità di esercitare un’azione causale che
non sia né intermittente né parziale né fortuita, ma che produca i propri
effetti secondo modalità stabili e continuative, in tutti i casi e in tutte le cir-
costanze possibili (cfr. Carmide 159b-160e, 160e-161b e 163d-164c; Lachete
190e-192b, 192b-193e; Ippia maggiore 287b-289d, 289d-291c, 291d-293d;
Eutifrone 5d-6e, 6e-11b). In altre parole, diviene progressivamente più chia-
ro come sia prefigurata così una forma di universalità che non ha carattere
immediatamente logico, bensì ontologico, tale cioè da non lasciarsi tanto
ridurre a una definizione che semplicemente si adatti al proprio oggetto in
ogni condizione o circostanza particolare in cui esso si manifesti, ma che
riveli piuttosto come proprio oggetto il principio causale che produce co-
stantemente e senza eccezione, ossia appunto universalmente, la proprietà
di cui è il principio, in ogni condizione o circostanza particolare. Non si
cerca ad esempio, come definizione universale della bellezza o come “bello”

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la metafisica di platone 31

universale, quell’enunciato la cui estensione logica e semantica permetta


di ricoprire tutti i possibili casi particolari di “bellezza”, ma quell’oggetto
che, in quanto causa della bellezza di ogni cosa e di ogni forma di bellez-
za possibile, può allora essere legittimamente concepito come il principio
ontologico della “bellezza”, la cui universalità dipende appunto dalla conti-
nuità e dall’omogeneità della sua azione causale. Ed è per tale ragione che
Platone denomina questo “bello” universale come “bello in sé” (αὐτὸ τὸ
καλόν), per rendere esplicita l’indicazione della realtà o dell’ente specifico
che, in quanto rappresenta il fondamento stesso della bellezza, ne è pure
principio causale per tutte le altre cose belle e di esse si pone di conseguen-
za, sul piano logico e semantico, come predicato universale. Ne segue, dal
punto di vista metodologico e dello svolgimento argomentativo di questi
dialoghi, che l’interrogativo sollevato da Socrate nella forma “cosa è x?”
non chiama in causa una definizione “nominale”, che si limiti cioè a operare
una scelta tra termini linguistici suscettibili di fornire una descrizione, più
o meno estensivamente efficace, dell’oggetto x, il cui criterio di verità con-
sisterebbe pertanto nel raggiungimento di un accordo (ὁμολογία) in qual-
che modo convenzionale, tra gli interlocutori, intorno alla questione della
sua coerenza logica o della sua esattezza semantica. La domanda formulata
da Socrate esige invece una definizione “reale”, che implichi un riferimento
immediato allo statuto dell’oggetto x, alla sua essenza o realtà in sé (cfr.
Allen, 1970, pp. 79 ss.; Fronterotta, 2001a, pp. 47-56). In tal caso, la verità
della definizione dipende, per così dire, dall’oggetto stesso, nella misura in
cui esso può essere direttamente colto dal soggetto che lo conosce e che lo
definisce, che può appunto definirlo in quanto ne ha una conoscenza diret-
ta, ed è precisamente dalla completa inconsapevolezza che gli interlocutori
di Socrate mostrano di poter attingere a un simile livello ontologico che
deriva in generale il fallimento delle loro successive proposte di definizioni.
Ma in virtù delle proprietà che gli sono così attribuite, vale a dire del
suo statuto ontologico, della sua funzione causale e della continuità e
dell’immutabilità della sua azione, pare abbastanza plausibile supporre
che l’“universale” platonico vada ricercato al di là della realtà sensibile, se
quest’ultima si trova evidentemente affetta dal divenire e dalla trasforma-
zione e se le cose particolari in essa presenti non cessano di mutare senza
sosta. L’impossibilità, per le cose sensibili, di fungere da realtà universali
e da oggetti della definizione cercata da Socrate è resa esplicita dalla pre-
cisazione, più volte ribadita in questi dialoghi (cfr. Ippia maggiore 289c-d,
292d-293c; Eutifrone 6d-e, 11a-b), secondo la quale l’oggetto da definire

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32 storia della metafisica

non si riduce a un elemento particolare x che sia membro di un insieme


omogeneo X comprensivo di tutti gli oggetti x (ad esempio, una cosa bella
in quanto elemento dell’insieme omogeneo di tutte le cose belle), perché
deve trattarsi piuttosto di un oggetto universale distinto dalla molteplicità
che da esso discende, se è vero che, “aggiungendosi” a ciascun elemento di
tale molteplicità (παντὶ […] προσγένηται), “produce” (ποιεῖ) sempre e inva-
riabilmente il tratto o la proprietà comuni a tutti gli elementi che compon-
gono questa molteplicità, come una “causa” (αἴτιον, αἰτία) produce sempre
e invariabilmente lo stesso suo effetto (ad esempio, come il bello che rende
bella ciascuna delle cose molteplici cui “si aggiunge”, sempre e senza ecce-
zione; cfr. per questa conclusione Fronterotta, 2007a, spec. pp. 46-54, che
riprende e approfondisce radicalmente alcune linee interpretative tratteg-
giate già da Allen, 1970; Prior, 2004).
Una simile concezione dell’universale che, in quanto oggetto di una
definizione “reale”, che a sua volta dipende da una conoscenza diretta
dell’universale stesso e della sua funzione causale, va posto come ente di-
stinto dalla molteplicità di cose sensibili particolari, trova riscontro in un
certo numero di passi dei dialoghi platonici, presumibilmente da collocare
tra la fine della giovinezza e la piena maturità del filosofo, di cui conviene
evocare qui in estrema sintesi i più rilevanti.
Nel Cratilo, in seguito a un’ampia e a tratti molto controversa disamina
intorno alla natura dei nomi (se appartengano alle cose che nominano per
natura o per convenzione), si giunge a riconoscere che occorre intendere i
nomi come altrettanti strumenti da affinare e utilizzare per indicare le cose
che sono, della cui corretta o scorretta attribuzione si dovrà giudicare in
base alla conoscenza delle cose stesse, che fungono da modello (universale)
in conformità al quale i nomi devono essere attribuiti. Ma di quale cono-
scenza si tratta o, più esattamente, di quale tipo di oggetti è possibile realiz-
zare una conoscenza vera e salda? La sezione conclusiva del dialogo (439b-
440c) spiega che, per parlare ad esempio di un “bello in sé” (αὐτὸ τὸ καλόν)
o di un “bene in sé” (αὐτὸ τἀγαθόν), è necessario fare riferimento non alle
cose sensibili che divengono e si trasformano continuamente, come «un
volto […] o ad altre cose del genere […] che tutte scorrono via» (πρόσωπόν
τι […] ἤ τι τῶν τοιούτων […] ταῦτα πάντα ῥεῖ), ma a certe realtà che perman-
gono sempre identiche (τοιοῦτον ἀεί ἐστιν οἷόν ἐστιν). Infatti, se una cosa
muta senza sosta la propria condizione, non si potrà dire che essa sia vera-
mente “in sé” (<οὐχ> οἷόν τε προσειπεῖν αὐτὸ ὀρθῶς, εἰ ἀεὶ ὑπεξέρχεται), che
abbia determinate qualità (ἔπειτα ὅτι τοιοῦτον) o anche semplicemente che

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la metafisica di platone 33

“sia” (ὅτι ἐκεῖνό ἐστιν), appunto perché, mutando e muovendosi sempre,


nel momento stesso in cui se ne parla essa sarà divenuta altra da ciò che era
(ἄλλο αὐτὸ εὐθὺς γίγνεσθαι καὶ ὑπεξιέναι καὶ μηκέτι οὕτως ἔχειν). D’altra par-
te, se tutto davvero si trasformasse incessantemente, la conoscenza stessa
sarebbe sottoposta al mutamento, e non sarebbe quindi più “conoscenza”
(ἂν μεταπίπτοι εἰς ἄλλο εἶδος γνώσεως καὶ οὐκ ἂν εἴη γνῶσις), sicché appari-
rebbe impossibile stabilire, nel quadro di una prospettiva che ammette il
divenire di tutte le cose, qualunque distinzione tra soggetto conoscente,
oggetto conosciuto e atto della conoscenza. Se ne deduce invece che la vera
conoscenza è tale soltanto se resta stabile (εἰ μὲν γὰρ αὐτὸ τοῦτο, ἡ γνῶσις,
τοῦ γνῶσις εἶναι μὴ μεταπίπτει) e stabile può essere soltanto la conoscenza
che si rivolga a oggetti a loro volta sempre identici e immutabili (εἰ δὲ ἔστι
ἀεὶ […] τὸ γιγνωσκόμενον […] τὸ καλόν […] τὸ ἀγαθόν […] ἓν ἕκαστον τῶν
ὄντων). L’aspetto più interessante dell’atto conoscitivo così descritto, ai
fini di questa indagine, risiede senza dubbio nella sua necessaria connes-
sione con lo statuto ontologico degli oggetti conosciuti e, di conseguen-
za, nell’illustrazione dei tratti ontologici di tali oggetti: in primo luogo, e
con forza, l’opposizione tra la perenne mutevolezza e mobilità delle cose
sensibili e l’eterna autoidentità e immobilità delle idee; ma anche, subito
oltre, l’opposizione più generale tra l’ambito del divenire, che caratteriz-
za le cose divenienti come enti indeterminati, solo parzialmente essenti e
perciò inconoscibili, e, per contrasto, l’essere pieno della realtà ideale, che
caratterizza le idee come enti assolutamente determinati, propriamente es-
senti e quindi davvero conoscibili (cfr. su questo passo, e sulle controversie
interpretative cui ha dato luogo, Fronterotta, 2001a, pp. 66-70; per una
posizione alternativa, Ademollo, 2011, pp. 449-88).
Analogamente, nella Repubblica (v 476e-479e), dopo aver stabilito un
netto discrimine tra la vera conoscenza dei filosofi e il semplice opinare
degli uomini comuni, Socrate introduce, quasi in forma assiomatica, il
seguente argomento: «Chi conosce, conosce necessariamente qualcosa
che è» (ὁ γιγνώσκων γιγνώσκει τί […] ὄν), perché è impossibile conosce-
re ciò che non è; per estensione, viene formulato questo “saldo” (ἱκανῶς)
principio: «ciò che è assolutamente è assolutamente conoscibile» (τὸ μὲν
παντελῶς ὂν παντελῶς γνωστόν); «ciò che non è assolutamente, invece,
è assolutamente inconoscibile» (μὴ ὂν δὲ μηδαμῇ πάντῃ ἄγνωστον). «Se,
ancora, qualcosa è e non è allo stesso tempo» (εἰ δὲ δή τι οὔτως ἔχει ὡς εἶναί
τε καὶ μὴ εἶναι), a esso si addice una forma di conoscenza intermedia tra
la vera conoscenza, la scienza, e l’ignoranza (μεταξύ τι […] ἀγνοίας τε καὶ

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34 storia della metafisica

ἐπιστήμης): l’“opinione” (δόξα). Infatti, ciascuna forma di conoscenza, in


quanto le corrisponde una diversa facoltà conoscitiva, ha di conseguen-
za un diverso oggetto: la scienza, posta al vertice della gerarchia, conosce
perciò l’essere per come è (ἐπιστήμη μέν γέ που ἐπὶ τῷ ὄντι, τὸ ὂν γνῶναι
ὡς ἔχει); l’ignoranza, l’assenza di ogni conoscenza, ignora ciò che non è
(μὴ ὄντι […] ἄγνοιαν), senza alcuna ulteriore precisazione, visto che il non
essere non è un qualcosa, ma nulla, ed è quindi privo di qualunque de-
terminazione. L’opinione, infine, non può rivolgersi allo stesso oggetto
della scienza, a ciò che è, perché altrimenti coinciderebbe con la scienza
e un unico e identico oggetto si rivelerebbe paradossalmente conoscibile
e opinabile insieme, il che è impossibile (γνωστόν τε καὶ δοξαστὸν τὸ αὐτό
[…] ἀδύνατον), né può rivolgersi allo stesso oggetto dell’ignoranza, a ciò
che non è, poiché è altrettanto impossibile opinare il nulla (δοξάζειν δὲ
μηδέν […] ἀδύνατον): diversa dalla scienza e dall’ignoranza e a metà strada
tra queste, l’opinione opina dunque un oggetto diverso dall’essere e dal
non essere, a sua volta intermedio tra ciò che è realmente e ciò che assolu-
tamente non è (τὸ μεταξὺ τοῦ εἰλικρινῶς ὄντος τε καὶ τοῦ πάντως μὴ ὄντος).
Viene infine specificata la natura degli oggetti delle tre differenti specie di
conoscenza. Ciò che è realmente e a pieno titolo rimane sempre invaria-
bilmente costante e immobile nella propria condizione (ἀεὶ κατὰ ταὐτὰ
ὡσαύτως ὄντα): si tratta delle idee, vale a dire gli enti in sé e per sé come il
bello, il giusto e così via. Ciò che non è affatto si riduce invece al puro nul-
la, la semplice privazione d’essere, di cui è impossibile dire alcunché. In ul-
timo, l’oscuro oggetto dell’opinione, collocato tra l’essere e il non essere, si
identifica con l’infinita molteplicità delle cose sensibili che appaiono con-
temporaneamente giuste e ingiuste, pie ed empie, grandi e piccole, leggere
e pesanti, belle e brutte, dal momento che gli enti sensibili si muovono
senza sosta modificando continuamente il loro stato: in questo senso, essi
si distinguono da ciò che è e pur tuttavia, non coincidendo con il vuoto
nulla, rappresentano comunque un qualcosa che almeno parzialmente è.
Ecco perché chi non ammette la realtà delle idee, ma soltanto l’apparenza
delle cose sensibili, possiede un’opinione mutevole del proprio mutevole
oggetto, senza poterlo conoscere davvero (δοξάζειν […] ἅπαντα, γιγνώσκειν
[…] οὐδέν), laddove chi si volge agli enti in sé raggiunge la vera e immuta-
bile conoscenza del proprio oggetto vero e immutabile (γιγνώσκειν ἀλλ᾽οὐ
δοξάζειν), conoscenza e opinione configurandosi dunque, in sé e relativa-
mente ai propri oggetti, come reciprocamente esclusive (cfr. su questo ar-
gomento Fronterotta, 2007b).

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la metafisica di platone 35

Emerge così il carattere “realista” e “oggettivo” dell’epistemologia pla-


tonica, che fa di quest’ultima un’ontologia nella misura in cui implica una
teoria degli oggetti delle diverse forme di conoscenza in relazione al grado
di essere o a livello gerarchico di ciascun genere di oggetto. Ciò permette
di spiegare, appunto in una prospettiva epistemologica, la postulazione
delle idee: infatti, se è necessario che la conoscenza vera, cioè immutabile
ed eterna, con la definizione “reale” che da essa necessariamente dipende,
assuma come proprio contenuto oggetti pienamente essenti, perché dotati
di proprietà quali l’immobilità, l’eternità, l’autoidentità e così via, risulta
evidente che una simile condizione non è soddisfatta dalle cose sensibili
in divenire. Occorre di conseguenza che gli oggetti della vera conoscenza
si rivelino privi di tutte le qualità materiali, di ogni figura o manifesta-
zione visibile, che siano estranei al ciclo della generazione e della corru-
zione che caratterizzano le realtà naturali, più in generale che sfuggano al
divenire spaziotemporale che è proprio del mondo fisico. Procedendo in
questa progressiva eliminazione, si giunge a individuare il “qualcosa” che
rimane quando a un certo oggetto siano sottratte tutte le proprietà che
appartengono alla dimensione sensibile, quella “realtà” o “essenza” (οὐσία)
puramente intellegibile che, spogliata di qualunque attributo o connota-
zione fisici, si presenta ormai come un’entità “metafisica”, cioè appunto
come un’idea platonica (designata dai termini ἰδέα o εἶδος, che alludono
entrambi al “profilo” o alla “forma” di qualcosa, cioè ai tratti non sensibili
che di qualcosa mostrano cosa sia propriamente e di per sé). Ecco per quale
ragione, in corrispondenza di ciascuna cosa sensibile, o piuttosto di cia-
scun genere di cose sensibili accomunate dallo stesso nome, esiste un’idea
intellegibile che ne costituisce l’essenza “metafisica” ossia il vero e pieno
essere. Ed è precisamente alla conoscenza di questa idea che bisogna acce-
dere per giungere alla comprensione del mondo sensibile e formulare una
definizione che possieda effettivamente i caratteri dell’universalità. L’esito
metafisico della riflessione di Platone e della sua concezione delle idee mi
sembra discendere così dal nesso stabilito tra una certa dottrina epistemo-
logica che, costruita sulla base di una stretta dipendenza dei diversi generi
di conoscenza dai diversi tipi di oggetti conoscibili, esige perciò l’artico-
lazione di una teoria ontologica che, dei diversi tipi di oggetti conoscibili,
fornisca un’illustrazione e una classificazione; ma, nella misura in cui gli
oggetti conoscibili collocati al vertice di questa classificazione, gli unici su-
scettibili di rappresentare il contenuto della conoscenza vera, esigono uno
statuto ontologico incompatibile con quello comunemente riconosciuto

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36 storia della metafisica

al mondo sensibile, sarà inevitabile concluderne che essi si pongono al di


là del mondo sensibile, appunto come enti metafisici.
Non è certamente un caso che questa ricostruzione della prospettiva
ontologica e metafisica di Platone corrisponda fin nei dettagli, lasciando
da parte gli aspetti biografici o aneddotici, al resoconto presentato da Ari-
stotele in Metafisica i 6, di cui non si può proporre qui un’analisi o un com-
mento neanche schematici, ma che vale tuttavia la pena citare per esteso:

Avendo infatti fin da giovane incontrato per primo Cratilo e le sue opinioni
eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in perpetuo fluire e di esse
non c’è scienza, anche in seguito Platone pensò in questo modo. Socrate invece
trattava dei problemi etici e per niente dell’intera natura, tuttavia cercò in questi
l’universale e fissò per primo il pensiero sulle definizioni. Platone, avendone ac-
colto l’insegnamento, a causa di un tale modo di pensare, suppose che questo fat-
to riguardasse realtà diverse e non qualcuna delle cose sensibili (περὶ ἑτέρων τοῦτο
γιγνόμενον καὶ οὐ τῶν αἰσθητῶν); egli riteneva infatti impossibile che il discor-
so comune riguardasse qualcuna delle cose sensibili, dato che queste sono sem-
pre in mutamento (ἀδύνατον γὰρ εἶναι τὸν κοινὸν ὅρον τῶν αἰσθητῶν τινός, ἀεί γε
μεταβαλλόντων). Questi, dunque, da un lato chiamò «Idee» questo genere di enti
e dall’altro sostenne che le cose sensibili dipendono da queste e sono dette tutte
secondo queste (τὰ δ᾽αἰσθητὰ παρὰ ταῦτα καὶ κατὰ ταῦτα λέγεσθαι πάντα), perché
la molteplicità delle cose sinonime sono per partecipazione alle Forme (987a 32-
987b10, trad. Berti, in Aristotele, 2017).

Causalità e partecipazione
Stabilita così una prospettiva ontologica articolata secondo due piani di-
stinti dell’essere e del reale, l’uno di natura fisica e sensibile, l’altro pro-
priamente metafisico e intellegibile, rimane ancora da chiedersi, rispetto
a quest’ultimo, che tipo di struttura possieda e quali relazioni intrattenga
con il primo.
Platone stesso rileva infatti, in un passo del Sofista (251e-252c), che se
le idee intellegibili, che costituiscono come sappiamo il contenuto del
pensiero e del discorso veri, non fossero in qualche misura in un rapporto
di reciproca comunicazione, neanche sarebbe possibile pensare o parla-
re ponendo connessioni tra concetti e termini diversi, che occorrerebbe
di conseguenza utilizzare sempre indipendentemente gli uni dagli altri.
Al contrario, quando si afferma ad esempio che “l’uomo è un animale”, si
suppone che vi sia una relazione tra l’idea di uomo e l’idea di animale e

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la metafisica di platone 37

ciò implica evidentemente l’ammissione di una forma di comunicazione


tra le idee, la cui ricostruzione è necessaria per scoprire quali idee comu-
nichino o non comunichino tra loro, al fine di giungere alla formulazio-
ne di un pensiero o di un giudizio corretti, cioè tali da riprodurre, nella
connessione dei concetti e dei termini linguistici (o nell’assenza di tale
connessione), l’oggettiva e reale comunicazione tra le idee corrispondenti
(o l’assenza di tale comunicazione). L’ambito metafisico si rivela dunque
caratterizzato da una struttura plurale e composita, nella misura in cui i
molteplici enti che lo costituiscono sono organizzati in un’unità organica
in virtù delle relazioni che tra essi sussistono, che rappresenta a sua volta
la condizione indispensabile per l’articolazione del pensiero e del discorso
veri (la questione è posta a tema soprattutto nel Sofista, ma cfr. già Crati-
lo 438e; Fedone 104b-105a; Repubblica v 476a); è invece questione assai
complessa se sia inoltre lecito ravvisare une gerarchia ontologica nell’am-
bito metafisico e intellegibile, ed eventualmente di che genere, particolar-
mente rispetto al caso ben noto, ed estremamente controverso, dell’idea
del bene, il cui statuto e la cui collocazione sembrano descritti, nel libro vi
della Repubblica, come a un tempo “eccedenti” e “trascendenti” rispetto
alle altre idee, benché non siano mancati tentativi, da parte dei commen-
tatori, di ridimensionare e depotenziare i tratti indubbiamente eccezionali
di una simile descrizione: il problema dell’idea del bene, che è impossibile
toccare in questo contesto, non appare tuttavia decisivo per i nostri limi-
tati scopi attuali, giacché non incide significativamente né sulle ragioni
che hanno indotto Platone a postulare l’esistenza di un ambito metafisico
e intellegibile né sulla determinazione della natura e delle caratteristiche
degli enti che lo compongono (cfr. solo Vegetti, 2003; Ferrari, 2003b; in
una prospettiva filosofica più ampia, Ferber, 2015).
Più delicata ancora è la questione del rapporto tra l’ambito metafisi-
co delle idee nel suo insieme e l’ambito fisico delle cose sensibili, perché,
se non sussistesse alcun rapporto tra di essi, i due ambiti risulterebbero
tra loro incomunicabili e quindi di fatto “inutili” l’uno all’altro: questo
argomento, esplicitamente menzionato nel Parmenide (133b-134e), porte-
rebbe alla paradossale conclusione secondo la quale, se le idee, che esisto-
no separatamente (χωρίς) dalle cose sensibili, non intrattenessero perciò
con queste nessuna relazione, né a loro volta le cose sensibili con le idee,
nessuno degli enti intellegibili avrebbe alcun valore o potere nei confron-
ti dei sensibili né i sensibili nei confronti degli enti intellegibili, sicché
all’ambito metafisico non spetterebbe nessun ruolo o funzione rispetto

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38 storia della metafisica

all’ambito fisico, come del resto nessuno degli enti sensibili – gli uomini
in primis, che certo ne fanno parte – disporrebbe di un accesso agli intel-
legibili, così minando la possibilità stessa della conoscenza e del discorso
veri (cfr. Peterson, 1981). Viceversa, i dialoghi platonici offrono un’ampia
e indiscutibile testimonianza in favore dell’attribuzione alle idee di un’in-
dispensabile azione causale rispetto alle cose sensibili e alla realtà fisica in
generale, dal momento che, consistendo quest’ultima di un genere di enti
sottoposti al divenire e alla trasformazione, alla generazione e alla corru-
zione, di cui dunque non è possibile dire che siano saldamente e veramente
un “qualcosa” in sé stessi né che possiedano di per sé stessi delle proprietà
determinate e stabili, è appunto in virtù delle idee che essi sono dotati della
natura e delle qualità che l’esperienza ordinaria normalmente riconosce
loro e possono essere qualificati di conseguenza, seppure transitoriamente
e imperfettamente (cfr. ad esempio Ippia maggiore 287c-d, 289d; Eutifrone
6d-e; Fedone 100c-d, 102c-d; Parmenide 129a, 130e-131a; Timeo 51b-c). Af-
fermare che le idee sono le “cause” delle cose sensibili (ad esempio dell’es-
sere “uomo” o “cavallo”) e delle loro qualità fisiche (come la grandezza o
l’unità), etiche (come la bontà o la giustizia) o estetiche (come la bellezza
o l’armonia) significa pertanto ammettere che le idee intrattengono una
relazione con le cose sensibili. Questa relazione è denominata in genera-
le, da Platone, “partecipazione” (μέθεξις, μετάληψις) o “comunicazione”
(κοινωνία): le cose sensibili “partecipano” delle idee o “comunicano” con
esse. Tale partecipazione può essere intesa nei termini di una “presenza”
o di una “congiunzione” dell’idea, che si rende quindi “presente nelle”
(πάρεστιν, ἔνεστιν) o “aggiunta alle” (προσγενομένη) cose sensibili, che, di
conseguenza, la “possiedono” (ἔχουσιν) o la “ricevono” (δέχονται). Ma la
relazione di partecipazione è anche illustrata, negli stessi dialoghi e spesso
negli stessi contesti, come una “somiglianza” (εἰκάζειν) o un’“imitazione”
(μίμησις) delle cose sensibili rispetto alle idee intellegibili, in modo che le
prime appaiono come delle “copie”, delle “imitazioni” o delle “immagini”
(ὁμοιώματα, μιμήματα, εἰκόνες) delle seconde, considerate a loro volta come
i loro “modelli” o “paradigmi” (παραδείγματα) universali (cfr. ad esempio
Ippia maggiore 289d, 292c-d, 300a-b; Eutifrone 5d, 6e; Fedone 76d-e, 100d,
104b-c, 104e-105a; Simposio 211b; Repubblica x 597a; Fedro 250a-b, 250e-
251a; Parmenide 129a-e, 130b, 131a-132a, 132c-133a; Timeo 28a-29b, 30c-31a,
48e, 50c-d, 52a-c). Bisogna probabilmente concluderne che, pur rimanen-
do convinto della necessità di una relazione causale tra il sensibile e l’intel-
legibile, appunto per giustificare la natura, la disposizione e l’ordine, per

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la metafisica di platone 39

quanto temporanei e parziali, del mondo fisico, Platone non abbia tuttavia
ritenuto di essere giunto a spiegare in una forma definitiva e soddisfacente,
le modalità di tale relazione, se ancora in uno degli ultimi suoi dialoghi,
il Timeo (50c, 52b), egli si astiene dal fornirne un’illustrazione dettaglia-
ta, limitandosi a sostenere che essa è «difficile a dirsi e stupefacente […]
assai complicata e difficile da concepire» (δύσφραστον καὶ θαυμαστόν […]
ἀπορώτατά πῃ […] καὶ δυσαλωτότατον, cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 315-30).
D’altra parte, se le idee sono delle realtà eterne e distinte dalle cose sensi-
bili, e dunque da esse necessariamente separate, sarà inevitabile chiedersi
come possano intrattenere una relazione di “inerenza” o di “immanenza”
rispetto alle cose sensibili, per rendersi in queste “presenti” o a queste “si-
mili” e adempiere così al loro ruolo di “cause” del mondo sensibile. Si trat-
ta del celebre dilemma della partecipazione e della separazione delle idee,
posto particolarmente a tema nell’indagine condotta nella prima parte del
Parmenide (131a-134e), che consiste nell’esaminare se le idee siano appun-
to separate dal mondo sensibile, come parrebbe esigere il loro statuto di
enti eterni ed estranei al divenire del sensibile, oppure se delle cose sensibi-
li subiscano la partecipazione, come imporrebbe la loro funzione di cause
di esse – se, insomma, simili opzioni siano tra loro davvero compatibili
(cfr. ancora Fronterotta, 2001a, spec. pp. 280-7; per un’interpretazione
diversa, cfr. Ferrari, 2005; 2010a; in aggiunta a Platone, 2004, pp. 56-96).
Questa “metafisica della partecipazione” (cfr. Berti, 2017, pp. 27-8), che
si basa sull’ammissione di una serie di principi trascendenti che sono e si
caratterizzano come tali in ragione del loro statuto ontologico pieno e per-
fetto, le idee, e sul contestuale riconoscimento di una forma di dipendenza
o derivazione causale da quei principi del mondo fisico e sensibile, che cer-
to da essi trae, appunto per “partecipazione”, condizioni e modi della sua
pur mutevole conformazione e parziale intellegibilità, suscita però non
pochi problemi e lascia aperte altrettante questioni cruciali, che ci limi-
tiamo a evocare di seguito. Innanzitutto, in che termini rappresentare la
dipendenza o derivazione causale del sensibile dall’intellegibile e dunque
quale genere di causalità attribuire all’ambito metafisico delle idee rispetto
all’ambito fisico? Si tratta in altre parole di una causalità semplicemente
formale e paradigmatica, per cui le idee fungono soltanto da principi espli-
cativi e paradigmatici delle cose che ne partecipano, oppure di una causali-
tà propriamente efficiente e produttiva, in modo che le idee “trasmettono”
effettivamente alle cose partecipanti le proprietà di cui sono le idee, facen-
dole concretamente insorgere in esse? (cfr. solo il seminal paper di Vlastos,

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40 storia della metafisica

1981a; più recentemente Sedley, 1998; Hankinson, 1998, pp. 84-108; infine
cfr. Fronterotta, 2001a, pp. 195-222; Natali, 2003; Ferrari, 2003c). Inoltre,
più radicalmente, è possibile che tale relazione causale tra l’ambito meta-
fisico delle idee e l’ambito sensibile sussista davvero se, come già sottoli-
neato, Platone pare segnalare una certa tensione, se non una vera e propria
contraddizione, tra lo statuto ontologico delle idee, che ne impone la se-
parazione dalle cose partecipanti, e la funzione causale cui esse devono
adempiere, che sembra implicarne a qualche titolo la “presenza” tra le cose
che ne partecipano? E, di conseguenza, si può ancora sostenere in questo
caso che le idee siano “cause” metafisiche delle cose sensibili o si dovrà ipo-
tizzare l’esistenza di un’entità “terza” e “mediana” tra l’ambito metafisico e
l’ambito fisico, cui demandare l’esercizio effettivo dell’azione causale, con
tutte le difficoltà supplementari che una simile ipotesi comporta? Que-
sta, notoriamente, sembra infatti la soluzione escogitata da Platone nel
Timeo, in cui la produzione del cosmo sensibile in conformità al modello
intellegibile è espressamente affidata all’azione di un demiurgo divino, che
appunto dispone delle capacità intellettuali che gli consentono di accede-
re alla conoscenza delle idee intellegibili e, a un tempo, delle competenze
tecniche attraverso le quali fabbricare il cosmo (cfr. Ferrari, 2003a; 2010b;
per altro verso Fronterotta, 2006, pp. 421-4; 2014b, pp. 112-7).
Intorno a questi interrogativi, che possono essere qui solo enuncia-
ti e che, più in generale, rimangono tuttora aperti negli studi platonici,
sorse verosimilmente, già nella prima Accademia, un aspro e controverso
dibattito intorno alle idee e alla prospettiva metafisica di Platone, con la
posizione nettamente critica assunta da Aristotele (cfr. Fronterotta, 2010)
e con i diversi tentativi degli altri esponenti della scuola, che possiamo ri-
costruire purtroppo solo frammentariamente o indirettamente, di sempli-
ficare e sistematizzare tale prospettiva, ricorrendo a una dottrina dei prin-
cipi primi del reale non sempre, e non necessariamente, compatibile con
la teoria delle idee.

La teoria dei principi e l’Accademia antica


Qualche parola conclusiva deve essere perciò dedicata, per completare
questa schematica illustrazione della prospettiva metafisica di Platone, a
quegli Accademici che, pur suggerendone una profonda revisione, riten-
nero tuttavia, diversamente da Aristotele, di mantenersi sostanzialmente

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la metafisica di platone 41

fedeli alle sue linee generali e al suo orizzonte teorico, senza marcare in
altre parole, almeno esplicitamente, una soluzione di continuità rispetto
a esso. Appare in primo luogo plausibile collegare tale dibattito all’insie-
me di dottrine che, secondo alcune (non del tutto lineari) testimonianze,
per lo più aristoteliche, Platone avrebbe professato oralmente all’interno
dell’Accademia. Avremmo a che fare, in estrema sintesi, con una teoria
dei principi primi del reale costituita su due livelli distinti, l’Uno (a sua
volta accostato all’idea del bene evocata nel libro vi della Repubblica e
dunque qualificato anche con questa denominazione), principio di deter-
minazione formale e causa dell’essere, e la Diade del grande e del picco-
lo, principio di indeterminazione materiale e causa della molteplicità del
mondo sensibile e del divenire: a partire da questa fondamentale polarità
si produrrebbe la generazione dei numeri “ideali” e delle idee intellegibi-
li, al di sotto delle quali si colloca infine la realtà naturale dell’universo
fisico. Non è chiaro però se si trattasse di dottrine compiute, ma voluta-
mente escluse dai dialoghi scritti, eventualmente a causa di una loro strut-
turale irriducibilità alla codificazione rigida o per evitare la possibilità
di fraintendimenti da parte di lettori sprovveduti, o piuttosto, come mi
sembra più verosimile, di spunti dottrinari appartenenti all’ultima fase
della riflessione di Platone, che sarebbero rimasti in ultima analisi privi
di un’adeguata elaborazione e dunque esclusi dall’opera scritta; di tutto
ciò si trova del resto traccia significativa in dialoghi come il Filebo e il Ti-
meo, nei quali è manifesto l’intento di una progressiva matematizzazione
del reale per giungere a una comprensione delle cose che sono sulla base
di principi aritmetici o geometrici (cfr. Fronterotta, 1993; Ferrari, 2012;
Fronterotta, 2014a).
Comunque sia dell’origine platonica di una simile dottrina, molti degli
elementi che la caratterizzano si rivelano assai utili per inquadrare il di-
battito che si svolse all’interno dell’Accademia: una particolare attenzio-
ne alle matematiche e alla funzione dei numeri, come pure il tentativo di
giungere all’estrema semplificazione metafisica di un’ulteriore “riduzione”
dell’ontologia delle idee, riconducendo queste ultime ad alcuni superio-
ri principi fondamentali, con il recupero di concetti di matrice pitagori-
ca, come il “limite” e l’“illimitato”, chiamati in causa per giustificare una
prospettiva dualista ed essenzialmente polarizzata della realtà e di tutte
le cose. Lungo questa linea si collocano ad esempio i primi due successori
di Platone alla guida dell’Accademia, Speusippo e Senocrate. Speusippo
è noto per aver abbandonato la stessa teoria delle idee in favore di una

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concezione che prevede l’esistenza, al di là delle cose sensibili, di numeri


“matematici”, derivanti a loro volta dall’interazione dell’Uno e del Molte-
plice, che appaiono strutturati su piani distinti e rappresentano i modelli
“quantitativi” della disposizione e dell’ordine parziali, anch’essi di tipo ge-
ometrico e matematico, del mondo sensibile; egli avrebbe inoltre sostenu-
to una sostanziale indipendenza causale tra i diversi piani del reale che, resi
tra loro autonomi, intrattengono soltanto rapporti di reciproca analogia,
sciogliendo così alla sua radice il dilemma platonico della partecipazione
del sensibile all’intellegibile. Dal canto suo, Senocrate sembra essere giun-
to invece a stabilire una completa identità tra le idee e i numeri “matemati-
ci”, che, delle idee, costituirebbero la vera essenza e che andrebbero conce-
piti, alla stregua di principi causali di tutte le cose, come realtà indivisibili
al pari delle grandezze geometriche, in certa misura tornando così alle
posizioni del pitagorismo antico (cfr. Isnardi Parente, 2005). Non è diffi-
cile vedere come il platonismo accademico si indirizzi così, allontanandosi
da quella metafisica plurale delle “idee” che è l’esito necessario della pro-
spettiva onto-epistemologica di Platone, verso una metafisica dualista dei
“principi” da cui emerge gradualmente, via via che si affermano l’assoluta
eminenza e preminenza dell’Uno rispetto alla condizione puramente ne-
gativa e ricettiva della Diade, una metafisica monista del “principio” primo,
che, attraverso il neoplatonismo, si manterrà costantemente presente nella
tradizione filosofica occidentale.
La “storia” della metafisica (e dell’ontologia) affonda le proprie radici
in una “preistoria”, della quale Platone ha contribuito in modo decisivo a
delineare l’orientamento e a prefigurare, pur in assenza del nome, la pecu-
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