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La fabbrica delle credenze.

Lo scetticismo come filosofia del mondo umano 689

La fabbrica delle credenze.


Lo scetticismo come filosofia del mondo umano
Renato Lessa

«Cette secte se fortifie par ses ennemis plus que par ses amis...»
Pascal, Pensées

Lineamenti del primo pirronismo

Da quando sorse in Grecia nel III secolo a. C., lo scetticismo ha occupato


una posizione singolare nel conflitto insolubile tra filosofie. Questa singo-
larità è evidente nella contrapposizione proposta da Sesto Empirico – il
pensatore del III secolo d.C. che compendiò le principali argomentazioni
della variante pirroniana dello scetticismo1 – fra tre distinti gruppi filoso-
fici: coloro che pretendono di aver scoperto la verità – i dogmatici; coloro
che dicono che la verità non può essere compresa – gli accademici – e
coloro che perseverano nella ricerca – gli scettici. Lo scettico è una persona
che indaga ed esamina senza tregua (skeptesthai).
Al contrario, i dogmatici sono coloro che cercano di dimostrare la na-
tura reale del mondo al di là della sua manifestazione ai sensi, condivi-
sa da comuni osservatori. Nel suo rifiuto dei sistemi filosofici dogmatici,
lo scetticismo propone un modo di filosofare che rinuncia a sostenere
proposizioni alternative che abbiano identiche pretese di verità. Attraver-
so questo metodo, gli scettici cercano di tenersi a distanza dalle dispute
dogmatiche, intendendo per dogma «ogni assenso a un’affermazione non
evidente (adelô)»2.

1
Per «variante pirroniana» intendo la tradizione filosofica inaugurata da Pirrone di
Elide in opposizione alla variante presentata dalla Nuova Accademia, basata su Carneade
e Arcesilao. Questa scuola negava la possibilità di una conoscenza vera ed era guidata da
un criterio di verità supportato dall’idea di pithanón (il probabile). Le argomentazioni
avanzate dallo Scetticismo pirroniano furono esaminate in due opere di Sesto Empirico
(circa 200 d. C.), gli Schizzi Pirroniani (Pyrroneioi Hypotyposeis) e Contro i matematici
(Adversus Mathematicos).
2
Cfr. Sextus Empiricus, Outlines of Pyrrhonism, Cambridge-London, Harvard Uni-
versity Press-William Heinemann, 1976, I, pp. 16-17. D’ora in poi PH.

«Iride», a. XXI, n. 55, settembre-dicembre 2008


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La natura singolare dello scetticismo dipende anche dal suo atteggia-


mento nei confronti di coloro che sostengono dogmi filosofici, i dogmatici.
Quando si confronta con loro, lo scettico è mosso da una disposizione filan-
tropica: «essendo un amante del genere umano (philanthropos), lo scettico
desidera curare attraverso il discorso, meglio che può, la presunzione (oie-
sin) e l’avventatezza (propeteian) dei dogmatici» (PH, III, 280). Malgrado
il suo intento terapeutico, il ritratto del dogmatico è impietoso: egli crede
in entità non evidenti, è avventato e, quando esamina i propri giudizi, è
assorbito dall’amore di sé. Il dogmatico, in altre parole, riunisce in sé una
specie di narcisismo cognitivo e una radicale – e pericolosa – mancanza di
esitazione.
L’azione terapeutica intende curare il dogmatico dall’ossessione di de-
terminare la natura reale delle cose e del mondo. Per gli scettici, le cose in
se stesse sono indeterminabili. Le affermazioni che le riguardano, non es-
sendo né false né vere, si situano al di là dei confini della conoscenza uma-
na. Le apparenze, al contrario, sono oggetti condivisi attraverso l’espe-
rienza comune. L’importanza primaria del fenomeno è dovuta al fatto che
esso è il criterio che guida la condotta degli scettici. Esso consiste soprat-
tutto in un criterio pratico per agire nel mondo. L’adesione ai fenomeni
distingue quindi gli scettici dai loro avversari, i dogmatici. Secondo questi
ultimi, le cose che appaiono sono ciò che si vede del non-evidente (PH I,
138). Uno dei marchi distintivi dello scetticismo è il mettere efficacemente
in discussione questo presunto passaggio dal livello del fenomeno e quello
del non-evidente.
Per natura indeterminabile delle cose si intende che affermazioni con-
traddittorie su ciò che le cose realmente significano, essendo ugualmen-
te indifferenti, appaiono allo scettico in una situazione di equipollenza
(isostheneia): né vere né false, ed equivalenti nelle loro pretese di verità.
Davanti a questo scenario, l’atteggiamento scettico – già indicato da Pir-
rone – si traduce in epoché, la sospensione del giudizio o semplicemente
la sospensione. Al termine del percorso stabilito attraverso la sequenza iso-
stheneia-epoché si trova la tranquillità o assenza di turbamenti: ataraxia.
Tutti i ragionamenti considerati finora derivano da quello che sembra
essere stato l’insegnamento di Pirrone. Originario di Elide, Pirrone visse
probabilmente dal 360 circa al 270 a.C., dedicandosi a un’intensa atti-
vità di insegnamento ma senza lasciare opere scritte. L’ascesi radicale e
l’indifferenza alle tentazioni del mondo furono i principi-guida della sua
condotta di vita. Questo scrive di lui Victor Brochard: «Pirrone fu innan-
zitutto un disilluso, un asceta greco»3. I suoi insegnamenti si possono rias-
sumere nella difesa di una vita semplice, nel rifiuto, attraverso l’epoché,
di attribuire valore alle discussioni sulla reale o vera natura delle cose, e
3
V. Brochard, Les sceptiques grecs, Paris, Vrin, 1986 (ed. or. 1887), p. 75.
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nella ricerca dell’ataraxia, che egli considerava come il bene più grande.
L’indirizzo pratico del pirronismo è stato confermato da Mario dal Pra,
secondo il quale Pirrone stabilì due temi permanenti dello scetticismo:
l’enfasi sui fenomeni e le apparenze e, sul piano morale, il riferimento ai
costumi e alla tradizione4.

Lo scetticismo e le sue tecniche originali. I «modi» di Enesidemo e Agrippa

La centralità dell’epoché è rimasta un filo conduttore dello scetticismo


successivo a Pirrone. Sesto Empirico ha ricostruito le argomentazioni svi-
luppate su questo tema da Enesidemo, che visse tra l’80 a.C. e il 130 d.C.
Fu così che, nello stesso momento in cui la tradizione scettica si rivolgeva
alla sua ispirazione pirroniana, l’epoché fu sottoposta all’elaborazione for-
male e sostanziale che doveva segnarla definitivamente. Su questo ritor-
no al pirronismo ha richiamato l’attenzione Pierre Couissin in un saggio
ormai classico: egli rilevò come Enesidemo avesse recuperato l’origina-
ria nozione pirroniana di epoché che, in mano ai nuovi accademici – in
particolare Carneade – era stata confinata sullo sfondo, lasciando spazio
al probabilismo contenuto nell’idea di pithanón (probabile)5. Il ruolo di
Enesidemo nel contesto dello scetticismo antico si distingue infatti per
l’invenzione di due serie di ragionamenti: i dieci modi dell’epoché e gli
otto modi della causalità.
I dieci modi di Enesidemo occupano una posizione decisiva nell’ar-
senale scettico. Essi definiscono le tecniche attraverso cui il nucleo del
Pirronismo – consistente in isostheneia, epoché e ataraxia − viene messo in
opera in modo puntuale e sistematico. In tal senso, possono essere consi-
derati come l’espressione formale di un programma di azione pirroniano
da applicare alle pretese di conoscenza del mondo guidate dalla percezio-
ne di fenomeni come segni di oggetti non evidenti.
Presentando i dieci modi nelle sue Hypotyposes, Sesto Empirico di-
chiara che il suo scopo è di stabilire antitesi, e di stabilire, attraverso que-
sto percorso, una coerente sospensione del giudizio. L’antitesi sembra
includere tanto le percezioni dei fenomeni quanto gli attributi assegnati
loro degli osservatori. Tuttavia, a essere presentata come decisiva è l’af-
fermazione del primato della natura relativa dei giudizi umani, siano essi
semplici registrazioni delle apparenze o affermazioni sulla natura delle
cose.

4
Cfr. M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Roma-Bari, Laterza, 1989 (ed. or. 1950), p.
82.
5
Cfr. P. Couissin, L’origine et l’évolution de l’epoché, in «Revue des Études Grecques»,
XLII, 1929, pp. 64-82.
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Secondo l’ordine stabilito da Sesto Empirico (PH, I, 36) i dieci modi


erano organizzati nel seguente ordine: 1) differenze tra gli esseri viventi;
2) differenze tra gli esseri umani; 3) diversa costituzione degli organi sen-
soriali; 4) circostanze che modificano il soggetto; 5) situazioni, distanze
e luoghi (o circostanze dell’oggetto); 6) mescolanze; 7) quantità; 8) re-
latività; 9) frequenza; 10) costumi e convinzioni. Ognuna di queste voci
ingloba diverse, specifiche, instabili e non-universalizzabili circostanze di
osservazione del mondo. Il loro risultato è una molteplicità di versioni del
mondo – per usare un’espressione di sapore goodmaniano – in uno scena-
rio che conduce all’epoché.
Gli otto modi, la cui invenzione è attribuita sempre a Enesidemo, ser-
vono a invalidare ogni proposizione causale dogmatica, cioè fondata su
assunzioni non osservabili miranti a spiegare il mondo dei fenomeni. Si
tratta infatti di un arsenale di ragionamenti contro l’orgoglio dei Dogmati-
ci, ossia la loro pretesa di sostenere causalità o eziologie (PH, I, 180). Più
che un insieme di argomentazioni negative, i modi sarebbero una presa
di posizione in favore di un certo tipo di conoscenza. Si può riconoscere
quest’affinità in alcuni divieti redatti allo scopo di regolare l’accettazio-
ne delle spiegazioni causali: queste ultime devono funzionare all’interno
del regno dei fenomeni; gli eventi che si riferiscono ai fenomeni possono
essere sottoposti alle connessioni causali solo attraverso il ricorso ad altri
fenomeni osservati.
Il terzo stadio di sviluppo dello scetticismo antico – d’après Pirrone e
Enesidemo – include inoltre l’oscura figura di Agrippa (circa dal 100 al
200 d.C.). La sua importanza per la storia dello scetticismo è legata all’in-
venzione dei cinque modi. I dieci modi esaminano le condizioni generali
della percezione, che, influendo sugli osservatori e sul modo in cui sono
disposti gli oggetti, conduce all’epoché. Con gli otto modi, la sospensione
del giudizio si presentava come conclusione inevitabile del confronto con
le proposizioni eziologiche dogmatiche. Nei cinque modi di Agrippa, il
risultato effettivo deriva da quelle che si potrebbero chiamare le strategie
di conoscenza proprie dei dogmatici.
Il primo dei cinque modi – diaphonia (disputa nel senso di dissenso
irrisolvibile) – fa riferimento alla condizione di intrinseca discrepanza che
caratterizza ogni insieme di affermazioni sulla natura delle cose. Ogni af-
fermazione specifica può essere contraddetta da un’altra affermazione.
Il fatto che la disputa sia indecidibile dipende dalla circostanza che non
è possibile un arbitrato diverso da quello di una delle parti in conflitto.
Simile all’argomentazione dell’equipollenza, il modo della diaphonia avrà
un ruolo notevole nel moderno scetticismo – soprattutto in Montaigne
– in particolare per rilevare l’irriducibile varietà delle forme culturali. Si
tratta, difatti, di una delle più importanti tecniche argomentative della
tradizione scettica. L’argomentazione può anche essere intesa in funzio-
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ne della sua posizione strategica: ciò significa definire una situazione di


irrisolvibilità contro cui i dogmatici svilupperanno numerose strategie di
evasione. Sono precisamente queste strategie di evasione a essere descritte
nei rimanenti modi di Agrippa.
Gli otto modi di Enesidemo e i cinque modi di Agrippa, nel loro insie-
me, hanno avuto un’importanza incalcolabile per la definizione dell’arse-
nale argomentativo scettico. Essi definiscono ciò che potremmo chiamare
la forma filosofica del dogmatismo.

Una vita senza credenze?

Gli scettici antichi credevano che una vita senza credenze, ottenuta grazie
all’epoché, fosse possibile, e che rappresentasse una forma di esistenza
superiore: si tratta forse di una delle idee più notevoli e singolari presenta-
tesi nella storia della filosofia. Il modo di vita scettico è guidato da quattro
principi. Esso impone di seguire: le regole della Natura, l’impulso delle
passioni, i costumi e le leggi comuni, e le risorse della techne. La regola
dottrinale dello scetticismo impone l’accettazione delle apparenze e una
forma di vita che aderisce a ciò che è considerato comune e normale.
Tuttavia, tale assenso è adoxastos – privo di opinione – e si fonda su affetti
e sentimenti involontari (PH I, 22). Così, nella varietà di fenomeni che
caratterizza la vita normale, lo scettico crede che sia possibile vivere tra gli
altri esseri umani senza sostenere alcuna credenza o dogma.
Un altro modo scettico di definire le credenze si può trovare nell’in-
troduzione al decimo modo di Enesidemo sull’epoché, il dispositivo anti-
etnocentrico dello scetticismo antico. Secondo la sua formulazione, tra le
società umane vige una grande varietà di forme di vita, che si fondano su
abitudini, leggi, dogmata e credenze leggendarie (mitikaì pisteis) diverse.
In netta opposizione allo spirito di Erodoto, che riteneva che gli egiziani
violassero i principi fondamentali dell’umanità in tutte le loro pratiche
sociali, Enesidemo presenta il suo decimo argomento come un ostacolo
a ogni forma di giudizio transculturale6. Nei suoi termini, tutte le forme
di vita umana appaiono «vere»; nessuna di esse può essere presa a fonda-
mento per rifiutare le altre forme di vita (PH, I, 145-163). Secondo questa
argomentazione, pisteis e dogmata sono presentati come normali compo-
nenti della vita sociale. In questo senso, sembra impossibile non avere
a che fare con le credenze, persino per uno scettico. Contrariamente a
Ulrich – l’uomo senza qualità di Robert Musil – il nostro scettico ha delle

6
Il riferimento a Erodoto è tratto dallo straordinario libro di Arnaldo Momigliano,
Alien Wisdom. The Limits of Hellenization, Cambridge, Cambridge University Press, 1975
(tr. it. Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture, Torino, Einaudi, 1980).
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credenze e le conserva. Ciò che forse lo distingue dal gregge dell’umanità


comune è l’acuta consapevolezza del fatto della diversità dei valori e delle
forme di vita.
Tuttavia, indipendentemente dal modo in cui uno scettico resta legato
alle credenze comuni, resta un problema più importante: qual è la diffe-
renza tra i due tipi di dogmata sopra menzionati? In senso tecnico, non c’è
distinzione tra i dogmata che lo scettico evita nell’arena filosofica, e quelli
che invece accetta all’interno della sfera del bios. La distinzione sembra
consistere nel modo in cui i dogmata sono prodotti: se hanno origine da
qualche stolta ricerca di entità non evidenti, devono essere l’obiettivo pre-
ferenziale dell’epoché; se sono invece il risultato di lunga durata del tempo
e della storia – conservati dalla consuetudine e dalla ripetizione – la vita
senza di essi risulta impossibile.
La posizione dello scettico è strana: senza aderire personalmente ai
fondamenti della credenza, egli aderisce apertamente ai suoi effetti sulla
conformazione della vita comune. Cristallizzandosi nel corso del tempo,
credenze e dogmi si trasformano in una componente della vita fenome-
nica. Così, dall’affermazione etica che bisogna desiderare una vita senza
credenze, come esperienza prodotta dall’ataraxia, lo scetticismo antico
finiva per fare delle credenze una condizione necessaria per l’esistenza ef-
fettiva della vita sociale. Se questo giudizio fosse coerente, non dovremmo
limitarci a sospendere il giudizio personale riguardo ai fondamenti delle
credenze: esse devono essere prese sul serio, come fondamenti necessari
dell’esperienza sociale e storica.

Lo scetticismo e la fabbrica delle credenze

La portata della seconda argomentazione di Sesto Empirico relativa alle


credenze, contenuta nel decimo modo di Enesidemo, si può valutare nei
Saggi di Michel de Montaigne, uno dei principali sostenitori e delle figu-
re-guida della crise pyrrhonienne che divampò nel sedicesimo e diciasset-
tesimo secolo. Dopo secoli d’ibernazione e di totale assenza dalla discus-
sione filosofica durante il medioevo, lo scetticismo tornò nel mainstream
della filosofia occidentale a cominciare dal quindicesimo secolo. Secondo
Richard Popkin, si possono trovare tracce della sua presenza in Gian-
francesco Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Savonarola7. Fu

7
Sul ritorno dello scetticismo nel mainstream della filosofia occidentale, si vedano Ch.
Schmitt, The Recovery of Ancient Skepticism in Modern Times, in The Skeptical Tradition, a
cura di M. Buernyeat, Berkeley, University of California Press, 1983, pp. 225-251; R. Popkin,
The History of Scepticism from Savonarola to Bayle, Oxford, Oxford University Press, 2003;
G. Paganini, Skepsis. Le débat des modernes sur le scepticisme, Paris, Vrin, 2008.
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tuttavia con Michel de Montaigne, nel sedicesimo secolo, che l’eredità


dello scetticismo apparve più chiaramente, rinnovando allo stesso tempo
la tradizione antica.
Nel presentare la sua visione degli esseri umani, Montaigne sottolinea
l’evidente varietà dei loro comportamenti e credenze, e gli effetti che le
circostanze specifiche hanno sulla loro natura. Più che indicare una ca-
ratteristica intrinseca dell’animale in questione, questo genere di varietà
si ripercuote sulla costituzione effettiva del mondo storico e sociale – il
che conduce al problema centrale della causalità. Montaigne tratta tale
problema, suggerendo la presenza, nell’esperienza umana, di almeno due
modelli di causalità.
Volendo essere precisi, il primo non dovrebbe nemmeno essere chia-
mato un modello, poiché mostra un alto grado di indeterminatezza nelle
connessioni tra cause ed effetti: cause identiche producono effetti diversi,
così come cause diverse producono effetti simili8. Lo scenario rivelato da
Montaigne esprime un indelebile disordine causale: i nessi tra cause ed
effetti, in realtà, dipendono dall’azione di un insieme di circostanze par-
ticolari, il cui (inconsistente) sostegno è la diversità del comportamento
umano: «Certes, c’est un subject merveilleusement vain, divers, et ondoyant,
que l’homme [Certo, l’uomo è un soggetto straordinariamente vano, varia-
bile e ondeggiante]» (E, I, I). Gli esseri umani, in questo senso, possono
essere considerati come i «dispositivi esistenziali» della variazione e del-
l’indeterminazione causale. Lo scenario della non determinazione causale
e del disordine permette semmai solo – e non sempre – una spiegazione
locale.
Il secondo modello di causalità è presentato attraverso l’immagine di
un processo storico di lunga durata, che lungo la strada subisce addizioni
e sottrazioni innumerevoli. L’immagine, in cui alcuni interpreti scorgono
una piega conservatrice, esprime un’interpretazione della storia secondo
cui l’accumulazione diacronica di diverse e minime circostanze acciden-
tali dà luogo nella realtà a istituzioni di mole prodigiosa. Con quella che
potremmo definire una metafora idraulica, Montaigne sembra suggerire
un modo di comprendere la storia in cui il contingente risulta essere ne-
cessario:

Le leggi derivano la loro autorità dal possesso e dall’uso; è pericoloso ricon-


durle alla loro origine; esse si rafforzano e si nobilitano scorrendo, come i nostri
fiumi; risalitele fino alla sorgente, non si tratta che d’una piccola vena d’acqua ap-
pena riconoscibile, che s’inorgoglisce così e si rinvigorisce invecchiando. Guar-
date le antiche considerazioni che hanno impresso il primo movimento a questo
torrente famoso, pieno di dignità, d’orrore e di riverenza: le troverete così lievi ed
8
È il tema comune su cui si fondano, sebbene separatamente, i saggi intitolati Par di-
vers moyens on arrive a pareille fin (I, I), e Divers evenements de même conseil (I, XXIV).
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esili che non c’è da meravigliarsi se queste persone che pesano tutto e lo riporta-
no alla ragione, e non ammettono nulla per autorità e a credito, abbiano giudizi
spesso lontanissimi dai giudizi. (E, II, XII) 9.

Il contenuto essenziale della smisurata varietà di azioni e opere umane


è opera della credenza. L’uomo è soprattutto un animale che crede10. Di
fronte a tale fatto, lo scetticismo moderno prescriverà un programma per
considerare il mondo storico e sociale come un processo dipendente dalla
credenza. Sebbene il tema della tranquillità dell’anima sia stato trattato
ancora da Pierre Charron, all’inizio del diciassettesimo secolo nel suo ce-
lebre libro De la sagesse (1601), come risultato di un’ignoranza coltiva-
ta filosoficamente, gli scettici moderni – Montaigne, Pierre Bayle, David
Hume – hanno considerato importante studiare il ruolo della credenza
nella creazione del mondo umano.
Dobbiamo a Montaigne l’aver riconosciuto la natura diffusa e insormon-
tabile delle credenze: se parliamo di esseri umani, dobbiamo parlare delle
loro credenze e delle circostanze in cui queste si verificano. Le credenze
non sono più semplici doxai, radicate senza giustificazione nell’abisso del-
l’indeterminabile, ma diventano, al contrario, inevitabili ed efficaci elementi
esistenziali dell’istituzione (umana) all’interno del mondo11. A valle di que-
sto sforzo di valorizzare la produttività della credenza, David Hume, nel
diciottesimo secolo, ha definito quella che potremmo appropriatamente de-
signare come la forma filosofica della credenza. La sua riflessione definì anche
i termini di ogni futura discussione su questo tema.
Il progetto humeano di applicare il metodo sperimentale allo studio della
natura umana si fonda sul requisito fondamentale di definire chiaramente i
fenomeni da considerare, e il luogo in cui si manifestano. Questo luogo non
è altro che la storia. Ciò implica prendere sul serio le normali rappresenta-
zioni umane, come materiale fondamentale del mondo storico. Di fronte alle
dichiarazioni emesse dagli umani, Hume non discute la loro coerenza logica,
ontologica o epistemologica. Ciò che gli interessa, al contrario, è la produtti-
vità di queste dichiarazioni e le credenze che le sostengono. Questo modo di
trattare con la conoscenza ordinaria, avanzato teoreticamente nel Trattato,
sarà realizzato compiutamente nella Storia di Inghilterra, un’opera definita
appropriatamente da Samuel Beckett come una storia di rappresentazioni12.

9
Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, 2 voll., Milano, Adelphi, 1966, vol. I, p.
775.
10
Cfr. F. Brahami, Le travail du scepticisme: Montaigne, Bayle, Hume, Paris, Puf, 2001,
p. 33.
11
Cfr. F. Brahami, Des «Esquisses» aux «Essais», l’enjeu d’une rupture, in Le retour des
philosophies antiques à l’âge classique, Tome II: Le scepticisme au XVIe et au XVIIe siècle, a
cura di P.-F. Moreau, Paris, Albin Michel, 2001, pp. 121-131.
12
Cfr. R. Ellmann, James Joyce, Oxford, Oxford University Press, 1983, p. 648.
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Secondo Hume, le credenze sono organizzate in una rete complessa,


basata su alcune credenze naturali. Sebbene il contenuto di alcune cre-
denze possa subire trasformazioni nel tempo e con l’uso, sembra che le
credenze naturali siano costituite da caratteristiche fisse. Sempre secondo
Hume, una credenza naturale è una credenza regolare 1) che si trova nella
vita comune; 2) che non può trovare una giustificazione razionale; 3) la cui
assenza renderebbe impossibili le normali attività di una vita regolare; 4)
che è universalmente accettata.
Se interroghiamo i contenuti, gli atti di credenza che soddisfano que-
sti quattro criteri sono tre13: 1) la credenza nell’esistenza continuativa di
un mondo esterno, indipendente dalle nostre percezioni; 2) la credenza
che gli eventi regolari che avvengono nella nostra esperienza costituiscano
una base affidabile per comprendere cosa è in procinto di accedere; 3)
la credenza nell’attendibilità dei nostri sensi. Questi tre tipi di credenza
– situati negli strati più profondi della natura umana – assicurano: 1) l’esi-
stenza e la regolarità degli eventi nel mondo; 2) la predicabilità di questi
eventi; 3) la coerenza epistemica dei nostri giudizi.
Il livello di assorbimento esercitato dalla credenza come sentimento
collegato ai marcatori epistemici della certezza e della convinzione è sta-
to notato con chiarezza da Bernard Williams, secondo cui è logicamente
impossibile, incompatibile con l’idea stessa di credenza, supporre che si
possa, in qualsivoglia caso, decidere di credere14. La sua interpretazione
sembra derivare direttamente dalla seguente proposizione presentata da
Hume: «La natura, per via di una necessità assoluta e incontrollabile, ci
ha determinati a giudicare come a respirare e avere sensazioni (Nature, by
an absolute and uncontrollable necessity has determined us to judge as well
as to breathe and feel)» (T, I, IV, i, tr. cit., p. 183).

Scetticismo: come fare e disfare il mondo

La riflessione humeana sul problema della credenza si è dimostrata im-


mensamente fertile. Durante il diciannovesimo secolo, anche prima che
Charles Peirce facesse della credenza uno dei suoi temi centrali, fu svilup-
pata da un autore come Alexander Bain che, in un libro pubblicato nel
1859, definì credenza «un’abitudine di azione che costituisce la base sulla
quale un uomo è disposto ad agire (a habit of action which constitutes the

13
D. Hume, A Treatise of Human Nature, a cura di L.A. Selby-Bigge, Oxford, Oxford
University Press, 1978, II, ii, pp. 187-218.
14
Cfr. B. Williams, Problems of the Self, Cambridge, Cambridge University Press, 1973,
cap. 9. Si veda anche J. Passmore, Hume and the Ethic of Belief, in David Hume. Bicente-
nary Papers, a cura di G.P. Morice, Austin, University of Texas Press, 1977, pp. 77-92.
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basis on which a man is willing to act)»15. Il «marchio» scettico persiste per


il fatto che alla credenza non viene attribuito alcun valore o fondamento
reale. Nella formulazione offerta da Peirce, il significato delle credenze
è contenuto negli effetti che esse producono sulla nostra condotta. La
ricerca si sposta dai fondamenti alla ricerca delle conseguenze pratiche
dei sistemi di credenze.
Indipendentemente dalla dibattuta questione sui possibili gradi di vi-
cinanza tra pragmatismo e scetticismo, possiamo qui riconoscere un nobi-
le tema humeano: quello della produttività delle credenze che, malgrado
la loro costituzione infondata, sorreggono le esperienze del mondo. La
stessa idea di mondo dipende dall’abitudine a credenze causali e naturali,
così come da contenuti contingenti espressi in linee di condotta regola-
tive e valori che danno significato alle nostre esperienze. Dall’altra parte,
l’idea che il significato delle credenze sia stabilito attraverso i loro effetti
in realtà rende protagonisti i portatori di tali credenze – gli esseri umani
– assegnando loro la costruzione degli ordini simbolici che ci circondano.
Le conseguenze costruzionalistiche di questa concezione si possono tro-
vare nel pensiero del filosofo americano Nelson Goodman (1901-1998), e
in particolare nel suo libro del 1978, intitolato Ways of Worldmaking.
Con un approccio che egli stesso definisce scettico, analitico e costru-
zionalistico, Goodman rilancia una tesi di Ernst Cassirer, secondo il qua-
le, per mezzo dell’uso dei simboli, si possono costruire dal nulla una mol-
teplicità di mondi16. Come per Cassirer, infatti, i temi preferiti da Nelson
Goodman sono quelli della molteplicità dei mondi, del potere creativo
dell’intelletto umano, della varietà e della funzione produttiva dei simboli.
Goodman, in particolare, si è dedicato allo studio delle modalità pratiche
in cui l’azione simbolica umana istituisce l’esperienza di diversi mondi
reali e simultanei. In questo senso, è un autore di importanza inestimabile
per analizzare i procedimenti di invenzione sociale e politica.
Una delle possibili vie d’accesso alla comprensione dell’universo good-
maniano è quella che parte dall’affermazione secondo cui ogni descrizione
di un mondo costituisce una proprietà del sistema di descrizione adottato:
«Il nostro orizzonte è costituito dai modi di descrivere tutto ciò che viene
descritto. Il nostro universo consiste, per così dire, di questi modi piutto-
sto che di un mondo o di mondi»17. Dobbiamo limitarci alle modalità di
descrizione, e non a ciò che viene descritto. Le versioni del mondo che da
ciò risultano sono depictions, e non descriptions, come nell’universo della
15
Cfr. A. Bain, The Emotions and the Will, 1859, cit. in J.-P. Cometti, Filosofia sem
Privilégios, Porto, Edições Asa, 1995, pp. 12-13.
16
Cfr. N. Goodman, Worlds, Words, Works, in Ways of Worldmaking, Indianapolis,
Hackett Publishing Company, 1978, p. 1 (tr. it. Parole, opere, mondi, in Vedere e costruire
il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 1).
17
Goodman, Vedere e costruire il mondo, cit., p. 3.
La fabbrica delle credenze. Lo scetticismo come filosofia del mondo umano 699

pittura e della letteratura. Il costruzionalismo di Goodman si esprime nel-


la concezione volontaristica del processo di costituzione di mondi, come
attività umana sostenuta da simboli (il che potrebbe implicare una teoria
«forte» della agency umana). La dimensione scettica di Goodman appare
nella dislocazione del problema della verità: la verità inerente a ognuno
dei mondi non richiede di presentare, come prova di validità, nulla che
sia esterno e precedente ad essi. Una costituzione per esempio, in quanto
forma di mondo, è altrettanto vera della Donna nel Guardaroba di Pablo
Picasso, esposta al Centro Culturale di Belem a Lisbona, o dei diciassette
affreschi di Giovanni Antonio Bazzi (il Sodoma) a Monte Oliveto Mag-
giore in Toscana. L’aspetto analitico del pensiero di Goodman, invece,
si trova nell’enumerazione meticolosa delle procedure con cui i mondi
vengono costituiti.
Molti mondi sono possibili, in quanto risultati di diversi procedimen-
ti di fabbricazione del mondo (worldmaking). L’aspetto comune, che si
ritrova in tutti, è relativo alla presenza di una condizione di significato
(clause of meaning): appartiene alla natura dei sistemi di credenze, neces-
sariamente presenti nella fabbricazione del mondo, il fatto che essi stabi-
liscano parametri che fissano la condizione umana in scenari caratterizzati
da prevedibilità e significato. In altre parole, essi creano mondi in cui le
credenze, più che capacità fondative sono istituite come grammatiche,
come risorse costruttive. Le questioni di familiarità e prevedibilità sem-
brano essere strettamente associate all’idea di credenza come abitudine di
azione, come attributo di un senso condiviso della nostra esperienza del
mondo. Il negativo di questa immagine – ossia il modello di un’esperienza
in cui le credenze siano disfatte e coloro che le sostengono distrutti – ap-
pare come l’immagine del peggiore dei mondi possibili. Lo scetticismo,
non potendo rivelare la natura del migliore dei mondi possibili in virtù dei
propri stessi presupposti, può servire come uno strumento appropriato
per scoprire il peggiore di essi.
Ciò che Primo Levi − uno dei più importanti pensatori del ventesimo
secolo − ha raccontato sui campi di sterminio è sconvolgente per molte
ragioni. Tra queste vi è proprio il fatto di presentare uno di stato di cose
in cui i soggetti subiscono l’annichilamento delle loro credenze comuni,
oltre che dei loro corpi. L’opera di Primo Levi − che si definisce uno
scettico − è una risorsa fondamentale per comprendere quali conseguen-
ze sinistre possano derivare da procedimenti che mescolano una radicale
imprevedibilità alla più assoluta concentrazione delle risorse di potere fi-
sico e politico. Non è un caso che un autore che si considera in un certo
modo scettico si sia occupato delle conseguenze del tentativo di sradicare
le credenze comuni e di distruggere coloro che le sostengono.
È importante definire in che senso la posizione cognitiva di Primo Levi
nel suo libro Se questo è un uomo (1958) – profonda testimonianza della
700 Renato Lessa

sua esperienza ad Auschwitz – possa essere definita scettica. Bisogna subito


sottolineare che, in Levi, lo scetticismo non risulta dalla classica sequenza
di mosse argomentative dello scetticismo tradizionale, che sorsero in un
mondo caratterizzato da un eccesso di significati. Al contrario, lo scetticismo
e la «misologia» di Levi sorgono da un mondo radicalmente privo di signifi-
cato, un mondo insensato, volto allo sradicamento di ogni certezza umana.
Come ha sostenuto Robert Antelme: «La sola certezza possibile è dietro di
noi»18. Per concludere il confronto, mentre lo scetticismo antico può essere
compreso all’interno dell’orizzonte complessivo della ricerca della felicità,
tipica dell’Ellenismo, lo scetticismo di Levi deriva dalla disperazione e dal-
la sensazione di sradicamento. Parlare di scetticismo significa, per dirla in
modo più diretto, constatare un doppio fallimento, che per Levi significa
l’annientamento radicale della dimensione umana.
In un primo senso, lo scetticismo di Levi comporta una dimensione epi-
stemica. Esso riguarda, in altre parole, la relazione del soggetto con la sua
stessa conoscenza e con le sue credenze fondamentali. Come le credenze
descritte da David Hume, le credenze fondamentali (basic beliefs) appar-
tengono alla dimensione epistemica. Esse funzionano come condizioni
necessarie della conoscenza, e possono essere definite come credenze che
fondano la possibilità stessa delle credenze comuni. Tale dimensione agisce
prima dell’esperienza (ex ante) e la sensazione di fallimento epistemico è
una delle più radicali constatazioni della fallibilità umana: «Da molto tempo
ho smesso di cercare di capire»19. Tale insuccesso distrugge le più radicate
credenze che abbiamo rispetto alla nostra identità personale. Ciò significa
in altre parole l’annientamento del soggetto nella mente umana. Il fallimen-
to epistemico è indicato da Levi con la scoperta dell’inutilità dei sistemi:

Di fronte a questo complicato mondo infero, le mie idee sono confuse; sarà
proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo? O non sarà più salutare
prendere coscienza di non avere sistema?20

In un altro senso, diverso e complementare, l’atteggiamento scettico di


Levi deriva da proprietà ontologiche negative. Al fallimento epistemico
fondamentale dobbiamo aggiungere il fatto che il mondo di cui Levi sta
parlando è radicalmente oscuro ed evasivo. Il mondo del campo di ster-
minio ha come sua norma costitutiva l’imprevedibilità, la cui espressione
più pura e radicale si può cogliere in una frase pronunciata da una guardia
SS. Levi la riporta in un capitolo di Se questo è un uomo, intitolato signi-
ficativamente Sul fondo:

18
Cfr. R. Antelme, L’Espèce Humaine, Paris, Gallimard, 1957, p. 81.
19
P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1973, p. 66.
20
Ibidem, p. 57.
La fabbrica delle credenze. Lo scetticismo come filosofia del mondo umano 701

spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a


portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si
è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato
brutalmente. – Warum? gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier is kein
Warum, – (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno
spintone) 21.

La conclusione di Levi è caustica:

La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto,


non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se
vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene:

… Qui non ha luogo il Santo Volto


qui si nuota altrimenti che nel Serchio!22

Evocando l’Inferno di Dante (XXI, 48), Levi non lascia adito al dubbio:
la frase «qui non c’è perché» è simile alla distruzione di ogni legame signi-
ficativo tra esperienze passate e presenti, e di ogni senso di familiarità. La
frase significa che nel campo di sterminio Levi si confronta con un mondo
privo delle sue basi ontologiche fondamentali: un sistema di regolarità che
dia senso all’allucinatoria richiesta umana di ordine e stabilità. In questo
senso, il mondo del campo di sterminio, secondo la testimonianza di Levi,
appare come la più forte e ripugnante confutazione dell’idea di costume
analizzata da David Hume nel Treatise on Human Nature. Il costume è
una credenza naturale – un comune strumento allucinatorio – che ren-
de possibile la vita sociale e umana. Nella sua dimensione fondamentale,
sempre secondo Hume, il costume è la forza che permette agli esseri uma-
ni di avere aspettative riguardo al futuro. Perciò, la risposta «Qui non c’è
perché» è l’annientamento radicale delle procedure causali e cognitive. La
testimonianza di Levi equivale alla descrizione di un mondo radicalmente
non-humeano, segnato dal disordine ontologico, dalla soppressione del
futuro e dall’inutilità delle comuni credenze e abitudini. In poche parole,
è l’esperienza di un processo di disintegrazione del mondo.

Scetticismo, certezza, dolore, e il rafforzamento della varietà umana

L’esperimento di Auschwitz, secondo il resoconto che ne ha fatto il te-


stimone oculare Primo Levi, ci parla anche dell’esperienza radicale del
dolore. Diversamente da quanto sostenuto da Paul Valéry, secondo il qua-

21
Ibidem, p. 40.
22
Ibidem.
702 Renato Lessa

le il dolore fisico metterebbe il soggetto in opposizione con il suo stesso


corpo, diventato qualcosa di estraneo al suo essere interiore, ciò che de-
scrive Primo Levi è l’esperienza di un totale sradicamento di questo essere
interiore, e dell’imposizione del dolore come «marcatore esistenziale» as-
soluto. È come se attraverso il dolore fisico estremo – il dolore del campo
di sterminio – il soggetto prendesse pienamente coscienza del proprio
corpo. In altre parole, il discorso su questo dolore estremo si sposta dal
tradizionale «Io provo dolore» al terribile «Io sono dolore», che in questo
modo assume l’assurdo ruolo di attestare l’esistenza del soggetto umano
sofferente23.
In un libro importante, Elaine Scarry ha sostenuto che l’esperienza del
soggetto alle prese con il proprio dolore è quanto di più vicino all’idea di
certezza filosofica. In termini analitici, si tratta di un dolore esperito in
prima persona. Dall’altra parte, il dolore dell’altro, espresso attraverso
giudizi alla terza persona, è ciò che si potrebbe identificare con l’idea
del dubbio24. Tale condizione di certezza richiede la soppressione di ogni
dimensione simbolica attraverso un accordo spontaneo con il fatto del
dolore:

Il dolore fisico non resiste semplicemente al linguaggio ma lo distrugge at-


tivamente, provocando la regressione immediata a uno stato anteriore al lin-
guaggio, ai suoni e alle grida che un essere umano emette prima di apprendere
il linguaggio25.

Tuttavia, il principio di identità col corpo, con l’eliminazione del lin-


guaggio che ne risulta, introduce quella che, probabilmente, è la for-
ma più radicale di solipsismo. Una forma che non si fonda sull’uso del
linguaggio privato, ma sull’esperienza intransitiva del corpo sofferen-
te. Questa immagine richiama un altro importante scettico del ventesi-
mo secolo, il drammaturgo irlandese Samuel Beckett. Proprio come in
Hume, in Beckett l’esperienza comune resta qualcosa di inconoscibile
in sé, a causa del flusso ininterrotto che attraversa la mente e il mondo
stesso. Tuttavia, a differenza che in Hume, non c’è rifugio nell’esperien-
za ordinaria: «L’abitudine è la zavorra che incatena il cane al suo vomito.
[…]. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti»26. Il
rifugio nel corpo stabilisce, di fatto, il primato del dolore e la più radi-
cale incomunicabilità.

23
Cf. J.-D. Nasio, La douleur physique: une théorie psychanalytique de la douleur corpo-
relle, Paris, Payot & Rivages, 2006.
24
Cf. E. Scarry, The Body in Pain. The Making and the Unmaking of the World, Oxford,
Oxford University Press, 1985.
25
Ibidem, p. 4.
26
S. Beckett, Proust, New York, Grove Press, 1960.
La fabbrica delle credenze. Lo scetticismo come filosofia del mondo umano 703

La forza dello scetticismo – secondo la tradizione che lega Montaigne,


Hume, Goodman e Primo Levi – risiede nello sforzo di mescolare due
aspetti formalmente opposti: 1) il desiderio che le cose permangano in
un mondo comune prevedibile e significativo; e 2) l’apprezzamento per
la varietà umana che è contenuta nei vari atti di credenza. Lungo queste
linee la fallibilità dello scettico si carica di forti connotazioni umanistiche.
Inoltre, lo scetticismo continua ad essere la più inestimabile riserva etica
e filosofica contro le conseguenze politiche ed esistenziali implicate dal
credere in un fondamento che possa configurare l’esperienza umana in un
modo vero e definitivo. In questo senso, l’incertezza e la misologia degli
scettici richiedono quella condizione del mondo meravigliosamente de-
scritta dalle parole di H.G. Wells: «but the world is wide and there is room
for both of us to be wrong»27.

(Traduzione dall’inglese di Barbara Carnevali)

Renato Lessa
University Research Institute of Rio de Janeiro, Brazil
rlessa@iuperj.br

27
Lettera di Wells a Joyce, cit. in Ellmann, James Joyce, cit., p. 608.
704 Renato Lessa

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