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7 – Il primo ricordo teatrale

Io che avevo allora tre o quattro anni, rappresentavo l’inverno. Come sempre in
questi casi, nel mezzo della scena era stato posto un piccolo abete abbattuto, coperto
di pezzi di ovatta. Io sedevo per terra, avvolto in una pelliccia, con un cappello di pelo
sulla testa, una lunga barba legata e i baffi che continuamente scivolavano all’insù, non
sapevo dove guardare e che fare. Probabilmente quel senso di imbarazzo davanti
all’assurdità dell’inazione sulla scena fu da me avvertito inconsciamente fin da
allora e ancora oggi lo temo più d’ogni altra cosa sul palcoscenico. Dopo gli
applausi, che mi piacquero moltissimo, al bis mi fecero assumere una posa diversa.
Davanti a me accesero una candela, coperta di rami secchi, che raffigurava un falò, e
mi dettero in mano un pezzo di legno che io dovevo far finta di cacciare nel fuoco.
– Capisci? Per finta e non sul serio! – mi spiegarono.
Cosi mi si proibì severissimamente di accostare il pezzo di legno al fuoco. Tutto
questo mi sembrava assurdo. – Perché per finta, se posso mettere davvero il pezzo
di legno nel fuoco?
Non fecero nemmeno in tempo ad aprire il sipario al bis che io con grande
interesse e curiosità allungai il pezzo di legno verso il fuoco. Per me questo era un
atto del tutto naturale e logico, che aveva un senso. Ancora più naturale fu che
l’ovatta prese fuoco e scoppiò un incendio. Ci fu uno scompiglio generale e tutti si
misero a gridare. Mi afferrarono e attraverso il cortile mi portarono a casa, nella stanza
dei bambini, dove piansi amaramente.
Da quella sera in me vivono, da una parte, le impressioni piacevoli del
successo e dell’esser sulla scena e svolgervi un’azione sensata, dall’altra quelle
spiacevoli dell’insuccesso, il disagio dell’inazione e del trovarsi dinanzi a una
folla di spettatori senza una ragione.
Cosi il mio primo debutto terminò con un fiasco, e ciò a causa della mia
testardaggine, che a volte, specie nella prima infanzia, si manifestò in alto grado; ma in
una certa misura esercitò un’influenza sia positiva che negativa sulla mia vita artistica.

p.13 – Rivivere il passato

I ricordi delle sensazioni provate più innanzi sono rimasti scolpiti nella mia anima
ancora più vivamente. Essi appartengono al campo delle esigenze e delle emozioni
artistiche. Sta a me ora risuscitare nella memoria l’atmosfera dì quella lontana vita
infantile e sarà come ritornare a essere giovane e riprovare le note sensazioni.

p.16 – Il circo

Il nostro palco si trova accanto all’entrata in scena degli artisti. Da qui si può
osservare ciò che accade dietro le quinte, nella vita privata di questa
incomprensibile, meravigliosa gente che vive sempre fianco a fianco con la
morte e scherzando rischia la pelle. È possibile che non siano agitati prima di
comparire sulla scena? Eppure questo può essere l’ultimo minuto della loro vita! Ma
essi sono carmi, parlano di cose insignificanti, di denari, della cena. Che eroi!

pp.25-26 – L’Opera

Le impressioni ricevute all’opera italiana vivono tuttora in me con


straordinaria intensità e certo esse sono pili forti di quelle lasciatemi dal circo.
Penso ciò derivi dal fatto che la forza delle impressioni in sé sia stata enorme, e
benché non compresa allora venne poi assimilata organicamente e
inconsciamente, non solo spiritualmente, ma anche fisicamente. Compresi e
apprezzai queste impressioni soltanto in seguito, rivivendole con la memoria. Il circo,
invece, da bambino mi divertiva, mi rendeva allegro; ma il suo ricordo non presentò per
me più alcun interesse in età matura, e lo dimenticai.

Le impressioni riportate da questi spettacoli d’opera si sono impresse non
solo nella mia memoria uditiva e visiva, ma anche nel fisico, ossia io le percepivo
non solo con i sensi, ma anche con tutto il corpo. Infatti al loro ricordo io provo di
nuovo quella stessa sensazione che una volta provocò in me la nota alta, meravigliosa,
argentina, di Adelina Patti, i suoi gorgheggi e il suo virtuosismo, da cui mi sentivo
soffocare, le sue note di petto che mi mozzavano letteralmente il fiato e per le quali era
impossibile trattenere un sorriso di soddisfazione. Nello stesso tempo mi si è impressa
nella memoria la sua piccola figura affilata col profilo come d’avorio scolpito.
La medesima sensazione fisica ed organica di forza elementare mi rende il ricordo
del re dei baritoni, Cotogni, e del basso Giamet. Ancora oggi io mi commuovo
pensando a loro. Mi torna alla mente un concerto di beneficenza in casa di nostri
conoscenti. In una piccola sala i due eroi cantavano il duetto dai Puritani, inondando la
stanza di suoni vellutati, che si versavano nell’anima, inebriandola di passione
meridionale. Giamet con la faccia di Mefistofele e con la bella figura gigantesca, e
Cotogni con un viso aperto e affabile, un’enorme cicatrice sulla guancia, sano, forte e,
nel suo genere, un bell’uomo.
Ecco un episodio che può dare la misura della forza delle impressioni giovanili
prodotte in me da Cotogni. Nel 1910, circa trentacinque anni dopo la sua venuta a
Mosca, io ero a Roma e camminavo con un conoscente per una stretta stradina.
Improvvisamente dal piano superiore di una casa volò via una nota larga, squillante,
ribollente, calda e commovente. E di nuovo io provai fisicamente la sensazione ben
nota.
– Cotogni! – esclamai.
– Sì, sta qui, – confermò il mio conoscente. – Come lo hai riconosciuto?
– L’ho sentito, – risposi io. – È una cosa che non si potrà mai dimenticare.

pp.28-29 – Tamagno

Tamagno uscì nel costume di Otello, con la sua enorme e possente figura, e di
colpo assordò l’uditorio con una nota da far crollare tutto l’edificio. La folla,
istintivamente, come un solo uomo, si gettò indietro, quasi per difendersi da una
contusione. La seconda nota fu ancora più forte, la terza, la quarta sempre di più, e
quando, come il fuoco dal cratere, alla parola «mussulmano» si levò l’ultima nota, il
pubblico per qualche minuto perse conoscenza. Tutti demmo un balzo. Chi si
conosceva si cercava, tutti gli altri si rivolgevano ai vicini con una sola e medesima
domanda: – Avete sentito? Che cosa è questo? – L’orchestra cessò di suonare, sulla
scena ci fu una gran confusione. Ma all’improvviso, tornata in sé, la folla si slanciò
verso la scena urlando dall’entusiasmo e chiedendo il «bis».

Egli era un mediocre musicista. Spesso stonava, cantava in falsetto, non andava
a tempo, sbagliava il ritmo. Era un cattivo attore, ma non privo di talento. È questa
la ragione per cui con lui si potevano fare prodigi. Il suo Otello era un miracolo: era
la perfezione, sia dal punto di vista musicale sia da quello drammatico. Egli studiò
questa parte molti anni (si, proprio cosi, anni) con Verdi in persona per la parte
musicale e il vecchio Tommaso Salvini per quella drammatica.
Possano tutti i giovani artisti conoscere quali risultati si ottengono con la
fatica, la tecnica e la vera arte! Tamagno era grande in questa parte non soltanto
perché ha avuto per maestri due geni, ma anche grazie al temperamento, alla
spontaneità e alla immediatezza che aveva avuto in dono dalla natura. I maestri della
tecnica, i suoi insegnanti, seppero scoprire l’essenza spirituale del suo talento. Egli
non seppe far nulla da solo. Gli fu insegnato a interpretare una parte, ma non
imparò mai a comprendere e a saper usare l’arte dell’attore.

p.29 – Saper vedere il bello

Tutti questi ricordi devono anche servire a mostrare ai giovani artisti quanto sia
importante assimilare il maggior numero di impressioni belle e forti. L’artista deve
vedere (e non solo vedere, ma anche saper vedere) il bello in tutti i campi della
sua specifica arte e di quella altrui, e della vita. Egli ha bisogno delle impressioni
prodotte dai buoni spettacoli, dai bravi artisti, concerti, musei, viaggi, bei quadri di
svariate tendenze, anche le più estreme di destra e di sinistra, poiché nessuno sa che
cosa è atto ad agitare la sua anima, ad aprire i suoi recessi creativi.

pp.46-47 – La Ermolova

Marija Nikolaevna Ermolova fu tutta un’epoca per il teatro russo e per la nostra
generazione, fu il simbolo della femminilità, della bellezza, della forza, del pathos, della
vera semplicità e modestia. Aveva qualità eccezionali. Possedeva un fiuto geniale, un
temperamento ispirato, una grande sensibilità nervosa, un’inesauribile profondità
d’animo. Non essendo una caratterista, per mezzo secolo e quasi senza uscire da
Mosca, ella visse pressoché ogni giorno sulla scena impersonando il proprio
personaggio, esprimendo se stessa. E ciò nonostante, in ciascuna parte M. N.
Ermolova offriva sempre una sua particolare immagine spirituale, in nulla simile alla
precedente, o a quella di qualcun altro.
Le parti create dalla Ermolova restano nella memoria l’una indipendente
dall’altra pur essendo tutte creazioni di un unico materiale organico, della sua
complessa personalità. Al contrario dì altri artisti del suo tipo, che lasciano nella
memoria soltanto il ricordo della loro personalità e non delle parti da loro
rappresentate, tutte simili tra loro.
M. N. Ermolova creava i suoi personaggi innumerevoli e spiritualmente vari
sempre con gli stessi procedimenti di recitazione, tipicamente ermoloviani, con il
modo tutto suo di gestire, la sua grande forza, la sua mobilità, al punto di
lanciarsi, di gettarsi da un’estremità all’altra della scena, con i suoi impeti di
passione vulcanica che raggiungevano i limiti estremi, con la sua prodigiosa
capacità di piangere, di soffrire, di credere sinceramente sulla scena.
Le doti esteriori di Marija Nikolaevna non erano meno notevoli. Aveva un viso
bellissimo, occhi ispirati, un corpo da Venere, una voce di petto, calda e profonda,
aveva plasticità, armonia, ritmo perfino negli slanci e nei movimenti impetuosi,
possedeva un immenso fascino e qualità sceniche grazie alle quali persino i difetti si
convertivano in pregi.
Tutti i suoi movimenti, le parole, gli atti, anche se mal riusciti e falsi, erano
riscaldati all’interno da un sentimento tenero, ardente, palpitante. Insieme a tutti questi
pregi la natura le aveva concesso un intuito psicologico assolutamente eccezionale.
Conoscitrice del cuore femminile, sapeva, come nessun’altra, scoprire e mostrare «das
ewig Weibliche» [l’eterno femminino], come pure tutti i meandri dell’anima femminile,
commovente fino alle lacrime, terribile fino all’orrore, comica fino al riso. Quante volte
la grande artista costringeva gli spettatori, tutti senza eccezione, a tenere il fazzoletto
agli occhi e ad asciugarsi le lacrime che sgorgavano copiose.
pp.50-55 – L’imitazione, il senso della scena dal palco e il senso della misura

Qual era il mio ideale di allora?


Molto semplice. Io volevo solo essere come il mio attore preferito Nikolaj
Ignat’evic Muzil un comico-semplicione, volevo avere la sua voce, le sue maniere
che a quel tempo era ciò che apprezzavo più di tutto in questo eccellente artista
scomparso. Perciò tutta la mia fatica si riduceva a imitare i suoi modi esteriori e
a sviluppare la raucedine nella voce. Volevo essere la sua copia perfetta.
Naturalmente, scelsi il lavoro che recitava lui, in tal modo mi era impossibile rinunziare
a lui. Il titolo di quest’opera è La tazza di tè, un vaudeville in un atto. Ne conoscevo tutti
i passaggi, la messa in scena, ogni gesto e intonazione, la mimica dell’attore
prediletto… Il regista non aveva niente da insegnarmi, poiché la mia parte era già stata
impersonata da un altro, e a me non restava che ripetere il già fatto, copiando
ciecamente l’originale. Sulla scena mi sentivo perfettamente, disinvolto e sicuro.
In modo assai diverso andarono le cose per un’altra parte: quella di un vecchio in
un vaudeville intitolato Il vecchio matematico o l’apparizione di una cometa in un
capoluogo di provincia. Per questa parte io non avevo davanti a me nessun modello, e
perciò mi sembrava vuota, grigia, priva di contenuto. A me occorreva avere un
modello scenico bello e pronto. Ero costretto a congetturare come avrebbe
recitato questa parte un certo attore di cui conoscevo i metodi e che sapevo
copiare.
Qualcosa trovavo, e allora mi sentivo a mio agio sulla scena. Ma in altri punti non
riuscivo ad adattarvi quello che sapevo e allora andava male. Oppure mi capitava per
caso di ricordarmi il modo di recitare di un attore completamente diverso dal primo, e
per un istante mi rianimavo; o ancora, in un altro punto del lavoro mi veniva in mente
un terzo artista e lo copiavo, e così via. In tal modo in una sola parte imitavo dieci
modelli, in un solo uomo vedevo una decina di personaggi diversi. Ogni punto copiato,
preso a sé, era simile a qualche cosa, ma tutto l’insieme non so proprio a che cosa
potesse somigliare. La parte si era trasformata in una coperta fatta di tanti brandelli
cuciti insieme, e io sulla scena mi sentivo a disagio. Nella seconda parte non c’era
niente di comune con quella sensazione di sicurezza che si era creata nella Tazza di
tè, e perciò Il vecchio matematico mi procurava per la prima volta il tormento creativo,
che ancora non conoscevo. Provando La tazza di tè, mi dicevo:
«Dio! Che gioia l’arte e la creazione!»
Quando recitavo Il vecchio matematico, piano piano confessavo a me stesso:
«Dio! Che tortura essere attore!»
In tal modo l’arte mi sembrava ora facile, ora difficile, ora incantevole, ora
insopportabile, ora una gioia, ora un tormento. E allora non mi sbagliavo. Non c’è
letizia più grande del sentirsi sulla scena come a casa propria, e fastidio
peggiore che starci come ospite. Niente di più tormentoso dell’essere a qualunque
costo obbligati a incarnare l’estraneo, il vago, che risiede fuori di te. Ancora oggi queste
contraddizioni mi procurano ora gioia, ora tormento.

Il mio debutto ebbe luogo per l’onomastico di mia madre, il 5 settembre 1877.

Dietro le quinte gli attori si erano calmati; nei camerini avevano preso a parlare più
piano; sui volti era apparso un sorriso colpevole, di confusione. Ma dentro di me tutto
gioiva, ribolliva. Non potevo stare fermo, né seduto né in piedi. Ero agitato, mi sentivo
tutto rimescolare. Il cuore mi batteva forte e a tratti mi si arrestava. Ma ecco, il sipario si
alzò ed ebbe inizio la rappresentazione.
Finalmente anch’io entrai in scena dove mi sentii perfettamente a mio agio. Dentro
qualcosa mi spingeva, mi infervorava, mi ispirava e io, mordendo il freno, volavo
avanti, attraverso tutta la rappresentazione. Non creavo la parte, il lavoro – non vale
neppure la pena di parlare di questo vuoto vaudeville! – creavo la mia arte, la mia
azione artistica. Facevo dono agli spettatori del mio genio, avevo la consapevolezza di
essere un grande artista, esposto alla ammirazione della folla. Mi agitava il furore del
mio tempo e del mio ritmo interni, per cui «il respiro mi si mozzava in gola». Le parole e
i gesti volavano con una rapidità inafferrabile. Ansimavo, l’affanno mi impediva di
parlare, e questo nervosismo e sfrenatezza eccessivi erano da me scambiati per
autentica ispirazione. Recitando ero convinto di tenere gli spettatori
completamente in mio potere.
Il lavoro terminò e io aspettavo l’approvazione, gli elogi, l’entusiasmo. Ma tutti
tacquero e mi ignorarono. Fui costretto ad avvicinarmi al regista e ad umiliarmi al punto
da mendicare un complimento.
– Cosi, cosi. Però molto gradevole, – mi disse il regista.
Ma che significa «però»?!
Da questo momento cominciai a sapere che cosa fosse il dubbio artistico.
Dopo il secondo lavoro, Il vecchio matematico, nel quale non mi sentivo molto a
mio agio, il regista soddisfatto, con il sincero desiderio di incoraggiarmi, mi disse:
– Ecco, va assai meglio!
Come? Quando sulla scena ti senti a tuo agio, nessuno ti elogia, mentre se
provi uno stato di disagio, ti approvano! Qual è il motivo? Che cos’è questa
discordanza tra il proprio stato sulla scena e le impressioni degli spettatori in
sala?
Quella sera appresi anche un’altra cosa, e cioè che non è cosi semplice
comprendere i propri errori artistici. Evidentemente, è una vera e propria scienza
capire, stando sul palcoscenico, l’impressione che fa la tua recitazione dall’altra
parte della ribalta. Quanto bisognò interrogare, giocare d’astuzia, adulare, per riuscire
a capire che, nonostante la mia «ispirazione», io, in primo luogo, parlavo
semplicemente troppo piano, tanto che gli spettatori volevano gridarmi: «Più forte!»; in
secondo luogo, pronunciavo le parole così rapidamente che tutti volevano gridare: «Più
adagio!» Risultò che le mie braccia guizzavano nell’aria con tanta rapidità, e le gambe
mi gettavano cosi violentemente da un angolo all’altro della scena, che nessuno capiva
ciò che stava accadendo al di là della ribalta. Quella sera appresi anche che cosa
significhi per l’attore il meschino amor proprio ferito, da cui nascono l’invidia, i
pettegolezzi, e l’odio.

Più che gioia il mio debutto mi lasciò un senso di insicurezza che io cercai in
tutti i modi di dissipare. Cosi, alla prima occasione, in uno degli spettacoli dati in
casa, in cui mi toccò di recitare, mi proposi di parlare forte e di non agitare le
braccia.
E quale fu il risultato? Incominciarono a rimproverarmi per le grida e per le
smorfie al posto della mimica, per l’esagerazione e la mancanza di «senso della
misura». Evidentemente il nervosismo delle braccia era passato al viso, donde le
smorfie esagerate. E il «senso della misura?» A parole, naturalmente, capivo che
cosa voleva dire, ma in pratica…
Le rappresentazioni si facevano di rado e nei lunghi intervalli tra l’una e l’altra
soffrivamo di non avere un’attività artistica. Tanto per mitigare questa mancanza,
quanto per dare libero sfogo alle birichinate e allo scherzo cui eravamo stati abituati
dalla fanciullezza, escogitammo quanto segue: un giorno, al crepuscolo, un mio
compagno e io ci vestimmo e ci truccammo da poveri mendicanti ubriaconi e
andammo alla stazione. Là prendemmo a spaventare estranei e conoscenti. Ci
davano un copeco, i cani ci si avventavano addosso, e il guardiano ci cacciava via dal
marciapiede della stazione. E quanto peggio si comportavano con noi, tanto più era
appagato il nostro senso artistico. Nella vita ci toccava recitare in modo più
verosimile che sulla scena, dove si crede a tutto. Altrimenti si poteva incorrere in
uno scandalo. Ma se ci mandavano via, se ci cacciavano, significava che
recitavamo bene. Fu allora che io praticamente apprezzai il «senso della misura».

Per illustrare la via che deve percorrere l’attore dilettante, privo della guida di un
professionista, descriverò alcuni spettacoli particolarmente caratteristici per la mia
attività successiva. Per questo non mi atterrò all’ordine cronologico, perché ciò non ha
alcun interesse per me. Importanti sono le tappe e i gradini attraverso cui passa l’attore
nel suo sviluppo creativo, importante è la «curva» di questo sviluppo, l’allontanarsi e il
deviare da essa.

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