La prima volta che ho visto tua madre … Non la vedevo. La sentivo.
Ero seduto in una
stanzetta laterale di una chiesetta alla periferia di Roma. A un certo punto ho sentito cantare una canzoncina francescana. Una canzoncina né bella né brutta. Allegra. Ammiccante. Come la stragrande maggioranza delle canzoncine francescane. Tua madre però la cantava in modo perfetto. Non si capiva dalla voce quanto credesse in quello che cantava, ma era certo che le piacesse la canzone stessa. Non ho potuto resistere. Ho dovuto alzarmi ed andare a vedere la faccia di quella voce allegra e bellissima. Anche la faccia era bella. Aveva un sorriso dolce gentile allegro e fragile. All’epoca (in parte ancora oggi) temevo le donne. Ero convinto che l’affetto sporcasse le persone. Credevo che la felicità consistesse nella ricerca dell’amore vero e che l’amore vero fosse donarsi totalmente. L’affetto mi pareva il contrario dell’amore vero, perché prende e non dà. Ancora oggi penso lo stesso dell’amore. Quello che pensavo degli affetti invece … era paura delle donne. Dunque fin dal primo giorno fui attratto e impaurito da tua madre. Sapevo che avremmo dovuto collaborare. Il primo evento fu una festa di carnevale. Lei preparava un balletto. Provai seriamente ad impararlo, ma per me ballare su passi prestabiliti è sempre stato impossibile. Probabilmente per reazione alla vita reale, dove era vero esattamente l’opposto. Io invece organizzai una comparsata in cui con il parroco dovevamo imitare lo spettacolo finale dei Blues Brothers. Era un modo per dire a tutti che eravamo in missione per conto di Dio, ma che lo eravamo nel modo il più possibile simpatico e vicino alla gente. In realtà dei Blues Brothers mi interessavano gli occhiali neri e il momento in cui John Belushi implora la fidanzata di lasciarlo andare, la convince e poi la lascia cadere nel fango. In missione per conto di Dio. Al di là dei sentimenti miei e altrui. Il secondo evento fu la recita di Natale. Tua madre aveva rimediato un testo durante uno dei suoi soggiorni francescani. Maria e Giuseppe tornavano a partorire in una parrocchia del presente. Una piccola commedia morale degli equivoci. Decisi di lavorarci un po’ sopra. Non credo di essere rimasto particolarmente colpito dal soggetto, ma avevo troppo bisogno di scrivere. Allora non lo sapevo ancora. Ero convinto di fare delle aggiunte per inserire gli scout e altri giovani della parrocchia nello spettacolino. Alla fine dello spettacolo eravamo tutti contenti. Noi di averlo fatto, la gente di averlo visto, il parroco che ci fosse movimento nella sua parrocchia. Per me, invece, scrivere ha significato aprire uno squarcio importante nella mia corazza da super eroe. Nel mio domicilio precedente avevo sperimentato un po’ cosa potrebbe significare essere padre. Raccontare di questo bambino che sconvolge le vite di tutti intorno prima ancora di nascere mi aveva impedito di smettere di pensare ai miei figli mai nati e a quelli che avevo dovuto abbandonare al mio precedente domicilio. Avrei avuto altri figli. Molti. Figli più figli di quelli che non sarebbero nati mai. I figli però hanno bisogno di una madre e io non avevo nessuna intenzione di sposarmi. I miei figli si sarebbero dovuti accontentare di una zia. Tua madre sarebbe diventata mia sorella. Scelsi tua madre come sorella perché era tra i pochissimi a non considerarmi un super eroe. Quando parlavamo avevo la sensazione che si rivolgesse proprio a me e non alla maschera che il Ruolo mi imponeva. Più io e il Ruolo andavamo allontanandoci, meno sopportavo che questi nascondesse a me e agli altri il mio essere-in-quanto-uomo. Le raccontavo sempre più spesso quello che mi accadeva, perché mi rendevo conto di aver bisogno del suo sguardo per leggere gli eventi in modo autenticamente mio. Come è possibile che per riappropriarmi di uno sguardo mio, dovessi prendere in prestito quello di un altro? E’ come quando usi il veleno della vipera per fare il siero. Uno dei modi che i Responsabili del Movimento da cui mi stavo affrancando usavano per controllare gli adepti era convincerci che loro sapevano di noi stessi cose che noi nemmeno vedevamo. Questo non detto incombeva in ogni incontro ed era decisivo quando le loro decisioni sulla nostra vita erano in contrasto con quello che sentivamo: dovevamo battere i loro sentieri, altrimenti saremmo stati distrutti da pericoli che solo loro potevano vedere, illuminati dall’ispirazione divina. Lo Spirito li mostrava a loro e non direttamente a noi, perché noi non saremmo stati in grado di sopportarne il peso. Non ci restava altro che fare la loro volontà. Obbedire. L’anno precedente ero andato a Venezia per urlare in faccia al mio Responsabile che non avrebbero più avuto il controllo della mia vita, ma mi accorsi in fretta che certi collari spirituali non si tolgono semplicemente sfanculando chi ne tiene l’estremità. Bisogna lentamente reimparare a prendere decisioni e sopportarne il peso. Lo sguardo di tua madre però non era un palliativo al controllo dei Responsabili. Ne avevo bisogno perché sentivo che una visione nitida della vita non può venire da un solo punto d’osservazione. Due punti di vista sono il minimo sindacale per iniziare a conoscere se stessi. Parlo continuamente di sguardi perché all’epoca sentivo continuamente su di me lo sguardo del Signore. Era uno sguardo che incuteva timore. Cominciavo a rendermi conto però che quello sguardo era in realtà il mio; o meglio, era lo sguardo che i Responsabili mi avevano convinto dovesse essere il mio. Iniziai a sospettare che invece lo Sguardo del Signore fosse uno sguardo talmente libero e liberante da non poterlo mai, in nessun modo, percepire sulle spalle. Ci si poteva solo guardare negli occhi e riposare uno nell’altro. Uno sguardo completamente inatto al controllo. Buono invece per domandarmi chi sono. Che voglio. Dove vado. Quanto costa. Domande che non mi ponevo da quindici anni. Il successo dello spettacolo di Natale (e il mio bisogno sempre più impellente di scrivere) ci spinse ad organizzare un altro spettacolo. La storia di un gruppo di giovani che voleva mettere in scena il Cyrano de Bergerac e le cui vite si sarebbero mischiate con quelle dei personaggi. Io avrei interpretato un prete, tua madre una suora (la sorella spirituale). Alla fine, dovevano tutti imparare a guardarsi con gli occhi di Cristo. Scrivere quel copione mi è servito ad ammettere con me stesso che ero innamorato di tua madre. Lei si infuriava continuamente perché io continuamente cambiavo il copione tagliando e aggiungendo. In parte, tagliavo e cucivo perché godo a perfezionare sempre più quello che scrivo. (Amo il viaggio molto più della meta). In parte però cambiavo perché scrivendo capivo quel che volevo scrivere. Scrivendo capivo quello che volevo fare. Inserii una canzone che era una dichiarazione d’amore per tua madre. Lei non se ne volle accorgere. Non ci si può innamorare di uno determinato ad essere un super eroe. Una sera raccontavo a uno degli amici di allora dei miei figli lasciati al precedente domicilio. Gli raccontavo che riuscivo a vederli raramente. Alcuni non li avevo visti più. Iniziai a piangere. A dirotto. Ero disperato. Avevo dovuto dire loro che da un determinato momento in poi avrebbero avuto un altro padre. Mentre raccontavo comprendevo che non avrei mai più voluto avere figli. Come puoi dire a un figlio: Da domani tuo padre è Guglielmo? Possiamo restare amici, ma tuo padre è un altro. I Responsabili mi avevano inculcato che proprio in questo consiste l’amore. Scrivere per lo spettacolo mi stava sbattendo in faccia quanto invece fosse solo l’assurda pazzia di un manipolo di esaltati. Allora però non ero in grado di concepire alternative. Quindi piangevo. Non avrei mai più potuto avere figli. Non potevo. Non volevo. Non sarebbe stato sano. Quindi piangevo. Senza speranza. Il mio amico non provava a fermarmi né a consolarmi. Non c’era consolazione per il mio pianto. Quel giorno ho smesso di voler essere un super eroe. Avrei finito per diventare un vagabondo. Fantasma ubriaco del dolore per i figli perduti e per quelli mai nati. Invece mi sono innamorato. Fino alla messa in scena dello spettacolo ho continuato a fingere con me stesso e con tua madre con quella storia della sorella … Una sorella spirituale … eh eh eh. Una moglie volevo. Avevo riconosciuto in tua madre la donna il cui sguardo su me stesso mi aiutava a capire chi ero e cosa volevo io (e non la proiezione di me che mi avevano imposto i Responsabili). Sentivo il bisogno di raccontarle ogni fatto che mi succedeva. Sentivo che se non glieli avessi raccontati, se non li avessi condivisi con lei, sarebbero stati vissuti a metà. Sentivo che solo insieme a lei potevo comprendere la mia vita. Bene. Adesso tu vieni a raccontarmi che vuoi diventare presbitera. E io ti rispondo raccontandoti perché non lo sono più. Vorrei che capissi che non ho lasciato per sposare tua madre. Ho lasciato per poter essere me stesso. Tu mi dirai che i tempi sono cambiati e che oggi avrei potuto essere un presbitero sposato e che tu sarai una delle prime presbitere italiane e che il problema era la sessuofobia della gerarchia di allora, ecc. ecc. Ma non è così. E’ che non ci ritroveremo mai su cosa sia un sacramento. Loro pensano alla Chiesa Universale. Io pensavo alle facce, alle mani, agli occhi delle persone concrete che sono la Chiesa sacramento di Cristo. Poi un giorno sei nata tu che pure sei un sacramento. Metà del mio DNA più metà del DNA di tua madre in un’unica e irripetibile miscela. Sei realmente sacramento inestricabile del nostro amore e realmente unicamente te stessa: una e bina. E non c’è un altro modo uguale d’essere una cosa sola io e tua madre. E non c’è un altro modo uguale di servire l’amore che non sia aiutarti a crescere. Sono stato per un po’ il pontefice tra te e il mondo. Avrò reso il mio culto gradito a Dio se vorrai fino infondo essere te stessa. Sii una brava presbitera, se vuoi.