Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Giorgio G. Alberti
A.O. San Carlo Borromeo, Milano – SEPI-Italia
1. INTRODUZIONE
Il pensiero sul cambiamento terapeutico oscilla da decenni tra spiegazioni fondate sulle
procedure tecniche e spiegazioni fondate sulla relazione tra paziente e terapeuta.
Una radice storica di questa visione alternativa è certamente rintracciabile nelle tradizionali
teorizzazioni sul meccanismo d’azione della psicoanalisi, le quali, come ha dimostrato
Thomae (1983), tendono a divaricarsi in due diversi e contrapposti campi, a seconda che
riconoscano come fattore mutativo l’insight – e i relativi interventi, come l’interpretazione di
transfert, o l’esperienza attuale del paziente col terapeuta, e quindi la relazione reale che
tra loro si crea.
Come si è visto anche nel vivace dibattito sviluppatosi in occasione del primo congresso
della SEPI-Italia (Alberti e Carere-Comes, 2003), i fattori relazionali del cambiamento sono
spesso assimilati ai fattori aspecifici e comuni che sarebbero attivi in ogni psicoterapia.
Diversi risultati della ricerca empirica contribuiscono all’idea di una prevalenza dei fattori
aspecifici e relazionali nel determinarsi del cambiamento: dalle conclusioni di
J. Frank sulla “restoration of morale” (Frank, 1974a) alle note meta-analisi che hanno
dimostrato una simile efficacia nelle diverse terapie (Luborsky, Singer e Luborsky, 1975;
Smith, Glass e Miller, 1980).
Più recentemente Wampold (2001) ha affermato che l’impatto dell’alleanza, nelle varie
ricerche sull’efficacia della psicoterapia, spiega la varianza dell’outcome molto più di
quanto non la spieghino le diverse tecniche impiegate (Lingiardi, 2002).
Questa di Wampold è a mio vedere la formulazione più moderna della tesi della
preminenza della relazione, qui fondata sul costrutto empiricamente validato di alleanza
terapeutica e sui metodi della ricerca empirica, ma per riaffermare invece la relazione
come fattore d’esito essenzialmente diverso e non riconducibile alle procedure tecniche.
Dal canto mio, credo che il processo di cambiamento sia meglio rappresentato entro una
visione che riconosca la rilevanza tanto della relazione quanto delle procedure tecniche
tradizionali.
Infatti ambedue le spiegazioni “polari” contenute nell’antinomia relazione/procedure
oscurano qualche aspetto del problema: o ignorano l’importanza delle procedure tecniche,
o quella della relazione, e comunque ignorano il fatto che la stessa relazione si può
promuovere e mantenere mediante delle procedure del tutto simili a quelle che
influenzano positivamente i processi patogenetici, che cioè la relazione non si sviluppa per
il semplice incontro tra due individui, ma che può essere costruita o facilitata attraverso
interventi e atteggiamenti che il terapeuta può pensare e governare attivamente.
1
paziente può influenzare l’alleanza, mentre sette anni dopo Crits-Christoph dimostrava che
il mantenimento di un’alleanza positiva è strettamente connesso agli interventi tecnici del
terapeuta (Despland et al., 2001; Frieswijk et al., 1986; Crits-Christoph et al., 1983).
La più recente ricerca sulla genesi dell’alleanza, fortemente aiutata dall’introduzione di
misure quali il WAI, la CALPAS e altre, ha permesso di accertare che essa dipende da tre
gruppi di fattori: a) le caratteristiche del paziente, b) le caratteristiche del terapeuta e c) gli
interventi e gli atteggiamenti che il terapeuta mette in atto nel corso della terapia.
2
Un recente studio su pazienti depressi in terapia cognitiva ha dimostrato che la buona
alleanza, creata ovviamente dal terapeuta, può annullare anche le determinazioni
preesistenti al cattivo esito terapeutico in soggetti depressi tendenti ad autoisolarsi (Hardy
et al., 2001)
preoccupato, e invece interventi più cognitivi con pazienti con attaccamento distaccato,
una diversità d’atteggiamento interpretabile come conseguenza di un adattamento del
terapeuta al singolo paziente, volto a facilitarne l’alleanza (Hardy et al., 1998).
3
Maggiore percezione del sostegno sociale, maggior agio nelle condizioni di vicinanza e
intimità interpersonale, propensione all’accudimento (contrapposta alla freddezza
interpersonale), l’esperienza di una madre accudente e affettuosa, minore autocontrollo, si
associano ad alleanze buone (Roth e Fonagy, 1996; Hersoug et al., 2001)
Quanto allo stile di attaccamento del terapeuta Mallinckrodt (2000) ritiene che i terapeuti
più idonei a stabilire e poi a gestire terapeuticamente una buona alleanza siano quelli che
hanno avuto esperienze personali di attaccamento sicuro, mentre chi ha uno stile
d’attaccamento non sicuro è esposto al rischio di gratificare collusivamente il paziente per
soddisfare propri bisogni.
4
terapeuti, quando esso era prescritto dal disegno sperimentale (Truax, 1963; Truax et al.,
1966a; Truax et al., 1966b; Truax e Carkhuff, 1965).
Successive ricerche hanno dimostrato gli effetti dei comportamenti del terapeuta non tanto
sull’esito finale quanto sul processo terapeutico.
5
(Milbrath et al., 1997; Milbrath et al., 1999; Bond et al., 1998; Banon et al., 2001) ed
influenzano negativamente l'alleanza percepita dal paziente, se superano una certa
frequenza, che sembra collocarsi tra il 6% e il 12% del totale degli interventi del terapeuta
(Piper et. al., 1991; Ogrodniczuk et al., 1999; Connolly et al., 1999).
Tuttavia la risposta del paziente all'interpretazione di transfert dipende anche da altri
fattori, tra cui la sua personalità, intesa come tendenza maggiore o minore a chiudersi
difensivamente (McCullough et al., 1991) oppure come capacità di instaurare relazioni
interpersonali mature piuttosto che "primitive". Una personalità più solida si associa cioè a
una maggiore tolleranza e a una migliore utilizzazione delle interpretazioni di transfert, e si
riflette in una migliore alleanza terapeutica (Piper et al., 1991; Ogrodniczuk et al., 1999).
Con pazienti dalla personalità più solida l'interpretazione di transfert ha quindi un effetto
terapeuticamente utile, anche se non va dimenticata la soglia di frequenza, al
disopra della quale le interpretazioni di transfert sono controproducenti anche per i pazienti
dalla personalità più matura.
A differenza delle interpretazioni di transfert, altri tipi d'interpretazione non hanno di per sé
ripercussioni sfavorevoli all'alleanza. Ad esempio quelle del tema conflittuale centrale,
soprattutto se accurate, favoriscono addirittura la nascita di una buona alleanza (Crits-
Christoph et al., 1993). Le interpretazioni delle difese e più in generale quelle dei conflitti
sono seguite da maggior espressione di emozioni e poi da attribuzioni di significati e dalla
comprensione di nessi che creano maggior consapevolezza. Ciò che le distingue dalle
interpretazioni di transfert non sono questi aspetti positivi, che sono presenti anche con le
IT, ma il fatto che ad esse non si aggiungono quegli incrementi d'ansia e difensività che
interferendo con la collaborazione del paziente ne disturbano l'utilizzazione (Milbrath et al.,
1997; Milbrath et al., 1999).
In sintesi, ciò che sembra emergere dalla ricerca su IT e alleanza è che in generale le IT
generano esperienze emotivamente gravose che sono più sopportabili se il paziente ha
una personalità matura e solida, e se egli ha una forte alleanza col suo terapeuta.
6
essere sollevato dall’ansia, d’imparare a tollerare propri pensieri ansiogeni, o rischia di
abbandonare il trattamento (Jones, 2000).
Luborsky (1984) ha fornito un dettagliato elenco delle tecniche supportive: a) dimostrazioni
di sostegno, accettazione e affetto verso il paziente; b) sottolineatura del comune impegno
col paziente allo scopo di raggiungere dei risultati; c) espressione della fiducia che i
risultati saranno raggiunti; d) rispetto delle difese del paziente; e) focalizzazione sulla
competenza del paziente, e riconoscimento della sua crescente capacità di conseguire
risultati senza l’aiuto del terapeuta.
Hellerstein et al. (1998) forniscono un elenco sintetico delle procedure di sostegno usate
nella terapia puramente supportiva, contrapponendole alle procedure tipicamente
analitiche: uso quindi rarissimo di procedure come l’ascolto silente prolungato, la
neutralità, la confrontazione delle resistenze, l’interpretazione di transfert e, per contro,
uno stile conversazionale, la promozione dell’autostima, la riduzione diretta dell’ansia
mediante rassicurazione o incoraggiamento, la promozione dei meccanismi di coping,
l'uso comune di tecniche come la chiarificazione, il suggerimento, la lode, l’educazione, e
l’esame dell’influenza di pattern percettivo-comportamentali appresi nel passato sulla vita
attuale del paziente.
Le differenze tra i due elenchi sembrano dovute principalmente al fatto che il secondo è
più descrittivo e nel contempo un poco più ampio, in quanto riferito a un metodo
terapeutico esclusivamente supportivo.
In estrema sintesi, possiamo riconoscere alla supportività due diversi effetti sul paziente:
da un lato la riduzione diretta o indiretta dell'ansia, dall'altro un aiuto diretto che il
terapeuta dà al paziente perchè percepisca e gestisca meglio la sua realtà esterna ed
interna.
Diverse ricerche hanno dimostrato che gli interventi supportivi, intesi sia come espressione
durevole di un atteggiamento di benevolo aiuto, sia come singoli interventi staccati l’uno
dall’altro, sono strumenti terapeutici efficaci agli effetti sia dell'esito che dell'alleanza.
Alla supportività come successione di singoli interventi sembra essersi riferito Wallerstein
(1989) nell'affermare, in base ai risultati del Psychotherapy Research Project della
Menninger Foundation su psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, che sono gli interventi
supportivi, e non quelli propriamente analitici, a rendere conto della maggior parte degli
esiti positivi.
A una supportività come atteggiamento diffuso e protratto si riferiscono invece altri studi in
cui gli esiti migliori sono ricondotti a comportamenti terapeutici improntati a calore,
comprensione e aiuto (Buckley et al.,1984; Najavits e Strupp,1994).
Più recentemente Hellerstein et al. (1998) hanno confrontato 25 terapie di sostegno e 25
terapie dinamiche brevi secondo Davanloo con pazienti affetti da disturbo di personalità,
trovando esiti sostanzialmente sovrapponibili. Non solo essi hanno così dimostrato che
anche di per sè le sole procedure supportive sono sufficienti a produrre miglioramenti
clinici rilevanti, ma anche che inducono nei pazienti forti e stabili alleanze, diverse da
quelle dei pazienti in terapia dinamica che, con i suoi interventi interpretativi e
confrontativi, tende a creare alleanze più deboli e variabili.
7
che questi due tipi di procedure, le interpretative e le supportive, andrebbero utilizzati, per
così dire, in tandem piuttosto che come se fossero due modalità rigidamente alternative
l’una all’altra.
Il gruppo di Bond, Banon e Grenier (Bond, Banon e Grenier, 1998; Banon, Evan-Grenier e
Bond, 2001) ha condotto due importanti ricerche, rispettivamente su 5 donne e 7 uomini,
con disturbi di personalità, in trattamento a lungo termine, esaminandone 5 sedute,
secondo criteri quali-quantitativi volti a individuare gli interventi seguiti da aumento o
diminuzione del lavoro terapeutico.
Essi ne hanno tratto indicazioni importanti sull’uso di procedure supportive in funzione di
altre procedure terapeutiche, in particolare le interpretazioni di transfert:
in primo luogo, le IT risultavano ben tollerate in un contesto di alleanza forte e positiva, ma
mal tollerate in assenza di tale alleanza, per cui venivano facilmente percepite come
interventi malevoli, e comportavano un alto rischio di distruggere l’atteggiamento
idealizzante o fusionale necessario a pazienti fragili per poter costruire un’alleanza (Bond
et al., 1998).
In secondo luogo, essi individuano atteggiamenti e comportamenti del terapeuta capaci di
contrastare le reazioni negative dei pazienti alle interpretazioni di transfert. Tra questi un
modo di fare caldo e supportivo, un’empatia accurata, l’adeguamento dello stile degli
interventi alle aspettative del paziente circa la terapia, la considerazione del proprio
controtransfert.
8
Esse hanno secondo Bond e Banon una funzione ansiolitica simile a quella delle
procedure supportive, ma con il vantaggio, rispetto a queste, di mantenere il discorso a un
livello affettivo e di continuare a promuovere così la consapevolezza del paziente (Bond et
al., 1998). Questa loro funzione ansiolitica si produrrebbe attraverso lo spostamento del
focus su pattern funzionali messi in atto dal paziente anche al di fuori della diade
terapeutica, nei rapporti con altre figure significative (Banon et al., 2001).
Secondo Crits-Christoph (1993) anche un altro tipo di intervento non supportivo,
l'interpretazione del tema relazionale conflittuale centrale, specie se accurata, ha una
rilevante funzione pro-alleanza, e ciò dimostrerebbe che interventi certamente non
supportivi, ma interpretativi, facilitano l’alleanza (Barber et al., 2001).
Tornando ora al processo di promozione dell’alleanza che questi interventi non supportivi
avviano, credo sia evidente che essi operano oltre che attraverso un’azione ansiolitica,
anche in quanto promuovono nel paziente altri aspetti del vissuto di alleanza, quali la
sensazione di sentirsi capito e accettato, o quella di sentire concretamente l’impegno del
terapeuta a dargli aiuto e ad attivarsi per lui.
E importante ricordare che questi vissuti sono parti rilevanti del vissuto di alleanza come
esso è definito in molti suoi strumenti di misura (Morgan et al., 1982; Luborsky et al. 1983;
Luborsky et al. 1985; Persson et al., 1984) e che essi sono esplicitamente toccati da molti
degli item che li costituiscono. L’alleanza infatti non sembra crearsi soltanto quando il
paziente sente la benevolenza del terapeuta, ma richiede che questo riesca a convincerlo
di riuscire a capire cosa gli sta accadendo e di volerlo realmente aiutare (Alberti, 1989).
Forse in una fase iniziale la funzione ansiolitica degli interventi pro-alleanza è
preponderante, soprattutto con pazienti affetti da disturbi della personalità, come quelli
studiati in gran parte delle ricerche citate. Tuttavia è verosimile che dopo le primissime
fasi, e con i pazienti meno disturbati, gli effetti pro-alleanza non prettamente ansiolitici
trovino una più ampia e decisiva utilizzazione.
9
complementare riescono a promuovere una migliore alleanza (Dietzel e Abeles, 1975;
Kiesler e Watkins, 1989).
Il concetto di complementarietà si è poi venuto estendendo ad altri aspetti del rapporto
terapeuta-paziente. Uno di essi è quello dello stile di attaccamento del paziente che, ai fini
di una buona alleanza, impone atteggiamenti e comportamenti di volta in volta diversi.
Alcuni studi, già menzionati sopra, hanno mostrato come certi pazienti, dallo stile
distaccato, abbiano bisogno di interventi più cognitivi e di minor tenore affettivo (Hardy et
al., 1998), migliorando la propria alleanza, inizialmente scadente, a misura che riescono a
negare, con la collaborazione del terapeuta, le proprie difficoltà emotive, (Eames e Roth,
2000).
I pazienti dallo stile d'attaccamento preoccupato, che evocano dai terapeuti reazioni più
affettive (Hardy et al., 1998), modificano invece la loro iniziale resistenza alla
collaborazione a misura che l'atteggiamento accogliente e protettivo del terapeuta li induce
a manifestare i propri bisogni di accudimento (Eames e Roth, 2000).
Ecco quindi che per rispondere ottimalmente, sotto il profilo dell'alleanza, il terapeuta
dovrà saper variare i propri atteggiamenti e comportamenti secondo le esigenze di
complementarietà, da posizioni affettive ed emozionalmente mosse a posizioni dominanti
e in una certa misura anche fredde.
Un altro aspetto della complementarietà del terapeuta verso le aspettative e i bisogni del
paziente è quello della proporzione tra esploratività e supportività che è opportuno dare al
singolo paziente al fine di ottenere una buona alleanza iniziale.
Despland (2001) ha sottoposto questa nozione intuitiva a una verifica empirica, ed è
emerso che quanto più elementare è il funzionamento difensivo del paziente tanto
maggiore deve essere la componente supportiva dell’intervento. Da ciò consegue che
quanto più “primitive” sono le difese del paziente, tanto più supportivi dovranno essere gli
interventi, ma anche che se a pazienti difensivamente evoluti vengono offerti interventi
troppo supportivi essi sviluppano un’alleanza meno buona .
Un’altra versione della complementarietà si riferisce al “coping style” del paziente, teso tra
un polo cosiddetto “esternalizzante”, in cui prevalgono gli agiti, la proiezione e l’evitamento
attivo, ed uno con prevalenza di coping resistente e difeso. Adeguando le procedure
d’intervento ai diversi stili di coping si ottengono i migliori risultati terapeutici: i pazienti
“esternalizzanti” migliorano di più se trattati con tecniche cognitive, e meno con tecniche
esperienziali o supportive, mentre i soggetti più resistenti e difesi traggono maggiori
benefici da tecniche supportive, comprendenti la riflessione dei sentimenti, la
chiarificazione, le richieste di informazioni (Beutler et al., 1991).
Abbiamo quindi numerose indicazioni del fatto che, perché si sviluppi una buona alleanza,
e si ottenga un miglior risultato, il terapeuta deve assumere su diverse dimensioni il modo
di porsi e di agire più adatto al modo di porsi, di agire e di funzionare del singolo paziente.
Egli così mette in atto una strategia complessa in cui più procedure vengono reclutate e
modulate per un unico scopo, che qui è ovviamente di non allontanare il paziente, di
portarlo a una buona alleanza e, attraverso questa, a un migliore esito terapeutico.
Per quanto resti ancora poco chiaro quale versione della complementarietà sia la più utile
agli affetti della costruzione della migliore alleanza, ciò che ad oggi appare chiaro è che vi
sono diverse procedure pro-alleanza potenzialmente utili ed efficaci, che in ogni singolo
caso vanno combinate e modulate secondo un disegno trasversale e longitudinale
complesso che realizza il massimo adeguamento alle aspettative del paziente.
Insieme alle associazioni sincroniche più semplici, volte a facilitare l’accettazione di
procedure ansiogene, possiamo definire anche questo disegno come una metaprocedura,
cioè una procedura complessiva, composta di altre procedure più semplici, la cui essenza
è il modo in cui queste ultime vengono composte in un unico disegno volto a creare e
incrementare l’alleanza.
10
2.3.5. La modulazione della complementarietà: una metaprocedura per il cambiamento
Sebbene il cambiamento non rientri nel tema di questa relazione, credo però sia
interessante accennarvi per completare l’illustrazione della complementarietà, in quanto
metaprocedura sia per l’alleanza che per il cambiamento di schemi relazionali patogeni.
L’idea che, una volta creata l’alleanza, la complementarietà debba essere ridotta a scopo
terapeutico, percorre da decenni la letteratura clinica, nei suoi diversi orientamenti teorici.
Sia dal campo analitico, con le tecniche di contenimento e interpretazione
dell’identificazione proiettiva (Ogden, 1992; Feldman, 1997; Carpy, 1989), piuttosto che
con le tecniche di riconoscimento e interpretazione delle strutture interattive del paziente
(Jones, 2000; Jones e Price, 1998), sia dal campo cognitivo, con il concetto di interruzione
del ciclo cognitivo-interpersonale e la relativa metacomunicazione al paziente (Safran e
Segal, 1990; Kiesler, 1979; Safran e Muran, 2000), viene l’idea “forte” che il terapeuta non
deve mettere in atto il ruolo che il paziente tenta implicitamente di indurgli allo scopo di
ricreare nella realtà relazionale attuale il rapporto in cui è perversamente invischiato
(Alberti, 2000). Al contrario, la creazione di un contesto discordante con le aspettative del
paziente e perciò capace di promuovere esperienze correttive, è un fattore terapeutico
decisivo e comune a molte psicoterapie (Barber et al., 2001).
Questa idea deve essere apparsa così potentemente esplicativa che è stata ripresa anche
in termini di teoria dell’attaccamento e riformulata da Mallinckrodt (2000), il quale fornisce
anche precise indicazioni su come strutturare il contesto discordante in funzione dello stile
d’attaccamento del paziente.
Il terapeuta deve cercare di definire i pattern maladattivi agiti dal paziente in rapporto con
lui, le reazioni che cerca di indurgli, nonché le esperienze che così facendo cerca di
evitare. Da questi elementi egli potrà capire quale esperienza di attaccamento emotivo in
terapia potrebbe essere correttiva con il singolo paziente. Incrociando i desideri del
paziente (reazione del terapeuta desiderata, esperienza che vuole evitare) con le decisioni
del terapeuta (manifestargli una certa reazione, evitargli una certa esperienza) si creano
nel paziente reazioni di piacere (gratificazione se gli viene data la cosa desiderata, o
sollievo se gli viene risparmiata la cosa sgradita) o di dispiacere (frustrazione se gli viene
negata la cosa desiderata, ansia se gli viene imposta la cosa sgradita).
Ora, secondo Mallinckrodt, nella fase iniziale di una terapia, allo scopo di facilitare la
formazione di un’alleanza col paziente, è opportuno creare situazioni di piacere, quindi
dare al paziente ciò che si aspetta o risparmiargli ciò che teme. Nelle fasi più avanzate
invece, per fare un lavoro emozionalmente più rilevante e più utile al cambiamento, è
opportuno creare situazioni implicanti rinunce a gratificazioni o imposizioni ad affrontare
cose sgradite, che saranno inevitabilmente vissute come spiacevoli.
Di particolare interesse sono le proposte che fa Mallinckrodt circa le esperienze correttive
utili con pazienti distaccati e preoccupati.
Per i primi, che cercano di aumentare la distanza interpersonale e di evocare dall’altro
comportamenti distanzianti, la risposta correttiva contro-complementare mira ad
aumentare la prossimità di attaccamento, ad esempio cercando di approfondire
pazientemente l’impegno emotivo del paziente, monitorandone l’ansia e incoraggiandolo a
non disattivare pensieri e sentimenti connessi all’attaccamento così ravvicinato.
Invece i pazienti preoccupati, che tendono a ridurre la distanza interpersonale e ad
evocare nell’altro comportamenti di soccorso e salvazione, vanno affrontati con lo scopo di
mantenerne o aumentarne la distanza di attaccamento, dargli sostegno e incoraggiamento
misurato e, resistendo alle sue pretese di salvazione controllandone il livello d’ansia,
insistere che assuma una posizione attiva nell’affrontare i propri problemi.
I dati empirici sulla modulazione della complementarietà sono ad oggi scarsi.
Prescindendo dalla misurazione dell’alleanza, possiamo però riprendere la ricerca di
11
Dietzel e Abeles (1975), la quale ha dimostrato, anticipando di venticinque anni il modello
di Mallinckrodt, che nelle fasi iniziali i terapeuti efficaci danno risposte complementari che
favoriscono la buona relazione col paziente, mentre in fasi avanzate smettono di
confermare le aspettative del paziente per portarlo a cambiare. Se non fanno questa
conversione di rotta restano invischiati nelle induzioni del paziente e falliscono l’obiettivo di
portarlo a cambiare il suo processo patogenetico.
Un dato empirico più recente ci viene da Jones e Price (1998) che hanno dimostrato che
la tolleranza delle pressioni del paziente e l’esplicitazione delle sue strutture interattive
porta a una loro diminuzione di frequenza, cui segue poi una diminuzione dei sintomi.
3. L'ALLEANZA E LE PSICOTERAPIE
12
3.2. L’alleanza nelle diverse terapie
In una visione dell’alleanza come prodotto non solo di condizioni preesistenti nei due attori
ma anche di quelle che ho definito procedure, cioè atteggiamenti e interventi messi in atto
dal terapeuta, la diversità delle tecniche che caratterizzano le diverse psicoterapie pone
tuttavia il problema di chiarire come si crei questo unico fenomeno che è l’alleanza in
contesti tanto diversi.
In realtà, sulla base degli studi empirici qui riportati, la costruzione dell’alleanza
terapeutica, per le più importanti psicoterapie, appare abbastanza chiara nelle sue
componenti procedurali sostanziali, in quanto essa si avvale di interventi e atteggiamenti
che sono compatibili con i repertori procedurali dei principali orientamenti.
Se questo è il quadro generale, vi sono tuttavia alcuni problemi particolari da mettere
meglio in chiaro.
3.2.1. La supportività
Diverse ricerche empiriche evidenziano differenze tra le diverse psicoterapie quanto al
ricorso agli atteggiamenti e interventi supportivi.
In particolare si è constatato maggior uso di supportività nelle terapie cognitivo-
comportamentali rispetto alle terapie di orientamento analitico. Questa differenza si
riferisce alla supportività sia come atteggiamento globale del terapeuta sia come singoli
atti comunicazionali: infatti i terapeuti cognitivo-comportamentali si caratterizzano come
più empatici, autentici e capaci di contatto interpersonale (Sloane et al.,1975), e nel
contempo ricorrono più spesso a interventi di sostegno (Brunink e Schroeder, 1979).
A conferma indiretta, si è visto che l’alleanza è migliore quando più frequenti sono
procedure più tipicamente associate alle terapie cognitivo-comportamentali, come gli
interventi rassicuranti, educativi e di sostegno (Hersoug et al.,2001), o quando il terapeuta
è più attivo e supportivo (Hardy e Shapiro, 1985).
Una conferma più diretta è venuta invece da uno studio di Raue, Castonguay e Goldfried
(1993), da cui è emerso che i punteggi WAI sia totali che parziali erano significativamente
più alti e stabili nelle terapie cognitivo-comportamentali che nelle psicodinamico-
interpersonali. Bassa intensità, instabilità e mutevolezza dell’alleanza nella terapia
dinamica breve ha trovato anche Hellerstein (1998), che l’ha confrontata con l’alleanza
nella pura terapia di sostegno.
Appare quindi molto probabile che la maggior supportività delle terapie CC, ma anche di
altre terapie che vi ricorrono in misura analoga, svolga un ruolo rilevante nella creazione di
un’alleanza intensa e stabile, che si distingue nettamente dall’alleanza più esigua e labile
delle terapie dinamiche.
Raue (1993) ritiene che i terapeuti CC si impegnino particolarmente nel creare e
mantenere una relazione buona e collaborativa in quanto essa non deve diventare oggetto
di esame e intervento, ma serve per motivare il paziente a impegnarsi in attività, svolte in
seduta e fuori, non riguardanti il rapporto col terapeuta. Nelle terapie dinamiche invece gli
interventi specifici toccano più facilmente la stessa relazione terapeutica, con reazioni
emotive anche negative del paziente, e danno all’alleanza.
Essi rilevano inoltre che se per le terapie dinamiche vi è spesso una peggiore alleanza con
i pazienti più disturbati, ciò non si evidenzia nella stessa misura nelle terapie CC, in quanto
l’orientamento al sintomo di queste ultime permette di accoglierlo e di rinunciare alla
richiesta di distogliersene tipica delle terapie dinamiche.
Ciò concorda, ovviamente, con tutto quanto si è già visto a proposito della gravosità
emotiva della procedura centrale delle terapie analitiche più tradizionali, l’interpretazione
del transfert, e spiega soprattutto la necessità, empiricamente dimostrata, che essa sia
accompagnata da procedure ansiolitiche facilitanti a sostegno dell’alleanza.
13
Va detto che le terapie brevi di ispirazione analitica messe a punto negli ultimi decenni
prestano particolare attenzione alla riduzione dell’ansia del paziente, che si
attua mediante un ricorso intenso ad atteggiamenti e interventi di sostegno, e assegnando
all’interpretazione del transfert un ruolo meno centrale ed esclusivo (Luborsky, 1984;
Fosha, 2000; Osimo, 2001).
Recenti ricerche empiriche sull’uso di procedure supportive nella terapia supportivo-
espressiva e in quelle cognitivo-comportamentali e cognitive hanno dimostrato che non vi
sono differenze, e che quindi la supportività viene ampiamente utilizzata anche in una
terapia dinamica quale è la TSE di Luborsky (Barber et al., 2001).
3.2.3. La complementarietà
Certamente la modulazione della complementarietà in funzione dell’alleanza iniziale e poi
del cambiamento appare una metaprocedura utilizzabile in ogni terapia che contempli un
repertorio sufficientemente ampio di procedure e una buona flessibilità dei terapeuti.
Ma qualche problema sembra comunque porsi.
Uno di questi nasce dal fatto che i diversi aspetti della complementarietà, relazionale, di
stile d’attaccamento, di giusto rapporto tra supportività e esploratività, non essendo
chiaramente riducibili l’uno all’altro, pongono il problema di quale possa essere la
dimensione da privilegiare nel singolo caso, e anche di quale di esse sia generalmente più
efficace nel promuovere una buona alleanza.
V’è poi il fatto che certe terapie, come le cognitivo-comportamentali, adottano procedure
supportive più sistematicamente di altre. E’ da ipotizzare che in queste terapie la
modulazione della complementarietà abbia meno spazio, e possa essere attuata meno
che in altre terapie nella seconda fase, in cui occorre frustrare le aspettative del paziente.
In questi casi è probabile che l’opera di cambiamento si attui più che attraverso esperienze
correttive nel diretto rapporto col terapeuta, attraverso esperienze fuori seduta, prescritte e
seguite a distanza dal terapeuta. Ciò però si attaglia più a terapie comportamentali, ove il
focus terapeutico è più facilmente collocato sui comportamenti nel contesto naturale del
paziente, e meno alle terapie cognitive, ove ha un ruolo centrale la correzione di schemi
cognitivi interpersonali, anche riferiti al terapeuta (Safran e Segal, 1991).
14
finale della psicoterapia, cioè se la buona alleanza tra terapeuta e paziente possa essere
esaustivamente terapeutica, a prescindere da altri interventi psicologici (Henry et al., 1994;
Martin et al., 2000).
Martin (2000) ritiene che l’associazione diretta tra alleanza ed esito emersa dalla sua
meta-analisi sia compatibile con questa ipotesi, ma anche che essa non permetta di
escludere spiegazioni alternative sul rapporto tra alleanza ed esito, ad esempio che
l’alleanza possa interagire con altri interventi terapeutici, ed agire così in via mediata.
Per quanto la correlazione tra alleanza ed esito sia bassa in ambedue le meta-analisi
(Horvath e Symonds, 1991; Martin et al., 2000), la grandezza dell’effetto non è diverso da
quello di molte correlazioni tra esito e altre variabili di processo (Matt e Navarro, 1997, cit.
da Martin et al., 2000).
Certe evidenze inducono però ad assegnare all’alleanza un ruolo parziale nella
determinazione dell’esito, e cioè quello di una condizione necessaria ma non sufficiente,
da sola, a determinare il risultato terapeutico.
Le evidenze in cui è più chiaro questo ruolo della buona alleanza sono quelle emerse dalle
ricerche sulle combinazioni procedurali volte a favorire l’azione terapeutica delle
interpretazioni di transfert. Qui infatti l’alleanza, rafforzata o ristabilita con tecniche diverse,
permette l’efficacia terapeutica delle interpretazioni, ma certo non la sostituisce totalmente.
D’altro canto è dimostrato che date certe condizioni favorevoli all’alleanza, come una
migliore capacità relazionale del paziente, le interpretazioni del transfert correlano
positivamente con l’esito.
Un’altra indicazione sul ruolo permissivo dell’alleanza rispetto all’azione mutativa viene
dagli studi sulla complementarietà, la quale è efficace soltanto se, oltre a favorire
l’alleanza, attraverso suoi alti livelli iniziali, poi si riduce, trasformando la relazione
terapeuta-paziente in un campo relazionale che facilita le esperienze correttive.
Da più parti vengono quindi indicazioni empiricamente fondate che la sola alleanza non è
sufficiente a far cambiare il paziente, ma che insieme a questa, promossa con specifiche
tecniche relazionali, sono necessari interventi altrettanto specifici, ma indirizzati ai processi
psichici che sostengono la problematica del singolo paziente.
4. CONCLUSIONE
Credo che a questo punto sia chiaro che la ricerca sulla genesi dell’alleanza terapeutica
ha dimostrato che :
1. una buona alleanza si crea sia sulla base di caratteristiche che paziente e terapeuta
portano con sé fin dall’inizio della terapia, sia anche attraverso procedure, cioè
atteggiamenti e comportamenti che il terapeuta mette in atto nelle fasi iniziali.
2. queste procedure e insiemi di procedure, cioè metaprocedure, sono classificabili in
quattro categorie:
a) procedure supportive, diffuse o singole, aventi lo scopo principale di ridurre l’ansia,
rassicurare e legare a sé. attraverso un legame affettivo, il paziente al terapeuta;
b) procedure non supportive che, oltre a ridurre l’ansia, alimentano altri aspetti del
vissuto di alleanza, come la sensazione di essere capito o quella che il terapeuta si
impegna concretamente nell’aiutare;
c) metaprocedure a breve termine, cioè associazioni di procedure, supportive e non,
volte a far tollerare al paziente l’ansia evocata dagli interventi rivolti ai processi
patogenetici;
15
d) metaprocedure a lungo termine, volte a modulare nell’arco dell’intera terapia la
complementarietà in funzione sia della costruzione dell’alleanza, sia della creazione di
esperienze correttive e del cambiamento di pattern funzionali patogeni.
3. Le procedure pro-alleanza esplicano la loro funzione secondo modalità probabilistiche,
cioè facilitando la permanenza del paziente in terapia e facilitando, o anche più
radicalmente permettendo, che svolgano la propria azione terapeutica le procedure
specificamente destinate a modificare i processi patogenetici che sostengono la patologia.
4. Le procedure e metaprocedure pro-alleanza qui illustrate sono compatibili con i
principali metodi psicoterapeutici che ammettano un ventaglio abbastanza ampio di
possibili interventi, di carattere supportivo, interpretativo, prescrittivo ed altro. Ciò
conferma che le procedure pro-alleanza e quindi l’alleanza stessa costituiscono un
insieme di fattori comuni a diverse psicoterapie che co-determinano significativamente e in
modo simile l’esito terapeutico
5. Alcune forme di psicoterapia tendono a privilegiare l’uso di certe procedure pro-
alleanza e a usare poco altre, realizzando così alleanze particolarmente intense o
particolarmente travagliate che le distinguono le une dalle altre.
5. BIBLIOGRAFIA
- Alberti G.G., 1989, La relazione terapeutica tra ricerca e clinica, In: Meneghelli A., Sacchi
D. (a cura di) “Terapia e modificazione del comportamento negli anni ‘80”, Milano, Ghedini
- Alberti G.G., 2000, Ciclo interpersonale e identificazione proiettiva. Una convergenza
teorica e tecnica, in: Alberti G.G., Le psicoterapie. Dall’eclettismo all’integrazione, p. 125-
217, Franco Angeli, Milano.
- Alberti G.G., Carere-Comes T., 2003, Il futuro della psicoterapia tra integrità e
integrazione, Milano, F. Angeli
- Auerbach H., Johnson M., 1977, Research on the therapist’s level of experience, in:
Gurman A.S. e Razin A.M. (Eds.),
Effective Psychotherapy, New York, Pergamon, pp. 84-102
- Banon E., Evan-Grenier M., Bond M., 2001, Early transference interventions with male
patients in psychotherapy, J.
Psychotherapy Practice Research, 10, 79-92
- Barber J., Stratt R., Halperin G., Connolly M.B., 2001, Supportive techniques. Are they
found in different therapies?, J.
Psychotherapy Practice Research, 10, 165-172, 2001
- Beck J.T., Strong S.R., 1982, Stimulating therapeutic change with interpretations: a
comparison of positive and negative
connotation, J. Counseling Psychol., 29, 551-559
- Beutler L.E., Engle D., Mohr D., Daldrup R.J., Bergan J., Meredith K., Merry W., 1991,
Predictors of differential response to cognitive, experiential and self-directed
psychotherapy procedures, J. Consulting Clinical Psychology, 59, 333-340
- Bond M. Banon E., Grenier M., 1998, Differential effects of interventions on the
therapeutic alliance with patients with
personality disorders, Psychotherapy Practice and Research, 7, 301-318
- Brunink S.A., Schroeder H.E., 1979, Verbal therapeutic behavior of expert
psychoanalytically oriented,gestalt, and behaviour
therapists, J. Consult. Clin. Psychol., 47, 567-574
- Buckley P., Karasu T.B., Charles E., 1981, Psychotherapists view their personal therapy,
Psychotherapy: Theory, Research
16
and Practice, 18, 299-305
- Carpy D.V., 1989, Tolerating the countertransference: a mutative process, International J.
Psychoanalysis, 70, 287-294
- Carson, R.C., 1982, Self-fulfilling prophecy, maladaptive behaviour, and psychotherapy,
In: Anchin J.C. e Kiesler D.J. (Eds.),
Handbook of Interpersonal Psychotherapy, New York, Pergamon
- Connolly M.B., Crits-Christoph P., Shappell S., Barber J.P., Luborsky L., Shaffer C., 1999,
Relation of transference interpretations to outcome in the early sessions of brief
supportive-expressive psychotherapy, Psychotherapy Research, 9, 485-495
- Crits-Christoph P., Barber J.P., Kurcias, J.S., 1993, The accuracy of therapists’
interpretations and the development of the
therapeutic alliance, Psychotherapy Research, 3, 25-35
- Despland J.N., deRoten Y., Despars J., Stigler M., Perry J.C., 2001, Contribution of
patient defense mechanisms and therapist interventions to the development of early
therapeutic alliance in a brief psychodynamic investigation, J. Psychotherapy Practice
Research, 10, 155-164
- Dietzel C.S., Abeles N., 1975, Client-therapist complementarity and therapeutic outcome,
J. Counseling Psychology, 22, 264-272
- Dunkle J.H., Friedlander M.L., 1996, Contribution of therapist experience and personal
characteristics to the working alliance, J. Counsel. Psychol., 43, 456-460
- Eames V., Roth A., 2000, Patient attachment orientation and the early working alliance,
Psychotherapy Research, 10, 421-434
- Eaton T.T., Abeles N., Gutfreund M.J., 1988, Therapeutic alliance and outcome: impact of
treatment length and pretreatment
symptomatology, Psychotherapy, 25, 536-542
- Feldman M., 1997, Projective identification: the analyst’s involvement, International J.
Psychoanalysis, 78, 227-241
- Foreman S.A., Marmar C.R., 1985, Therapist actions that address initially poor
therapeutic alliances in psychotherapy,
American J. Psychiatry, 142, 922-926
- Fosha, D., 2000, The transforming power of affect, New York, Basic Books
- Frank J.D., 1974a, Psychotherapy: The restoration of morale, American J. Psychiatry,
131, 271-274
- Frank J.D., 1974b, Therapeutic components of psychotherapy, J. Nervous Mental
Disease, 159, 325-342
- Frieswijk S., Allen J.G., Colon D.B., et al., 1986, Therapeutic alliance: its place as a
process and outcome variable in dynamic
psychotherapy research, J. Consultant Clinical Psychology, 54, 32-38
- Gabbard G.O., Horwitz L., Allen J.G. et al., 1994, Transference interpretation in the
psychotherapy of borderline patients: a
high-risk, high-gain phenomenon, Harvard Review of Psychiatry, 4, 59-69
- Gaston L., Marmar C.R., Thompson I.W., Gallagher D., 1988, Relation of patient
pretreatment characteristics to the
therapeutic alliance in diverse psychotherapies, J. Consult. Clin. Psychol., 56, 483-489
- Gerstley L., McClellan A., Alterman A., Woody G., Luborsky L., Prout , 1989, Ability to
form an alliance with the therapist: a possible marker of prognosis for patients with
antisocial personality disorder, Am. J. Psychiat., 146, 508-512
- Hardy G.E., Shapiro D.A., 1985, Therapist response modes in prescriptive vs.
exploratory psychotherapy, Brit. J. Clinical
Psychology, 24, 235-245
17
- Hardy G.E., Stiles W.B., Barkham M., Startup M., 1998, Therapist responsiveness to
client interpersonal styles during time-limited treatments for depression, J. Consultant
Clinical Psychology, 66, 304-314
- Hardy G.E., Cahill J., Shapiro D.A., Barkham M., Rees A., Macaskill N., 2001, Client
interpersonal and cognitive styles as
predictors of response to time-limited cognitive therapy for depression, J. Consulting
Clinical Psychology, 69, 841-845
- Hellerstein D.J., Rosenthal R., Pinsker H., Samstag W.L., Muran J.C., Winston A., 1998,
A randomized prospective study comparing supportive and dynamic therapies: outcome
and alliance, J. Psychotherapy Practice Research, 7, 261-271
- Henry W.P., Schacht T.E., Strupp H.H., 1986, Structural analysis of social behavior:
application to a study of interpersonal
process in differential psychotherapeutic outcome, J. Consult. Clin. Psychol., 54, 27-31
- Henry W.P., Schacht T.E., Strupp H.H., 1990, Patient and therapist introject,
interpersonal process, and differential
psychotherapy outcome, J. Consult. Clin. Psychol., 58, 768-774
- Henry W.P., Strupp H.H., Schacht T.E., Gaston L., 1994, Psychodynamic approaches, in:
Bergin E.. e Garfield S.L. (Eds.) Handbook of Psychotherapy and Behavior Change, p.
467-508, New York, Wiley
- Hersoug A.G., Hoglend P., Monsen J.T., Havik O.E., 2001, Quality of working alliance in
psychotherapy. Therapist variables
and patient/therapist similarity as predictors, J.Psychotherapy Practice and Research,
10, 205-216
- Horowitz L.M., Rosenberg S.E., Batholomew K., 1993, Interpersonal problems,
attachment styles, and outcome in brief
dynamic psychotherapy, J. Consult. Clin. Psychol., 61, 549-560
- Horvath A.O., Luborsky L., 1993, The role of the therapeutic alliance in psychotherapy, J.
Consult. Clin. Psychol., 61, 561-573
- Horvath A.O., Symonds B.D., 1991, Relation between working alliance and outcome in
psychotherapy: a meta-analysis, J.
Counseling Psychology, 38,139-149
- Jones E.E., 2000, Therapeutic Action, London, Jason Aronson,
- Jones E.E., Price P.B., 1998, Interaction structure and change in psychoanalytic therapy,
In: Bornstein R.F., Masling J.M.
(Eds.), Empirical studies of the therapeutic hour, pp. 27-62
- Joyce A.S., Piper W.E., 1998, Expectancy, the therapeutic alliance, and treatment
outcome in short-term individual psychotherapy, J. Psychother. Pract. Res., 7, 236-248
- 14 -
18
- Lansford E. , 1986, Weakenings and repairs of the working alliance in short-term
psychotherapy, Professional Psychology, Research and practice, 17, 364-366
- Lansford E., Bordin E.S., 1983, A research note on the relation between the free
association and experiencing scales, J. Consult. Clin. Psychol.,51, 367-369
- Lingiardi V., 2002, L’allenza terapeutica. Teoria, clinica e ricerca, R. Cortina, Milano
- Luborsky L., Singer B., Luborsky L., 1975, Comparative studies of psychotherapies, Arch.
General Psychiatry, 32, 995-1008
- Luborsky L., Bachrach H., Graff H., Pulver S., Christoph P., 1979, Preconditions and
consequences of transference interpretations, J. Nervous Mental Disease, 167, 391-401
- Luborsky L., Crits-Christoph ., Alexander L., Margolis M., Cohen M., 1983, Two helping
alliance methods for predicting outcomes of psychotherapy, J. Nervous Mental Disease,
171, 480-491
- Luborsky L., McLellan A.T., Woody G.E., O’Brien C.P., Auerbach A., 1985, Therapist
success and its determinants, Arch.
General Psychiatry, 42, 602-611
- Luborsky L., Crits-Christoph P., Mintz J., et al., 1988, Who will benefit from
psychotherapy? Predicting therapeutic outcomes,
New York, Basic Books
- Mallinckrodt B., Nelson M.L., 1991, Counselor training level and the formation of the
psychotherapeutic working alliance, J.
Counsel. Psychol., 38, 135-138
- Mallinckrodt B., 2000, Attachment, social competencies, and therapy process,
Psychotherapy Research, 10, 239-266
- Mallinckrodt B., Coble H.M., Gantt D.L., 1995, Working alliance, attachment memories,
and social competencies of women in
brief therapy, J. Counseling Psychology, 42, 79-84
- Martin D.., Garske J.P., Davis M.K., 2000, Relation of the therapeutic alliance with
outcome and other variables: a meta
-analytic review, J. Consult. Clin. Psychol., 68, 438-450
- Marziali E.A., 1984, Prediction of outcome of brief psychotherapy from therapist
interpretive interventions, Arch. Gen.
Psychiat., 41, 301-304
- Marziali E.A., Sullivan J.H., 1980, Methodological issues in the context analyses of brief
psychotherapy, Brit. J. Medical
Psychology, 53, 19-27
- Matt G.E., Navarro A.M., 1997, What meta-analyses have and have not taught us about
psychotherapy effects: a review and
future directions, Clinical Psychology Review, 17, 1-32
- McCullough L., Winston A., Farber B. A., et al.,1991, The relationship of patient-therapist
interaction to outcome in brief
psychotherapy, Psychotherapy, 28, 525-533
- Milbrath C., Bond M., Cooper S., Znoj H.J., Horowitz M.J., Perry J.C., 1999, Sequential
consequences of therapists'
interventions, J. Psychotherapy Practice Research, 8, 40-54
- Moras K., Strupp H., 1982, Pretherapy interpersonal relations, patient’s alliance and
outcome in brief therapy, Arch. Gen.
Psychiat., 39, 409-409
- Morgan R., Luborsky L., Crits-Christoph P., Curtis H., Solomom J., 1982, Predicting the
outcome of psychotherapy by the
Penn helping alliance rating method, Arch. General Psychiatry, 39, 397-402
19
- Muran C., Segal Z.V., Samstag L.W., Crawford C.E., 1994, Patient pretreatment
interpersonal problems and therapeutic
alliance in short-term cognitive therapy, J. Consult. Clin. Psychol., 62, 185-190
- Najavits L.M., Strupp H.H., 1994, Differences in the effectiveness of psycho-dynamic
therapists: a process-outcome study,
Psychotherapy, 31, 114-123
- Osimo F., 2001, Parole, emozioni e videotape, Milano, F. Angeli
- Ogden T.H., 1982, Projective identification and psychotherapeutic technique, Jason
Aronson, Northvale
- Ogrodniczuk J.S., Piper W.E., Joyce A.S., McCallum M., 1999, Transference
interpretations in short-term dynamic
psychotherapy, J. Nervous Mental Disease, 187, 572-579
- Orlinsky D.E., Grawe K., Parks B.K., 1994, Process and outcome in psychotherapy: noch
einmal, in : Bergin A.E. e Garfield
S.L. (Eds.) Handbook of Psychotherapy and Behavior Change, New York, Wiley, pp. 270-
376
- Paivio S.C., Bahr L.M., 1998, Interpersonal problems, working alliance, and outcome in
short-term experiential therapy, Psychotherapy Research, 8, 392-407
- Persson G., Alstrom J.E., Nordlund C.L., 1984, Relation between outcome and the
patient’s initial experience of the therapist
and therapeutic conditions in four treatment methods for phobic disorders, Acta
Psychiatrica Scandinavica, 69, 296-306
- Piper W.E., de Carufel F.L., Szkrumelak N., 1985, Patient predictors of process and
outcome in short term individual
psychotherapy, J. Nerv. Ment. Dis., 173, 726-733
- Piper W.E., Debbane E.G., de Carufel F. et al., 1986, Relationships between the object
focus of therapist interpretations and
outcome in short-term individual psychotherapy, Brit. J. Medical Psychology, 59, 1-11
- Piper W.E., Azim H.F.A., Joyce A.S., McCallum M., 1991, Transference interpretations,
therapeutic alliance, and outcome in
short-term individual psychotherapy, Arch. Gen. Psychiat., 48, 946-953
- Raue P.J., Castonguay L.G., Goldfried M.R., 1993, The working alliance: a comparison of
two therapies, Psychotherapy
Research, 3, 197-207
- Rogers C., 1957, The necessary and sufficient conditions of therapeutic personality
change, J. Consultant Psychology, 21,
95-103
- Roth A., Fonagy P., 1996, The relationship between outcome and therapist training,
experience, and technique, in: What
works for whom?, New York, Guilford, pp. 341-357
- Safran J.D., Crocker P., McMain S. et al., 1990, The therapeutic alliance rupture as a
therapy event for empirical investigation,
Psychotherapy, 27, 154-165
- Safran J.D., Muran J.C., 1996, The resolution of ruptures in the therapeutic alliance, J.
Consult. Clin. Psychol., 64, 447-458,
- Safran J.D., Muran J.C.,1998 (a cura di), L’alleanza in psicoterapia a breve termine,
ASPIC, Edizioni Scientifiche, Roma, 2001
- Safran J.D., Muran J.C., 2000, Negotiating the therapeutic alliance, New York, Guilford
- Safran J.D., Muran J.C., Samstag L.W., 1994, Resolving therapeutic alliance ruptures: a
task analytic investigation, In:
20
Horvath A.O., Greenberg L.S. (Eds.) The working alliance: Theory, research and practice,
New York, Wiley
- Safran J.D., Segal Z.V., 1990, Interpersonal process in cognitive therapy, Basic Books,
New York
- Samstag L.W., Batschelder S.T., Muran J.C., Safran J.D., Winston A.,1998, Early
identification of treatment failures in short-
term psychotherapy: an assessment of therapeutic alliance and interpersonal behavior, J.
Psychother. Pract. Res., 7, 126-143
- Satterfield W.A., Lyddon W.J., 1998, Client attachment and the working alliance,
Counseling Psychology Quarterly, 11, 407-
415
- Sloane R.B. , Staples F.R., Cristol A.H., Yorkston N., Whipple K., 1975, Psychotherapy
versus behavior therapy, Cambridge,
MA, Harvard Univ. Press
- Smith M.L., Glass G.V., Miller T.I., 1980, The benefits of psychotherapy, Baltimore, Johns
Hopkins University Press
- Spence D., Dahl H., Jones E.E., 1993, Impact of interpretation on associative freedom, J.
Consultintg Clinical Psychology, 61, 395-402
- Stanislavskij K. S., Theater, Regie und Schauspieler, Rowohlt, Amburgo, 1958
- Staples F.R., Sloane R.B., 1976, Truax factors, speech characteristics, and therapeutic
outcome, J. Nervous Mental Disease,
163, 135-140
- Strachey J., 1934, The nature of the therapeutic action of psychoanalysis, International J.
Psychoanalysis, 15, 127-159
- Thomae H., 1983, Erleben und Einsicht im Stammbaum psychoanalytischer Techniken
und der „Neubeginn“ als Synthese im „Hier und Jetzt“, in: Hoffmann S.O. (a cura di)
Kritische Beitraege zur Behandlungskonzeption und Technik in der Psychoanalyse,
Fischer, Frankfurt, 1983.
- Tourney G., Bloom V., Lowinger P.L., Schorer C., Auld F., Grisell J., 1966, A study of
psychotherapeutic process variables in
psychoneurotic and schizophrenic patients, American J. Psychotherapy, 20, 112-124
- Truax C.B., 1963, Effective ingredients in psychotherapy: an approach to unravelling the
patient-therapist interaction, J. Counseling Psychology, 10, 256-263
- Truax C.B., Carkhuff R.R., 1965, Experimental manipulation of therapeutic conditions, J.
Consulting Psychology, 29, 119-124
- Truax C.B., Wargo D.G., Frank J.D., Imber S.D., Battle C.C., Hoehn-Saric R., Nash E.H.,
Stone A.R., 1966a, Therapist empathy, genuineness, and warmth and patient therapeutic
outcome, J. Consulting Psychology, 30, 395-401
- Truax C.B., Wargo D.G., Frank J.D., Imber S.D., Battle C.C., Hoehn-Saric R., Nash E.H.,
Stone A.R., 1966b, The therapist’s contribution to accurate empathy, non-possessive
warmth, and genuineness in psychotherapy, J. Clinical Psychology, 22, 331-334
- Wallerstein R.S., 1989, The Psychotherapy Research Project of the Menninger
Foundation: an Overview, J. Consulting Clinical Psychology, 57, 195-205
- Wampold B.E., 2001, The Great Psychotherapy Debate: Models, Methods, and Findings,
Erlbaum, Mahvah
21
- 16 -
22
l’azione delle procedure pro-alleanza tende a scomparire e ad esaurirsi nella creazione
dell’alleanza, per cui facilmente non v’è una loro correlazione con l’esito finale della
terapia. Perché? Prob. Perché dopo l’applicazione delle procedure pro-alleanza, che
migliora la compliance del paziente, tutti i pazienti diventano per così dire uguali, e
allora prevalgono gli effetti delle procedure specifiche.
(citare)
“Lo studio di Joyce e Piper (1998) esamina anche un altro aspetto importante della
sequenza “fattori-pro-alleanza > alleanza > esito”, e cioè la differenza tra le correlazioni
fattori-pro-alleanza/esito e le correlazioni alleanza/esito. Una prima conclusione, di
carattere generale, è che le aspettative dei pazienti predicono meglio l’alleanza che
l’esito della terapia. Ciò conferma quanto sostenuto da Perotti e Hopewell (1980), che
le aspettative esplicano il loro effetto più nella formazione dell’alleanza che nel
determinare l’esito finale della terapia”.
„Il mio metodo si fonda sulla ricerca della connessione reciproca tra i processi interni ed
esterni, al fine di evocare il sentimento della parte attraverso la vita fisica del corpo
umano” (p.37)
“Eseguite queste azioni fino a che la loro tangibile semplicità e naturalezza vi costringa a
percepirne fisicamente la verità, a crederla fisicamente” (p.39)
“Cercate in tutti questi compiti e atti, piccoli e grandi, la verità fisica, piccola o grande.
Quando la sentirete, crederete subito, più o meno ampiamente, anche all’autenticità delle
vostre azioni fisiche. E nella nostra arte questo “credersi” è uno dei migliori motori e
stimoli, una delle migliori esche per il sentimento e per la sua esperienza intuitiva. Quando
23
avrete creduto a voi stessi, sentirete subito che i vostri compiti e atti saranno diventati veri,
vitali, adeguati e produttivi.” (p.40-41)
“Ma l’essenziale è: credete senza riserve almeno a qualche compito od atto, per quanto
piccoli essi siano.” (p.41)
“…quando l’attore, mediante parole e azioni, esegue i più semplici compiti fisici in tal modo
che sente in loro la verità, e sinceramente crede a questa semplice verità fisica, allora può
essere tranquillo. Ciò crea un buon terreno per il giusto sentimento. Egli vive quel compito
per quanto oggi gli è dato di viverlo. Di più non può fare, il resto viene ‘da…Dio’” (p.41)
(Da riprendere se fosse necessario illustrare come si modifica l’alleanza nel tempo)
Paivio e Bahr (1998) hanno anche visto che nel corso delle 12 sedute di durata media
della terapia esperienziale da loro studiata gli effetti negativi dell’iposocialità dei pazienti si
attenuavano, con l’eccezione di quelli dovuti alla tendenza all’evitamento sociale, che
correlavano con una cattiva alleanza anche a fine terapia.
24