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LE FANTASTICHERIE DEL POETA (CORPUS TIBULLIANUM I, 5, 21-36)

Costruzione diretta

Colam rura, et Delia mea aderit custos frugum, dum sole calente area teret messes, aut
servabit mihi uvas in plenis lintribus et candida musta pressa veloci pede; consuescet
numerare pecus; verna garrulus consuescet ludere in sinu amantis dominae. Illa sciet ferre
agricolae deo uvam pro vitibus, spicas pro segete, dapem pro grege. Illa regat cunctos, illi
sint omnia curae; at in tota domo iuvet me nihil esse. Veniat huc meus Messalla, cui Delia
detrahat dulcia poma selectis arboribus; et venerata tantum virum, sedula hunc curet;
ministra paret ipsa gerat epulas huic. Fingebam mihi haec, quae vota nunc Eurusque
Notusque iactat per Armenios odoratos.

Traduzione

Coltiverò le terre, e la mia Delia sarà presente come custode del frumento, mentre, al calore
del sole, nell’aia si trebbieranno le messi, oppure conserverà per me le uve nei tini ricolmi e
i puri mosti pressati con piede veloce; (Delia) si abituerà a contare le bestie e il loquace
schiavetto di casa (verna) si abituerà a giocare in grembo all’affettuosa padrona. Ella (Delia)
saprà offrire al dio campestre uva in cambio di viti, spighe in cambio di messi, cibo in
cambio di un gregge. Possa lei avere il comando su tutti (regat, sint e iuvet sono cong.
desiderativi), possa tutto essere di sua cura (illi…curae: doppio dativo); e in tutta la casa
possa piacermi non contare più nulla. E possa venire lì il mio Messalla, per il quale Delia
colga dolci frutti da alberi scelti, e, venerando un uomo così grande, lo curi diligente; e
come un’ancella (ministra), prepari e metta in tavola lei stessa i piatti per lui (i congiuntivi di
questi versi sono tutti desiderativi). Immaginavo per me queste cose, desideri che ora sia
Euro sia Noto disperdono tra i profumi di Armenia.
UNA FESTA AGRESTE: GLI AMBARVALIA (CORPUS TIBULLIANUM II, 1, 1-22)
Hic mihi seruitium uideo dominamque paratam:
iam mihi, libertas illa paterna, uale.
seruitium sed triste datur, teneorque catenis,
et numquam misero uincla remittit Amor,
et seu quid merui seu nil peccauimus, urit.
uror, io, remoue, saeua puella, faces.
o ego ne possim tales sentire dolores,
quam mallem in gelidis montibus esse lapis,
stare uel insanis cautes obnoxia uentis,
naufraga quam uasti tunderet unda maris!
nunc et amara dies et noctis amarior umbra est:
omnia nam tristi tempora felle madent.
nec prosunt elegi nec carminis auctor Apollo:
illa caua pretium flagitat usque manu.
ite procul, Musae, si non prodestis amanti:
non ego uos, ut sint bella canenda, colo,
nec refero Solisque uias et qualis, ubi orbem

compleuit, uersis Luna recurrit equis.


ad dominam faciles aditus per carmina quaero:
ite procul, Musae, si nihil ista ualent.
at mihi per caedem et facinus sunt dona paranda,
ne iaceam clausam flebilis ante domum:

TRADUZIONE

Vedo così preparati per me servaggio e padrona:


ormai ti dico addio, o libertà ereditata dai padri;
triste è il servaggio che mi si impone; sono tenuto in catene;
mai che Amore al misero allenti la stretta,
brucia, o che me lo sia voluto o che abbia commesso un errore;
brucio, ahimè, e tu, spieiata fanciulla, allontana le fiaccole!
Pur di non dover provare tali dolori,
quanto preferirei essere pietra sui gelidi monti,
o levarmi scoglio, esposto ai venti furiosi,
percosso dall'onda d'un vasto mare, che infrange le navi.
Ora amaro m'è il giorno e più amaro il buio della notte.
Le tempie mi sono tutte irrorate da gocce amare di fiele.
Più l'elegia non mi giova, non Apollo, ispiratore dei canti:
lei, con la concava mano, sempre mi chiede denaro.
Andate via, o Muse, se all'innamorato non recate vantaggio:
non vi venero perché ci siano guerre da potere cantare,
non descrivo il cammino del Sole, ne quale sia la Luna,
quando, riempito il disco,
ritorna, rivolgendo i cavalli.
Ricorro ai canti e cerco dalla mia donna un facile accesso:
andate via, o Muse, se questi canti non servono a nulla.
Sono costretto a procurarmi doni con omicidi e delitti,
per non giacere in lacrime davanti alla casa sbarrata;

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