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“Anna, la guerra, il popolo”

Ci sono molte donne che il popolo ha amato e rispettato, cui ha riconosciuto


spontaneamente autorità e tante tra loro restano però ancora poco conosciute dalla
maggioranza di uomini e anche di donne. Ma due hanno ricevuto una devozione,
universalmente diffusa, che si è mantenuta inalterata lungo i secoli dell’era cristiana:
Maria e sua madre Anna.
Quali caratteristiche distinguono tali figure da tutte le altre? Come possiamo spiegarci la
loro straordinaria posizione in un simbolico, come quello della religione cristiana ufficiale,
segnata fino ad ora da un’ impronta decisamente maschile, da un immaginario che pone al
centro della fede una Trinità divina composta dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo?
La risposta si trova nascosta negli indizi, come li chiamerebbe Zambrano, o negli interstizi,
come li definisce Nicole Loraux, della Storia ufficiale. Vi dirò quello che ho scoperto io, in
più di vent’anni di appassionato lavoro, al cui centro ho collocato proprio loro, questa
madre e questa figlia, che hanno cambiato per sempre il modo di percepire sia il Padre che
il Figlio.
Mi aiuterò a spiegarmi con un’immagine, che mi ha colpito per la forza e la novità degli
elementi che contiene, nonostante l’apparente semplicità della raffigurazione. Si tratta di
un gruppo statuario in legno dipinto che risale al
XVII secolo e si trova nell’ossario della chiesa parrocchiale del villaggio di St. Hernin, un
comune della Bretagna, parte dell’antica Armorica, abitata da tribù celtiche (la parola
armor significava “Marina”, infatti la zona in questione si allunga verso il mare). La statua
è una delle innumerevoli che, in quella regione bretone, come in tutto il resto d’Europa,
rappresentano un gruppo trinitario formato da sant’Anna, sua figlia Maria e suo nipote
Gesù. Attualmente, il gruppo di Anna Trinitaria non è accessibile al visitatore perché dal
1990 è collocato (si potrebbe quasi dire “immagazzinato”) nell’ossario, sotto i calcinacci,
accanto all’ossatura del presepio, ai rotoli di rete metallica e altri oggetti che ingombrano
la sacrestia. Osservando con attenzione le figure possiamo notare che:
la statura di Anna giganteggia rispetto a quella di Maria, che si trova in piedi alla sua
destra, mentre la madre è seduta;
il piccolo Gesù è in braccio alla nonna, che lo tiene sul ginocchio sinistro, coi piedi
appoggiati ad un cuscino;
Maria e Anna tengono insieme in mano lo stesso libro, in una posa che suggerisce la
funzione magistrale di Anna rispetto alla figlia;
Gesù, la figura più piccola, regge con la mano sinistra il globo crucifero;
sotto i piedi di Anna e Maria compare la testa del Demonio, che si trova abitualmente
rappresentato sotto i piedi di Maria.
Gli elementi sui quali riflettere sono tanti:
quale forma di sapienza sta trasmettendo Anna a sua figlia?
perché la nonna è così imponente e occupa tanto spazio nella rappresentazione, se nella
storia ufficiale del Cristianesimo il fulcro dell’attenzione deve essere concentrato su Gesù e
su Maria, ma solo perché lei è sua madre (Per Mariam ad Jesum, Paolo VI cfr. Marialis
Cultus)?
Perché Gesù è non solo così piccolo, ma così “decentrato” sulla scena?
Cosa rappresenta quella figura che non ha niente di demoniaco, ma sembra piuttosto una
Eva ragazzina che gioca a palla con due mele rosse in mano?
Che senso ha quell’intreccio dei piedi di Maria e Anna, che è motivo iconografico costante
in tutti i gruppi trinitari, per cui chi guarda non sa più a quale delle due figure deve
attribuire il terzo piede?
Il libro che viene tenuto dalle due donne è di solito interpretato come la Bibbia, nella sua
articolazione in antico e nuovo Testamento, tuttavia è molto strano che sia Anna a
trasmettere a Maria un sapere che lei ha appreso, stando alle narrazioni, nel Tempio, dove
risiedono i depositari esclusivi della religione, i sacerdoti. Custodi maschili di una
interpretazione maschile del divino, eredi diretti non solo del dio veterotestamentario, ma
anche di Cristo, stando alla lettura della Chiesa cattolica.
Il messaggio che io ricavo da questa immagine, come da tantissime altre a questa simili, è
che Anna sia depositaria di una forma di sapienza molto più antica del Libro e che solo
attraverso le sue parole Maria potrà interpretare e correggere la visione biblica, che resta
parziale e uniformata dalla mentalità androcentrica. Infatti qui Gesù è piccolo, in tutti i
sensi e la sua collocazione, sulle ginocchia della nonna, è simbolicamente subordinata, ma
non umiliata. Egli porta in mano il globo, a significare la sua missione, che sarà di
diffondere nel mondo quanto apprende dalle figure femminili che lo circondano e lo
sorreggono. La croce, che orna quella sfera e che di solito viene interpretata come il
simbolo della passione e del sacrificio del Cristo, rimanda ad una simbologia collegata alla
grande madre ancestrale: è l’albero
della vita, principio di movimento e asse del mondo.
Anche la raffigurazione del demonio, in chiara versione femminile come nella cacciata
dall’Eden di Michelangelo, è anomala rispetto alla tradizione. Questa serpentessa è quasi
sorridente, e spunta sotto i piedi di Anna e Maria, ma non ne viene schiacciata. Si tratta di
un’allusione alla grande Madre attorniata da serpenti, che sono l’emblema della capacità
di rinnovarsi, di rinascere, di ricevere forza dalla terra e di trasmetterla. Non è per caso che
il primo mitico sovrano di Atene, Cecrope, fosse un essere metà uomo e metà serpente,
figlio della madre terra, forse una figura che rimanda ad una primigenia, più sensata,
regina (Atene viene da Atena), come il serpente ucciso a Delfi da Apollo era in realtà una
serpentessa. Che le mele siano due non è certo di minore interesse: due mele per due
creature, la femmina e il maschio, entrambi destinatari di un’offerta così allettante da non
poter essere rifiutata, nonostante il divieto del Creatore.
L’ultimo elemento, l’intreccio dei piedi, ma anche la fusione delle due figure femminili,
che compare quasi sempre in queste raffigurazioni, allude al fatto che i due corpi
femminili formano un’unica radice, un’unica forza creativa e generativa che evoca la
potenza primordiale delle Dee Madri trinitarie.
In questo gruppo statuario c’è tutta la storia di un’altra genealogia, di un’altra fonte del
divino: non la volontà totalizzante di un unico Padre, ma la relazione tra madre e figlia, la
sua capacità di dare vita ad altro, all’altro.
Ma ancora non abbiamo finito di apprendere: quel libro, che in origine era bianco, dal 1870
porta impresse parole semplici ed evocative: Anna, prega per noi, m.p.n, j.p.n, così sia. I
soldati in partenza per la Prussia.
Sulla scena di pace e di calde relazioni amorose, compare improvvisamente lo spettro
terribile della guerra. Onnipresente in tutte le epoche storiche, da quando si è imposto
l’ordine patriarcale: non da sempre dunque, ma da così tanto tempo da farci credere che si
tratti di una fatalità ineludibile.
Giovani uomini, spediti da un potere imperiale e autoproclamatosi sovrano a morire in
una guerra di cui non capiscono il senso, si sono recati davanti a questa statua e hanno
chiesto aiuto, prima di tutto ad Anna. Credono di dover partire per la Prussia, cui la
Francia di Napoleone III ha dichiarato guerra. Non ci arriveranno mai, perché Bismarck
era riuscito a far cadere i Francesi in una vera e propria trappola mortale: la Francia fu
invasa, umiliata nella battaglia di Sedan, atterrita dall’assedio di Parigi e fu costretta ad
accettare una pace dagli oneri così gravosi e disastrosi da causare la caduta dell’Impero e
da porre le premesse per la I guerra mondiale.
Non sappiamo quanti di quei soldati abbiano fatto ritorno a casa, sappiamo solo che
hanno riconosciuto ad Anna e Maria un potere che nessun imperatore ha mai avuto:
quello di salvare le loro vite o di aiutarli ad attraversare la morte. E non è certo per caso
che si rechino davanti a quella statua, perché Anna è Mamm Gozh ar Vretoned, la nonna
dei Brettoni. Nessuno di loro dubita della sua forza, perché lei è più antica di tutti gli dei,
di tutti gli imperatori. Ana (Anu, Danu, che significa “donna vecchia”) è la grande Dea
Madre dei Celti, ma in realtà loro stessi l’hanno ereditata dalle popolazioni che hanno
conquistato in Irlanda “il popolo della Dea Danu”, cioè i Tuatha De Danann.
Può essere avvicinata alla dea Anu, di cui il Glossario di Cormac, nel X secolo parla come
della «mater deorum hibernensium» .
Entrambe le dee corrispondono alla terra madre, sia quella superficiale, che quella
sotterranea. Così non è difficile pensare a un rimando ad Ankou, la personificazione
bretone della morte.
Quando scoppiava una guerra nel mondo occidentale tutti gli Stati chiedevano a Dio di
schierarsi dalla loro parte, ciascuno pregandolo nel contempo di annientare il proprio
nemico (cfr. Mark Twain). La guerra è sempre stata un affare gestito da chi ha il potere o
per aumentarlo o per proteggerlo. Il popolo ha sempre pagato i costi più alti di ogni
conflitto: gli uomini mandati al fronte, le donne destinate a combattere la battaglia
quotidiana per far sopravvivere le loro creature e per far funzionare la società civile. Nel
contesto bellico, in cui si tocca il punto più drammatico del conflitto tra il maschio e la
femmina, le donne subiscono la violenza della guerra due volte, per le armi e per la
violenza maschile in guerra, contro i loro corpi. Lo scrittore ungherese Andrea Latzko, nel
racconto della sua esperienza bellica intitolato Uomini in guerra, pubblicato nel 1921, faceva
pronunciare a un ufficiale ricoverato per «una grave scossa di nervi» provocata dall’orrore
della guerra, un’invettiva contro la moglie, che cercava di assisterlo amorosamente, e
contro tutte le donne, perché avevano lasciato andare i loro uomini in guerra. Tuttavia
Latzko dedicò una copia del suo libro a «Madame Anita Dobelli Zampetti plein de
reconnaissance et admiration. Niederalm 1922». La signora Dobelli Zampetti era una
dirigente del movimento femminista italiano, suffragista e pacifista, la cui vita smentiva
clamorosamente le parole dello scrittore, che, invece di prendersela con le donne avrebbe
potuto fare un’analisi ben più pertinente delle ragioni che spingono gli uomini a cercare
l’impresa eroica, il sacrificio, la morte, piegandosi all’obbedienza anche ad ordini insensati
e brutali, nella speranza di guadagnare un’immortalità fasulla.
Ma forse le parole di Latzko possono essere interpretate come un grido di aiuto, rivolto
alle donne, perché solo loro sanno evitare la guerra, solo loro sanno che c’è un’altra storia,
dove è possibile realizzare qui in terra una convivenza fondata sulla coscienza della nostra
interrelazionalità, riconoscendo tutto il valore di una Sapienza originaria femminile che
mette al primo posto la nascita, la tenerezza, la gioia. Le donne hanno sempre avuto ben
chiaro che le madri hanno tutte da perdere in un ordine simbolico patriarcale nel quale il
potere economico e la tracotanza della politica androcentrica si rivelano nella loro miseria
mortifera.
Fintanto che non saremo in grado di riconoscere la fonte della vera divinità, della vera
sovranità, non faremo che alimentare il potere e la rapacità di chi ha a cuore solo il proprio
interesse, i propri privilegi. E’ tempo di uscire dalla logica del sacrificio e ritrovare, per il
bene di tutte e di tutti, la circolazione di affetti e la via della vera felicità, come ci insegna la
differente trinità.

Nadia Lucchesi

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